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Ritardo mentale e sindrome di down. Autonomia cognitivo comportamentale, Schemi e mappe concettuali di Pedagogia

Ritardo mentale e sindrome di Down: definizione, classificazione e valutazione. Implicazioni cognitive del ritardo mentale nella sindrome di Down: competenze e autonomia. Autonomia comportamentale e competenza comunicativa in un ragazzo con sindrome di Down: studio di un caso singolo

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2022/2023

Caricato il 18/11/2023

claudia-savini
claudia-savini 🇮🇹

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Scarica Ritardo mentale e sindrome di down. Autonomia cognitivo comportamentale e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Pedagogia solo su Docsity! RITARDO MENTALE, SINDROME DI DOWN E AUTONOMIA COGNITIVO COMPORTAMENTALE Capitolo 1. Ritardo mentale e sindrome di Down: definizione, classificazione e valutazione. Il termine “ritardo mentale” (RM) fa riferimento a diverse realtà complesse che, da una parte hanno in comune la presenza di capacità intellettive inferiori alla norma, dall’altra si differenziano per la gravità del deficit cognitivo, delle abilità di comportamento, della patologia da cui dipende. Oltre alla sindrome di Down, che è la più frequente, parleremo anche della sindrome di Williams e la sindrome dell’X fragile. Il bambino affetto da sindrome di Down ha un processo di sviluppo “rallentato”, nel corso del quale il ritardo mentale si manifesta gradualmente a livello sia quantitativo che qualitativo. Quando parliamo di sindrome di Down è importante effettuare una distinzione tra i soggetti affetti da questa patologia in base a due criteri fondamentali: il livello di gravità di ritardo mentale e le caratteristiche del contesto in cui è inserito, in quanto esso può fungere da facilitatore, quindi promuovere la maturazione, o da barriera nell’acquisizione dell’autonomia. Abbiamo diverse definizioni di ritardo mentale. La definizione più frequente definisce il ritardo mentale una condizione caratterizzata da disturbi delle capacità intellettive che possono essere presenti già alla nascita, che coinvolge la funzionalità del sistema cognitivo, adattivo e comportamentale a diversi livelli di gravità, perdurante lungo l’intero arco di vita. La definizione condivisa da clinici e ricercatori, invece, è quella riportata nel DSM-4, il quale per ritardo mentale intende una complessa condizione intellettiva nella quale si rilevano deficit ascrivibili al funzionamento cognitivo diverso rispetto alla norma ed alle componenti personologiche e temperamentali del soggetto. All’interno del DSM-4 questo disturbo è collocato tra le patologie della personalità, inoltre, all’interno del documento sono stati fissati i criteri di rilevazione e di diagnosi che consentono di identificare il RM. Per una definizione più dettagliata dell’RM si fa ricorso alle caratteristiche individuate nelle varie classificazioni. Le classificazioni dell’RM più diffuse sono principalmente quattro: quella elaborata dal DSM-4, quella descritta dall’ICD (International Classification Disease), quella proposta dal DDA (Developmental Disabilities Act) e quella avanzata dall’AAMD (American Association of Mental Disorders). Esse si differenziano tra loro per la metodologia applicata nella diagnosi dell’RM, per i diversi approfondimenti che ne derivano e per il grado di funzionalità operativa nell’ambito del contesto clinico-applicativo. La classificazione elaborata dal DSM-4 considera il ritardo mentale una condizione clinica in cui la funzione intellettiva risulta essere notevolmente al di sotto della norma, con limitazioni in almeno due delle seguenti aree: comunicazione, cura della persona, vita in famiglia, capacità sociali/interpersonali, autodeterminazione, capacità di funzionamento scolastico, lavoro, tempo libero, salute. Un altro parametro di riferimento è l’età di insorgenza; infatti, per essere tale il ritardo deve manifestarsi prima di 18 anni. Infine, la diagnosi di ritardo mentale viene effettuata sulla base della misurazione delle capacità intellettive del soggetto. Nel DSM-4 vengono identificati quattro livelli di compromissione: 1. Ritardo mentale lieve: QI compreso tra 70 e 50; in questo caso i soggetti presentano difficoltà sociali e intellettive, soprattutto all’inizio del periodo di scolarizzazione; 2. Ritardo mentale moderato: QI compreso tra 49 e 35; in questo caso i soggetti presentano difficoltà dal punto di vista della competenza sociale e delle capacità cognitive (difficoltà nel gestire autonomamente le interazioni; è in grado di eseguire compiti poco articolati e complessi e richiede la costante supervisione); 3. Ritardo mentale grave: QI compreso tra 34 e 20; i disturbi tipici di questo livello di gravità si manifestano sin dall’età precoce e invadono tutta la sfera intellettiva del soggetto; 4. Ritardo mentale gravissimo: QI inferiore a 20; in questo caso i soggetti presentano capacità cognitive minime, le quali non consentono al soggetto di svolgere alcuna attività senza il supporto attivo e continuo di un adulto. L’ICD-10 considera ritardo mentale una condizione clinica definibile come uno stato mentale e non come una malattia. Nell’ICD-10, inoltre, l’attenzione viene spostata dalle variabili psicometriche (DSM-4) alle variabili che derivano dall’interazione individuo-contesto e dall’influenza esercitata da tale interazione sulle capacità intellettive (le abilità cognitive vengono valutate in relazione alle norme le aspettative culturale della popolazione di riferimento). Gli stadi descritti in questo documento sono: 1. Ritardo lieve: QI compreso tra 69 e 50 ed un’età mentale che va dai 9 ai 12 anni; 2. Ritardo medio: QI tra 49 e 35 ed un’età mentale che va dai 6 ai 9 anni; 3. Ritardo grave: QI compreso tra 34 e 20, ed un’età mentale che va dai 3 ai 6 anni; 4. Ritardo profondo: QI inferiore a 20 ed un’età mentale che non supera i 3 anni. Il denominatore comune tra l’ICD e il DSM-4 E la valutazione quantitativa delle capacità intellettive del soggetto. Il DDA sposta l’attenzione sulle compromissioni intellettive e comportamentali e sull’intensità del supporto riabilitativo e educativo necessario. Lo strumento più efficace per la rilevazione di queste informazioni e l’osservazione diretta. Il DDA consente di ottenere la valutazione funzionale delle disabilita di sviluppo. I criteri fondamentali sono: 1. Danno fisico e/o mentale; 2. Insorgenza precedente il compimento di 22 anni di età; 3. Caratteristiche permanenti; 4. Bisogno di aiuto e di sostegno; 5. Limitazioni funzionali nelle seguenti aree: cura di sé, linguaggio, apprendimento, mobilità, autodeterminazione, indipendenza, autonomia economica. La classificazione dell’AADM, adottata più frequentemente da ricercatori e clinici, definisce ritardo mentale una condizione intellettiva e cognitiva al di sotto della norma che presenta deficit in alcune aree adattive: comunicazione, cura di sé, abilità domestiche, sociali, capacità di vedere gli altri come risorse di aiuto, autonomia, abilità scolastiche, capacità di gestire il proprio tempo libero, la salute e la sicurezza, abilità lavorative. I criteri utilizzati per la diagnosi del ritardo mentale sono: 1. QI inferiore a 75-70; 2. Deficit in almeno due delle aree adattive; 3. Età di insorgenza precedente i 18 anni. Secondo questo documento la valutazione di ritardo mentale deve tener conto di più variabili: condizioni intellettive del soggetto, status adattivo e caratteristiche del contesto circostante. Anche in questo documento distinguiamo quattro livelli di gravità: 1. Ritardo lieve (QI 69-53): si manifesta con un deficit del linguaggio (vocabolario ridotto difficoltà nelle capacità di risolvere problemi astratti e complessi); 2. Ritardo medio (QI 52-36): si manifesta con deficit più importanti del vocabolario, difficoltà nella risoluzione anche di problemi semplici, scarso coordinamento psicomotorio, inadeguata accuratezza nel vestire e inibita attività lavorativa. 3. Ritardo grave (QI 35-20): il vocabolario è molto ridotto, con mancanza di autonomia personale, complicazioni del quadro clinico e delle condizioni fisiche; 4. Ritardo gravissimo (QI inferiore a 20): presenta le carenze proprie dell’RM grave con aggravanti quali la mancanza del controllo sfinterico, dell’autonomia personale e necessità di totale assistenza. competenza sociale; per questo, la presenza di disturbi nelle capacità linguistiche rappresenta un ostacolo ad un’interazione sociale efficace. Infatti, il soggetto con ritardo mentale presenta evidenti difficoltà nell’acquisizione delle capacità di interazione sociale. Generalmente, i comportamenti dei bambini sono controllati dagli adulti. Questa affermazione vale ancora di più per i bambini con patologie neurologiche, i quali necessitano di supervisioni e supporti tanto intensi quanto intense sono le loro abilità neurologiche ed intellettive deficitarie. Ovviamente, il supporto è determinato dalle modalità di interazione inadeguate ai bisogni del contesto sociale del bambino con RM. Diverse ricerche hanno evidenziato una stretta relazione tra la competenza sociale e il grado di sviluppo dell’intelligenza del soggetto. Per questo si è ritenuto necessario inserire la competenza sociale come fattore utile alla valutazione dell’RM. Altri ricercatori, invece, hanno evidenziato l’importanza del gioco durante l’infanzia, in quanto esso sostiene lo sviluppo cognitivo ed emotivo-sociale del bambino. Barnett e Fagan, ad esempio, sostengono che il gioco individuale con i coetanei o con oggetti/giochi favorisce la maturazione delle competenze cognitive. Nella psicopatologia dello sviluppo sono state condotte diverse ricerche per evidenziare le differenze relative alla maturazione e all’acquisizione dell’abilità comunicative, di gioco e linguistiche tra bambini normodotati e bambini con ritardo mentale. Sigman afferma che nelle attività di gioco, il bambino Down non riesce ad usufruire dell’aiuto dell’adulto e raramente attua comportamenti di richiesta per riuscire nel compito; al contrario, tende a mostrare comportamenti di attesa fin quando l’adulto comprende le sue esigenze e quindi fornisce suggerimenti che lo aiutano nel completamento dell’attività. Questo comportamento è sintomo di un deficit nella comunicazione non verbale in quanto il bambino Down non utilizza gli elementi forniti dal contesto per svolgere le attività. Secondo i ricercatori che studiano lo sviluppo infantile, le modalità comportamentali evolvono grazie all’interazione tra variabili individuali e contestuali. Alcuni autori ritengono che le interazioni con le figure adulte a lui vicino, in particolare madre e padre, sono importanti per lo sviluppo cognitivo del bambino. Belsky individua tre fattori che determinano lo stile interattivo della madre: 1. Caratteristiche della personalità materna; 2. Elementi temperamentali del bambino; 3. Condizioni/status sociali e contestuali. Durante il primo anno di vita del bambino, le attività cognitive, comunicative e motorie evolvono grazie a significativi cambiamenti del comportamento di interazione: il coinvolgimento sociale del bambino, la diminuzione del supporto da parte della madre sono tutti elementi che promuovono la reciprocità, l’iniziativa del bambino e l’esplorazione attiva. Per quanto riguarda l’esplorazione, questa attività favorisce in particolar modo la maturazione cognitiva e comportamentale del bambino. Il contesto si trasforma a seconda delle diverse fasi di sviluppo del bambino e del graduale sviluppo delle sue potenzialità cognitive: inizialmente, nel gioco sono frequenti sguardi, co- vocalizzazioni, sincronia e imitazioni reciproche. Con lo sviluppo della capacità di movimento, il gioco sposta la sua attenzione sull’esplorazione dell’ambiente e sulla manipolazione degli oggetti. Lo sviluppo che subisce l’attività di gioco investe anche le modalità di interazione bambino-genitore: inizialmente il bambino sfrutta il genitore come oggetto, successivamente ne usufruisce in quanto risorsa d’aiuto funzionale al raggiungimento di uno scopo. In questo rapporto persona-processo- ambiente i cambiamenti sono imputabili a diverse variabili che caratterizzano il contesto di interazione; gli elementi che influenzano il comportamento materno (fattori emotivi) e quelli prodotti dal bambino (fattori cognitivi) assumono un ruolo importante soprattutto se vengono esaminati i sistemi relazionali che coinvolgono bambini con ritardo mentale. Dal secondo anno di vita del bambino, i genitori iniziano a manifestare aspettative, richieste e ad imporre restrizioni; il bambino, a sua volta, cerca di assumere comportamenti accettati dai genitori. Sappiamo, però, che il bambino affetto da sindrome di Down presenta difficoltà relazionali, assumendo modalità di interazione inadeguate alle richieste del contesto sociale e ambientale. Nel processo di interazione vengono coinvolte diverse capacità cognitive come l’attenzione, la codifica delle informazioni, la memoria e la comunicazione. Kasari individua nei bambini con sindrome di Down difficoltà nella regolazione dell’attenzione all’interno delle interazioni genitore- bambino e genitori-bambino in presenza di un oggetto (un giocattolo). Questo studio evidenzia difficoltà di tipo attentivo nelle interazioni sociali, riconducibili non solo al RM, ma anche a difficoltà mentali e soprattutto all’organizzazione del proprio comportamento in funzione delle caratteristiche del contesto. Secondo Mundy, nei primi anni di vita il bambino non mette in atto comportamenti propri della fase iniziale dell’interazione (richiesta di aiuto, gioco condiviso, richiesta di oggetti). Queste modalità di interazione tipiche della prima infanzia, nel bambino con ritardo mentale sono articolate in modo più complesso: le interazioni sociali sono protese alla manifestazione e al soddisfacimento dei propri bisogni. La capacità di avanzare richieste e di richiedere attenzione dipende fortemente dal grado e dal livello di sviluppo cognitivo raggiunto. Sappiamo che nell’interazione sociale l’iniziativa assume un ruolo di primaria importanza. Alcune ricerche sulla sindrome di Down evidenziano come la modalità di interazione preferita di un bambino Down è l’attesa dell’iniziativa da parte dell’altro. In presenza di un coetaneo il bambino Down tende ad evitare l’altro, mostrandosi attratto da altre attività; tuttavia, questo non accade se i bambini Down sono affiancati da figure adulte che li indirizzano su percorsi di interazione già delineati. Inoltre, i comportamenti che i bambini Down hanno con i loro coetanei non vengono messi in atto durante le fasi di interazione con figure adulte. Questo accade perché i bambini Down preferiscono le interazioni con gli adulti, in quanto essi sono in grado di gestire gli scambi e presentano al bambino interazioni semplificate. In sostanza, la scarsa competenza sociale del bambino Down viene attribuita ad un’incapacità di base, riconducibile sia il grado di ritardo mentale sia a livello di acquisizione delle abilità cognitive raggiunto. La responsività sociale ed emotiva sono componenti importanti della competenza sociale in quanto favoriscono le relazioni interpersonali: infatti, l’individuo regola i propri comportamenti sulla base di quelli messi in atto dall’altro attraverso un processo di feedback. Se una persona non riesce a comprendere le reazioni degli altri, mette in atto comportamenti inadeguati. La responsività sociale, quindi, consente all’individuo di generare un comportamento espressione di elaborazioni cognitive basate sul feedback proveniente dall’altro. I fattori che influenzano il processo di interazione del bambino Down sono diversi e imputabili a difficoltà cognitive: incapacità di controllare il proprio comportamento (Incapacità del soggetto di rilevare, codificare ed elaborare cognitivamente gli aspetti complessi della situazione); difficoltà di elaborazione degli elementi emotivi presenti nel contesto sociale. Brunner sostiene che, durante le prime interazioni sociali, la madre tende ad incoraggiare il bambino al fine di stimolarne le competenze sociali. Questa modalità comportamentale, che prende il nome di scaffolding, è associata ad uno stile di interazione di tipo cooperativo. La responsività facilita la cooperazione in quanto dà al bambino la dimensione di essere incluso in uno scambio cooperativo reciproco e non di essere controllato da supervisori e adulti. Grazie ad alcuni studi è emerso che la qualità di scaffolding fornito dalla madre condiziona lo sviluppo cognitivo e sociale del piccolo e assume valenze importanti nelle prime interazioni sociali del bambino con ritardo mentale. Abbiamo detto che il bambino Down presenta difficoltà nelle attività di gioco, nella comunicazione non verbale e nelle interazioni sociali. Infatti, quest’ultimo risulta essere meno responsivo rispetto ad un bambino normodotato. Queste differenze dipendono dal fatto che la madre del bambino Down tende ad assumere un ruolo più attivo nelle interazioni sociali. A fronte di quanto detto, le ricerche evidenziano come le richieste materne di tipo direttivo, rispetto a quelle stimolanti, siano più facili da seguire ed abbiano un più elevato livello di risposte da parte dei bambini Down. Per dare sostegno a queste affermazioni, possiamo far riferimento allo studio condotto dal Landry. Questo studio pone l’attenzione sull’orientamento sociale del bambino Down in una situazione di gioco E in esso sono stati osservati i comportamenti di adattamento del piccolo rispetto alle richieste del contesto.gli autori dello studio hanno utilizzato un compito cognitivo strutturato (puzzle) e un compito meno strutturato (interazione libera tra coetanei, tea party). Landry ha osservato che la madre del bambino Down tende ad assumere comportamenti di tipo direttivo nelle situazioni meno strutturate e comportamenti simili a quelli della madre di un bambino normodotato in situazioni meno strutturate. Il bambino Down, invece, mostra di non essere in grado di chiedere conferma dell’adeguatezza dei propri comportamenti, apparendo concentrato sui propri interessi senza avere un feedback con le esigenze dei componenti del gruppo di gioco o di interazione. In sostanza, secondo Landry, il bambino Down non interiorizza specifici comportamenti sociali adeguati al contesto e per questo necessita costantemente del sostegno della figura materna. Se i bambini Down vengono coinvolti in attività collaborative e quotidiane (riordinare i giocattoli, preparare la tavola per la cena) insieme ad un’altra persona, risultano essere particolarmente abili. Questa abilità è dovuta alla spiccata capacità imitativa del bambino. Infatti, in questi casi, non si può parlare di comportamenti cooperativi in quanto mancano le caratteristiche cognitive di codifica delle esigenze altrui e di modulazione del proprio comportamento sulla base delle attività e delle reazioni messo in atto dall’altro. I bambini con ritardo mentale necessitano di essere inseriti all’interno di percorsi di terapia di diverso orientamento (psicologico, neuropsicologico o psichiatrico), al fine di consentire loro l’autonomia. In letteratura questi percorsi si differenziano in base ai vari orientamenti teorici. Solitamente abbiamo percorsi riabilitativi, i quali consentono l’acquisizione di strategie fondamentali del pensiero, e interventi educativi, i quali favoriscono l’utilizzo nelle attività della vita quotidiana di quanto appreso nel percorso riabilitativo (in autonomia). La riabilitazione neuropsicologica si occupa del trattamento di condizioni deficitarie di tipo cognitivo e favorisce nel soggetto l’attivazione-riattivazione delle funzioni adattive, in particolare delle attività cognitive che implicano più aree cerebrali e funzioni intellettive che agiscono in modo integrato tra loro. Il paradigma teorico alla base della riabilitazione neuropsicologica è di tipo modularistico e connessionistico: l’individuo viene considerato un elaboratore di informazioni per cui il funzionamento intellettivo è il frutto di complessi meccanismi cognitivi modulati l’un l’altro e connessi tra loro; memoria, attenzione, linguaggio, ragionamento sono integrate tra loro e la stimolazione di una influenza il funzionamento delle altre. Tra le altre tipologie, la terapia cognitivo- comportamentale svolge un ruolo di stimolazione e di mantenimento delle strategie apprese nel percorso riabilitativo specifico. Nella terapia cognitivo-comportamentale vengono proposti interventi mirati alle capacità del soggetto di integrare autonomamente le proprie abilità. Questa terapia fornisce al soggetto le sequenze per organizzare e adattare il proprio comportamento alle caratteristiche del contesto attraverso delle tecniche specifiche, efficaci sia all’acquisizione di competenze di tipo lavorativo, sia all’apprendimento delle abilità fondamentali per l’autonomia personale e sociale. Queste tecniche cognitivo-comportamentali sono: 1. Rinforzo: consente all’individuo di aumentare la probabilità di produrre le risposte adeguate; questo obiettivo viene perseguito facendo seguire all’esecuzione dei comportamenti richiesti al soggetto conseguenze positive; il rinforzo può essere materiale (cibo, bevande, gioco), sociale (baci, abbracci, lodi), simbolico (piccoli oggetti gratificanti quali punti, gettoni che vengono accumulati fino al raggiungimento di un traguardo in cui si ottiene quanto stabilito inizialmente), informazionali, sensoriale (vengono stimolate tutte le attività sensoriali del soggetto, ovvero tatto, udito, gusto, olfatto, vista). 2. Shaping: è una tecnica di modificazione del comportamento; il soggetto viene stimolato per riprodurre ed incrementare progressivamente le risposte di un certo tipo, fino a raggiungere l’intensità e la qualità prefissata nel trattamento. Sono state individuate una serie di fasi: scelta del comportamento-risposta finale, scelta del comportamento-risposta iniziale, scelta del rinforzo da applicare nei diversi step di acquisizione. L’autonomia comportamentale e la competenza comunicativa sono due elementi fondamentali per un funzionale adattamento individuo-contesto. L’esposizione dell’individuo a scambi relazionali di diverso tipo è importante per il processo di apprendimento dell’autonomia legate alla gestione del contesto in cui è inserito e delle abilità di comunicazione nell’accezione sia espressiva delle informazioni sia ricettiva. Varie ricerche affermano che i soggetti con gravi difficoltà intellettive hanno una scarsa competenza comunicativa. Nel lavoro proposto in questo capitolo si esaminano le caratteristiche comportamentali e le competenze comunicative di un ragazzo affetto da sindrome di Down. L’obiettivo dello studio è quello di verificare l’efficacia del programma di stimolazione cognitivo-comportamentale. Tramite l’osservazione diretta delle prestazioni del caso clinico, vengono analizzati i miglioramenti e le modifiche delle risposte prodotte dal soggetto in relazione sia alla propria maturazione cognitiva, sia ad un’autonoma interazione individuo-contesto centrata sul loro reciproco adattamento. IL CASO. RF È un ragazzo con sindrome di Down.al momento dell’inserimento nel trattamento a un’età cronologica di 10,2 anni, mentre la sua età mentale è di 4,5 anni. Il suo QI è 43 e, sulla base dei criteri fissati dall’AAMD, il suo ritardo mentale e di grado medio. RF frequenta la prima media, il livello socio-economico della famiglia è medio ed ha un fratello normodotato di vent’anni. RF è stato sottoposto, fin dei primi anni di vita, a riabilitazione del linguaggio. Per quanto riguarda le abilità motorie, esse sono state favorite da un’intensa attività sportiva di tipo agonistico. Il trattamento sperimentale a cui RF è stato sottoposto ha avuto una durata di 12 mesi. Il programma è stato strutturato in tre fasi: 1. Valutazione iniziale; 2. 12 mesi di trattamento; 3. Valutazione finale. Le sedute di trattamento avevano una durata di 90 minuti ciascuna, per una frequenza di due volte a settimana. Le variabili che hanno costituito direttrice dell’intervento sono il trattamento cognitivo e quello socio-relazionale. Il trattamento cognitivo è stato incentrato sulla stimolazione del concetto di sé, della consapevolezza delle proprie capacità cognitive, della capacità di progettazione di programmazione e nel metodo di acquisizione di informazioni. Il trattamento socio-relazionale è stato incentrato sulla stimolazione della pragmatica della comunicazione, della sperimentazione dei ruoli sociali, dell’interazione con l’adulto e con i pari ed infine dell’autoaffermazione. Infine, per quanto riguarda l’area comportamentale, si è prestata attenzione all’adattamento sociale comportamentale, all’autonomia personale e alla gestione del tempo degli interessi. L’autonomia cognitivo-comportamentale è stata stimolata attraverso lo svolgimento di attività di vita quotidiana in un laboratorio organizzato ad hoc. In questo laboratorio, dotato di una cucina, una cameretta, ed un salottino, RF è stato invitato ad eseguire azioni complesse relative alle attività quotidiane scelte sulla base di sequenze cognitive e di comportamento. In sintesi, il bambino doveva decidere cosa mangiare e come prepararlo per poi riordinare l’ambiente. L’esecuzione di queste attività veniva stimolata attraverso specifici comandi verbali. La capacità comunicativa, invece, veniva stimolata attraverso le interazioni di RF sia con figure adulte sia con i coetanei. I vari compiti previsti dal trattamento sono stati gradualmente resi più complessi, da un lato togliendo i supporti concreti che fungevano da semplificatori, dall’altro, proponendo nuove strategie risolutive. Per valutare l’efficacia del trattamento e le modificazioni manifestate da RF, quest’ultimo è stato sottoposto ad una batteria di test e ad osservazioni sistematiche. Per quanto riguarda le batterie di test, RF è stato sottoposto a: 1. Scala Battelle: è una scala composta da cinque domini (personale-sociale, ad attivo, comunicativo, motorio e cognitivo). Le prove previste da questi domini hanno consentito di verificare il livello di sviluppo delle capacità cognitive fondamentali della crescita attraverso item che propongono compiti e situazioni legate alla realtà del soggetto. Inoltre, questa scala consente di verificare il grado di autonomia del soggetto. La scala Battelle viene utilizzata per la valutazione di soggetti dalla nascita fino agli otto anni; tuttavia, viene utilizzata in questo caso in quanto RF ha un’età mentale di 4,5 anni. 2. Scala Leiter: è una scala di intelligenza che consente di valutare il quoziente intellettivo e l’età mentale del soggetto. Prevede compiti cognitivi non verbali ed utilizza prova di difficoltà crescente. I compiti richiesti al soggetto comportano l’individuazione dei criteri di selezione, categorizzazione, ragionamento logico, discriminazione percettiva classificazione semantica. 3. Prova di comunicazione referenziale (PCR): È un test che consente di valutare la competenza comunicativa del soggetto nella modalità si espressiva sia ricettiva. Al termine del trattamento si evidenzia un progressivo miglioramento del quadro cognitivo, oltre ad un aumento del quoziente intellettivo da 43 a 45 nell’arco dei 12 mesi. Le sue prestazioni intellettive appaiono nettamente potenziate, tanto che è stato possibile sottoporre il soggetto al test delle Matrici Progressive di Raven per la valutazione del ragionamento logico (R effe in questa prova ha dato 15 risposte corrette su 36 item, il che indica la possibilità di un ulteriore rafforzamento delle sue competenze mentali). Le sue abilità attentive sono notevolmente migliorate; tuttavia, l’autonomia personale sociale di RF è ancora al di sotto della richiesta del contesto: il soggetto mostra ancora difficoltà durante le fasi iniziali delle interazioni con i coetanei; al contrario, nelle interazioni con le figure adulte, tale difficoltà appaiono di minore intensità. Sono stati registrati dei miglioramenti anche in relazione alla competenza comunicativa: il soggetto dimostra di riuscire a costruire più facilmente frasi di senso compiuto, tanto da migliorare l’interazione verbale tra interlocutore e soggetto esaminato. RF ha mostrato anche grandi miglioramenti nell’interazione con l’ambiente: infatti, assume comportamenti più adeguati al contesto e alle caratteristiche dell’altro. Infine, RF a mostrato di essere in grado di svolgere simultaneamente due compiti che richiedono tempi di esecuzione di attenzione differenti. Il caso clinico finora esaminato dimostra che il soggetto con sindrome di Down è in grado di sviluppare autonomie comportamentali nelle relazioni sociali, di acquisire abilità comunicative e di servirsene appropriatamente per rispondere alla richiesta del contesto. Tutto questo, ovviamente, se si è disposti a sottoporre il soggetto a percorsi di stimolazione del tipo funzionale. In più, dai risultati di questo studio emerge che l’efficacia del trattamento terapeutico di un bambino con sindrome di Down aumenta se nella programmazione si tiene conto di due aspetti fondamentali: quella rieducativo e quello riabilitativo.
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