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Risposte alle domande di fine modulo di Teoria dei Linguaggi - prof Sara Fortuna, Esercizi di Filosofia del Linguaggio

Il documento contiene tutte le risposte complete alle domande aperte che si trovano alla fine di tutti e tre i moduli delle lezioni di Teoria dei Linguaggi della prof Sara Fortuna

Tipologia: Esercizi

2022/2023

In vendita dal 11/06/2023

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Scarica Risposte alle domande di fine modulo di Teoria dei Linguaggi - prof Sara Fortuna e più Esercizi in PDF di Filosofia del Linguaggio solo su Docsity! 1. Esporre i vari modi in cui viene declinata la disciplina denominata con gli appellativi “teoria dei linguaggi” e “filosofia del linguaggio” La teoria dei linguaggi è una disciplina filosofica che equivale alla filosofia del linguaggio. La disciplina si occupa del linguaggio umano e consiste in una riflessione basata sulla capacità metalinguistica (cioè la capacità di descrivere i meccanismi di funzionamento della lingua). La disciplina studia i diversi linguaggi, non solo quello verbale, nello specifico si occupa dei linguaggi in quanto codici semiologici (sistemi di segni). Altri punti cardine della disciplina sono la comprensione, la traduzione e l’interpretazione. La filosofia del linguaggio ha spesso peccato nel considerare la produzione linguistica in misura maggiore rispetto alla comprensione, nonostante quest’ultima sia preminente nello sviluppo linguistico dell’essere umano. Per quanto riguarda la traduzione, la sua importanza è dovuta al fatto che faccia riferimento a una pluralità di lingue, oltre che a ragioni sociali. Altri elementi fondamentali sono la semiotica e la filosofia della linguistica, che consiste in una riflessione epistemologica sulle teorie introdotte dalla linguistica generale. La filosofia del linguaggio è considerata una “filosofia col genitivo” in quanto riguarda specificamente lo studio del linguaggio, inteso come facoltà dell’essere umano di comunicare, a prescindere dalla lingua utilizzata, forma in cui la facoltà di linguaggio si declina. La disciplina è dunque influenzata anche da altri ambiti scientifici, quali la psicologia (tanto che alcuni filosofi arriveranno a considerare la prevalenza della dimensione cognitiva della comunicazione), la metafisica, l’epistemologia e la logica. 2. Illustrare le caratteristiche principali della contrapposizione tra filosofia analitica e filosofia continentale nel panorama culturale europeo del XX secolo: In un contesto prettamente europeo, la filosofia continentale si pone come obiettivo il superamento della metafisica, che si declina in una concezione pluralistica dell’attività filosofica: in filosofia non si può cioè pretendere un’unica posizione vera. Sono dunque fondamentali la concezione di pensiero debole (di Gianni Vattimo), di relativismo e di molteplicità delle prospettive ermeneutiche. Alcuni studiosi che rientrano in questa corrente sono Merlau Ponty, Saussure, Jakobson, Levi-Strauss, Eco, Foucalt e Lacan. Per quanto riguarda la filosofia analitica, essa si sviluppa in ambito anglofono (soprattutto in Inghilterra e negli USA) anche se ha radici prettamente europee, con i circoli di Vienna e Berlino. Lo scopo principale è mettere in luce l’imperfezione intrinseca della lingua e risolverla, ad esempio, utilizzando il linguaggio della logica e della matematica (aspetto sviluppato soprattutto da Frege, che era tra l’altro un matematico). La filosofia analitica anticipa per alcuni aspetti il cognitivismo chomskiano, in quanto la coscienza del parlante è fondamentale. Tra gli studiosi di questa corrente di pensiero troviamo Frege, Russell, Moore e Wittgenstein. 3. Spiegare che cosa s’intende per superamento della metafisica in rapporto al linguistic turn che ha caratterizzato la filosofia del Novecento accomunando filosofi analitici e filosofi continentali: Al centro delle due correnti filosofiche (analitica e continentale) vi è l’idea che ogni esperienza umana sia filtrata dal linguaggio. Il “linguistic turn” consiste proprio in una risposta alle pretese della metafisica di individuare le condizioni trascendentali di ogni esperienza: la filosofia del Novecento risponde con una rielaborazione metacritica che pone al centro il linguaggio come organo che plasma la realtà. Le ragioni di questa svolta risiedono proprio in un’autocritica della filosofia. La lingua viene così messa al centro dalla fenomenologia, dell’ermeneutica e del post-strutturalismo. La linguistica è vista come una scienza autonoma, conseguenza della crisi dello psicologismo e dell’idealismo; cresce l’interesse per uno studio sincronico delle lingue, piuttosto che diacronico; la lingua viene concepita come un sistema, in cui gli elementi della lingua sono definiti in base alle loro relazioni reciproche. L’approccio del Novecento è quindi meno totalizzante (basti pensare al sapere assoluto proposto da Hegel) e in questo la filosofia analitica rivendica come formato ideale di una filosofia modesta l’articolo, mentre la filosofia continentale considera il formato della monografia. Occorre precisare che questa nuova prospettiva è antropocentrica, in quanto sono messi al centro i filtri sensoriali e cognitivi del soggetto. È un punto di vista problematico perché fa sembrare che l’unica realtà interessante sia quella percepita dall’essere umano. Eppure i processi di semiosi e categorizzazione della realtà non sono solo un prodotto umano, anzi, la semiosi è un prodotto fondamentale in ogni essere vivente sulla Terra. 4. Presentare la concezione strumentalista del linguaggio e quella che a essa si contrappone in modo critico: Una concezione molto diffusa delle lingue è quella che le considera uno strumento che serve per comunicare, la concezione strumentalista. I pensieri si formerebbero in modo dipendente dal linguaggio per poi essere comunicati. Non esiste uno strumento solo, dato che diverse sono le lingue, strumenti dalle caratteristiche simili, che assolvono tutte le stesse funzioni. Tale concezione ha una serie di implicazioni che toccano anche la politica linguistica: se, ad esempio, le lingue sono viste come meri strumenti, allora sarò ovvio privilegiare quella o quelle che funzionano in modo più efficiente da un punto di vista economico. È evidente che sul piano internazionale la lingua che ha il maggior valore sia l’inglese, che è difatti una lingua franca. Ma se seguissimo questa logica strumentalista, si rischierebbe di andare incontro a un suicidio del plurilinguismo. Altro aspetto problematico di questa concezione è il fatto che la lingua sia considerata come un dispositivo separato dai parlanti: il soggetto dunque non sarebbe particolarmente implicato nelle lingue. Tullio De Mauro ci ricorda che nella concezione strumentalista domina “l’idea di una lingua come una machine à parler, un dispositivo che ci permette di dire e capire frasi senza aver avuto parte nella sua costruzione e senza sapere come è fatto (così come accade con l’auto: la guidiamo, ma non conosciamo precisamente le componenti che la costituiscono)”. L’importante è usarla, insomma. Non è una lingua da noi progettata, non è una lingua artificiale progettata a tavolino da un parlante (come l’esperanto), ma è una lingua con una tradizione. Gli utenti considerano dunque lo strumento di cui si servono per la comunicazione come qualcosa ad essi estraneo. Però non è detto che sia così, perché il rapporto tra parlanti e lingua non è estrinseco. Questo lo si nota molto bene quando si affronta la concezione opposta, la Weltansicht (in tedesco “prospettiva, visione del mondo”), che non riduce la lingua a un mero strumento comunicativo, ma la riconduce a una dimensione creativa. La lingua ha a che fare con la cognizione, ancora prima che con la comunicazione. Le lingue non sono diverse tra di loro solo nella dimensione semiotica e fonologica, ma anche diverse nel loro modo di categorizzare la realtà. Le lingue hanno da un lato un valore in sé paragonabile alla varietà dell’ecosistema Terra: così come ci sono tanti organismi, ci sono anche tanti organismi linguistici. In effetti, le lingue scompaiono quando spariscono i suoi parlanti. Quindi in questa concezione ritroviamo la centralità del soggetto parlante: il parlante ha la Weltansicht e può esercitare un’influenza profonda sulla lingua, il che è dimostrato dal suo uso letterario e creativo (come testimonia la Commedia dantesca). Anche Saussure sosteneva che la lingua sia una massa di fatti eterofili, difficilmente riconducibili a una prospettiva unica. 5. Esporre sinteticamente le principali caratteristiche della semiotica di Peirce presentando le nozioni di segno, con le sue diverse tipologie, di semiosi e di type e token: 8. Spiegare la specifi cità dell’Italian Theory, all’interno della fi losofi a conti nentale, individuandone i principali interpreti : La nascita dell’Italian Thought si può far risalire a un articolo scritto da Remo Bodei, in cui la filosofia italiana è considerata estroflessa. Si tratt a di una tradizione relativamente recente, anche se sin dal Rinascimento la riflessione sui fenomeni linguistici è stata una costante. Infatti, la disciplina universitaria chiamata “filosofia del linguaggio” si ha in Italia solo alla fine degli anni ’50. All’interno del panorama italiano, viene adottata come scuola di riferimento la scuola romana, fondata da Antonino Pagliaro e poi da Tullio De Mauro. Nel contesto della filosofia continentale, occorre precisare che a definire l’Italian Thought non è un manifesto iniziale bensì uno stile filosofico. La specificità della filosofia italiana sta nel fatto che non è specialistica o accademica, non richiede tecnicismi linguistici interpretabili solo dagli studiosi, il che ci fa pensare a una filosofia che si adopera, attraverso un linguaggio comprensibile, all’intera comunità. In effetti l’Italian Thought ha influenzato la società italiana contemporanea nella creazione di un sistema scolastico democratico. Secondo Esposito, il prodotto originale della filosofia italiana si trova in poeti, pensatori politici, scrittori, artisti. Esposito parte da Dante come primo filosofo italiano per poi arrivare a Leonardo, Giordano Bruno, Vico, Beccaria, Cuoco, Leopardi, De Sanctis, Croce, Gentile, Gramsci e Pasolini. Esposito afferma inoltre che la caratteristica originale del pensiero italiano dalle origini fino ai giorni nostri è la sua capacità di non chiudersi in se stesso come la filosofia metafisica classica, ma piuttosto di contaminarsi con elementi molteplici della realtà. Questo pensiero impuro è praticato da personalità intellettuali poliedriche i cui interessi non sono specificamente filosofici, ma anche poetico-letterari, politici, artistici, critici. Vico e Dante peraltro si inscrivono in una tradizione comune: sono entrambi filosofi che pongono al centro linguaggio. Vico è considerato dallo studioso Jurgen Trabant l’iniziatore della prima svolta linguistica moderna. Dante è consapevole del rapporto tra individuo e lingua come espressione della soggettività. Anche Croce si inscrive in questa tradizione: come afferma Bodei, il filosofo italiano non crea meccanismi complessi e autoreferenziali, ma considera la molteplicità del reale. 9. Presentare i diversi indirizzi del naturalismo linguisti co all’interno della fi losofi a anti ca: Due caratteristiche importanti per capire lo studio del linguaggio nella filosofia antica sono, da un lato, l’ontologia e la metafisica, dato che i filosofi antichi si pongono soprattutto domande sull’essere; e dall’altro lato il contesto storico, la polìs greca, ambiente in cui nascono i primi grandi laboratori politici e la democrazia. Nel contesto democratico, infatti, in cui il coinvolgimento della comunità nella gestione del bene pubblico stimola le riflessioni sul linguaggio, il discorso diventa fondamentale. Qui nasce infatti la sofistica, che instaura il principio della soggettività della conoscenza identificando nell’utile il criterio di verità e valorizzando la retorica, unico strumento efficace di persuasione. Alcuni critici della letteratura greca hanno parlato di una forma di illuminismo, in quanto viene particolarmente esaltato il logos (termine polisemico con cui si intende “ragione”, “discorso” e “calcolo”). Contro il relativismo e il convenzionalismo dei sofisti, si oppongono Socrate e Platone: l’uno sostiene che la lingua debba giocarsi solo nel contesto reale, infatti non scrive nessuna opera; l’altro, che dedica al linguaggio la questione della ricerca della verità, è autore del primo saggio di filosofia del linguaggio, il Cratilo. In quest’opera, scritta in stile dialogico, si oppongono due interlocutori, Cratilo ed Ermogene, accompagnati dal parere finale di Socrate. Abbiamo nella figura di Ermogene il rappresentate dei sofisti: per lui il linguaggio è “per convenzione” (thesei), quindi nasce per un accordo. Per Cratilo invece è “per natura” (physei), cioè i nomi rispecchiano la vera essenza delle cose, il che significa che il linguaggio ha una particolare relazione, che può essere definita naturale, rispetto alla realtà. Quindi, se il linguaggio è per natura, è uno strumento conoscitivo che ha caratteristiche tali per fare riferimento in modo veridico alla realtà. Socrate procede utilizzando l’ironia e destabilizza le certezze dei due interlocutori per far “partorire” la verità: a Ermogene fa notare l’implausibilità di uno scenario in cui i parlanti si accordano, dato che bisogna essere già parlanti per fare l’accordo stesso. Ci viene così da pensare che il linguaggio sia stato dato dalla divinità. A Cratilo fa notare che anche la sua posizione naturalista è implausibile soprattutto se ritiene che il linguaggio rifletta gli aspetti della realtà. Il linguaggio, in alcune forme di naturalismo, pretende che solo determinati nomi siano adatti a riferirsi alla realtà. Socrate si pone in una posizione che integra naturalismo e convenzionalismo, appellandosi ad uno strumentalismo gnoseologico che riconosce, almeno a un certo livello, che il nome debba riflettere determinati aspetti di ciò a cui si riferisce. La tradizione platonica si ritroverà nei pensieri di altri filosofi, come Epicuro di Samo: si parla di tradizione epicureo-lucreziana, dato che Lucrezio nel suo poema filosofico “De rerum natura” riprenderà i contenuti della lettera di Epicuro ad Erodoto, in cui ripenserà in una cornice epicurea l’origine del linguaggio come qualcosa che è dettato da due elementi. Da un lato la dimensione del bisogno, legata a un contesto in cui mancavano una serie di strutture culturali ed economiche. Dall’altro lato il linguaggio come dispositivo espressivo, quindi la voce legata all’espressione di determinate passioni in un contesto in cui il bisogno è prevalente. Questo ci riporta all’idea del fonosimbolismo, secondo cui l’essere umano sia dotato di dispositivi espressivi che lo portano a interagire con la realtà in modalità prefissate dalla propria costituzione psico-fisica. 10. Spiegare quali interpretazioni contrastanti sono state date della concezione del linguaggio di Aristotele a parti re dal celebre del De Interpretati one: Nel corpus del pensiero aristotelico, il nucleo linguistico più elaborato è l’opera “De Interpretatione” (Peri ermhneias). A questo passo si fa risalire la creazione del triangolo semiotico, che ha avuto nel corso del tempo diverse rielaborazioni. Secondo Franco Lo Piparo, l’associazione di questo passo alla creazione del convenzionalismo linguistico è frutto di un fraintendimento. Lui ha messo in discussione la traduzione italiana e ne ha proposta una alternativa. Dalla traduzione di Zanatta dell’opera “De Interpretatione”, si evince che i suoni della voce sono simboli delle “affezioni dell’anima”, mentre i segni scritti sono simboli dei suoni della voce. Né i segni scritti né le voci sono identiche per tutti, mentre le affezioni dell’anima (le cose) lo sono. I caratteri di questa impostazione sono riassunti nel “triangolo semiotico” di Umberto Eco, i cui lati rappresentano elementi simmetricamente relazionati: da un lato le parole sono legate ai concetti e dall’altro alle cose in sé. I fatti del mondo reale sarebbero dunque collegati all’anima in virtù delle impressioni e delle modificazioni psichicamente subite dall’uomo per effetto della realtà stessa. Lo Piparo evidenzia i paradossi di tale processo, tra cui: come si possono esplicare le potenzialità semantiche nel momento in cui si riferiscano a fatti che non si danno nella realtà concretamente sussistente (come gli enti fantastici o gli enunciati circa gli avvenimenti futuri)? Secondo lo studioso, le unità minime della scrittura non sono le stesse per tutti gli uomini, a essere uguali sono invece le operazioni logico-cognitive di cui le unità vocali e grafiche sono segni fisiognomici. Quello che Lo Piparo vuole mostrare è che i “symbola” (simboli) non possono essere considerati come la faccia sensibile del segno, ma come una delle parti di un’unità. Quindi non ci può essere una separazione come nella tradizione convenzionalista. Per Lo Piparo c’è una correlazione tra la dimensione cognitiva del significato e la dimensione empirica del significante, e parimenti c’è una rappresentazione di determinati aspetti dei “pragmata” (come affermava lo stesso Peirce, il segno ci consente di fare riferimento alla realtà sotto determinati aspetti). Così Lo Piparo smonta anche la traduzione di “katà sunthéke” come “per convenzione” e la traduce con “per composizione” (cioè l’articolazione tra le tre dimensioni del triangolo semiotico). Lui nega l’interpretazione del simbolo come qualcosa che sta per qualcos’altro, ma afferma l’interpretazione di un qualcosa che fa riferimento alla sua parte complementare, del significato. Quindi fa riferimento a una dimensione articolatoria. Di conseguenza, anche gli “omoiomata” (immagini) non sono una copia dei “pragmata” (oggetti, stati di cose), ma sono ad essi proporzionali. Grazie a tale interpretazione, la concezione unidirezionale del linguaggio viene demolita per lasciare il posto a una “léxis” paragonabile a un cerchio in moto uniforme, articolata dal “pathemata” (affezione dell’anima), dal “phonaì” (suono) e dal “grámmata” (grammatica), che trova il suo centro nel “prágmata”. La portata rivoluzionaria della traduzione di Lo Piparo è chiaramente espressa dal sottotitolo “Cosa fa di una lingua una lingua”. Il suo testo si pone come stimolo alla riflessione filosofica aristotelica, che si approccia con innovativa acutezza alla realtà di oggi. 11. Presentare l’evoluzione del naturalismo linguisti co nel pensiero di Dante: Le opere di Dante in cu vengono affrontate questioni filosofico-linguistiche sono il Convivio (1303 c.), in cui l’autore cerca di realizzare in lingua volgare una sorta di enciclopedia; il De vulgari eloquentia (1304), dedicato alla questione della lingua; la Divina Commedia (1307-1320), in cui viene affrontata la pratica poetica del plurilinguismo, portando a termine la trattazione del De vulgari eloquentia. Nella filosofia di Dante, il linguaggio consente, da un lato, di tenere insieme dimensione corporea e mentale superando il dualismo e il carattere monologico del cogito cartesiano (res cogitans e res extensa); dall’altro, di mettere in relazione gli esseri umani. Dato che la lingua è mutevole come l’essere umano, il poeta arriva a considerare un volgare che dev’essere riformato e che dev’essere riprogettato a tavolino in modo da assumere le caratteristiche del latino e diventare immutabile. Ma questo progetto viene abbandonato quando Dante si dedica alla Commedia. A questo punto approda al plurilinguismo, che prende atto della disgregazione dei volgari (una confusio linguarum riconducibile alla torre di Babele). Se nel De vulgari eloquentia lui cerca di superare la variabilità, nella Commedia cerca invece di approfittarne per approdare a una nuova dimensione poetica, anche per raggiungere uno scopo di natura teologica-religiosa: infatti, nella Commedia, la meta rappresentata dal Paradiso è un approdo alla visione della divinità, per cui bisogna abbandonare l’idea di un’esprimibilità attraverso una lingua storico-naturale, e bisogna avvalersi dell’indeterminatezza semantica (Dio come valore inesprimibile), che Dante praticherà in particolare nella terza cantica. Non si tratta infatti di teorizzare il plurilinguismo, ma di esibirlo nell’opera: nel canto 26, Adamo recita: “Opera naturale è ch’uom favella”. Dante aderisce così al naturalismo linguistico: il volgare era la lingua dei desideri, dei bisogni, una lingua che si apprende al seno della madre. Tuttavia sempre Dante mostra nel De vulgari eloquentia un Adamo che dà i nomi alle cose, quindi è come se incaricasse Dio stesso di un’opera di denominazione. Quindi la lingua d’Adamo è opposta rispetto al volgare, è chiamato da Dante “homo sine lacte” (senza latte materno). È Adamo a spiegare a Dante che la sua lingua “fu tutta spenta innanzi all’opera inconsummabile” (la torre di Babele, appunto, una confusione di lingue data come punizione divina per aver tentato di raggiungere i cieli con una costruzione così alta). La lingua da Dante stesso inventata si è quindi modificata e la variabilità linguistica è una caratteristica antropologica che contraddistingue persino il primo uomo sulla Terra, Adamo (l’ebraico quindi non rimane immutato). Il naturalismo linguistico in Dante si avvicina così alla tradizione epicureo-lucreziana, quindi alla lingua e ai bisogni del corpo, il che porta Dante anche a riconoscere la variabilità linguistica come naturale. L’evoluzione della lingua ha la dimensione della convenzione, dato che sono gli uomini che, a loro piacere, formano la lingua così come formano la cultura: Stefano Genzini parla di naturalismo storicizzante. Questo è l’esempio che Adamo fa anche del nome di Dio, che prima si chiamava “I” e poi si chiamò “EL”. Questo è l’esempio più forte, dato che il nome della divinità, come era stato affermato nella Genesi, doveva restare immutato. Quindi Adamo si trova a riaffermare, riecheggiando un verso di Orazio, che le lingue per natura studia l’idea di lingua, e il filologo, che si occupa della lingua in una prospettiva storica. Questa distinzione è importante, dato che le ricerche ottocentesche pongono una particolare attenzione alla creazione di discipline indipendenti, processo messo in luce da Lia Formigari. La separazione dei vari ambiti viene approfondita in un’opera di Victor Henry chiamata “Les antinomies linguistiques”: considerando che le antinomie (termine kantiano) sono tesi contraddittorie di cui si può argomentare la legittimità, il suo scopo è proporre il modello dell’antinomia alle indagini linguistiche distinguendo la prospettiva psicologista settecentesca sulla glottogenetica dalla prospettiva antipsicologista della linguistica storica. Per Henry la soluzione consiste nel delimitare due ambiti: da una parte lo studio delle lingue nella prospettiva delle scienze storiche, dall’altra, lo studio delle facoltà linguistiche nella prospettiva delle scienze della natura. Il comparativismo trova inoltre terreno fertile nel positivismo linguistico, corrente che si avvicina alle scienze naturali. Fu sviluppato dai neogrammatici, di cui il principale esponente fu Karl Brugmann, autore di una grammatica delle lingue indoeuropee. Lo stesso sostiene che è possibile individuare leggi di trasformazioni fonetiche che hanno il carattere di leggi naturali (prospettiva antipsicologista). Una prospettiva psicologista la troviamo invece in Heymann Steinithal, che riprende la riflessione sull’origine del linguaggio in una prospettiva interdisciplinare, utilizzando i contributi delle scienze empiriche. 15. Individuare i nuclei teorici fondamentali della rifl essione fi losofi ca sul linguaggio di W. von Humboldt: Humboldt sviluppa, più che una filosofia del linguaggio, una filosofia della lingua, a cui gli studi del Novecento, specie Saussure, si ispireranno. Il primo aspetto della sua filosofia è la traduzione: prova infatti a tradurre l’Agamennone di Eschilo e sviluppa una serie di riflessioni sul significato del tradurre nella premessa al testo, una delle più importanti riflessioni sulla traduzione. Sviluppa inoltre una metacritica del linguaggio partendo da alcune categorie kantiane: la prospettiva metacritica oppone a Kant il fatto che il linguaggio sia un organo formativo del pensiero e che non si può risalire oltre: proprio in questo punto troviamo il linguistic turn ante litteram. In Humboldt prevale l’idea che non possiamo in nessun modo pensare al di fuori del linguaggio, tesi è articolata in modi diversi: da un lato il linguaggio è il medium che consente all’essere umano di dare forma al mondo, un linguaggio non monologico, quindi un modello duale a cui bisogna aggiungere un altro io (non c’è linguaggio senza un “io” e un “tu”, il che sottolinea la dimensione dialogica e intersoggettiva della sua teoria); dall’altro lato la matrice kantiana porta Humboldt a mettere al centro il soggetto linguistico, ma dato che in Kant il soggetto è isolato, Humboldt propone una “trasformazione semiotica del kantismo”, come la definisce Donatella di Cesare. Alle forme a priori della conoscenza, viene opposto il linguaggio, considerato come la condizione di possibilità dell'esperienza umana. Il linguaggio diventa cioè l'organo che produce il pensiero e questa produzione è resa possibile dall'immaginazione. Per quanto riguarda la dialogicità, essa è legata all’elemento dell’ascolto, di cui Humboldt riprende una dimensione herderiana: la soggettività linguistica ha come loro medium la dimensione fonico-uditiva. Una seconda caratteristica del pensiero humboldtiano, riconducibile alla soggettività, è l’articolazione linguistica: il pensiero può darsi attraverso un’articolazione linguistica fonica, emerge quindi un dualismo tra la dimensione cognitiva e quella fonica. L’articolazione è per Humboldt la vera essenza del linguaggio, in cui il suono si pone in una relazione sintetica rispetto al pensiero. La lingua è anche connessa a una prima formulazione di creatività e di realtà dinamica, in quanto fa un uso infinito di mezzi finiti (concezione ripresa in maniera diversa da Chomsky). Nella sua concezione di articolazione, Humboldt prende spunto dalla ricettività e dalla spontaneità, rispettivamente la sensibilità e l’intelletto kantiane. La lingua non è segno, ma neppure immagine, la lingua è fra essi. Humboldt situa la lingua anche in prospettiva semiologica: il segno è una realtà convenzionale in cui il significante è indipendente dal significato. L’idea di creatività è espressa dal filosofo con il termine greco “energeia”, da “ergon” (opera compiuta): la lingua è considerata dunque come pars construens, organismo in perpetua trasformazione. Inoltre, Humboldt propone la nozione di Weltansicht (visione del mondo), secondo cui le strutture sintattiche, semantiche e le forme foniche della lingua darebbero una visione unica della cultura. Ciò non significa che non sia possibile accedere ad altre Weltanischt. Le tradizioni e il plurilinguismo costituiscono invece una possibilità di poter uscire da una visione del mondo a un’altra, tramite la lingua. È chiaro che diverse lingue implicano diverse operazioni logico-cognitive per conoscere il mondo, ma un’attività come al traduzione testimonia proprio la possibilità di passare a una diversa Weltansicht. Quindi la Weltansicht non è una gabbia: da un lato non è Weltanschauung e dall’altro non è una Weltbild. La lingua è in costante evoluzione, per questo non è chiusa in se stessa, anzi, è influenzata dall’attività del soggetto parlante. Quindi, se da un lato la lingua esercita il proprio potere sull’individuo, dall’altra è quest’ultimo che può plasmarla, ad esempio attraverso la letteratura, manifestazione di uno stile unico (da cui emerge il concetto di linguistica del carattere). In mezzo ai due estremi si pongono proprio le lingue storico-naturali, in altri termini la langue saussuriana. Proprio per questa caratteristica, Lia Formigari considera Humboldt né psicologista né antipsicologista. 16. Presentate le nozioni di psicologismo e anti psicologismo att raverso l’analisi di almeno due autori che rientrano in questi due indirizzi: Come spiega Lia Formigari, a partire dal XIX secolo, lo studio sul linguaggio si distacca dalle altre discipline filosofiche. È a partire dalla seconda metà dell’Ottocento che risorge l’interesse per lo studio del linguaggio in chiave psicologica e per l’appunto per il soggetto parlante nella sua attività cognitivo-rappresentativa. Lo psicologismo, contro l’idealismo hegeliano e la dottrina di stampo trascendentale, cerca di sviluppare l’indagine kantiana identificando nella psicologia il fondamento di ogni sapere scientifico e filosofico. Tra alcuni pensatori di questa corrente filosofica, spicca la figura di Heymann Steinthal: la prospettiva psicologista lo porta a riprendere la riflessione sull’origine del linguaggio in una prospettiva storica sviluppando una propria spiegazione, una prospettiva integrata. Steinthal sviluppa queste riflessioni in un momento in cui si stanno creando discipline indipendenti con metodologie specifiche e un’ispirazione empirica e sperimentale. Contribuisce a questo processo lavorando in una maniera che è possibile definire, ante litteram, interdisciplinare. L’antipsicologismo, invece, rivendica l’affermazione che gli elementi linguistici siano da definire in base ai loro rapporti e alle loro funzioni senza essere ricondotti a processi psicologici: tra alcuni pensatori di questa corrente troviamo Frege, considerato fondatore dell'indirizzo antipsicologista all'interno della filosofia analitica e padre del logicismo. Lo studioso parte dalla critica dell’imperfezione delle lingue storico-naturali, piene di ambiguità e contraddizioni di cui il parlante non si rende conto. Introduce così l’ideografia, un sistema di notazione formale, con l’obiettivo di usare sistemi di segni che impediscano ambiguità. All’interno della sua filosofia, Frege individua il Sinn, cioè il senso di enunciato e il Bedeutung, cioè il significato. Il significato di un nome x è l’oggetto di cui x è il nome. Il senso è il modo d’essere dato del significato, è il pensiero che l’enunciato esprime. La rappresentazione (Vorstellung) sono invece le immagini, le sensazioni che evocano le parole nel soggetto. 17. Esponete la criti ca di Croce al positi vismo linguisti co: Benedetto Croce ha un atteggiamento profondamente critico verso la linguistica, disciplina che nasce come linguistica comparata: Croce si oppone infatti alla tradizione positivista e si inscrive nella tradizione humboldtiana. Per Croce il linguista non dovrebbe studiare la lingua come prodotto morto, in quanto la lingua è in realtà sempre attività vivente. Quindi non può esserci una scienza come la linguistica. Il contenuto e la forma linguistica non possono essere studiati separatamente. Croce si rifà alla separazione – già ritrovata nella antinomie di Victor Henri – tra scienze della natura (nomotetiche, nomos=legge) e tra scienze dello spirito (ideografiche, legate al particolare). Nella lingua si danno sempre dei prodotti espressivi individuali, in cui la forma e il contenuto sono indistinguibili. L’espressione linguistica si dà in forma esemplare nelle opere letterarie, come dice Croce nell’Estetica. Il filosofo sostiene che le scienze dello spirito non dovrebbero cercare di scoprire leggi linguistiche generali, ma dovrebbero invece studiare i testi considerando la soggettività degli autori. Secondo Bodei, il pensiero di Croce è inscrivibile nell’Italian Thought, in quanto il pensiero viene rapportato all’esperienza concreta. La nozione di espressione poetica crociana è riconducibile a questa affermazione: il bello infatti è espressione di un’opera d’arte unica, di un’intuizione di cui abbiamo coscienza perché un autore è riuscito ad esprimerla. 18. Descrivete l’evoluzione della fi losofi a del linguaggio di Witt genstein: Il filosofo, ingegnere e logico Ludwig Wittgenstein è autore di contributi di capitale importanza alla fondazione della logica e alla filosofia del linguaggio. Il suo pensiero ha attraversato due fasi: l’una si esprime nel Tractatus logico-philosophicus (1922) e l’altra in opere postume, nello specifico le Ricerche filosofiche (1953). Il primo Wittgenstein sostiene che il linguaggio può descrivere il mondo, ma non le modalità per descriverlo. Un assunto fondamentale è che le proposizioni elementari sono immagini di stati di cose e tutte le altre proposizioni sono funzioni di verità delle proposizioni elementari in esse contenute. Infatti lo stato di cose è solo un nesso di oggetti, legati tra loro da relazioni in un determinato contesto. Ad esempio, in "Pietro è più giovane di Marco", gli oggetti sono Pietro e Marco mentre "essere più giovane di" è la relazione. La proposizione, come condizione necessaria per essere vera o falsa, deve avere anzitutto un senso, cioè deve rappresentare adeguatamente una porzione di realtà. Si abbandona così l'idea fregeiana secondo cui "vero" e "falso" sono degli oggetti e le proposizioni sono nomi di questi oggetti. Il significato di un nome è l'oggetto che gli corrisponde. Le proposizioni hanno un senso ma non un significato e i nomi hanno un significato ma non un senso. Wittgenstein menziona la necessità di una corrispondenza fra elementi dell'immagine e oggetti, che chiama "relazione di raffigurazione". Un mondo, per quanto diverso sia pensato da quello reale, deve avere in comune con esso qualcosa, che Wittgenstein chiama "forma logica". Il linguaggio, come un abito, traveste il pensiero e la forma dell'abito non lascia esattamente vedere le forme del pensiero. Per evitare l'abito, bisogna usare un linguaggio artificiale che obbedisca perfettamente alla logica. Il raro caso in cui ciò accade si parla di "proposizione completamente analizzata", composta da oggetti semplici, che sarebbero entità individuali spogliate di ogni proprietà. Affinché una proposizione abbia senso, a ogni nome in essa contenuto deve corrispondere un oggetto semplice. Ma sei ai nomi corrispondessero entità complesse da scomporre per scoprirne il senso, bisognerebbe operare un assurdo regresso infinito da entità a entità. In una seconda fase della sua vita, Wittgenstein si ritrova in contatto con il “linguaggio reale dei bambini”, e si rende conto di non aver affrontato gli aspetti fondamentali dell’esperienza umana. È nelle Ricerche filosofiche che l’indagine del secondo Wittgenstein si indaga il linguaggio della vita quotidiana, nello specifico il passaggio dal linguaggio logico-formale al linguaggio quotidiano. Si arriva così alla rinuncia a un linguaggio perfetto, in quanto nel linguaggio di tutti giorni non si può trovare alcuna struttura formale unitaria, bensì un insieme di pratiche linguistiche, tra cui il linguaggio raffigurativo, riscontrabile in espressioni che non denominano nulla, come le preghiere, le implorazioni, il cantare, l’imitare. È quindi il modo d’uso delle parole da parte dei soggetti parlanti a rivelare ciò che esse designano. A giocare un ruolo importante è il contesto, che determina i modi d’uso del quell’indirizzo multidisciplinare che è lo strutturalismo, che prende avvio dalla linguistica generale di Saussure, ma è vero anche per gli psicanalisti e psicologi che hanno criticato i principi della sua opera. Negli scritti aforistici troviamo un Saussure filosofo del linguaggio, un epistemologo della linguistica, che si interroga sui punti di vista attraverso cui considerare i fatti linguistici, considerati una massa eterotica. La sua opera postuma “Corso di linguistica generale” rappresenta una presa di distanze di Saussure da un lato dalla linguistica storica e da un lato dagli approcci più psicologici alla significazione. Vengono delineati vari punti di vista, di cui è fondamentale quello sincronico, secondo cui la lingua va considerata facendo astrazione dal tempo e anche da tutte quelle fluttuazioni che in ogni stato di lingua ci sono (termini obsoleti non usati e neologismi). Il linguista, in qualche modo, considera la lingua una realtà sistematica in cui non è importante il rapporto con la realtà extralinguistica. L’analisi diacronica appare gerarchicamente dipendente perché, nella costruzione dell’evoluzione di un termine, non facciamo semplicemente riferimento all’evoluzione del vocabolo in sé, ma anche a diversi stati di lingua[: quel termine si è evoluto all’interno di un sistema che ne determinava il valore. Il punto di vista sincronico è, secondo l’opera, quello della langue, ma in realtà Saussure sostiene che il punto di vista sincronico è sia della langue sia della parole, perché la langue si dà come atto individuale di parole, questo perché la langue non è in un universo platonico, sta tra i parlanti. È chiaro però che il parlante, per farsi capire, deve fare riferimento alle regole generali della langue, il che presuppone una circolarità tra parole e langue. L’arbitrarietà (che emerge già nella semiotica di Locke), in Saussure, viene chiamata arbitrarietà radicale: non va cioè individuata nel rapporto arbitrario tra significante e significato, bensì a livello orizzontale: ciò che determina il significante e il significato è il rapporto con gli altri significanti e gli altri significati dello stesso sistema linguistico. Saussure sostiene, insomma, che nella lingua non ci siano identità: non è il referente che fa sì che il significato di “albero” sia uguale ad “arbre”, anzi, non lo sono affatto perché quella parola ha in italiano delle connessioni diverse con i membri del sistema linguistico, specie nelle espressioni sintagmatiche in cui ricorre, che sono diverse nelle altre lingue. Quindi ogni lingua ritaglia diversamente la propria materia. Il pensiero, al di fuori del linguaggio, è una massa amorfa (concezione denominata da De Palo “il fantasma del prelinguismo amorfo”. Nel sistema lingua, ciò che determina il valore dei significati è indipendente dai referenti extralinguistici: questo non significa che ci sia un rapporto, ma di certo essi non determinano il modo in cui vengono concepiti i significati nelle varie lingue. È chiaro che per Saussure un’implicazione di questi assunti è che le due entità di cui si compone il segno non siano separabili, bensì si diano sin dal principio da una sintesi. Per Saussure possiamo astrarre la langue, ma per comprendere i fenomeni linguistici ad essa relativa, dobbiamo considerare tempo e massa parlante, perché la vita della lingua è determinata da questi elementi.] Si è arrivati però a parlare di un secondo Saussure perché, quando nel 1996 è stata sgomberata la sua casa, sono emersi manoscritti sconosciuti, che ci portano verso un Saussure che si interroga sulle operazioni che rendono possibile lo studio della lingua. Da questi scritti viene fuori un Saussure epistemologo molto attento a distinguere la prospettiva del linguista da quella del parlante e anche molto attento a creare per la prospettiva del parlante una serie di categorie e nozioni che potessero fargli comprendere come lo stesso entra in relazione col sistema. Per Saussure, nell’essenza dei fenomeni linguistici, c’è sempre una duplicità di prospettive e la lingua è proprio il prodotto indissolubile tra due dimensioni (fonica e acustica). Un altro elemento importante è la lingua come sistema: quando il parlante produce un’enunciazione, è possibile che padroneggi in quel momento l’intero sistema? No, in effetti per Saussure il parlante non ha sempre accesso all’intero sistema, ma solo al jeu de signes, identificato con un’unità locale del sistema linguistico. Saussure parla di rapporti sintagmatici e associativi: noi come parlanti abbiamo memorizzato una serie di espressioni idiomatiche e frasi ricorrenti in cui quella parola compare, quindi quando componiamo una frase ricorriamo a dei rapporti paradigmatici per poi porre le parole in rapporti sintagmatici, nel cotesto. 22.Spiegare perché esiste una discrepanza tra il pensiero di Saussure esposto nelle lezioni e nei suoi appunti e il Corso di linguistica generale pubblicato dagli allievi dopo la sua morte: Saussure, dopo aver seguito i corsi di Bréal, diventa anche lui docente universitario. All’università di Ginevra, a fine ‘800, tiene una serie di corsi tra cui un corso di linguistica generale, una linguistica che in questi anni è lui stesso a creare: sono corsi seguiti da pochissimi allievi, gli stessi che, dopo la sua morte, raccolgono gli appunti nell’opera “Corso di linguistica generale”, scritti che Saussure non aveva mai pensato di pubblicare. Secondo alcuni studiosi, Jäger e Trabant, il Corso va considerato un’opera di carattere apocrifo perché, se analizziamo i pochi scritt i pubblicati in vita da Saussure, hanno uno stile aforistico, è come se Saussure non arrivasse alla pubblicazione proprio perché insoddisfatto da ogni sistematizzazione. Altro aspetto importante è che, se si va a confrontare l’opera con gli appunti, si nota che l’operazione fatta dagli editori non sarebbe mai stata approvata da Saussure. Una delle frasi più citate è che la linguistica deve studiare la lingua in sé e per se stessa (modello autonomista), ma Saussure non era di questo parere e negli appunti degli studenti quest’ultima istanza traspare. Trabant fa un paragone: si immagini che il rapporto di Saussure e i suoi allievi sia un po’ come il rapporto di Gesù Cristo e gli apostoli, relazione che ha portato alla scrittura con un processo d’interpretazione e di sacralizzazione di una serie di affermazioni che, nel caso di Saussure, non si sa se siano vere. Negli scritt i aforistici troviamo invece un Saussure filosofo del linguaggio, un epistemologo della linguistica, che si interroga sui punti di vista attraverso cui considerare i fatti linguistici, che sono per il linguista una massa eterotica. Per Jäger e Trabant bisognerebbe addirittura togliere la firma dal Corso, in quanto è frutto di elaborazione degli editori e non rispecchia le reali intenzioni dell’autore. De Mauro, nella sua edizione critica, è partito dalla crit ica d’assemblaggio di materiali nel Corso, ma in modo ottimistico: prendendo per buoni gli appunti degli allievi, ha cercato di proporre un ordine e un’interpretazione diversa di alcune nozioni. Inoltre De Mauro ha ricontestualizzato la linguistica generale attraverso la storia delle idee linguistiche precedente a Saussure. 23.Esponete i principali aspetti del pensiero linguistico che Bühler sviluppa in dialogo con il pensiero di Saussure Bühler è un linguista versatile: ha studiato psicologia e medicina e la sua teoria linguistica viene chiaramente influenzata da questi studi. I l f ilosofo si scontra con il riduzionismo psicologico e il comportamentismo e propone una rivalutazione del senso nello studio delle attività linguistico-cognitive. Per far ciò sviluppa una teoria dell’espressività che tiene conto dell’intenzionalità ma anche del lato istintivo- biologico dell’individuo. Un punto fondamentale è il ruolo del contesto nell’agire linguistico del soggetto, il quale non può essere visto come isolato, ma immerso in un ambiente. È in questa sua concezione che troviamo una critica a Saussure, il quale, nella sua teoria linguistica, non considerava l’interazione tra il soggetto parlante e il contesto, ma solo la lingua una realtà sistematica a sé stante. Se nel circuito della parole saussuriana troviamo soltanto il concetto e l’immagine acustica, nel modello proposto da Bühler troviamo anche l’influenza della realtà extralinguistica, in cui la parole saussuriana si immerge. Il contesto viene inoltre concettualizzato dallo studioso in due campi: campo indicale e campo simbolico; tutti e tre influenzati dal contesto, seppur in modo diverso. Un esempio è la deissi, che appartiene al campo indicale, coordinato da elementi come “io”, “qui”, “ora”. La crit ica che Bühler muove nei confronti di Saussure è quindi quella di aver optato per un’eccessiva psicologizzazione del soggetto parlante, astratto dal contesto. È importante però sottolineare che, anche se la comunicazione è in qualche modo vincolata al contesto, il soggetto parlante gode comunque di un margine di creatività, il che ricorda il concetto di linguaggio come “energeia” già proposto da Humboldt. 24.Presentate la critica che Benveniste rivolge alla linguistica saussuriana e la rielaborazione che egli propone di alcuni aspetti del suo pensiero: Negli studi del linguista Benveniste riscontriamo molti elementi di Bühler, con cui condivide la centralità del soggetto parlante e la fenomenologia. A Saussure critica la staticità del sistema sincronico, in cui la temporalità e le fluttuazioni a cui è soggetta la lingua sono solo un elemento di cornice. Il modello saussuriano subisce così una rielaborazione: Benveniste distingue la semiotica (corrispondente alla prospettiva sincronica) dalla semantica (teoria che si occupa dei meccanismi di attivazione della langue da parte del parlante). È essenziale in questa dicotomia sottolineare la soggettività, che è secondo il f ilosofo un effetto del linguaggio: basti pensare alla stessa enunciazione “io”, che non è solo un elemento del sistema lingua, ma anzitutto un effetto del linguaggio, quindi universale. Chiaramente non si tratta di una prospettiva monologica, in quanto l’”io” prevede anche il “tu”, quindi possiamo parlare di intersoggettività. A definirla è la deissi, ancoraggio soggettivo che si attiva attraverso l’enunciazione: nel tempo presente troviamo l’”io” e il “tu”, mentre nel tempo storia troviamo la terza persona (categoria della neutralità). I l modello della messa funzione della langue attraverso l’enunciazione prevede tre momenti: la realizzazione vocale, la trasformazione della lingua in discorso attraverso il processo di semantizzazione e, infine, l’analisi delle forme specifiche. In tutti e tre i momenti è possibile individuare un processo di appropriazione della langue da parte del parlante. La semantizzazione propone, d’altro canto, una riarticolazione del saussuriano rapporto tra langue e parole: la langue si pone al crocevia tra forma e attività. Essa è concepita come un sistema che riceve la propria forma anche attraverso funzioni legate al soggetto. 25.Spiegate in che modo la fenomenologia del linguaggio di Merleau-Ponty pone al centro della sua riflessione il soggetto parlante: Il pensiero di Merleau-Ponty dialoga con le teorie di Lévi-Strauss. È un filosofo che inscriviamo nella fenomenologia, tra quelli che più ha dialogato con Saussure e la Gestalt. Per Merleau-Ponty è fondamentale, per elaborare una filosofia del linguaggio adeguata, sanare l’approccio dualistico cartesiano, in cui res cogitans (mente, dimensione cognitiva) e res extensa (corpo, dimensione segnica) si contrappongono. Per farlo, la metodologia più efficace è la fenomenologia, in quanto un elemento essenziale di quest’ultima è il distanziamento dalle categorizzazioni, che altrimenti cui la dimensione dell’inconscio ha un ruolo fondamentale. Nell’inconscio, che consiste in attività mentali latenti non percepibili dalla coscienza, troviamo le cosiddette pulsioni, spinte dalla base biologica. L’individuo, non potendo esprimere le pulsioni in quanto giudicate in modo negativo con una prospettiva morale, manifesta dei disagi, le nevrosi. In tal senso, la psicanalisi, cioè il trattamento terapeutico di questi disturbi, prende una curvatura ermeneutica: infatti, se si interpreta verbalmente il sintomo, si riesce a comprenderlo e a guarirlo. La proposta di Freud è dunque una terapia della parola: per capire ancor meglio quanto sia intriso di simbolicità il linguaggio in questo ambito, Freud sostiene che uno dei modi fondamentali per capire come la pulsione è stata rimossa è l’interpretazione dei sogni, messaggi di t ipo simbolico che vanno decifrati. Individua così due meccanismi di configurazione simbolica: la condensazione del senso, cioè la metafora, e lo spostamento del senso, cioè la metonimìa. La terapia della parola è quindi anche interpretazione dell’attività simbolica che non è parte del linguaggio ordinario, in cui il dialogo tra paziente e psicanalista può portare all’individuazione del senso latente di certe connessioni mentali, che vengono messe in relazione con la storia personale del paziente. Acquista così importanza la dimensione affettiva e simbolica. In Freud come in Saussure abbiamo al centro d’interesse il senso e il soggetto parlante. La psicanalisi individua, attraverso l’ipotesi dell’inconscio, dei meccanismi di simbolizzazione più primitivi rispetto alla parola, come il sogno, il lapsus e i linguaggi dell’arte. Freud, nel creare un nuovo ambito di ricerca, come Saussure, postula un elemento non percepibile, come la realtà sistematica della langue. Entrambi trovano metodologie per cogliere le forme espressive del non percepibile. 29.Esponete la crit ica che Lacan fa della nozione saussuriana di segno: Lacan, psicanalista e filosofo, fonda un’importante scuola psicanalit ica internazionale e, nel suo confronto con diverse discipline, si approccia anche a Saussure e allo strutturalismo. Lacan rit iene di essere un interprete fedele di Freud, da cui eredita tutte le categorizzazioni. In particolare esplicita che l’inconscio è strutturato come un linguaggio che si esprime attraverso procedimenti metaforici e metonimici, un linguaggio fluido, polisemico e dinamico. Per spiegare quest’aspetto, lo studioso riprende la nozione saussuriana di segno: quest’ultimo è per Saussure un’unità indissolubile tra significato (signifié) e significante (signifiant), legati nella rappresentazione segnica. Se nella concezione di Saussure il significante era in posizione subalterna rispetto al significato, Lacan fa un’inversione: mette in alto il significante e in basso il significato. Nel fare ciò, corregge la nozione di segno sottolineando, in primis, la prevalenza del significante e, in secondo luogo, il fatto che la relazione tra i due non sia fissa. Insomma, non esiste un senso unico. Il significante non corrisponde alla parte sensibile della parola, ma va inteso come quella catena significativa che non è mai sottoposta ad un arresto. Se dobbiamo prendere sul serio l’idea saussuriana che il significato non sia una realtà indipendente, allora sarà la realtà significante a trainare un significato che avrà sempre una realtà instabile. Quindi si hanno dei flussi di significanti con una realtà significativa fluida. Eppure noi abbiamo un’esperienza del tutto diversa di creazione di frasi a partire dal sistema linguistico. In questa posizione di Lacan, anche se sembra di vedere nella lingua un delirio psicotico, così non è. Non c’è un flusso inarrestabile sulla catena del significante che non si ferma a nessun significato stabile. Nei soggetti normali la catena è soggetta alla punta di capitone, cioè punti fissanti che pongono arresto alla deriva di significazione. Lacan ritiene che questi punti fermi siano legati ad un particolare ordine simbolico che permea non solo l’attività linguistica del soggetto ma anche una forma di vita, un sistema culturale a tutto tondo. E appunto Lacan parla dell’ordine simbolico del padre, che pone dei punti fermi. È interessante notare che per osservare il suo funzionamento Lacan individua vari t ipi di f igure: la figura del padrone, la figura dello scienziato, la figura del capitalista e la figura dell’analista. È importante notare che queste figure producono un’identificazione e sono legate a una forma di godimento. Noi avevamo sempre visto con Freud che il rispetto di regole morali, sociali e religiose era stato legato a un disagio. Invece Lacan ci fa osservare che, se da un lato l’interdizione del godimento produce una paradossale forma di godimento, d’altro canto la stessa identificazione in queste figure è connessa a un’altra forma di godimento. Nel caso del padre, l’autorità non permette nessuna infrazione, e quindi è un modello estremamente rigido. In questo sistema troviamo anche delle forme come il linguaggio della scienza, legato a un assetto politico e sociale preciso e rigido. Il discorso dell’analista invece è in qualche modo complementare a quello del padrone, perché lo psicanalista deve far rendere conto al soggetto del vuoto costitutivo che lo abita e del fatto che nessun tipo di discorso può saturare questo vuoto e al tempo stesso rendere consapevole la relazione con questi discorsi, che lo costituiscono come individuo sociale, dato che non si può non aderire all’ordine simbolico del padre. Il discorso dell’analista è dunque un discorso di consapevolezza, da cui la matrice etica. 30.Presentate la rielaborazione che Kristeva, Irigaray e Muraro compiono dello strutturalismo linguistico e del pensiero lacaniano ponendo al centro la dimensione simbolica: Kristeva, psicanalista, linguista, filosofa e romanziera, prende le mosse dal progetto lacaniano. Propone di ripartire dall’ordine simbolico del padre individuandone, però, una sfera prelinguistica a esso anteriore, chiamata “semiotico”. Da un punto di vista ontogenetico, la sfera preverbale dev’essere superata per arrivare all’identificazione con l’ordine simbolico del padre, pena uno sviluppo linguistico disturbato e un soggetto psicotico. Ma come descrivere la fase preverbale? Troviamo qui la deriva intesa da Lacan, una fase in cui quello che simbolizza è la corporeità, una simbolizzazione ancora precedente all’articolazione semantica e significante (basti pensare alle lallazioni del bambino prelinguistico), in altre parole un’estrema fluidità del senso, che non interviene più, se non in minima parte, nel linguaggio adulto. Si può infatti avere una riemersione del semiotico nel simbolico: è il caso delle avanguardie poetiche a cavallo tra ‘800 e ‘900, come Mallarmé, in cui la pulsione disturba la linearità del discorso poetico standard. È anche il caso dl Paradiso dantesco, in cui l’avvicinamento alla dimensione divina implica la riemersione dell’affettività e una disarticolazione del linguaggio. Anche Irigaray, psicanalista, riparte dall’idea di Lacan di ordine simbolico, ma si propone in maniera molto più netta, esplicita e diretta di Kristeva sulla decostruzione dell’ordine simbolico del padre. Siccome esso è connesso da Lacan alla figurazione del fallo, Kristeva parlava di fallologocentrismo, individuando quindi un legame con il logos. Per Irigaray, la decostruzione deve mostrare che quello che viene considerato universale nell’ordine è in realtà legato a una simbolizzazione solo maschile. Lei mostra come questo modello abbia eliminato la nozione di differenza, che invece è qualcosa che ha carattere originario nei due generi, nel senso che l’essere umano si dà in questa dualità. Un altro elemento molto importante, dopo la decostruzione e l’analisi delle figurazioni femminili (altra forma di simbolizzazione), bisogna costruire un nuovo ordine, in senso etico, in cui è possibile una simbolizzazione che sia il dialogo tra i due generi. Lei fa anche analisi empiriche sul modo in cui attualmente si tende a inglobare l’altro genere. Questa teoria appartiene a un femminismo diverso rispetto a quello emancipazionista di Simone De Beauvoir, centrato sulla rivendicazione di diritt i e sulla decostruzione del genere donna. Irigaray va in direzione opposta: la differenza è un dato irriducibile, non è un fatto culturale, culturale è semai il fatto di aver eliminato la differenza simbolizzando solo il maschile e rendendolo neutro, universale. Muraro, filosofa della seconda generazione del femminismo, anche lei si forma studiando filosofia e, in particolare, lo strutturalismo saussuriano. Nell’opera “Maglia o uncinetto” riprende la concezione di Jakobson di metafora e metonimia come due forme quasi in opposizione: per lei la maglia è metonimica in quanto doppia, dialogica, in quanto simboleggia una relazione tra contesti concreti; l’uncinetto è metaforico poiché è unico e solo e si proietta su un senso unico, connesso ad un ordine razionale. Muraro esemplifica l’opposizione associando il metaforico al femminile e il metonimico al maschile. La studiosa si unisce a Kristeva e Irigaray nella ricerca di un ordine simbolico alternativo a quello del padre e scrive “L’ordine simbolico della madre”: secondo cui bisogna riconoscere il merito originario della madre, operazione difficile in una società fallologocentrica. Un’altra linea della sue ricerche è quella storico-filosofica-religiosa: è nella religione che si giocano a livello spirituale le possibilità di una simbolizzazione del divino come femminile. Scrive a tal proposito un saggio sulla ricostruzione della storia di due eretiche del Medioevo, che tentano la simbolizzazione del divino nella loro attività corporea. 31. Indicate i principali elementi della ricezione di Saussure nel contesto italiano: Secondo un’idea storiografica diffusa, l’Italia arriva in ritardo nella recezione di Saussure e dello strutturalismo, come anche in altri ambiti, stereotipo fortemente contestato da Marina De Palo. Infatti, tra gli anni ’30 e ’50 sarebbe stata difficile una ricezione positiva di Saussure in quanto prevaleva il modello idealista crociano, secondo cui le categorie della linguistica erano solo pseudoconcetti. L’unica cosa di cui si può dare una conoscenza autentica, per Croce, è solo l’espressione individuale la parole saussuriana, atto unico e irripetibile, che aveva i suoi momenti più culturalmente rilevanti nella poesia. L’unica linea di pensiero che Saussure ha in comune con Croce è quindi quella della centralità del soggetto parlante. Per il resto, Croce riprendeva già le stesse idee della filosofia del linguaggio tedesca, come la concezione di lingua come energheia (Humboldt). Come mostrerà De Mauro, Humboldt è un autore rielaborato anche da Saussure, quindi le convergenze della filosofia italiana sono molto forti. Per quanto riguarda la langue, sarà il secondo Croce a riconoscere la dimensione storica, collettiva della lingua, visione che influenzerà i cosiddetti istituzionalisti, generazione di linguisti che dialogherà positivamente con la linguistica saussuriana. Ci sono poi filosofi che dialogano con Saussure tramite il primo Croce, come Vossler e Spitzer, che sviluppano una l’attenzione ai fatti linguistici individuali, affianca alla terminologia saussuriana la sua idea di lingua come condizione tecnica della parola. Un altro elemento fondamentale è legato alla pragmaticità intrinseca della lingua: per Pagliaro la lingua non si dà al di fuori dei parlanti, i quali le danno senso. Questo sarà principio fondamentale della filosofia del linguaggio romana: De Mauro la tratterà in maniera esplicita con un confronto alla linguistica saussuriana. Altro aspetto è quello di non considerare, come Croce, vista anche la sensibilità socio-polit ica, l’individualità dei soggetti parlanti, ma considerare l’individualità sempre come un filo il cui significato assume forma solo all’interno dell’arazzo. Quindi l’idea di collettività, tipica degli istituzionalisti, è connessa a un’idea di langue come dimensione storica comune. Altro aspetto del pensiero di Pagliaro è l’approccio integrato, secondo cui l’essere umano va considerato da una serie di prospettive: si parte da una dimensione biologica e si arriva a includere aspetti più storico-culturali in una prospettiva multidisciplinare. Un altro aspetto è la tensione nella filosofia del linguaggio di Pagliaro: da una parte la langue è un preciso sapere tecnico e questo porta lo studioso verso un’idea di langue come realtà sistematica, ma dall’altro lato la pragmaticizzazione di questa nozione saussuriana pone al centro il parlante, il quale vitalizza questa tecnica. Pagliaro si rifà all’idea di lingua come segno che addita alla sostanza, per cui la lingua è composta da elementi additativi. Il punto è che l’attività linguistica è incompleta ed è necessario far riferimento a quello che Bühler avrebbe chiamato contesto empratico, che satura le dimensioni alluse dell’atto linguistico. Pagliaro, con questa riflessione, riprende l’insegnamento di Humboldt, il che ci fa vedere l’attività linguistica da diversi punti di vista: da un lato c’è una dimensione universale, in cui il parlante è in possesso della facoltà di linguaggio, la chiave per parlare tutte le lingue; dall’altro lato c’è la lingua, langue, l’elemento a cui il singolo parlante è necessariamente connesso; dall’altro l’espressione individuale, la parole. Quindi da una parte il parlante è vincolato al contesto storico, ma dall’altra può prenderne le distanze in un atto linguistico che abbia il potere d’innovazione. Il progetto di Pagliaro è funzionalista: al centro c’è il parlante con la funzione di significare, che è fondamentale rispetto al modo di concepire la lingua. Pagliaro è inoltre autore di saggi di storia delle idee linguistiche, chiamati dall’autore saggi di crit ica semantica, il cui perno è l’analisi storica dell’emergere di particolari significati, indagata a partire dal contesto storico in cui il significato si costituisce. 33.Presentare la filosofia di Vico attraverso il confronto, delineato dallo stesso autore, con quella del suo grande antagonista, Descartes: Le teorie sul linguaggio di Vico vengono proposte principalmente nella “Scienza Nuova” e in parte nel cosiddetto “Diritto Universale”. Secondo Vico, per comprendere l’attività simbolica umana e il suo funzionamento, dobbiamo far riferimento al momento della genesi: il linguaggio va dunque di pari passo con le altre componenti che caratterizzano l’evoluzione dell’umanità. Vico, nella sua autobiografia, si trova a fare i conti con la filosofia di Descartes. È importante per lo studioso dialogare con il creatore della filosofia moderna e, nel fare ciò, propone un posizionamento diverso: anzitutto, il “Discorso sul metodo” di Descartes è scritto in prima persona, c’è un’enfatizzazione dell’io, visto che il pensiero cartesiano tende alla scoperta del cogito. Vico risponde a questa narrazione proponendo la terza persona, chiamandosi “signore”: si ringiovanisce di un paio d’anni e si inserisce in un contesto storico- culturale. Entrambi i f ilosofi hanno comunque dei tratti in comune: hanno tutti e due interrotto gli studi, sono estremamente dotati, ma Vico, al contrario del suo antagonista, veniva da una famiglia molto umile. Descartes, con la sua formazione classica, ha potuto permettersi di mettere alla prova varie scienze, e arriva così a uno scetticismo radicale, che anche Vico condivide e che sarà drammatizzato a livello narrativo nella Scienza Nuova. Descartes racconta che lo scetticismo lo porta all’abbandono completo degli studi, ma Vico rit iene che questo sia un gesto retorico astuto per dare valore alla propria filosofia, al prezzo di una grande illusione nei confronti di chi si avvicina alla sua filosofia. L’approdo di Vico, contro quello di Descartes, non è il cogito, bensì l’idea che il mondo storico degli esseri umani sia stato fatto dagli uomini (principio epistemologico fondamentale). La crit ica di Vico è più che altro rivolta al cartesianesimo, il cui modello culturale e pedagogico sono pericolosi, in quanto vengono ignorati gli studi umanistici in nome dell’utile, dominato dalle scienze e dalla matematica. I giovani che utilizzano questo metodo rischiano di avere mancanze in quanto membri della collettività. La cultura umanistica, in questo, è fondamentale per Vico. Il filosofo, interrogandosi sui metodi pedagogici, ritrova una contrapposizione tra il metodo della topica (il trivio che incarna la formazione umanistica, con grammatica, retorica e dialettica) e il metodo della crit ica (dedicato alle discipline scientifiche); ritiene tuttavia che i due metodi dovrebbero integrarsi l’uno con l’altro. Questi insegnamenti non servono solo per creare bei discorsi, ma soprattutto per non diventare esseri disadattati, per aderire in maniera consapevole e creativa alla società. Mentre il vero cartesiano è qualcosa che non possiamo ricondurre a una tradizione, il verosimile vichiano ha dei legami storici, importanti nella formazione affettiva e sociale del buon cittadino. Nel modello pedagogico vichiano, lo studio deve sempre far riferimento a oggetti e situazioni concrete, cosa che oggi a scuola accade. Ma all’epoca di Vico si trattava di un modello pedagogico innovativo. Poiché il mondo naturale è estremamente complesso e non è stato creato dagli esseri umani, non si può pretendere di conoscerlo in modo esaustivo, però si può adottare un modello riduzionista delle scienze naturali. La conoscenza, per Vico, non è una conoscenza analitica di qualcosa che già c’è, ma ha sempre un valore euristico ed è qui che Vico mutua dalla retorica la dimensione dell’ingegno, qualcosa che permette di collegare delle cose molto lontane tra di loro, scoprendo e inventando un collegamento che anteriormente non era stato notato. Quindi per Vico, nel rifarsi al termine barocco di “acutezza”, è la metafora lo strumento più adatto. Inoltre, la metafora fa leva su una dimensione immaginativa che si attiva naturalmente nei fanciulli. Per quanto riguarda lo studio delle lingue, Vico ritiene che esse siano il frutto di una continua osmosi tra lingua e cultura. Nell’orazione pronunciata da Vico all’inaugurazione dell’Università Federico II, il filosofo ricorda come i francesi hanno creato il modello cartesiano proprio perché hanno un idioma sottilissimo, rispetto all’italiano, “lingua suscitatrice di immagini” e quindi lingua ingegnosa. [La Scienza Nuova nasce come superamento degli strumenti ermeneutici caratterizzati dall’assenza di un’integrazione efficace tra indagine filosofica e filologia. Anche Vico vive un periodo di scetticismo, ma forma la sua scienza su basi diverse e si arriva a un superamento: nella notte densa di tenebre, simbolo dello stato d’ignoranza, spunta una luce. L’iniziale stato di ignoranza è fondamentale per riconoscere l’inizio del proprio percorso, in contrapposizione con il prevalere della boria dei dotti, che proiettano la loro sapienza come condizione onnipotente, e con la boria delle nazioni, che ritengono che il loro sapere sia antico come il mondo. Vico intende decostruire la sapienza superando il logocentrismo, cioè l’idea che all’origine dell’umanità ci sia il logos. Unendo invece filosofia e filologia possiamo capire cosa ci fu al principio: nel momento in cui la filosofia dev’essere sempre condotta filologicamente, e la filologia non può che essere declinata filosoficamente (altrimenti non comprenderebbe i propri prodotti culturali), ecco che ci ritroviamo in un orizzonte simbolico in cui analizzare filosoficamente dei simboli per capire come sono stati prodotti. Proprio per questo motivo, Vico si oppone alla tabula rasa proposta di Descartes, che fa piazza pulita di tutto il mondo culturale. Vico, dopo aver riconosciuto che all’origine c’è l’ignoranza, recupera la tavola delle cose civili: quindi, da un lato, c’è un distacco violento dalle categorizzazioni imposte dall’etnocentrismo e dal logocentrismo, c’è la necessità di un’epoché, ma dall’altro lato occorre ricostruire un’indagine che parta dalle prime produzioni storiche di quelli che Vico considera esseri umani estremamente primitivi, i “bestioni”. I l modello linguistico dualista è sbagliato perché non tiene conto del fatto che la favella è posta tra corpo e mente, che si danno innanzitutto come unità e che se mai si separano in un secondo momento. In Vico prevale una critica al cartesianesimo: ] 34.Descrivere l’evoluzione del principio del verum factum convertuntur dalla sua prima formulazione fino alla sua applicazione alla Scienza nuova: ?? Il principio del verum-factum, epistemologico e gnoseologico, circoscrive l’ambito della conoscibilità per gli esseri umani tramite un criterio operazionale. Il concetto è introdotto da Vico nell’opera “De antiquissima italorum sapientia”, in cui il f ilosofo si riferisce alla geometria e alla matematica. Nella Scienza Nuova ritroviamo quest’estensione , ma la geometria mantiene un ruolo molto importante. All’interno di questo sistema di figure sensibili c’è un metodo razionale, ma sempre induttivo, che parte dalle singole forme. Per Vico è un metodo così importante che la stessa Scienza Nuova sarà realizzata secondo il sistema geometrico (“more geometrico”, uso che Vico mutua da Spinoza). Tuttavia gli oggetti reali vengono considerati più degni di quelli matematici e geometrici, istanza legata anche a una dimensione etica, alla formazione di un individuo sociale legato ad esigenze “reali” collettive. Per comprendere il verum-factum-convertutur, è importante sottolineare il ruolo della dimensione genetica: se non comprendiamo la genesi, non conosciamo in maniera appropriata un oggetto culturale. Nell’ambito della conoscibilità, è importante per Vico distinguere due forme di conoscenza: l’intelligere, cioè conoscere in modo intuitivo e immediato, forma tipica della conoscenza divina; il cogitare, il nostro modo umano di pensare, un modo mediato di conoscere, anche soggetto all’errore. Secondo Davide Luglio, su questa opposizione bisogna distinguere un verum creatum (creazione del mondo storico da parte dell’uomo) da un verum increatum (il Verbo delle Scritture). Mentre Dio è capace di creare infiniti mondi, l’essere umano è legato alla creazione di un unico mondo storico. L’essere umano può fare riferimento alla realtà metafisica della divinità solo attraverso la rivelazione. Il porsi di Vico come filosofo cristiano ha proprio un senso rispetto alla prospettiva metafisica che assume. Quindi il verum-factum mette enfasi sui limiti della mens, della res cogitans, in polemica con il l’occhio di Dio, metafora della Provvidenza divina, principio guida: la luce che sprigiona illumina il petto di una donna dalla testa alata, metafora della metafisica, che osserva il triangolo. La donna poggia un piede sul pianeta Terra, Terra da interpretare sia come mondo fisico dai cartesiani, sia come mondo civilizzato dagli esseri umani, secondo la concezione vichiana. Il globo terrestre è inoltre inclinato verso il lato sinistro, per simboleggiare la tendenza della filosofia a considerare maggiormente il mondo naturale, più che quello civile. In questa interpretazione scorgiamo il carattere polisemico della Dipintura. Un’altra polisemia è riscontrabile nel fascio di luce che colpisce il petto della donna: la conoscenza totale, posseduta dal divino, arriva nel cuore degli uomini attraverso le arti, interpretazione che si ricollega al modello pedagogico vichiano, che vede nell’affettività umana, non solo nella razionalità, il fondamento della civilità. Altro elemento importante è lo zodiaco, in cui spiccano le figure del leone e della vergine, che simboleggiano rispettivamente le fatiche di Ercole e quindi l’azione civilizzatrice dei popoli della gentilità, e l’età dell’oro, epoca in cui i “bestioni” avevano creduto di vedere sulla Terra gli dèi. I “geroglif ici” nella Dipintura hanno proprio lo scopo di lasciare all’immaginazione dell’osservatore una libera interpretazione: anche in questo scorgiamo il carattere polisemico. 38.Presentare le principali nozioni della “Logica poetica” di Vico: La Logica poetica è il secondo capitolo del secondo libro (dedicato alla Sapienza poetica) della Scienza Nuova. In questo capitolo, l’autore contrappone il carattere puro della lingua ebraica, che rispecchia la vera essenza delle cose, e le lingue poetiche dei popoli gentili (“un parlare fantastico”). È importante sottolineare che, nella Logica poetica, Vico approfondisce i temi già trattati nella Metafisica poetica, adottando però una prospettiva prettamente linguistica. Con il termine “logica”, l’autore rimanda al greco “logos”, termine polisemico, traducibile sia con “linguaggio” sia con “ragione”. Con “poetica”, Vico vuole allontanarsi dal concetto di logica come “razionalità dispiegata”, caratterizzata da locuzioni astratte. Vico individua, dopo il diluvio universale, tre età che si susseguono nell’evoluzione dell’essere umano: l’età degli dèi (caratterizzata da una lingua con pochissime articolazioni), l’età degli eroi (caratterizzata da un mix di lingua “mutola” e articolata) e l’età degli uomini (caratterizzata dall’articolazione). A queste tre età, Vico collega l’organizzazione socio-polit ica dei popoli: l’organizzazione in clan governati dalla teocrazia, l’organizzazione della repubblica aristocratica e, infine, la repubblica popolare e la monarchia. Con l’espressione “lingue mutole”, il f ilosofo si riferisce alle lingue dell’umanità primordiale, formate dai sèmata, il che può assumere un significato filogenetico, inerente a uno stadio evolutivo del linguaggio nell’essere umano (infatti nei bambini di tutte le epoche si riscontra un’iniziale assenza di lingua). Sono le lingue degli dèi e degli eroi a rientrare in una dimensione poetica, in quanto “mutole” e caratterizzate dalla corporeità. Entrambe sono state create dai poeti e consistono in una comunicazione ancestrale, senza maschere. Anche Trabant afferma che, in queste due lingue, il “parlare” consiste nel “dare a qualcuno qualcosa da capire”. I caratteri poetici sono definiti “lettere”, intese come modalità espressive della fantasia e della metafora, con cui sono narrati i miti. I l passaggio dalla lingua degli dèi a quella degli eroi e a quella degli uomini consiste in un passaggio dal potere retorico delle immagini all’astrazione dei concetti. Un caso esemplare trattato da Vico è la creazione di Giove, primo atto linguistico performativo con funzione conativa (dei popoli della gentilità che, nel creare questo carattere poetico, escono dalla condizione di ferinità. L’atto linguistico è performativo in quanto il nome “Giove” non è una creazione statica, anzi, è proprio il dio che agisce impartendo ordini, comunicando il proprio dominio con l’immagine del fulmine e imponendo agli uomini di uscire dalla ferinità. Gli uomini delle origini si esprimono infatti con caratteri poetici che indicano “corpi”, fenomeni naturali. Come osserva Vico, all’origine di tutt’e tre le epoche c’è la necessità di comunicare, seppur con dispositivi diversi, accompagnata dalla carenza cognitiva. È nel “dizionario mentale comune” che Vico prova a categorizzare gli elementi comuni a diverse lingue. 39.Spiegare la dottrina delle tre lingue di Vico connettendola con l’assioma che afferma la nascita gemellare di lingue e lettere: Secondo delle interpretazioni anteriori alla filosofia vichiana, definite dal filosofo “mostruose”, le lingue sarebbero state le prime a nascere, mentre le lettere (i sistemi di scrittura), si sarebbero formate dopo le lingue. Il filosofo sostiene la tesi del parto gemellare di lingue e lettere. Le lettere corrispondono all’espressione di caratteri poetici, che caratterizzavano le lingue “mutole”, quindi i “bestioni” avrebbero comunicato con segni visivi e vocali, definiti dal filosofo con il termine “scrittura”. Gli uomini primordiali quindi, “parlavano scrivendo”. Come afferma Trabant, nel “parlare scrivendo”, Vico ingloba due aspetti differenti della semiosi: da una parte il parlare, lato funzionale della comunicazione, dall’altra lo scrivere, il lato materiale della comunicazione, la produzione di segni visivi. Lo scrivere si manifesta in luoghi quali il corpo, con la gestualità e gli atti linguistici, o negli oggetti stessi. Oltre allo scrivere, però, il “bestione” si serve della dimensione fonico-uditiva, anche se non ancora articolata, formata da onomatopee e interiezioni. È con il “parlar cantando” che il linguaggio inizia ad essere regolato. Per quanto riguarda la dottrina delle tre lingue, Vico costruisce questa teoria considerando due diverse prospettive: da un lato una prospettiva funzionale, che vede le tre modalità simboliche come coesistenti dall’origine; dall’altro lato una prospettiva diacronica, secondo cui una delle lingue abbia prevalso in una certa epoca. Nel caso di quest’ultima prospettiva, non è chiaro il motivo della prevalenza di una lingua sulle altre. Nel caso della prospettiva funzionale, invece, sembra che si presupponga un’interazione tra le tre lingue. La lingua degli uomini sarebbe il risultato di una degenerazione causata dalla separazione delle tre lingue. L’iniziale prevalenza delle lingue mutole (età degli dèi) viene man mano rimpiazzata dalla capacità astrattiva dei “parlari convenuti”: per Vico questa è una degenerazione, in quanto l’astrazione è un impoverimento della comunicazione, da un punto di vista etico ed estetico, in quanto si indebolisce il nucleo semantico, forte nella lingua degli dèi e degli eroi. Questa degenerazione sarebbe anche la causa della barbarie della rif lessione. Per esprimere questo concetto, Vico si serve della metafora delle acque dolci di un fiume che si gettano nel mare salato: non si mescolano subito all’acqua marina (il sale simboleggia qui la razionalità) e conservano la dolcezza, così come la lingua conserva la sua poeticità, la sua dimensione simbolica anche nelle lingue moderne. 40.Esporre la crit ica che Vico rivolge alla filosofia e al sapere della tradizione attraverso l’analisi della doppia boria, dei dotti e delle nazioni: Nella “Sapienza poetica”, secondo libro della Scienza Nuova, Vico spiega il carattere vario ed eterogeneo dei segni fin dall’inizio del loro percorso evolutivo e si afferma ancora una volta come critico delle degenerazioni razionalistiche. Il f ilosofo ha già sottolineato, nella Logica poetica, quanto la poeticità caratterizzi le esperienze culturali dei primi popoli, in contrapposizione al carattere prettamente razionale e astrattivo delle lingue degli uomini. In effetti, Vico, prende le distanze da queste modalità astrattive, nella Logica poetica, e identifica nella boria dei dotti e delle nazioni, tra loro complementari, l’origine. Ogni popolo è convinto di aver creato per primo “i comodi della vita umana” in tempi remotissimi e di averne memoria. Al contempo, i dotti proiettano indietro la propria sapienza e sono convinti di aver creato un “sapere antico quanto il mondo”. Eppure si tratta di una sapienza giovane. La sapienza poetica ha le sue radici proprio nell’ignoranza, è la sapienza delle prime rozzissime menti e ha origine nei bestioni senza lingua e conoscenza di Dio. Se pensiamo alla creazione dell’umanità secondo il modello biblico, possiamo affermare che all’origine gli uomini non possedevano la razionalità, dunque potevano servirsi solo della memoria e della fantasia. Altro esempio è l’interpretazione in chiave allegorica dei miti, frutto di un fraintendimento, visto che la razionalità non esisteva. È proprio a causa di quest’assenza di razionalità e del prevalere delle passioni che è stata inventata la divinità. Vico, con questa sua critica, decostruisce il logocentrismo, che vedeva all’origine del mondo la ragione, e anche l’etnocentrismo. Come afferma Lia Formigari, Vico rivolge una critica alla boria dei dotti e delle nozioni anche all’interno della sua filosofia del diritto (chiarendo che il diritto è subordinato al linguaggio): in tal senso, Vico crit ica la boria delle nazioni, convinte che un popolo trasmetta agli altri degli assetti giuridici. 41.Descrivere la nozione di senso comune e la dottrina del dizionario mentale comune: Vico riconosce la diversità delle culture umane, però individua in esse degli elementi comuni: la stessa umana necessità di comunicare e le stesse carenze cognitive. Il filosofo progetta così il “Dizionario mentale comune”, un progetto rimasto incompiuto, che avrebbe portato Vico al raggiungimento della comprensione totale della storia universale eterna e dell’evoluzione linguistica (aspetto non esplicitato chiaramente). Questa teoria viene esposta per la prima volta nell’edizione del 1725 della Scienza Nuova. Il progetto ha sì una base antropologica, ma il suo compimento avrebbe portato a una considerazione della dimensione cognitiva e della dimensione primitiva (“mutola”) dell’evoluzione del linguaggio. Vico è guidato, in questo progetto, da un principio metodologico che unisca filosofia e filologia: la filosofia non deve fermarsi alla contemplazione di un ideale astratto e la filologia deve arrivare a una concettualizzazione generale interpretando i particolari. Vico, in questa sua interpretazione, individua alla base di ogni cultura i “sensi comuni”, intesi come sistemi di credenze in cui una comunità si riconosce, nelle azioni sociali. Questo “senso comune” consiste in una dimensione affettiva che guida il percorso dell’essere vede in cima la divinità, poi i patres e, in modo indiretto, i famoli. L’esclusività del rapporto tra patres e divinità giustifica in qualche modo il potere dei patres sui famoli, i quali, solo grazie ai loro possono avere un accesso alla divinità. Vico parla anche di una dimensione orizzontale in cui le azioni dei patres coincidono con le azioni degli dèi. Come afferma Cantelli, i famoli si trovano in una condizione di “analfabetismo mitologico” e sono parte della società civile solo per ragioni utilitaristiche legate al volere dei patres e, il mondo simbolico utilizzato dai patres è a loro estraneo a causa degli stessi patres che impongono loro una condizione di ateismo anche linguistico. La religiosità dei famoli non viene accettata e con questo si nega loro anche l’umanità. Seguendo quest’interpretazione, sembra quasi che patres e famoli conducano le loro esistenze separatamente e che l’unica relazione sia quella del comando e dell’obbedienza, i famoli nei confronti dei patres e questi ultimi, a loro volta, nei confronti degli dèi. Hanno tutti e tre in comune la “bestemmia”, quella dei famoli rappresenta una ribellione verso i padroni, con cui hanno un’originaria relazione di inimicizia. Nonostante ciò, secondo Vico, il prestigio della dimensione simbolica dei patres viene loro attribuita dagli stessi famoli. A testimoniare ciò è anche un passo della Scienza Nuova in cui si descrive il modo in cui i famoli comprendano il linguaggio mitologico dei patres e lo riconoscano come simbolicamente superiore. Questo accade anche oggi: nella società contemporanea tendiamo a dare molta importanza ai titoli nobiliari. I famoli, per rivendicare la propria uguaglianza si servono di un’elaborazione simbolica propria, un mondo simbolico fatto di contromiti, che consistono in una risemantizzazione dei miti dei patres. Secondo Vico questa diversa semantizzazione dei miti da parte di due distinti gruppi di persone è il cuore della contrapposizione sociale tra nobili e plebei. In questa contrapposizione, in cui ciascun gruppo mira ai propri interessi, la relazione dei caratteri poetici viene infranta in quanto i due gruppi utilizzano l’ironia e il sarcasmo per non riconoscere l’esistenza dell’altro. È proprio l’ironia a condurre il plurisemiotismo delle origini verso la razionalità: solo nella collaborazione e nella condivisione dei miti può funzionare la razionalità. È con la stesura delle dodici leggi che si ha una prima vittoria dei plebei, leggi che non sono gestite dai patres, che presuppongono un’istanza egalitaria. Occorre precisare che fin dall’inizio si attiva in queste lotte una dimensione convenzionale in cui significato e significante vengono separati, cosa che non accade nei caratteri poetici. I l conflitto dirige dunque il linguaggio verso l’istituzione di “parlari convenuti”, verso un convenzionalismo linguistico. Come afferma De Mauro in una società in cui esistono classi dominanti, si va verso il monolinguismo. Cantelli sostiene che, in contrapposizione al convenzionalismo conquistato dai famoli, non in grado di utilizzare i caratteri poetici, i caratteri poetici hanno una funzione aggregante: i famoli, infatti, hanno bisogno di farsi convincere dalle “parole reali” dei patres. Quello che per i famoli sembra quindi una rivendicazione di uguaglianza, viene invertito dai patres che trasformano le loro attività rendendole intellettuali: è così che nasce la divisione tra arti liberali e servili. Questo dualismo si lega al rapporto mente-corpo, secondo Vico, in cui il gruppo che comanda, la mente, si afferma su un altro che obbedisce, il corpo. 44.Spiegare in che senso il conflitto tra patres e famoli conduce alla trasformazione del plurisemiotismo delle origini: In una visione deterministica in cui Vico oppone i famoli ai patres, in cui questi ultimi affermano il proprio dominio sugli altri tramite l’utilizzo dei caratteri poetici e tramite il loro rapporto con le divinità, già in origine “comandare” e “obbedire” sono azioni fondamentali da un punto di vista linguistico. Già la creazione di Giove, infatti, è un primo atto linguistico: pur essendo polisemico, è anzitutto un primo comandamento. In tal senso, sono le divinità ad aver fondato le civiltà attraverso riti religiosi come i matrimoni e i funerali. L’obbedienza assume un rapporto verticale di subalternità che vede in cima la divinità, poi i patres e, in modo indiretto, i famoli. L’esclusività del rapporto tra patres e divinità giustifica in qualche modo il potere degli uni sugli altri, i quali, solo grazie a loro possono avere un accesso alla divinità. Vico parla anche di una dimensione orizzontale in cui le azioni dei patres coincidono con le azioni degli dèi. Come afferma Cantelli, i famoli si trovano in una condizione di “analfabetismo mitologico” e sono parte della società civile solo per ragioni utilitaristiche legate al volere dei patres e, il mondo simbolico utilizzato dai patres è a loro estraneo a causa degli stessi patres che impongono loro una condizione di ateismo anche linguistico. La religiosità dei famoli non viene accettata e con questo si nega loro anche l’umanità. Seguendo quest’interpretazione, sembra quasi che patres e famoli conducano le loro esistenze separatamente e che l’unica relazione sia quella del comando e dell’obbedienza, i famoli nei confronti dei patres e questi ultimi, a loro volta, nei confronti degli dèi. Hanno tutti e tre in comune la “bestemmia”, quella dei famoli rappresenta una ribellione verso i padroni, con cui hanno un’originaria relazione di inimicizia. Nonostante ciò, secondo Vico, il prestigio della dimensione simbolica dei patres viene loro attribuita dagli stessi famoli. A testimoniare ciò è anche un passo della Scienza Nuova in cui si descrive il modo in cui i famoli comprendano il linguaggio mitologico dei patres e lo riconoscano come simbolicamente superiore. Questo accade anche oggi: nella società contemporanea tendiamo a dare molta importanza ai titoli nobiliari. I famoli, per rivendicare la propria uguaglianza si servono di un’elaborazione simbolica propria, un mondo simbolico fatto di contromiti, che consistono in una risemantizzazione dei miti dei patres. Secondo Vico questa diversa semantizzazione dei miti da parte di due distinti gruppi di persone è il cuore della contrapposizione sociale tra nobili e plebei. In questa contrapposizione, in cui ciascun gruppo mira ai propri interessi, la relazione dei caratteri poetici viene infranta in quanto i due gruppi utilizzano l’ironia e il sarcasmo per non riconoscere l’esistenza dell’altro. È proprio l’ironia a condurre il plurisemiotismo delle origini verso la razionalità: solo nella collaborazione e nella condivisione dei miti può funzionare la razionalità. È con la stesura delle dodici leggi che si ha una prima vittoria dei plebei, leggi che non sono gestite dai patres, che presuppongono un’istanza egalitaria. Occorre precisare che fin dall’inizio si attiva in queste lotte una dimensione convenzionale in cui significato e significante vengono separati, cosa che non accade nei caratteri poetici. I l conflitto dirige dunque il linguaggio verso l’istituzione di “parlari convenuti”, verso un convenzionalismo linguistico. Come afferma De Mauro in una società in cui esistono classi dominanti, si va verso il monolinguismo. Cantelli sostiene che, in contrapposizione al convenzionalismo conquistato dai famoli, non in grado di utilizzare i caratteri poetici, i caratteri poetici hanno una funzione aggregante: i famoli, infatti, hanno bisogno di farsi convincere dalle “parole reali” dei patres. Quello che per i famoli sembra quindi una rivendicazione di uguaglianza, viene invertito dai patres che trasformano le loro attività rendendole intellettuali: è così che nasce la divisione tra arti liberali e servili. Questo dualismo si lega al rapporto mente-corpo, secondo Vico, in cui il gruppo che comanda, la mente, si afferma su un altro che obbedisce, il corpo. 45.Analizzare l’interpretazione che Vico dà della nozione di mostro nella Scienza nuova: Come afferma Vico, la mostruosità è legata alle origini dell’umanità: i primi uomini sono infatti dei “bestioni” difformi rispetto alla norma. Dopo la separazione postdiluviana dei popoli, i giganti che hanno perso la conoscenza della divinità vagano per le selve e si rotolano nel fango lasciato dal diluvio. Così facendo diventano sempre più grandi ed è proprio questa robustezza a contrapporsi alla piccolezza di una mente tutta rintuzzata nel corpo. In questi giganti troviamo la ragione, ma solo in una modalità embrionale, governata dalle passioni. Quest’idea di mostruosità proposta dal filosofo pone le radici per la sua nozione di “mostro politico”. Vico parte da alcune nozioni del diritto romano che si riferiscono ai mostri: pare che il mostro sia il risultato di accoppiamenti avvenuti al di fuori dell’istituzione civile del matrimonio, nonché del conflitto tra i patres e i famoli. I patres, infatti, oltre a negare l’accesso ai caratteri poetici ai famoli, negano loro anche l’accesso alla sfera polit ica in quanto ritenuti fuori dalla norma. Per Vico, dato che il diritto romano si occupa solo dell’ordinario, la società non si occupa della sorte dei bambini deformi, nati dai mostri, però si occupa di legiferare sulle unioni promiscue, prive di un fondamento matrimoniale, a cui i famoli sono costretti, visto che viene loro negato l’accesso all’istituzione matrimoniale. Seguendo quest’interpretazione, Vico trova le basi della concezione di mostro nella mitologia dei plebei, in cui troviamo il dio Pan, una divinità deforme che ride insieme ai satiri; un riso associato alla derisione dei rituali e delle cerimonie dei famoli da parte dei patres. La derisione viene quindi utilizzata dai due gruppi per misconoscere il loro antagonista. Quindi da una parte abbiamo i patres che affermano la mostruosità dei famoli, ma dall’altra troviamo questi ultimi che proiettano positivamente il proprio stigma sul dio Pan. Tuttavia, per Vico, la vera mostruosità risiede nella derisione da parte dei patres, nella loro affermazione di superiorità simbolica e civile. Si tratta quindi una mostruosità etica, frutto della razionalità: da una parte troviamo i patres che considerano i famoli “mostri”, dall’altra i famoli considerano “mostri” i patres in quanto non consentono loro l’accesso alle istituzioni del mondo civile. In questa relazione antagonista è possibile individuare la barbarie della rif lessione: il “mostro politico” che fa riferimento ai famoli ne misconosce l’umanità, diventa un “mostro etico” nel regime dei “parlari convenuti”. Osservando il concetto di mostro da un altro punto di vista, possiamo arrivare al concetto di “mostro poetico”, che riflette il procedere dell’attività immaginativa alla base dell’attività simbolica delle origini: dato che non si riesce a fare riferimento a delle categorie astratte si adotta un meccanismo di unione di elementi eterogenei del mondo materiale, meccanismo analogo al gesto del falciare tre volte con cui l’uomo dell’origine simbolizzava il concetto di anno, relazione metaforica. Anche le metamorfosi sono da considerarsi elemento affine ai mostri poetici dato che, attraverso le trasformazioni dei corpi vengono simboleggiati quei cambiamenti sociali, politici e simbolici che la mente dell’uomo delle origini non riusciva ad astrarre. Il cuore del mostro poetico è dunque l’assenza di razionalità nella mente. La mostruosità sembra quindi incarnare il modo di procedere dell’immaginazione, che unisce con creatività elementi che in precedenza non erano stati colti. La mostruosità classi, la coesistenza fin dalle origini di un convenzionalismo linguistico (che consiste nella separazione tra significato e significante). 48.Presentare l’ambivalenza della posizione vichiana per quanto riguarda la relazione tra classe dominante e classe subalterna e l’evoluzione dei rapporti tra le due classi: La superiorità dei patres rispetto ai famoli trova il suo punto di forza, secondo Vico, nella naturalità dei sèmata. I patres hanno quindi il monopolio del potere sociale, mentre le ribellioni dei famoli hanno un effetto disgregante, che li riporta nello stato primigenio privo di leggi. Per esemplificare le trattative tra patres e famoli, Vico presenta la figura di Mercurio. Le trattative sono condotte dai patres con l’uso di “parole reali” e cercano così di domare i famoli, i quali invece interpretano i segni attribuendo significati convenzionali, non visibili ai patres. Come affermano Brook e Fortuna, questa contrapposizione di classi si esprime in prospettiva culturale con la separazione tra arti liberali e servili, elemento portante del plurisemiotismo vichiano. Le arti servili, nel corso del tempo, favoriranno il successo sociale dei plebei, mentre quelli liberali resteranno un privilegio dei patrizi. Nel quinto capitolo della Scienza Nuova, “Politica poetica”, Vico presenta la dialettica patres-famoli e la paragona alla relazione mente-corpo: quest’affermazione presenta però alcune ambiguità, in quanto, se da un lato la lingua degli dèi e degli eroi è fatta di “atti” e “corpi”, frutto di menti “particolarissime”, nella struttura gerarchica di tali governi, tale aspetto viene invece attribuito ai famoli. Come afferma Vico, nel “fare poetico” dei patres domina già una dimensione mentale (che coincide con la dimensione religiosa); tuttavia, descrive gli Ercoli, che compiono imprese portatrici di civiltà, come uomini che coltivano la terra, attività che, nell’età degli eroi, sarà esclusiva dei famoli. Posto che nel modello plurisemiotico di Vico l’evoluzione sembra tendere a una situazione finale di uguaglianza, dichiarare la necessità universale di una contrapposizione patres- famoli sembra poco coerente con il suo sistema. Probabilmente il f ilosofo ha bisogno di muoversi in modo strategico nel contesto storico in cui vive. A risolvere quest’ambiguità è la sua posizione particolare: Vico era di umili origini ed era giunto in ambito accademico a importanti risultati che allora erano appannaggio esclusivo delle classi nobili. Forse è proprio questo che porta il filosofo ad accettare i valori “eroici” delle arti liberali e a comprendere la motivazione dei famoli. I l suo schierarsi con i patres potrebbe essere anche dovuto a ragioni di opportunità, dal desiderio di mettersi alle spalle il proprio passato umile. Nonostante ciò, Vico coglie le ragioni legittime delle azioni dei famoli. 49.Spiegare in che senso è possibile individuare una concezione diversa di ironia legata alla funzione della Provvidenza che diverge da quella caratteristica dell’età degli uomini: Come Vico afferma nel capitolo conclusivo della Scienza Nuova, la Provvidenza agisce spesso in modo diverso o addirittura contrario rispetto ai fini che si sono proposti gli uomini, con lo scopo di “conservare l’umana generazione in questa terra”. Questo modo di agire della Provvidenza potrebbe essere sintetizzato nella locuzione “ironia della sorte”, dato che gli esseri umani agiscono, sì, ma gli effetti delle loro azioni sono spesso molto diversi dalle intenzioni iniziali, se non contrarie. Vico spiega la sua affermazione con due esempi: l’istituzione del matrimonio e la formulazione delle leggi delle dodici tavole. Il matrimonio sarebbe un mezzo che usano gli uomini per “usar la libidine bestiale” e istituzionalizzarla con lo scopo di originare le famiglie; mentre le leggi sarebbero un espediente per facilitare l’abuso dei patres sui famoli, anche se il loro scopo dovrebbe essere la “libertà popolare”. Vico si serve della figura della Venere bestiale, l’anarchia sessuale che determina il contrario della rigida istituzione della famiglia monogamica, mentre le leggi apparentemente rigide sanciranno l’uguaglianza tra le classi. L’ironia della Provvidenza risiede nel mutamento di significato dell’agire storico umano proprio in ragione del suo sguardo d’insieme che dà un altro senso alla storia. Non c’è una contrapposizione assoluta tra l’agire storico e la funzione antintellettualistica della Provvidenza, anzi, il rovesciamento ironico consiste nel fatto che non c’è un controllo razionale della storia. Come ha affermato più volte Vico, infatti, alle origini dell’umanità non esiste razionalità, il principio aggregante è invece la capacità simbolica dell’immaginazione. La Provvidenza, quindi, lascia andare la storia secondo le leggi antropologiche, il che testimonia la presenza del libero arbitrio dell’uomo, che va oltre le manovre della Provvidenza. La dimensione etica si fonda sulla libertà di giudicare la storia con lo scopo di cambiare in meglio. Se da un lato gli agenti storici limitano l’orizzonte, dall’altro lato è la Provvidenza ad ampliarli. In quest’analisi, Vico si pone come filosofo e filologo, che, grazie alla capacità del distacco e dell’ironia, legge i fatti e li dispone in quest’orizzonte. Secondo Brook e Fortuna, l’orizzonte aperto dalla Provvidenza è un orizzonte che “eccede” e che riesce a superare la singolarità dei fatti storici, fatti comuni a ogni epoca e all’intera umanità, andando oltre l’hic et nunc, in una continua dislocazione nel tempo e nello spazio. 50.Presentare i principali elementi della teoria degli atti linguistici di Austin in connessione con il modello di ironia come rovesciamento delineato da Russo Cardona: Nel testo “Le peripezie dell’ironia” di Tommaso Russo Cardona, da considerare il testamento filosofico di quest’autore prematuramente scomparso, l’ironia viene presentata, seguendo la terminologia del linguista Austin, come un “atto linguistico antiperformativo”. Austin, nella sua opera “Come fare cose con le parole”, rielabora le nozione di “gioco linguistico” proposta dal secondo Wittgenstein e si oppone alla considerazione di verità degli enunciati esclusivamente connessa al senso, proposta dalla maggior parte dei filosofi analitici. Austin si concentra anche sulla forza assertoria degli enunciati, proposta da Frege, e cerca di delineare una teoria degli atti linguistici in senso strettamente pragmatico, analizzando dei tipi di enunciato che mirino a trasformare la realtà o la condizione sociale dell’individuo (come ad esempio avviene nella frase “Vi dichiaro marito e moglie”). Enunciati di questo tipo sono performativi, poiché non hanno lo scopo di descrivere una porzione di realtà, bensì di modificarla. Le condizioni di felicità rendono un enunciato effettivamente performativo: se l’atto linguistico ha successo, allora l’enunciato raggiunge la felicità (in effetti, a pronunciare la frase “Vi dichiaro marito e moglie” dev’essere per forza una persona a cui è attribuita una specifica funzione, come un sindaco). Esistono tre tipi di atti linguistici: l’atto locutorio, che consiste in un enunciato dotato di espressione e significato; l’atto illocutorio, che consiste nel compimento, al momento dell’enunciazione, di un’azione; l’atto perlocutorio, che consiste nell’effetto che il parlante intende produrre sul pensiero e sulla volontà dell’interlocutore. Il filosofo parla anche di condizioni di svuotamento di senso, che si verificano quando, come dice Wittgenstein “la lingua gira a vuoto”, cioè perde di perspicuità. Secondo Wittgenstein, la causa di ciò è dovuta alla presenza di un’opacità nella lingua: determinate formule linguistiche vengono ripetute meccanicamente senza costituire un’esperienza significativa. Austin si interroga sul motivo per cui, nel performativo esplicito (“prometto che…”), lo svuotamento di senso sia così facile: Russo Cardona giunge alla conclusione che alle origini del linguaggio i performativi avevano una forma implicita, quindi i termini che potevano essere usati per impegnarsi, come “promettere” e “giurare”, potevano avere anche altri significati, In effetti, anche Vico afferma che, nelle prime età della storia umana, l’impegno doveva essere dichiarato da gesti eseguiti in modo assolutamente scrupoloso, per evitare qualsiasi ambiguità di comunicazione (gli uomini delle origini, infatti, erano pienamente coscienti del carattere polisemico dei gesti). Secondo Austin, il problema dello svuotamento di senso è causato dal passaggio dall’atto performativo implicito a quello esplicito: il performativo implicito è infatti ambiguo, per cui è necessario un perfezionamento. Anche nella Scienza Nuova è descritta questa forma di convenzionalismo dell’espressione, che si ritualizza sempre più. È proprio questa perdita di regole e formule che, attraverso una precisa ritualizzazione, coinvolgeva tutto il corpo, portando alla meccanicizzazione dell’atto linguistico e al suo svuotamento di senso. Andando incontro al convenzionalismo, il significato viene avvertito come arbitrario rispetto al significante, si ha un calo del coinvolgimento affettivo, e l’atto linguistico diventa facile bersaglio dell’ironia. Il distacco ironico richiede una competenza rif lessiva che Cardona chiama “metapragmatica” o “epipragmatica”: l’espressione ironica, quindi, esula dal contesto e non aderisce più alla sua forma pragmatica. Da una parte il carattere metapragmatico dell’ironia consiste nella sua capacità di prendere a oggetto le condizioni di felicità, dall’altra, il carattere antiperformativo dell’atto linguistico risiede nella sua capacità di fare ciò con “un enunciato inappropriato alle condizioni d’uso presenti”. I l carattere implicito dell’antiperformativo si basa su un’intenzionalità determinata da pratiche linguistiche comuni, l’enunciato ironico funge così da origine per l’esplorazione semantica. 51.Descrivere la concezione di ironia sviluppata dal filosofo del linguaggio Tommaso Russo Cardona facendo riferimento al suo carattere antiperformativo: Russo Cardona, per spiegare la sua interpretazione di ironia, parte dalla nozione greca di “peripezia”(rovesciamento). È Aristotele ad utilizzare questo termine riferendosi al rovesciamento tipico della tragedia greca, in cui l’eroe si confronta con un ribaltamento di prospettiva che inverte il significato degli eventi: un esempio di cui si serve Cardona è la tragedia “Edipo re” di Sofocle. Con “ribaltamento di prospettiva” ci riferiamo alla duplice interpretazione dei segni formulata dalla Gestalt: guardando l’immagine che raffigura il coniglio o l’oca, la figura assume infatti un significato diverso a seconda della prospettiva, proprio come accade nel caso del rovesciamento ironico. L’ironia, sia per Russo Cardona sia per Vico (nella descrizione della Provvidenza), di fronte alla cecità degli agenti storici che non hanno accesso alla totalità né son in grado di passare da un aspetto all’altro degli eventi, è capace di cambiare prospettiva e cogliere la complessità e la sovrapposizione dei sensi. Nella cartesiano , ponendo la favella tra mente e corpo. Per Vico è importante andare oltre il modello di razionalità che categorizza la società in base alle diversità legate al corpo e all’attività immaginativa . Tornando alle leggi sopracitate, possiamo affermare che esse hanno in comune, come la filosofia di Vico, la messa in discussione dell’idea di una normalità ristretta , e cercano di creare una società capace di entrare in dialogo con il diverso. 53.Connettere il plurisemiotismo di Vico con il modello di educazione linguistica democratica sviluppato da Tullio De Mauro: Il linguista Tullio De Mauro, a partire dagli anni ’60 del Novecento, sviluppa i principi dell’educazione linguistica democratica, fondati sul principio dell’educazione plurilingue. In particolare, il linguista parla di “multilinguismo” per definire la compresenza in una stessa comunità di più lingue. Un punto di svolta è la fondazione, nel 1973,del Giscel (Gruppo di intervento e studio nel campo dell’educazione linguistica), il cui manifesto sono le dieci tesi per l’educazione linguistica democratica. Secondo il linguista, il sistema monolinguistico, basato sull’insegnamento di una sola lingua, andrebbe a privilegiare lo studio di quella lingua e della cultura a cui essa appartiene a scapito di tutti gli altri linguaggi. Nel sistema educativo tradizionale, è stato utilizzato il monolinguismo come metro di selezione che ha incasellato le differenze linguistiche, i dialetti rispetto all’italiano standard, tutte le altre espressioni simboliche, verbali e non verbali, in un sistema che metteva al centro dell’insegnamento la produzione scritta, a cui gli studenti erano obbligati ad adeguarsi per non rischiare l’insuccesso scolastico. Il linguista tiene a sottolineare come la storia linguistica italiana sia caratterizzata dalla vitalità dei dialetti, che oltre ad arricchire la lingua italiana, costituiscono un importante tassello culturale. De Mauro ha come obiettivo la democratizzazione del sistema scolastico e, per fare ciò, deve necessariamente considerare la diversità degli stili cognitivi, nonché le potenzialità, di tutti gli studenti, inclusi coloro che sono affetti da disabilità, a prescindere dal contesto sociale d’appartenenza. Il linguista parte dalla valorizzazione della variabilità linguistica: questo comporta, sul piano antropologico, la decostruzione di un modello di normalità ( usando i termini della filosofia vichiana, a un avvicinamento al “mostro”), non più condivisibile in quanto artefatto di una classe dominante che fa di tutto per mantenere i suoi privilegi. I l pensiero di De Mauro si presenta, quindi, non solo come una proposta educativa, ma anche come un’azione di politica linguistica, risultato di una serie di riflessioni filosofiche e linguistiche e del dialogo costante con altri studiosi, pedagogisti e insegnanti. Occorre inoltre precisare che, come hanno dimostrato le ricerche portate avanti dalla scuola romana di Pagliaro, di cui De Mauro è stato uno dei protagonist i, parte di questo percorso si deve alla filosofia vichiana. È infatti fondamentale, per arrivare a un’educazione linguistica democratica, la valorizzazione del plurilinguismo, in cui la dimensione plurisemiotica è centrale. 54.Esporre in maniera sintetica la crit ica che De Mauro propone al sistema scolastico tradizionale nelle dieci tesi del Giscel: Tullio De Mauro, con il suo progetto di educazione linguistica democratica, è stato uno dei protagonisti del rinnovamento del sistema scolastico italiano. È anche grazie a lui che oggi la scuola italiana, la scuola dell’inclusione, si distingue dalle altre realtà esistenti nell’Unione Europea. De Mauro ha rif lettuto dunque sulla condizione della scuola negli anni ’60 insieme a un gruppo di insegnanti ed ha elaborato una le famose dieci tesi del Giscel (Gruppo di intervento e studio nel campo dell’educazione linguistica). Per De Mauro, il plurilinguismo è la modalità adatta per includere tutti gli studenti nella formazione scolastica: per plurilinguismo si intende infatti sia la condizione di chi parla una lingua diversa da quella ufficiale dello Stato in cui vive (basti pensare ai migranti o alle famiglie in cui si comunica solo attraverso il dialetto), sia la condizione di chi possiede abilità linguistiche diverse da quelle considerate “normali”. Nell’Italia di allora, vigeva infatti l’idea di una lingua dominata dal grammaticalismo e il metodo di valutazione dominante era la produzione scritta, che di certo poteva costituire uno svantaggio per alcuni studenti. Il plurilinguismo non è da considerarsi una condizione accidentale solo di alcune comunità o di singoli individui, bensì una condizione fondamentale della specie umana, di cui una caratteristica fondamentale è la comunicazione. Quindi, se il plurilinguismo non viene coltivato e se vengono represse tutti i modi di esprimersi considerati scorretti rispetto alla lingua ufficiale, non solo vengono represse le potenzialità intrinseche dell’essere umano, ma si corre anche il rischio di imporre il monolinguismo. De Mauro individua, nel sistema scolastico a lui contemporaneo, tre grandi fallacie: la prima è la concezione strumentalista, che considera la lingua come strumento di comunicazione, una concezione riduttiva, dato che implica il fatto che una lingua non può essere cambiata come si cambia un abito, abito scelto in base al suo prestigio. Questo prestigio è dato dal fatto che lo Stato abbia scelto quella determinata lingua come lingua nazionale. La conseguenza di questa concezione è che si possa chiedere ai bambini stranieri o dialettofoni di abbandonare le loro lingue madri senza che ciò incida sul loro percorso di crescita. Inoltre, lo strumentalismo comporta che la mente delle persone sia come un contenitore che non può contenere entrambe le lingue: se entra una lingua, l’altra deve uscire. Questa convinzione ha portato molte famiglie ad abbandonare la lingua madre pensando di favorire l’acquisizione dell’italiano nei loro figli e il risultato è stato una situazione di bilinguismo sottrattivo. La seconda fallacia consiste nella concezione tradizionale di errore: non esiste un’idea assoluta di errore e De Mauro chiama in causa quelle formulazioni, presenti nell’interlingua, che devono essere superati in quanto scorrette. Eppure nel corso della storia queste espressioni scorrette si sono assestate e hanno sostituito le formulazioni considerate corrette. È quindi importante considerare le lingue come entità viventi che subiscono evoluzioni determinate dai parlanti (qui si riscontra l’idea di lingua come “energeia” proposta da Humboldt). De Mauro descrive la terza fallacia modificando una locuzione latina: “cuius regio eius sermo” (in cui “sermo” sostituisce “religio”). Il linguista si oppone all’idea che per la lingua debba valere ciò che per gli antichi romani doveva essere per la religione, cioè che essa debba essere determinata dalla comunità polit ica di riferimento. Il monolinguismo, infatti, è proprio una conseguenza della formazione degli Stati nazionali, nonostante le comunità plurilingue e multiculturali siano sempre esistite. Eppure si rit iene che vi sia una connessione naturale tra formazione dello Stato e monolinguismo: questa teoria renderebbe difficile la valorizzazione del plurilinguismo, dato che ogni Stato ha interesse a tutelare solo la propria lingua. De Mauro, nella sua critica al grammaticalismo, sottolinea che la lingua non è un calcolo, bensì un sistema aperto caratterizzato dall’indeterminatezza semantica e intrinsecamente legato ai contesti d’uso. Una prova di questo tessuto plurisimbolico di cui si compone la lingua è l’ellissi, un’espressione grammaticale apparentemente incompleta, ma che invece testimonia il plurisemiotismo che fa di una lingua una lingua. Questi concetti vengono condensati da De Mauro nelle dieci tesi per l’educazione linguistica democratica: qui vengono ribadite le caratteristiche specifiche degli esseri dotati di linguaggio, allargando la dimensione linguistica a quella semiotica, che investe anche la corporeità (come nel caso delle lingue mutole vichiane), e criticando la pedagogia tradizionale, che considera gli alunni solo nella loro dimensione mentale. Per imparare bene a parlare, infatti, è necessario sapersi muovere, saper compiere e descrivere le operazioni manuali. L’educazione deve quindi superare il dualismo cartesiano, che vede corpo e mente come due dimensioni separate. Altro aspetto fondamentale, proposto nella seconda tesi, è la socializzazione, mezzo necessario per favorire l’apprendimento, essa deve iniziare fin dalla scuola dell’infanzia, anche con lo scopo di colmare un divario sociale. Il progetto di De Mauro intende quindi aderire anche a un progetto sociale, che miri a una società più egalitaria. Nella terza tesi viene evidenziata l’attenzione alle varie capacità dello studente, in polemica con la tradizionale predilezione per la forma scritta. La dimensione orale e gestuale è invece caratterizzata da un maggiore plurisemiotismo. Inoltre, questa pedagogia tradizionale è definita da De Mauro pigra e inefficace: non riesce a includere chi proviene da ambienti più disagiati né a sviluppare le capacità degli studenti più avvantaggiati. 55.Esporre in maniera sintetica le strategie per la trasformazione dell’educazione linguistica proposte in alcune delle dieci tesi del Giscel: Tullio De Mauro, con il suo progetto di educazione linguistica democratica, è stato uno dei protagonisti del rinnovamento del sistema scolastico italiano. È anche grazie a lui che oggi la scuola italiana, la scuola dell’inclusione, si distingue dalle altre realtà esistenti nell’Unione Europea. De Mauro ha rif lettuto dunque sulla condizione della scuola negli anni ’60 insieme a un gruppo di insegnanti ed ha elaborato una le famose dieci tesi del Giscel (Gruppo di intervento e studio nel campo dell’educazione linguistica). Per De Mauro, il plurilinguismo è la modalità adatta per includere tutti gli studenti nella formazione scolastica: per plurilinguismo si intende infatti sia la condizione di chi parla una lingua diversa da quella ufficiale dello Stato in cui vive (basti pensare ai migranti o alle famiglie in cui si comunica solo attraverso il dialetto), sia la condizione di chi possiede abilità linguistiche diverse da quelle considerate “normali”. Le ultime tesi proposte da De Mauro si occupano in particolare del ruolo che l’insegnante deve assumere nell’educazione linguistica democratica elaborata nelle dieci tesi. Gli insegnanti dovrebbero completare e arricchire continuamente la loro formazione acquisendo non solo competenze sul linguaggio e le lingue ma anche sui processi educativi e le tecniche didattiche. Un insegnante dotato di consapevolezza critica è capace di creare gli strumenti adatti per rispondere ai bisogni di ciascun individuo. Il docente, utilizzando i dati raccolti nel monitoraggio della situazione partenza del singolo alunno, deve essere in grado di nutrire il plurisemiotismo intrinseco dell’essere umano, con lo scopo di raggiungere gli obiettivi pianificati, che non devono necessariamente essere uguali per tutti né con risultati identici. Chiaramente le ricerche riguardanti l’educazione linguistica democratica sono in continua evoluzione, motivo per cui la formazione linguistica, semiotica e
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