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Risposte secondo parziale Sociologia della cultura. Scienze politiche A-E, Appunti di Sociologia Dei Processi Culturali

Domande e risposte del secondo parziale di sociologia della cultura, scienze politiche A-E, Paola Parmiggiani

Tipologia: Appunti

2021/2022

In vendita dal 23/03/2023

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Scarica Risposte secondo parziale Sociologia della cultura. Scienze politiche A-E e più Appunti in PDF di Sociologia Dei Processi Culturali solo su Docsity! Domande sociologia della cultura Griswold W., Sociologia della cultura, il Mulino, 2005, CAPITOLO 5, La costruzione culturale dei problemi sociali ✓ Cosa intende la Griswold quando afferma che i problemi sociali sono il frutto di una costruzione culturale? Esempio: la definizione dell’AIDS da peste gay a problema sociale dell’intera comunità ✓ Cosa si intende per “carriera di un problema sociale”? Esempio: AIDS ✓ Ruolo dei “claims-makers” (fabbricanti di questioni) nella definizione dei problemi sociali. I problemi sociali sono costruzioni. L'essenza dell’approccio costruttivista è che i problemi sociali potenziali non sono fatti oggettivi, ma sono invece produttori significati. E solo quando una situazione ha significato per uno specifico gruppo di persone, e questo significato è negativo, che essa può essere definita come un problema sociale. In altre parole, un problema sociale è un oggetto culturale ed è prodotto da agenti specifici chiamati «fabbricanti di questioni» (claim-makers o attori significativi legittimati a sollevare problemi socialmente rilevanti). Viene interpretato da uno specifico gruppo di ricevitori, cioè il «pubblico» interessato dalle questioni fabbricate. «In parole povere, un problema sociale viene fabbricato quando un pubblico giudica che la questione sollevata è credibile». Se i ricevitori accettano la definizione dei produttori abbiamo una questione, e se si mobilitano per agire, abbiamo un movimento sociale. Se i problemi sociali sono culturalmente definiti, è ragionevole attendersi che essi aumentino e calino in popolarità nel corso del tempo. È possibile spiegare come avviene «il sorgere e il declino dei problemi sociali». Si immagini un'arena pubblica in cui ha luogo una competizione tra le situazioni che potenzialmente possono etichettarsi come problemi sociali. Questa competizione si realizza in due forme: 1) nella definizione o nell'inquadramento dello stesso problema; 2) nella cattura dell'attenzione delle istituzioni le cui risorse o «capacità di azione» sono limitate. Quelle situazioni che vengono selezionate come problemi sociali sono fenomeni che hanno caratteristiche specifiche: esse sono o possono essere drammatizzate; trattano temi mitici profondamente radicati nella cultura; e sono politicamente vitali, spesso perché collegati a potenti gruppi di interesse. I vincitori di questa competizione acquisiscono lo statuto di problemi sociali ampiamente riconosciuti. Consideriamo come esempio l'epidemia di AIDS. Nei primi anni Ottanta, divenne chiaro che una nuova malattia, altamente contagiosa e invariabilmente fatale, implicante il collasso del sistema immunitario, si stava diffondendo ovunque. Ma questo accadde parecchi anni prima che le arene pubbliche raccogliessero l'allarme e identificassero l'AIDS come un grande problema sociale. Entro la subcultura gay americana, una forte enfasi sulla libertà sessuale come forma di espressione politica significò che, per qualche tempo, le raccomandazioni dei medici circa il sesso sicuro non ebbero ascolto. La malattia si diffuse rapidamente in tutta la sua drammaticità, resa evidente specialmente dalle molte vittime giovani, ma pochi media sfruttarono inizialmente il suo potenziale drammatico, perché si pensava che essa fosse confinata ai membri di un gruppo stigmatizzato. Lo stesso accadde fuori dagli Stati Uniti. Per parecchi anni, i governi dell'Africa orientale furono riluttanti a parlare di AIDS, nonostante le dimensioni dell'epidemia nei loro paesi, perché associavano la malattia al comportamento omosessuale maschile, che gli africani considerano aberrante. A causa di questa associazione, la malattia era «culturalmente impossibile» e pertanto non meritava riconoscimento in quanto problema sociale. Una volta che l'AIDS non poteva essere più ignorato, si scatenò una competizione sulla definizione del «problema»; era l'AIDS segno di promiscuità sessuale oppure era la stessa omosessualità? Il punto di vista dei gay venne aiutato dal loro alto livello di istruzione, dalla saggezza politica e dall'accesso ai media e alle arti. Alla metà degli anni Ottanta, i gay e i loro sostenitori avevano già drammatizzato l'epidemia in modi molto efficaci, attraverso spettacoli teatrali, attraverso libri e attraverso rituali pubblici. Alcune celebrità diedero il loro contributo, sia quelle che morirono di AIDS sia quelle che utilizzarono la propria fama per chiedere fondi per la ricerca. Non solo le associazioni gay si impegnarono nell'attività di pressione politica, ma la rapida diffusione della malattia tra la popolazione non gay rimosse il marchio negativo associato ad essa; se la «gente normale, decente» poteva contrarre l'AIDS attraverso un'ordinaria trasfusione di sangue, allora questo diventava un problema di tutti. L'attenzione dei media continua ad essere costante, come nella celebre pubblicità della Benetton che mostra non i vestiti dell'azienda ma una famiglia che sorregge un giovane uomo che sta morendo di AIDS. Gli oggetti culturali legati all'AIDS pretendono attenzione: spettacoli e film incentrati sull’AIDS vennero premiati. Alcuni attivisti sono peraltro preoccupati che la diffusione della malattia tra gli eroinomani unita alla sua bassa incidenza fuori da questi due gruppi possa alla fine ridurre la sua importanza come problema sociale. La carriera dell'AIDS offre un chiaro esempio di come i valori e i temi culturali plasmino (o impediscano) la definizione stessa di problema sociale. Anche questo è un oggetto culturale, con qualcuno che lo produce o lo crea (in quanto problema sociale), qualcuno che costituisce il suo pubblico o audience, ed una rete di significati che gli interpreti usano per connetterlo al mondo sociale. Non tutti i problemi sociali sorgono con la relativa velocità dell'AIDS, comunque. Una volta che i suoi promotori (fabbricanti di questioni, agenti) sono riusciti a fare in modo che diventi un problema sociale (come oggetto culturale), per risolverlo deve connettersi a un pubblico (come ricevitore) in modo tale che alcuni dei ricevitori siano spinti all'azione. ✓ Etnia come oggetto culturale. Anche l'identità può essere vista o come oggettiva o come costruita. La riflessione più recente ha enfatizzato la visione costruttivista, che concepisce le identità come malleabili, fluide, soggette all'interpretazione. Le persone possono facilmente cambiare la propria appartenenza di gruppo, le cause che sostengono, le persone con cui passano il tempo. Con più sforzo, possono cambiare i propri legami religiosi o istituzionali, l'aspetto fisico, l'occupazione; con uno sforzo ancora maggiore, possono cambiare la propria cittadinanza o le proprie caratteristiche sessuali. Alberto Melucci ha affermato come l'identità collettiva non sia una condizione ma un processo, altrimenti si può parlare solo etichette, categorie che poco hanno a che fare con il comportamento. L'identità collettiva è una definizione interattiva e condivisa prodotta da diversi individui interagenti interessati all'orientamento del loro agire così come al campo di opportunità e vincoli in cui tale agire avviene. Il processo di costruzione, mantenimento e alterazione di una identità collettiva fornisce agli attori la base per formare le proprie aspettative e calcolare costi e benefici del loro agire. La formazione dell'identità collettiva è un processo delicato e richiede investimenti continui. Quando comincia ad assomigliare a forme più istituzionalizzate di azione sociale, l'identità collettiva può cristallizzarsi in forme organizzative. In forme meno istituzionalizzate d'azione assomiglia più da vicino a un processo che deve essere continuamente attivato perché l'azione sia possibile. Quando un'identità collettiva viene attivata, produce un modo di pensare condiviso, una mente sociale, che considererà certe situazioni come problematiche e bisognose d'intervento. Questa attivazione cognitiva può portare all'azione. Consideriamo il caso della razza e dell'etnia. Il modello generale della convergenza era compatibile con una visione di finale assimilazione razziale ed etnica, nota negli Stati Uniti come il crogiolo di razze (melting pot = le culture e le identità specifiche degli immigrati sarebbero destinate a fondersi con quelle del paese di accoglienza), mentre le differenze etniche e, in ultima analisi, razziali si sarebbero sciolte in un’identità americana integrata. Fuori da questo paese la teoria della modernizzazione sosteneva l'idea del «villaggio globale» in cui la tecnologia mediale avrebbe interconnesso tutta l'umanità. In questa concezione, le differenze razziali ed etniche, e anche i confini nazionali stavano diventando sempre meno importanti. Negli Stati Uniti, il movimento dei diritti civili portò la mancata assimilazione degli afroamericani al cuore della coscienza americana. Poco dopo, altri gruppi etnici - gli indiani d'America, i polacchi, gli irlandesi - presero a rivendicare l'orgoglio etnico, imitando la forza della retorica del black pride, e il vecchio ideale del melting pot non sembrò più né accurato né desiderabile. Questo mutamento si realizzò in tutto il mondo: i leader nazionalisti dei nuovi paesi indipendenti e la generazione di leader politici che li seguì rigettarono il modello della convergenza e affermarono la propria specificità. Le nazioni del Terzo Mondo dichiararono la propria indipendenza dalla modo e non in altri ugualmente possibili; è la ragione per cui il problema negli Stati Uniti è «la gravidanza adolescenziale», e non «bambini poveri» o la «limitata disponibilità alla contraccezione»: gli americani considerano un problema sociale la gravidanza adolescenziale. Per gli Hausa della Nigeria, dove la maggior parte delle ragazze si sposa a 12 o 13 anni, sono le giovani donne che arrivano a 20 anni senza avere avuto almeno uno o due bambini che rappresentano un problema sociale. Le streghe sono un problema sociale in Nigeria: casi di sospetta stregoneria vengono puniti con la morte, così come viene uccisa gente innocente (spesso bambini) per fabbricare rimedi contro le streghe. Se la gente definisce una situazione come reale, essa sarà reale nelle sue conseguenze. Supponiamo che l’oggetto culturale sia «droghe illegali che entrano in America minacciando i suoi cittadini». Il creatore di questo oggetto culturale è il governo, i ricevitori i cittadini e la soluzione una «guerra alla droga»: i creatori culturali creano problemi per cui hanno soluzioni. Se l’oggetto culturale fosse stato «la povertà e la disperazione che producono una fuga dalla realtà tramite narcotici», allora la soluzione non sarebbe stata la guerra, ma la mitigazione della povertà e della disperazione, qualcosa che i governi sono meno capaci di fare. • Musarò P., Parmiggiani P., Ospitalità mediatica, FrancoAngeli, 2022, CAPITOLO 2, La mediatizzazione del fenomeno migratorio Ruolo dei media nel processo di costruzione dei problemi sociali: ✓ I dispositivi attraverso cui i media partecipano alla costruzione/definizione dei problemi sociali: notiziabilità (newsmaking), salienza o agenda setting, framing, spirale del silenzio; echo chambers, fake news, hate speech Mediatizzazione e percezione del fenomeno migratorio in Italia: ✓ Polarizzazioni del fenomeno migratorio diffuse nei social media negli ultimi anni (connessione tra eco- chambers, fake news ed hate speech) Il ruolo dei mezzi di comunicazione nei processi di costruzione simbolica e sociale della realtà si è andato sempre più espandendo. I media non solo ci consentono di ampliare la gamma di conoscenze e informazioni sulla realtà sociale e sul mondo, ma facilitano l’interiorizzazione di norme, valori, aspettative e credenze della società, svolgendo una funzione di socializzazione, a fianco delle agenzie più tradizionali, quali la famiglia, la scuola o il gruppo dei pari. Minore è l'esperienza diretta o di prima mano che abbiamo di un fenomeno o di un contesto, maggiore sarà la nostra dipendenza dai media per ottenere informazioni e interpretazioni su di esso. I media sono essi stessi comunicatori o soggetti emittenti, producono discorso pubblico attraverso i processi di notiziabilità o newsmaking, nei quali si realizza trasformazione dei fatti in notizie che vengono poi ordinate gerarchicamente e influenzano la costruzione dell’agenda degli individui, spingendo l’attenzione su determinate questioni e suggerendo ciò che si dovrebbe pensare. Ciò che definisce l’agenda setting è proprio questa capacità dei media di mettere all’ordine del giorno temi ed eventi, che «verranno così a costituire parte della quotidiana costruzione della realtà dei loro pubblici». Quando costruiamo attivamente le nostre immagini della realtà siamo vincolati anche (soprattutto) alla disponibilità di informazioni veicolate dai media. In questo modo, diventiamo più consapevoli dei temi attuali (sociali, politici, economici, ambientali, culturali) quanto più essi vengono coperti a livello giornalistico, e le nostre posizioni vengono modellate anche dalle informazioni messe a disposizione dai media. Si pensi alla bassa notiziabilità di quanto avviene nelle aree più periferiche del pianeta, qualificate come “gli invisibili”. I criteri che guidano la scelta delle notizie nei telegiornali di prima serata sono: la prossimità dell’evento, il coinvolgimento di occidentali e, in particolare, di connazionali; dunque, la presenza di qualcosa che le collega al “noi”; la presenza di testimonial, persone famose del mondo dello spettacolo o dello sport (softnews); l’eccezionalità di situazioni che coinvolgono persone normali, e la normalità di situazioni che coinvolgono personalità eccezionali. I temi considerati “periferici” dall’informazione televisiva italiana entrano nell’informazione di prima serata, solo al verificarsi di eventi specifici che evocano instabilità, insicurezza, pericolo. L’esclusione mediatica è spesso specchio ma anche ulteriore causa di esclusione sociale. Anche perché l’invisibilità mediatica finisce per riverberarsi nel più ampio discorso pubblico e nell’agenda dei pubblici: «per una sorte di spirale che si avvita su sé stessa, le regole dei mass media parlano solo di ciò che ci interessa “da vicino”, e nello stesso tempo contribuiscono a fornire la definizione di ciò che consideriamo più o meno “vicino”». Se la teoria dell’agenda setting si concentra sul “what to think about”, quella del framing prende in considerazione anche l’“how to think”, affiancando alla salienza la connettività, vale a dire la capacità dei media non solo di selezionare la realtà, ma anche di organizzarla in modo cognitivo, secondo una serie di significati e dispositivi. Possiamo definire il framing un processo attraverso cui chi fa informazione (l’emittente) non si limita a riprodurre fedelmente una data realtà, ma crea esso stesso la realtà rappresentata, attraverso un processo di focalizzazione su alcuni elementi: mette ordine negli avvenimenti, li riorganizza, dà loro un senso, ne individua una linea direttrice e infine ne fa una notizia. Secondo questa teoria, il frame, oltre a definire il problema, ne indica anche le cause e propone delle soluzioni, implicando generalmente la scelta di una direzione in termini di policy oppure risposte implicite a domande del tipo “cosa bisognerebbe fare” a proposito di una issue. L’effetto framing può essere considerato come un secondo livello dell’agenda setting, un suo allargamento al piano dell’interpretazione e dei significati costruiti e veicolati dai media; «i media non solo hanno successo nel dirci intorno a cosa pensare, ma hanno successo anche nel dirci come pensare riguardo a tali temi». I media, dunque, sono nella «condizione di creare un clima di opinione» su un certo tema «che va ad aggiungersi a quello che gli individui costruiscono in base all’esperienza personale» ed esercitano «una funzione di articolazione discorsiva, offrendo agli individui argomentazioni e strumenti per difendere o contestare alcune posizioni». Il rischio, secondo la teoria della spirale del silenzio, formulata dalla studiosa tedesca Elisabeth Noelle-Neumann negli anni Settanta, è che si venga a creare un processo a spirale che porta gli individui ad abbracciare quella che percepiscono come l’opinione pubblica dominante oppure a tacere per evitare l’ostracismo e la riprovazione sociale: «l’opinione dominante costringe alla conformità di atteggiamento e comportamento nella misura in cui minaccia di isolamento l’individuo che dissente». Quando l’individuo sceglie di difendere la propria posizione, percepita come minoritaria, attraverso il silenzio (non esprimendola in pubblico), quell’opinione scompare dal radar dei media e dall’arena della sfera pubblica, aumentando la percezione collettiva di quale sia l’opinione della maggioranza e generando, in un processo a spirale, il silenzio di chi si crede in minoranza. Un processo a spirale nel quale i media svolgono un ruolo importante nella percezione del clima di opinione maggioritario, dando spazio a una posizione piuttosto che a un’altra, sotto- rappresentando le minoranze e le loro idee e posizioni, e dando così il via a un circolo vizioso che si concretizza in un loro ulteriore isolamento; svolgono, quindi, un ruolo cruciale: «nel bene e nel male, essi possono aiutare un tema o un problema sociale a conquistare e mantenere l’attenzione di pubblici rilevanti, dandogli forma e suggerendo una soluzione per enormi masse di persone». Sebbene i media tradizionali (i cosiddetti media verticali o legacy media) siano ancora i mezzi di informazione principali per una larga parte dei cittadini italiani, ora i punti di accesso all’informazione sono aumentati: chiunque ha la possibilità di diffondere notizie, scrivendo post o caricando video su un social network, ed esse possono avere un impatto rilevante sul pubblico a seconda della risonanza con cui vengono percepite. Oggi gli individui possono contare su un’offerta che ricomprende al suo interno i legacy media (sia locale che nazionale o internazionale), gli online news outlet, i social media. Ciò che contraddistingue i media digitali o orizzontali è principalmente il minor controllo che essi esercitano sull’ingresso delle notizie nel sistema audiovisivo. Giornalisti, direttori, inserzionisti hanno la possibilità di bloccare o favorire determinate informazioni tramite l’istituzione di filtri; diversamente, la rete si basa sul libero accesso a messaggi incontrollati che incoraggia la produzione di una diffusione di massa indistinta di informazioni. Nell’era digitale si è così venuto a creare un meccanismo di minore attendibilità a favore di una maggiore diversità che ha dato vita a forme di disintermediazione delle strutture informative, con conseguenti problemi relativi alla distinzione tra notizie vere e false (fake news). «L’evoluzione del confronto sui social media, infatti, favorirebbe processi di networked framing, in grado di influenzare sia i media tradizionali sia il posizionamento dei principali leader politici. La realizzazione di campagne di diffamazione o la messa in circolazione di informazioni tendenziose e distorte, sono diventate ormai attività facili e immediate da realizzare potenzialmente per chiunque. Numerosi studi empirici e contributi teorici sostengono che «gli utenti della rete tendono a frequentare prevalentemente spazi online che riflettono il loro sistema di credenze, agevolando la formazione di gruppi polarizzati che condividono valori e interessi comuni, costituendo una sfera pubblica sempre più frammentata in spazi separati denominati cyber-ghetti». Si parla di chiusura cognitiva ovvero di una «maggiore disponibilità a consumare e diffondere solo contenuti che sostengono il proprio punto di vista», aumentando il rischio dell’estremizzazione delle opinioni e alla formazione delle cosiddette echo chambers o camere di risonanza, nelle quali viene convalidato in modo continuo e ricorsivo lo stesso punto di vista. Il consumatore digitale verrebbe spinto a rifiutare la possibilità di dialogo con chi la pensa in modo diverso, alla ricerca di gratificazione per la propria posizione, in un ambiente favorevole e chiuso ad ogni corrente di pensiero opposta, che porta con sé il rischio di estremismi. Ad alimentare questo processo di frammentazione e polarizzazione contribuiscono gli algoritmi che governano i social network, in quanto ci espongono solo ai contenuti verso i quali abbiamo mostrato interesse al fine di rendere positiva la nostra esperienza sulla piattaforma. Si parla, a questo proposito, della formazione di niche audiences: nicchie di pubblico frammentate che favoriscono la diffusione di micro-climi di opinione negando spazi di discussione e confronto tra gli utenti. Un fenomeno posto all’origine di un possibile indebolimento della democrazia che vede proprio nel dialogo tra le parti uno dei suoi tratti peculiari, e che favorirebbe quella che è stata definita “la logica del confronto da stadio”, nella quale tutti seguono soltanto quelli più vicini a sé per poi scagliarsi contro quelli ritenuti distanti, alla base di uno scontro tipicamente polarizzato. Letto alla luce della teoria della spirale del silenzio, nelle echo chambers vengono forniti agli individui che vi si trovano all’interno solo le coordinate di uno specifico micro-clima di opinione che si auto-alimenta. La dinamica della frammentazione e della polarizzazione rischia, inoltre, di favorire la diffusione delle cosiddette fake news, notizie false e ingannevoli che si propagano e si rafforzano sul web: oggi risulta più facile far circolare false notizie e la velocità con cui si diffondono è tale da rendere molto complicato, spesso vano, verificarle e smentirle. False notizie che trovano proprio nelle echo chambers, un luogo privilegiato, complice il rapporto di fiducia che lega la comunità di utenti che vi partecipa, che porta a condividere e diffondere ogni contenuto senza verificare, così come a difenderlo di fronte a contestazioni da parte di soggetti esterni, come i fact-checkers o i debunkers. Una delle conseguenze possibili della diffusione di echo chambers e fake news è il fenomeno dell’hate speech: «persone che hanno medesime idee possono esaltarsi a vicenda e finire per promuovere campagne di odio (cybercascades) nei confronti di gruppi avversari che vengono trattati alla stregua di nemici». Diversamente dall’hate speech offline legato a una “dimensione collettiva del rancore” condizionata più dalle pressioni e dalle rivendicazioni dei gruppi che dall’iniziativa dei singoli, negli ultimi anni sembra essersi imposta sulla scena un’aggressività verbale individuale, capace di aggregare online e di spettacolarizzarsi: veloce e più difficile da prevedere e mediare. Un’aggressività sempre più normalizzata, sempre meno ostacolata da stigma sociale. L’immigrazione come “invasione” è una delle cornici narrative comuni del discorso sull’immigrazione anche nei social network, che si coniuga con il tema dell’allarme sicurezza e dell’allarme sociale (la teoria della coperta corta) che prefigura una concorrenza tra categorie in lotta per risorse scarse, una guerra tra poveri, tra “noi” e “loro”. Un linguaggio apertamente ostile e discriminatorio. Messaggi di odio che esercitano una funzione identitaria, politica e aggregativa. Discorsi che fanno un ampio utilizzo di fake news, di notizie infondate, statistiche o dati alterati, dati amplificati per suggestionare, della genericità della definizione di luoghi, personaggi e contesti e della lacunosità delle fonti di riferimento. E la cui rapidità di diffusione viene amplificata dal fenomeno delle echo chambers, le bolle di risonanza dalle quali gli utenti faticano a fuggire perché vi trovano la conferma ai loro pregiudizi, e quindi vi si trovano perfettamente a proprio agio. Il discorso di odio non è più soltanto uno strumento con cui alcune forze politiche tentano di capitalizzare il consenso elettorale, né il mero sintomo di fratture sociali, culturali e politiche, ma sembra ormai diventato il rumore di fondo di un modo di fare comunicazione (e discussione) politica, nel quale alcuni attori si trovano più a loro agio di altri, ma con cui tutti devono ormai fare i conti. Le ricerche aumentare la riflessività e il senso critico, indispensabili per lo sviluppo di una sfera pubblica più dialogante e di una società realmente interculturale. ✓ Definizione di immigrazione come “problema” offerta dal frame emergenziale securitario Il registro discorsivo securitario si appella all’esigenza di garantire ordine e sicurezza di fronte ad ogni tipo di minaccia che possa derivare dall’immigrazione. Il frame emergenziale securitario individua le cause del “problema” migratorio nell’eccesso di arrivi (“invasioni barbariche”) e nella mancanza di controlli, denunciando l’atteggiamento permissivo delle istituzioni e il rischio di un’ondata di violenze e crimini nel Paese, e propone come soluzioni il rafforzamento dei controlli alle frontiere (respingimenti) e l’inasprimento delle sanzioni. Lo spettacolo dell’emergenza securitaria finisce per alimentare un’atmosfera da “straniero (nemico) alle porte”, legittimando una politica migratoria di securitizzazione e incoraggiando il processo di “adiaforizzazione” dei migranti, di indifferenza morale verso l’altro e l’altrove, verso chi definiamo diverso da noi e in quanto tale collochiamo oltre la sfera della nostra responsabilità morale. Una rappresentazione costruita attraverso l’esagerazione numerica delle persone sbarcate e degli immigrati “irregolari” presenti nel nostro Paese e l’uso di metafore come “ondate”, “inondazione”, “tsunami”, e di tipo bellico-militare, come “orde”, “eserciti”, “invasori”. Un linguaggio poliziesco del contrasto al crimine e della “lotta al traffico di esseri umani”, e l’accentuazione dei fatti di cronaca nera che hanno come protagonisti immigrati e richiedenti asilo, presentate come cronache di un malessere che sta «trasformando il Paese in un Far West», come il racconto del «fallimento dell’ordine sociale, della possibilità stessa di una convivenza pacifica, la presenza di rischi e timori, della paura». ✓ Definizione di immigrazione come “problema” offerta dal frame emergenziale umanitario Il registro discorsivo umanitario richiama la necessità di garantire a ogni essere umano i diritti fondamentali, facendo leva sulla compassione. Il frame umanitario individua le causa del “problema” sociale delle migrazioni nelle violenze e nelle forme di discriminazione e razzismo generalizzato di cui sono vittime i migranti: schiavi dei trafficanti e degli scafisti nel loro viaggio della speranza, vittime di discriminazioni nei percorsi di accoglienza o contenimento nei paesi di transito e destinazione, e, in alcuni casi, del lavoro nero una volta raggiunta l’Italia. E propone nella lotta ad ogni forma di discriminazione e sfruttamento la soluzione del problema, attraverso il ruolo salvifico della società civile, delle organizzazioni attive nel soccorso e nell’accoglienza degli immigrati, da cui scaturisce una politica migratoria fondata sulla compassione piuttosto che sulla giustizia sociale. Una rappresentazione costruita attraverso l’utilizzo del lessico tipico delle catastrofi umanitarie: “apocalisse”, “naufragio umanitario”, “tragedie del mare”, “barconi della speranza”, “profughi”. L’uso di immagini di donne o bambini inermi e disperati, vittime passive della povertà e della guerra, persone disperate e senza speranza in fuga da luoghi ostili e inospitali, alla mercé di trafficanti spietati e senza scrupoli. Il risultato è una dislocazione discorsiva della rappresentazione dello «spettacolo del dolore», proposta sia dai media mainstream che dalle agenzie dell’umanitario nel contesto dell’aiuto umanitario e della filantropia. • Musarò P., Parmiggiani P., Ospitalità mediatica, FrancoAngeli, 2022, CAPITOLO 3, Tra cura e controllo. La messa in scena del Mediterraneo come confine liquido ✓ Etica del mostrare, etica del vedere: l’impatto della foto di Aylan Kurdi Aylan Kurdi è un bimbo siriano di 3 anni ritratto morto sulla spiaggia turca di Bodrum, che dai social media ha conquistato le prime pagine di tutti i giornali europei, provocando un’onda emotiva che ha spinto cittadini e politici ad accogliere più benevolmente milioni di siriani in fuga. Foto che mostrano il suo corpicino, vestito all’occidentale, adagiato senza vita sulla battigia, in una posizione così naturale da farlo sembrare addormentato, il viso carezzato dalla risacca. Foto che testimoniano il tragico epilogo di un disperato viaggio, uno dei tanti finiti in tragedia nel Mediterraneo, ma che, a differenza di tante altre, hanno suscitato indignazione, rabbia, commozione, compassione, pietà. Diventando così – anche grazie all’esaltazione mediatica collettiva, amplificata dalla velocità di diffusione delle immagini sulla rete – icone universali, immagini di ogni diversità e di ogni ingiustizia fondata sull’ineguaglianza, che si è insinuata nelle scelte politiche, mutando (almeno per un breve tempo) la percezione del migrante nell’opinione pubblica europea. Per quanto, infatti, alcune ricerche dimostrino che l’“effetto Aylan” ha avuto durata limitata, la foto del bimbo morto ha cambiato la cronaca giornalistica in senso più favorevole e simpatetico verso gli immigrati, portando in molti Paesi europei alla triplicazione di articoli positivi verso gli stessi (in particolare in Italia, Gran Bretagna, Portogallo e Germania). La mediatizzazione della sofferenza messa in atto dalle organizzazioni umanitarie ha contribuito alla creazione di una coscienza dei diritti umani, favorendo al contempo la crescita di un impegno umanitario senza frontiere, alimentato dagli attori della solidarietà internazionale. Lo spettacolo del dolore a distanza, poiché attiva la possibilità (latente e universale) di preoccuparsi per gli altri, orienta verso un’azione nei loro confronti. Analizzando il legame tra narrazione della sofferenza e discorso umanitario, Kurasawa (2015) lo articola in quattro “icone”: la personificazione, la massificazione, il salvataggio e la cura. Le prime due icone sono focalizzate sulle vittime: dall’immagine simbolo di una sola persona che rappresenta tutti i soggetti sofferenti, alle immagini di folle che raccontano l’impatto della crisi sulle moltitudini di esseri umani (il bimbo innocente simbolo del dramma di tutti i migranti). La seconda coppia di icone si riferisce invece a chi svolge l’azione umanitaria: dall’eroismo dei salvatori che si sacrificano davanti alla tragedia, alla dedizione di chi si prodiga per lenire le sofferenze (il poliziotto che raccoglie il corpo senza vita in un atto di rispettoso aiuto). I fotogiornalisti sono responsabili dell’etica del mostrare, ma noi siamo responsabili dell’etica del vedere. Dunque, davanti all’immagine di Aylan, come a quelle dei disperati in fuga da Kabul, possiamo commuoverci e sforzarci di capire di più di quel contesto, per poi decidere di agire in maniera solidale (donando soldi o tempo alle organizzazioni impegnate con i profughi o arrivando a offrire ospitalità a quanti ne hanno bisogno); oppure possiamo voltare la pagina con indifferenza, se non addirittura rimetterne in discussione la veridicità e usarla come strumento per diffondere odio. «Il limite della conoscenza fotografica del mondo è che, se può spronare le coscienze, non può mai essere, alla lunga, conoscenza politica o etica. La conoscenza raggiunta attraverso le fotografie sarà sempre una forma di sentimentalismo, cinico o umanistico». L’effetto morale della rappresentazione della sofferenza è dunque possibile, ma mai garantito, perché lo spettatore, al pari del fotografo, è posto di fronte a un bivio: così come certe foto possono essere prodotte con cinismo o con partecipazione, allo stesso modo possono essere guardate con indignazione: non sono le immagini a costruire il senso che hanno per noi, siamo noi a darglielo ✓ La rappresentazione mediatica dei naufragi e degli sbarchi nel Mediterraneo centrale con l’avvio dell’Operazione Mare Nostrum: il campo di battaglia umanitario Nell’autunno del 2013 venne lanciata l’operazione militare-umanitaria Mare Nostrum, proprio a seguito dell’onda emotiva provocata dalle immagini strazianti dei corpi recuperati in mare. Un’operazione istituita con il proposito di salvare i migranti e arrestare i trafficanti di esseri umani, che segna uno spartiacque rispetto al passato. È stato solo a partire dal lancio di Mare Nostrum che le immagini e i video prodotti dalla Marina Militare italiana ci hanno dischiuso gli orizzonti di quel che avviene in alto mare, spostando di conseguenza il confine a molte miglia da Lampedusa. Osservando le immagini prodotte dai nuovi “inviati al fronte” constatiamo che la maggior parte di queste evoca solidarietà per i soccorritori e compassione per i migranti. Sono immagini che ci invitano a far parte di una comunità di testimoni, una comunità nella quale lo spettatore assume il ruolo di potenziale salvatore, mentre i corpi messi in salvo costituiscono “l’altro”. Le attività dei soldati sono visivamente assimilate all’immaginario della distribuzione degli aiuti, e raffigurano migranti appena messi in salvo che ricevono con gratitudine pacchi di cibo e acqua. Come si può vedere nel video, se nella prima parte veniamo invitati a farci testimoni di questa drammatica “emergenza”, esortati a provare apprensione o turbamento davanti all’orrore delle immagini, nella seconda lo spettacolo, fortemente adrenalinico, verte sui soldati che sfidano il mare per porre rimedio alla catastrofe. Assumendo i toni della benevolenza umanitaria, la rappresentazione mediatica dell’operazione ha senza dubbio contribuito a legittimarla di fronte ad un’opinione pubblica inizialmente scettica e impaurita. Al contempo, la spettacolarizzazione compassionevole delle operazioni appare slegata da qualsiasi dato storico o politico: in quanto protagonisti di una crisi nata dal nulla, i migranti sono dipinti come soggetti costretti a esporsi al pericolo e al rischio (di morte o di traffico umano) da salvare. Da una parte, dunque, la narrazione umanitaria esercita una funziona inclusiva, dall’altra, escludente. In sintesi, usando il linguaggio della lotta alla tratta e ai potenziali terroristi, e al tempo stesso salvando vite e salvaguardando i diritti umani dei migranti, Mare Nostrum mette in scena lo spettacolo del «campo di battaglia umanitario». ✓ L’arrivo delle navi umanitarie: gli “Angeli del mare“ Nel Novembre 2014 si assiste dall’arrivo delle navi umanitarie che cominciano a collaborare con la Guardia Costiera italiana all’interno dell’operazione Mare Sicuro della Marina Militare. Nel corso del 2016 si assiste all’arrivo di altre 12 navi di Ong italiane, tedesche e spagnole. Foto e video spesso incentrate sul frame pietistico delle “tragedie” in mare, mirate da un lato a contenere il frame securitario proposto da diverse testate giornalistiche, e dall’altro a denunciare le responsabilità e l’assenza della politica europea. In questo periodo l’immigrazione ha progressivamente “invaso” i media mainstream, spesso opponendo alle cronache dei disagi dell’accoglienza sul territorio e alle proteste e discriminazioni ad essa correlate, il racconto epico del coraggio dei soccorritori impegnati nel salvataggio delle vite umane, presentati come eroi o “angeli del mare”. Un’immagine positiva rafforzata dal lieto fine che ha condotto ad una temporanea sospensione del giudizio verso l’irregolarità delle traversate e ad un più generale sentimento di approvazione e rispetto verso i soccorritori in mare, militari o civili che fossero ✓ La svolta narrativa del 2017: dal campo di battaglia umanitario all’attacco mediatico al mondo dell’umanitario – i “Taxi dei migranti” Poi, dal 2017, ha inizio una nuova fase, tutt’ora in corso, che si caratterizza, invece, per una svolta comunicativa espressa da un sentimento di crescente ostilità e denuncia verso le Ong impegnate nel Mediterraneo, sospettate di collusione con i trafficanti di uomini sulle rotte migratorie tra Libia e Italia, che ha finito per rafforzare il frame di stampo securitario. In questa seconda fase, il controllo delle frontiere è divenuto progressivamente prioritario rispetto alla stessa salvezza delle vite umane e lo spettacolo del «campo di battaglia umanitario» ha lasciato il posto ad un attacco mediatico e politico al mondo dell’umanitario. Nel racconto e nelle immagini veicolate dai media, i soccorritori umanitari sono divenuti complici di trafficanti e scafisti, e, pertanto, non viene più evocato nello spettatore un sentimento di empatia nei loro confronti, bensì di sospetto e giudizio moralmente negativo. Una svolta comunicativa che ha contribuito a legittimare politiche migratorie più restrittive e il rafforzamento della militarizzazione dei confini, i cui effetti sono ricaduti sugli stessi migranti. All’origine di questo cambiamento di frame, le accuse che le navi di soccorso nel Mediterraneo, pur senza volerlo, favoriscono la pianificazione del traffico di esseri umani, aiutano i criminali a raggiungere i loro obiettivi col minimo sforzo e rafforzano il loro modello di business. Un susseguirsi di fake news o “post-verità” che produce un rovesciamento semantico rispetto alla narrazione che aveva alimentato lo spettacolo del “campo di battaglia umanitario”: le morti in mare sarebbero da imputare alla presenza delle navi umanitarie che si spingono troppo vicino alle coste libiche. Il risultato è la costruzione di un’immagine negativa delle operazioni delle Ong, di un frame del sospetto che incrina la reputazione mediatica dei soccorritori umanitari nel Mediterraneo. Nelle immagini veicolate dai media, da un lato permane la compassione per i migranti, vittime di un traffico di esseri umani nel quale diventano complici i loro stessi soccorritori, per i quali non viene più evocato nello spettatore un sentimento di solidarietà e identificazione, bensì di sospetto e giudizio moralmente negativo. Dall’altro lato, guadagna spazio e salienza nel discorso pubblico mediatico e politico il tema del contrasto al traffico degli esseri umani e, in particolare, la possibilità di un accordo tra governo italiano e libico per fermare le partenze. A queste si aggiunga un video diventato virale intitolato “La verità sui Gli stranieri tendono a dare ansia proprio perché «strani», a differenza delle persone con cui interagiamo tutti i giorni convinti di sapere che cosa dobbiamo aspettarci da loro; per quel che ne sappiamo, potrebbero essere loro, con la loro massiccia influenza, a distruggere ciò cui teniamo, mutilando o travolgendo lo stile di vita che ci è confortevolmente familiare. Degli stranieri sappiamo troppo poco per riuscire a interpretarne i gesti e decidere risposte adeguate, comprenderne le intenzioni e indovinare la loro prossima mossa. E non sapere come procedere, come comportarci in una situazione che non siamo stati noi a creare né possiamo controllare, è una delle principali cause di ansia e paura. ✓ Cosa ci suggerisce la favola di Esopo? Chi sono gli uomini lepre della nostra società? La Fiaba di Esopo ha per protagoniste lepri e ranocchie. In questa favola le lepri si sentivano a tal punto perseguitate dagli altri animali che non sapevano più cosa fare, e scappavano appena si avvicinava un altro animale. Un giorno videro una mandria di cavalli selvatici al galoppo e, prese dal panico, se la diedero a gambe fino al lago, decise a farla finita: meglio gettarsi in acqua e annegare che vivere nella paura senza fine. Ma appena le lepri si avvicinarono alla riva, un gruppo di ranocchie, allarmate dal loro arrivo, scapparono e saltarono in acqua. Al che una delle lepri commentò: «In fondo le cose non vanno poi così male». Insomma, non si deve per forza scegliere la morte per sfuggire a una vita di paura. La morale della fiaba è semplicissima: la soddisfazione di questa lepre nasce dalla rivelazione che c’è qualcuno che se la passa peggio di lei. La nostra società di animali umani è piena di lepri «perseguitate dagli altri animali» che si trovano in una situazione simile a quella delle lepri di Esopo: e negli ultimi decenni il loro numero ha continuato a crescere, in modo apparentemente inarrestabile. Queste lepri vivono nella miseria, nell’umiliazione e nell’ignominia, in una società che è fermamente decisa a emarginarle; abitualmente derise e censurate dagli «altri animali umani», le nostre «lepri» si sentono offese e vessate dal fatto che, mentre altri le umiliano e le disprezzano, è lo stesso tribunale della loro coscienza a rimproverarle, ridicolizzarle e denigrarle per la loro palese incapacità di innalzarsi di livello. In un mondo in cui si presume, si pretende e si esorta a pensare «ognun per sé», questi uomini-lepre (MISERABILI INDIGENTI, cui altri uomini negano rispetto), al pari delle lepri di Esopo («perseguitate dagli altri animali») rimangono «ultimi» e vengono lasciati lì a tempo indeterminato, senza alcuna speranza di redenzione o fuga. Per gli esclusi che sospettano di essere ormai relegati tra gli ultimi, scoprire che sotto di loro c’è qualcun altro è una sorta di evento salvifico, che restituisce loro dignità umana e salva quel poco che rimane della loro autostima. ✓ Per quale gruppo sociale i migranti sono visti oggi nella nostra società come messaggeri delle sventure della globalizzazione? L’astio per il massiccio afflusso di rifugiati e richiedenti asilo ha anche un’altra motivazione straordinaria (che va oltre la diffidenza, «normale» e senza tempo, verso gli stranieri). Questa motivazione attrae soprattutto un altro settore della società, il nascente «precariato», coloro che temono di perdere le loro amate e invidiabili conquiste, i loro averi e il loro rango sociale. È impossibile non accorgersi che la massiccia e improvvisa apparizione di stranieri nelle nostre strade non è stata causata da noi, e tanto meno è sotto il nostro controllo. Nessuno ci ha consultato per sapere se eravamo d’accordo. Non sorprende dunque che gli immigrati che si susseguono a ondate vengano accolti con ostilità, come «messaggeri di cattive notizie». Essi sono la personificazione del crollo dell’ordine e una riedizione aggiornata di quegli «uomini sandwich» che negli anni Venti percorrevano le strade, recando l’annuncio che «la fine del mondo come noi lo conosciamo è vicina». L’idea è stata ben resa da Jonathan Rutherford: gli immigrati «portano le cattive notizie dagli angoli più remoti del mondo fino alla porta di casa nostra». Per una sorta di logica perversa, a essere viste come l’avanguardia di quelle forze che minacciano d’insediarsi nella nostra vita sono proprio le loro «vittime collaterali». Quei nomadi ci ricordano in modo irritante quanto vulnerabili siano la nostra posizione nella società e la cronica fragilità del nostro benessere conquistato a caro prezzo. È un’abitudine umana, troppo umana, quella di attribuire ai messaggeri i contenuti odiosi e incolparli di un messaggio che, nel nostro caso, proviene dalle forze globali che accusiamo e sospettiamo di essere le responsabili della incertezza esistenziale che distrugge e polverizza il nostro senso di sicurezza, vanificando ambizioni, sogni e progetti di vita. E anche se non possiamo far nulla o quasi per imbrigliare le forze inafferrabili e remote della globalizzazione, possiamo almeno dirottare e scaricare sui loro prodotti la collera che ci hanno causato e ci causano. Questa logica distorta attira molti cercatori di voti: approfittare dell’ansia provocata dall’afflusso di stranieri (comprimono ancor più salari e stipendi già tanto restii a salire) è una tentazione cui sanno resistere ben pochi dei politici in carica o aspiranti tali. Una politica basata sulla reciproca separazione e sul mantenimento delle distanze, sulla costruzione di muri anziché di ponti, sulla creazione di «casse di risonanza» insonorizzate e ad alto isolamento anziché di «telefoni rossi» che consentano una comunicazione diretta e priva di distorsioni – una politica, insomma, che se ne lava le mani, e che risponde con indifferenza– non porta da nessuna parte. Stranieri come MESSAGGERI DELLE SVENTURE DELLA GLOBALIZZAZIONE → Quei nomadi – non per scelta ma per il verdetto di un destino inclemente – ricordano ai MEMBRI DELLA CLASSE MEDIA SEMPRE PIÙ VULNERABILI in modo irritante, esasperante e raccapricciante, quanto vulnerabili siano la loro posizione nella società e la cronica fragilità del loro benessere conquistato a caro prezzo. Migranti come capri espiatori delle INCERTEZZE DELLA SOCIETÀ GLOBALE → Sebbene la collera nei loro confronti non risolverà le nostre incertezze e le fragilità, allieverà per un po’ l’umiliazione per la nostra impotenza di fronte al disordine globale ✓ Quali sono le incertezze della società globale, di una globalizzazione neo-liberista pervasiva fondata sulla deregolamentazione, privatizzazione e individualizzazione della vita sociale? Incertezze della società globale - Globalizzazione neo-liberista: • Deregolamentazione dei mercati: imprese, lavoro, finanza, ... (delocalizzazione produttiva e dumping fiscale, precarietà del lavoro e indebolimento potere sindacale, instabilità dei mercati finanziari, …) • Privatizzazione dell’economia (servizi pubblici) • Riduzione delle spese sociali (contrazione welfare sociale) – povertà come problema individuale • Crisi ambientale globale (effetti collaterali dello sviluppo economico delle economie industrializzate) • Erosione sovranità Stati-nazione: ricerca di soluzioni nazionali a problemi globali • Estremizzazione del processo di Individualizzazione (società della prestazione – soluzione individuali a problemi sociali) VITTORIA DELL’ECONOMIA (globale) SULLA POLITICA (locale) Stato nazione vs Globalizzazione vs Presidio delle frontiere → «Il presidio delle frontiere è uno dei simboli residui di una sovranità nazionale sempre più erosa» ✓ Cosa significa che i migranti sono diventati il capro espiatorio delle incertezze della società globale? ✓ Ambivalenze del processo di globalizzazione economica finanziaria: “globali” vs “locali”; abbattimento delle barriere spazio-temporali per i primi vs “ritorno” dei muri e confini per i secondi; erosione sovranità nazionale vs chiusura dei confini. Il fatto evidenzia il rapporto tra globalizzazione e localizzazione: non come fenomeno opposto, ma come l’altra faccia della stessa medaglia. La “compressione spazio-temporale” che ha accompagnato il processo di finanziarizzazione (per cui interessi e paradigmi finanziari hanno avuto la meglio su qualsiasi altro aspetto socio-economico) ha portato le aziende sia a delocalizzare la produzione che a conquistare i mercati degli altri paesi, raggiungendo nuovi consumatori a cui vendere le proprie merci. L’impresa di e-commerce sul cui tetto si sono infranti i sogni del passeggero “clandestino”, è uno dei tanti prodotti di questa liberalizzazione degli scambi commerciali e dei movimenti di capitale, che ha reso possibile alle imprese britanniche di scegliere in base a fattori di convenienza la localizzazione dei propri centri di interesse. Conservatori o progressisti, europei o statunitensi, i governi degli ultimi 40 anni hanno agito tutti verso la stessa direzione: smantellare il sistema di welfare a protezione delle fasce più deboli e privatizzare i servizi pubblici. Processo che ha esautorato lo Stato della sua reale capacità di controllo sulle dinamiche politiche, sociali ed economiche, sino a renderlo non più “sovrano”. In questo modo, lo Stato nazionale ha fornito agli individui gli imprescindibili parametri di definizione della loro condizione giuridica. In primis, quella che noi oggi definiamo cittadinanza, ovvero la condizione necessaria per poter esercitare “il diritto ad avere diritti” (suolo e discendenza), per quanto oggi tale logica venga minimizzata sia dal concetto di residenza, in alcuni casi sufficiente ad accordare un intervento “protettivo” a soggetti solo imperfettamente “inclusi”, quali sono i migranti. Stato nazione e globalizzazione appaiono dunque come poli di una tensione emersa già al primo delinearsi della modernità politico-giuridica, frutto del continuo fronteggiarsi tra particolarismo e universalismo, tra le strategie identitarie di autoconservazione di una comunità che si percepisce chiusa e che invocano l’irrigidimento dei confini in nome dei suoi valori e tradizioni, e la tendenza cosmopolita basata sull’idea di fratellanza e convivenza universale che reclama l’implementazione dei diritti fondamentali senza distinzioni di razze e di nazionalità. Si tratta di logiche che prevalgono a momenti alterni e che vedono l’avvicendarsi del carattere globale dell’economia e della finanza, e in minor parte dei diritti, con una nuova domanda di più rigida regolazione degli accessi e di compressione del pluralismo culturale e religioso. Da una parte dunque «l’economia, il capitale, cioè il denaro e le altre risorse necessarie a fare delle cose si muove rapidamente; tanto da tenersi sempre un passo avanti rispetto a qualsiasi entità politica che voglia contenerne il moto e farne mutare direzione». Dall’altra, uno Stato che deve oggi fare i conti con una dilatazione crescente dello spazio giuridico, contrassegnato da organismi, al contempo, sovra-statuali e multinazionali (es. Unione Europea). È vero che gli Stati non sono più gli unici attori sulla scena geo-politica globale, e che negli ultimi decenni lo Stato nazionale è stato investito da un crescente indebolimento per la manifesta incapacità di garantire ai propri cittadini protezione e prosperità a causa dell’impatto di fenomeni globali. Ma è al contempo vero che negli ultimi 50 anni, ad uno sviluppo capitalistico che storicamente esprime una tensione verso il superamento delle barriere spaziali o, più precisamente, verso l’annientamento dello spazio mediante il tempo, fa da contraltare un ancoraggio al locale esperito come segno di inferiorità e degradazione sociale. In altre parole, la globalizzazione economica procede di pari passo ad una riaffermazione dei confini nei confronti degli stranieri indesiderati, «in quanto percepiti e classificati come poveri: il presidio delle frontiere è uno dei simboli residui di una sovranità nazionale sempre più erosa e aggirata» La globalizzazione si nutre dunque della localizzazione e della debolezza degli Stati nazionali, la cui sovranità viene erosa anche perché «al crescente processo di globalizzazione del potere (che è la capacità di far fare) non segue una globalizzazione della politica (che è la capacità di decidere cosa fare): di qui il divario stridente tra gli obiettivi e i mezzi per poter agire efficacemente». La mancanza della dimensione politica diviene evidente in primis nella relazione tra la divisione degli spazi e la distinzione in classi: chi è svincolato dallo spazio reale (il capitale finanziario) ha perso anche le responsabilità che, in qualche modo, erano legate ai principi del capitalismo moderno. In un mondo che si divide tra globali e locali, tra un’élite che vive libera dai vincoli spaziali e una maggioranza di persone che ha perso gli spazi caratteristici della sovranità politica, sono i primi a dettare le regole sui secondi. Così i governi faticano a riscuotere le tasse dalle grandi multinazionali, mentre sono costretti a farsi carico dei danni da queste provocati. Se i produttori possono dislocare l'impresa ove maggiori sono le aspettative di profitto rapido, vendere le proprie merci online, comprare qualsiasi azione in qualsiasi borsa e tramite qualsiasi agente, è chiaro che agli altri, quelli che restano legati al territorio, rimane il compito di ridurre i danni (sociali, ambientali, sanitari) e mantenere l’ordine. Il che significa che il mondo della finanza è sempre più globale, mentre il locale è lasciato ai governi, spesso ridotti al ruolo di questure o commissariati di polizia. Ne consegue che chi può abbandonare i luoghi è anche libero di non preoccuparsi delle conseguenze. L’assenza di una politica globale, e l’incapacità dei leader politici di realizzarla, ha ripercussioni sullo stesso principio rappresentativo che costituisce la base della nostra idea di democrazia. Ci ritroviamo all’interno di una nuova “costellazione postnazionale” caratterizzata dalla «prospettiva paralizzante di una politica nazionale costretta ad adattarsi agli imperativi della globalizzazione». Dislocando il potere reale al di importanza dell’industria e del commercio, è interessato da esportazioni, importazioni e investimenti giganteschi. Allargando lo sguardo oltre le città cosiddette “turistiche” si scopre che il turismo è un fenomeno sociale che interagisce in modo profondo con il campo delle relazioni internazionali, degli scambi interculturali e della difesa dei diritti umani, della promozione dell’uguaglianza, della giustizia e della pace su scala locale e globale. Sebbene la distinzione tra migrante e turista sia artificiale si tratta di categorie che hanno influenzato il modo in cui oggi definiamo e governiamo la mobilità geografica degli esseri umani. La città, allora, è euforicamente “globale” in relazione al turismo, ma diventa “locale”, anzi nazionale e nazionalista, quando si tratta di migrazione. Poiché i migranti disturbano il restyling e la messa in scena della città turistica come palcoscenico la loro presenza non è gradita perché minaccia la (falsa) autenticità e le frontiere interne alla città stessa, tra ciò che deve essere visibile e ciò che deve rimanere celato. La spettacolarizzazione dello spazio e la commercializzazione dell’esperienza turistica stravolgono il tessuto urbano, confinando ai margini le classi popolari e medie che non possono permettersi di competere con i prezzi pagati dai turisti. Così, a fronte di un’invasione “percepita” (quella dei migranti ci ritroviamo un’invasione “consentita”, addirittura celebrata, o a cui comunque ci si rassegna, ma che raramente viene interpretata come tale. Le rotte del Mediterraneo disegnano un mondo diviso tra “turisti” e “vagabondi” che rappresentano l’uno l’alter ego dell’altro, con la differenza che il vagabondo è legato con catene doppie alla territorialità, umiliato dall’obbligo di dover restare fermo, a fronte dell'ostentata libertà di movimento degli altri, colui da bandire, il clandestino e il barbone, lo zingaro e il migrante, tutti gli stranieri morti senza nome, annegati nel tentativo disperato di raggiungere l’Europa. Se il vagabondo invidia la vita del turista e vi aspira, a sua volta il turista, nella fascia media, ha il terrore che il suo status possa cambiare all’improvviso e vive il diverso come minaccia. Errare humanum (non) est. Per quanto gli esseri umani siano una specie migratoria, nell’attuale società stanziale «un essere umano in movimento è una minaccia per il cittadino non solo a causa della trasgressione iniziale alla frontiera, ma perché la possibilità della mobilità rende incerta la totalità dell'esperienza e ogni incontro». Ne consegue che il “diritto di fuga” praticato da soggetti autonomi che ne accettano i rischi viene criminalizzato per mezzo di un confine che lo mette fuori legge. Il risultato è uno “spettacolo del dolore” da cui scaturisce una politica di compassione piuttosto che di giustizia. Il nostro essere ospiti del “villaggio globale” ci vede sempre meno ospitali, vicini ma in una reciproca estraneità. Lo stesso processo di deterritorializzazione e uniformazione globale messo in atto dai media non corrisponde necessariamente ad una universale società degli altri, più ospitale e pacifica. Anzi, i media contribuiscono nel demarcare i confini sotto molti punti di vista, sia nella realtà concreta della vita quotidiana, sia nell’immaginario sociale che la precede: lo fanno etichettando lo straniero come diverso, alimentando la paura e i discorsi di odio, riproducendo stereotipi razzisti, legittimando politiche di emergenza e securitizzazione. Incoraggiando così quel processo di “adiaforizzazione” verso l’altro, che viene trasferito su un terreno esente da valutazioni morali. Un processo di anestetizzazione morale e deresponsabilizzazione verso le sorti dei più vulnerabili, che rispecchia la chiusura tipica di questo triste tempo, rimasto orfano del valore dell’ospitalità, storicamente intesa come capacità di mantenere aperto lo spazio dell'incontro, e al cui principio è necessario guardare come ad un faro per non perdere la direzione della giustizia. • Bauman Z., Stranieri alle porte (edizione Laterza 2016 o edizioni precedenti), CAPITOLI 2 Insicurezza alla deriva in cerca di appigli e 4, Insieme e accalcati, • Musarò P., Parmiggiani P., Ospitalità mediatica, FrancoAngeli, 2022, CAPITOLO 1, La geografia morale del mondo ✓ Cosa si intende per politica o marketing della paura? Come avviene il passaggio dalla domanda di sicurezza sociale dei cittadini alla politica di “securitizzazione”? La politica del paradigma securitario mira a innalzare barriere di fronte all’ingovernabile e inspessire il proprio scudo protettivo. Una guerra dei forti contro i deboli, non solo dei primi contro gli ultimi ma dei penultimi contro chi viene subito dopo, di chi sta peggio col suo simile. Sulla speranza prevale allora il risentimento, sulla solidarietà la rabbia, sull’ospitalità un atteggiamento difensivo che rifiuta le novità, ma anche il pluralismo e le differenze. Incapaci di controllare il loro futuro in un mondo sempre più segnato dal cambiamento, si percepiscono come categorie sacrificate sull’altare della globalizzazione, al punto che, piuttosto che accogliere la diversità degli altri gruppi sociali, cercano in essi dei capri espiatori capaci di spiegare la loro sensazione di abbandono. Il branco cerca una vittima, ne dimostra la colpevolezza e poi la crocifigge, la isola, la arresta o la deporta. In questo modo si rafforzano e rinsaldano i legami interni di una comunità minacciata e si preserva l’ordine, primo e imprescindibile scopo della società. La paura dell’altro si intreccia con la sua criminalizzazione e sempre più spesso con la ricerca di un uomo (o donna) forte che protegga i cittadini dai “barbari”, un leader. Mediante la criminalizzazione, il governo si auto- giustifica sostenendo la necessità di proteggere i cittadini dalla minaccia di quanti cittadini non sono, dal pericolo degli “anti-cittadini”. La demonizzazione dei soggetti più vulnerabili della società continua come riflesso del progetto politico di consentire ai mercati di controllare la spesa sociale mentre il controllo democratico dei mercati è precluso. Eppure, parlare di controllare i confini in realtà non rimuove le paure ma le alimenta, conducendo ad una convivenza dove l’umanità è percepita come un’eccedenza sociale, economica e politica. Una società dove s’indeboliscono i legami sociali viene meno ogni capacità inclusiva e prevale un dispositivo predatorio, una sorta di legge della giungla che conforma tutti i rapporti sociali ridisegnando una nuova dimensione ideologica a cui si è dato il nome di “populismo penale”. La politica della paura (la paura di un nemico illusorio) pare così essere l’unico strumento rimasto in mano ai politici per garantirsi il potere. Sostituendosi alla religione, lo Stato nazione rende sacri anche i rituali e i simboli di frontiera, al punto che il superamento “illegale” dei confini è configurato come violazione e reato perseguibile per legge. All’interno dei confini noi percepiamo un ordine naturale dell’esistenza umana. ✓ Perché Bauman parla della politica di securitizzazione come a un “trucco di prestigiatori”? A chi e cosa serve lo Spettacolo dell’emergenza da parte di politici “forti”? Esempi: attentati Francia 2015; muro con la Serbia; la politica dei “porti chiusi” in Italia;… Recentemente ha fatto la sua comparsa nel discorso pubblico un concetto che fino a poco tempo fa era ancora sconosciuto, e non è stato ancora recepito dai dizionari: messa in sicurezza, o «securitizzazione». Ecco un esempio: subito dopo gli attentati terroristici di Parigi lo «Huffington Post» scriveva: il presidente Francois Hollande ha annunciato la proclamazione dello stato di emergenza in tutta la Francia e la chiusura dei confini nazionali a seguito dell’ondata di attentati compiuti a Parigi questa sera. «Dobbiamo fare in modo che nessuno possa entrare a compiere un qualunque altro atto, e allo stesso tempo essere sicuri che chi ha commesso questi crimini venga arrestato se cercherà di lasciare il paese». E pochi giorni dopo «Foreign Policy» ha descritto senza mezzi termini la reazione del presidente francese alle azioni terroristiche, parlando di «giro di vite». Il provvedimento consente alla polizia di fare irruzione nelle abitazioni e perquisirle senza mandato, di disperdere assemblee e riunioni e d’imporre il coprifuoco. Crea, inoltre, la possibilità di schierare i militari nelle strade». Porte di casa abbattute, schiere di poliziotti in uniforme che disperdono assembramenti e irrompono nelle case senza chiedere il permesso a chi ci abita, soldati che pattugliano le strade in pieno giorno: scene simili fanno il loro effetto e dimostrano la determinazione del governo di andare fino in fondo, «al cuore del problema», per alleviare o eliminare la dolorosa sensazione d’insicurezza che assilla la popolazione. Quelle scene hanno la funzione «manifesta» di ostentare ferme intenzioni e la capacità di metterle in pratica. Ma la loro funzione «latente» è diametralmente opposta: esse servono a promuovere e facilitare il processo di «securitizzazione» della grande varietà di preoccupazioni economiche e sociali che nascono nell’attuale clima d’insicurezza generato, a sua volta, delle attuali condizioni di vita. Quelle stesse scene servono, in ultima analisi, a creare un’atmosfera da stato di emergenza, da nemico alle porte, da caccia alle streghe e ai complotti: a dare l’impressione che la nazione, e dunque anche la mia casa, siano esposte a un pericolo mortale. Servono a rafforzare chi sta «lassù in alto» nel ruolo provvidenziale di scudo capace d’impedire che tremende catastrofi si abbattano sulla nazione e sulla mia casa. Il diffuso senso d’insicurezza quotidiana è una realtà e i governi non hanno interesse a placare le ansie dei loro cittadini. Al contrario, hanno tutto l’interesse a gonfiare l’inquietudine che scaturisce dall’incertezza sul futuro e da un costante e onnipresente senso d’insicurezza, facendo in modo che le radici di quella insicurezza si aggrappino dove maggiori sono le occasioni di visibilità per ministri che fanno sfoggio di bicipiti, nascondendo invece al pubblico l’immagine di governanti sopraffatti da compiti che non sono in grado di svolgere perché troppo deboli. La «securitizzazione» è un trucco da prestigiatori, e altro non vuol essere; essa consiste nel dirottare l’ansia dai problemi che i governi non sanno e non vogliono risolvere ad altri problemi, cui gli stessi governi possono quotidianamente, su migliaia di schermi, mostrarsi intenti a lavorare e (talvolta) con successo. Della prima categoria di problemi fanno parte alcuni dei fattori primari da cui dipende la condizione umana, come la disponibilità di posti di lavoro di qualità, l’affidabilità e la stabilità delle posizioni sociali, una efficace protezione contro l’umiliazione sociale e la negazione della dignità. Politiche di securitizzazione → Strumentalizzazione del fenomeno migratorio come problema di «sicurezza» da parte della politica. • La paura dell’altro si intreccia con la sua criminalizzazione e sempre più spesso con la ricerca di un uomo(donna) forte che protegga i cittadini dai «barbari» • Come i senza dimora e i poveri, gli immigrati «illegali» vengono visti come una minaccia al benessere della società • Una politica della securitizzazione che finisce per alimentare (invece che rimuovere) le paure e per rinsaldare l’identità e appartenenza nazionale La battuta del primo ministro ungherese Viktor Orbán secondo cui «tutti i terroristi sono migranti» offre ai governi, in lotta per la sopravvivenza, la soluzione che tanto cercavano, anche perché contrabbanda implicitamente l’idea che tra i due gruppi esista un legame simmetrico e di reciproca causalità, e dunque una sovrapposizione pressoché totale. All’orecchio di governi che aspirano a recuperare, contro ogni previsione, una raison d’être sempre più traballante, l’idea avvolge le loro speranze di salvezza. È bastato erigere una recinzione alta quattro metri lungo i 176 chilometri della frontiera tra Ungheria e Serbia. Com’era prevedibile, il muro voluto dal capo del governo ungherese è risultato molto popolare. Come ha sintetizzato l’opinionista Roger Cohen sul «New York Times», «grandi bugie generano grandi paure, che generano grandi desideri di grandi uomini forti». ✓ Quali sono le conseguenze negative (gli effetti collaterali) della securitizzazione delle frontiere e delle nostre città? Effetti collaterali delle politiche di securitizzazione: • La rivalsa degli esclusi: reclutamento nelle file del terrorismo di giovani musulmani nati in Europa • Contrapposizione e conflitto sociale: «noi» vs «loro» • Alimentazione traffici illeciti e immigrazione irregolare • Sofferenza, morti, violazione diritti umani • Mero «spettacolo» che serve solo a cercare il voto di cittadini insicuri e spaventati e, quindi garantirsi il potere • Alla «securitizzazione» si può muovere un’ulteriore accusa: fa anche il gioco di chi recluta i terroristi veri. Chi sono quei giovani che fuggono dall’Europa per unirsi alle schiere dei terroristi e tornano solo una volta addestrati? «in Europa i millennial hanno particolarmente risentito dei recenti problemi economici dei loro paesi. Di fronte a questa sfida, i giovani europei tendono a considerarsi vittime della sorte». Questo senso di esclusione, tanto diffuso nella società, contribuisce a spiegare il fascino che il Daesh esercita sui suoi seguaci, dando loro la sensazione di contare e di avere il controllo. In effetti, identificare il «problema migratorio» con il problema della sicurezza nazionale e personale significa sul piano pratico essere alleati e complici di tre obiettivi di al-Qaida, del Daesh e dei loro potenziali satelliti e seguaci. Il primo di quegli obiettivi consiste nell’infiammare i sentimenti anti-islamici in Europa, usando le stesse popolazioni native europee per persuadere i giovani musulmani che arrivano in Europa Secondo Bauman è l’umanità ad essere in crisi e da questa crisi non c’è altra via di uscita che la solidarietà tra gli uomini, il rifiuto della contrapposizione tra «noi» e «loro». La sfida etica si condensa nello slogan «un solo pianeta, una sola umanità». Siamo ormai prossimi a un bivio lungo il cammino verso i nostri possibili futuri: una strada porta al benessere fondato sulla collaborazione, un’altra conduce all’estinzione collettiva. ✓ Cosa intendeva Kant per diritto di ospitalità o visita? In che modo viene ripreso da Bauman questo concetto? Kant fa notare che il tema, e le sue considerazioni al riguardo, non vanno visti in termini di filantropia ma di diritto, e perciò ospitalità significa il diritto di uno straniero di non essere trattato ostilmente quando arriva sul suolo di un altro. Quest’ultimo può allontanarne il primo quando ciò accada senza che ne consegua la rovina, ma sinché quello straniero sta pacificamente al suo posto, non lo può accogliere ostilmente. Non è un diritto di essere ospitato ciò che dà luogo a questa pretesa, ma un diritto di visita, che spetta a tutti gli uomini, di proporsi come membri della società per via del diritto al possesso comune della superficie della Terra. Essi non possono disperdersi all’infinito e devono infine sopportarsi a vicenda, e originariamente nessuno ha più diritto che un altro a stare in un luogo di essa. Kant non postula il venir meno della distinzione tra i vari territori ma un «diritto di proporsi come membri della società», vale a dire di comunicare, avviare una interazione amichevole e infine cercare di stabilire legami di amicizia mutuamente vantaggiosi. A tal fine Kant chiede che all’ostilità subentri l’ospitalità. Nel principio di reciproca ospitalità egli recupera la possibilità della pace universale, una prospettiva che ponga fine alla lunga storia di guerre rovinose che lacerano il continente europeo. Ci troviamo qui nella sfera dei diritti e doveri morale), e non dei «fatti della vita» (politica). Ed ecco cosa dice Kant su questa distinzione: se le due massime non possono coesistere in un unico comando, allora c’è effettivamente un conflitto della politica con la morale; se però devono essere comunque unificate, allora il concetto del contrario [cioè della contrapposizione tra politica e morale] è assurdo, e la questione di come sia risolvibile quel conflitto non si può neanche porre come problema. Secondo Emmanuel Lévinas È necessario che l’ontologia si sottometta alla valutazione e al giudizio dell’etica, e non viceversa. Contrariamente ai trascorsi etimologici del concetto di «morale», l’etica non è un insieme di mores (usanze) che «può tranquillamente essere sostituito da un altro»: non è insomma qualcosa che rispecchi il «volere della società» in un determinato momento e che in un altro momento potrebbe essere diverso. È altrove che bisogna cercare il più demoralizzante e tremendo dei tanti pericoli che corre la morale: nel territorio cioè dell’«adiaforizzazione», – nell’area cioè delle interazioni umane esonerate dal giudizio morale, e perciò di fatto considerate «moralmente indifferenti», «al di là del bene e del male», valutate unicamente sull’efficienza nel «dare risultati». Il problema è che tendiamo a vivere in un mondo nettamente e, si direbbe, irreparabilmente diviso tra «noi» e «loro». Essere morali significa, in sintesi, conoscere la differenza tra il bene e il male, saper tracciare la linea divisoria tra l’uno e l’altro. Per estensione, significa anche riconoscere la propria responsabilità nel promuovere il bene e resistere al male. Spesso però risulta inevitabile porre dei limiti a tale responsabilità, riducendola alla dimensione del possibile, di ciò che ci possiamo permettere, che è alla nostra portata e, in una parola, «realistico». Una responsabilità per il benessere dell’Altro, definita in termini assoluti, illimitati e privi di specificazioni, rischia di essere un comandamento a misura dei santi, una regola cui solo un santo potrebbe sottomettersi pienamente, ininterrottamente e senza eccezioni. Ma solo pochi di noi possono dirsi santi: ne consegue per la società l’inevitabile compito, l’irrinunciabile missione, di tagliare la responsabilità assoluta a misura degli uomini «medi», normali, e delle loro realistiche possibilità: di stabilire cioè fin dove si debba spingere la messa in atto di quella responsabilità, l’adempimento del dovere morale, per non scivolare nel suo opposto, nella cecità morale. Ciò che invece è in linea di principio evitabile – e dunque va respinto ed evitato con ogni mezzo – è la tendenza di tutte le società umane a fissare anche un altro tipo di limite: a circoscrivere il perimetro degli esseri umani verso cui si applicano le responsabilità morali, escludendo dalla sfera delle obbligazioni morali determinate categorie di (altri) esseri umani. Mentre la prima limitazione è radicata nel carattere assoluto della responsabilità morale, la seconda è inconciliabile con tale responsabilità, e va vista e affrontata come una sua violazione imposta dall’«esterno», da forze estranee alle preoccupazioni e considerazioni morali. Per parlare chiaro e tondo: la tendenza a fermare e disconoscere la responsabilità morale per gli altri una volta raggiunto il confine tra «noi» e «loro» è totalmente e incondizionatamente estranea e contraria all’«essere morali». Il conflitto tra la natura incondizionata della responsabilità morale e la sua negazione o sospensione nei confronti di determinati esseri umani produce inevitabilmente dissonanza cognitiva: uno stato della mente e della volontà molesto e nocivo, dovuto a una sconcertante ma irrisolvibile ambivalenza della percezione e del comportamento. Tendiamo ad attribuire a chi è escluso dalla nostra responsabilità morale connotati tali da macchiarne e screditarne l’immagine, ovvero nel ridefinire e ripresentare queste categorie di esseri umani come indegne di considerazione e rispetto, giustificando così la nostra indifferenza e noncuranza nei loro confronti come meritato castigo per i vizi insanabili o le perfide intenzioni di coloro che disprezziamo e ignoriamo, trattiamo duramente o trascuriamo ostinatamente. ✓ Da cosa dipende, secondo Bauman, la sopravvivenza dell’umanità nella società globale contemporanea? In che modo questo si collega alla riflessione sviluppata da Peter Singer sul mancato sviluppo di un senso di appartenenza ad un’unica comunità? La scelta tra sopravvivenza ed estinzione dipende dalla nostra capacità di convivere, fianco a fianco, in pace, solidarietà e collaborazione reciproca, con stranieri che possono avere (o non avere) opinioni e preferenze simili alle nostre. L’apertura delle frontiere sembra essere più appropriata rispetto alla chiusura per gestire e regolarizzare i flussi migratori, un’apertura basata sulla definizione delle migrazioni non come bisogno ma come diritto: democratizzazione delle frontiere. One World (Peter Singer, Einaudi 2003) Il titolo, “One World”, ha un duplice significato: ➢ descrive la crescente interrelazione della vita su questo pianeta (ambiente, economica, diritto e politica, …; ➢ auspica lo sviluppo di un’unica COMUNITA’, a partire dalla ridefinizione dei “nostri simili”, della categoria NOI. “L’attentato dell’11 settembre 2001 e la reazione degli USA confermano la progressiva globalità del mondo, in quanto mostra che nessuno, per quanto potente, è invulnerabile ai colpi mortali provenienti dai più lontani angoli della terra”. «È ora di sentirci cittadini globali. Bisogna cambiare l'idea di comunità: chi vive in Afghanistan è ora importante almeno quanto il tuo vicino di casa o il tuo connazionale. Fino a oggi, credere che non fosse così è stato per le nazioni ricche solo immorale: adesso è anche pericoloso».
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