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Roma antica, Storia e documenti (Marrone, Vio, Calvelli), Schemi e mappe concettuali di Storia Romana

Riassunto del manuale Roma antica

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2022/2023

Caricato il 16/02/2023

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Scarica Roma antica, Storia e documenti (Marrone, Vio, Calvelli) e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Storia Romana solo su Docsity! Capitolo 1: La Roma delle origini 1. Una “storia difficile” La ricostruzione della storia di Roma arcaica presenta notevoli difficoltà e rappresenta anche una palestra di metodo, perché le fonti informative, scarse, di differente tipologia e di ardua interpretazione, costringono ad un severo lavoro di comparazione ed è di critica. Tito Livio, Diodoro Siculo e Dionigi di Alicarnasso sono i tre storici antichi le cui opere differiscono in forma più estesa e continuativa gli eventi; operano però in età cesariano-augustea, dunque a molti secoli di distanza dai fatti oggetto della loro narrazione; attingono a storici che non risalgono più indietro del III secolo a.C. perché i romani a lungo affidano la loro memoria storica collettiva a forme di trasmissione orale o per immagini. Le uniche registrazioni scritte dei principali eventi pubblici erano curate dal collegio sacerdotale dei pontefici, i quali predisponevano ogni anno una tavola imbiancata (tabula dealbata) su cui trascrivevano in forma sintetica le notizie di interesse collettivo. Tali documenti sarebbero andati distrutti nel 390 a.C., in occasione dell’incursione di una banda di guerrieri celtici. Ricompilati per le parti andate perdute, vennero pubblicati in 80 libri sotto il titolo di Annali massimi, dal pontefice P. Muzio Scevola verso il 130 a.C. e furono utilizzati dagli storici annalisti, perché scandivano la loro esposizione secondo un racconto anno per anno. Il periodo precedente al 390 a.C. risulta esposto a non poche interpolazione, frutto delle vanterie di autori che intendevano glorificare la famiglia di appartenenza attraverso l’inserimento di imprese eroiche attribuite ai loro antenati (il protagonismo dei Fabi nella storia arcaica della città dipenderebbe in parte dal primo storico analista Fabio Pittore); numerosi sono poi gli episodi oggetto di retrodatazione, verosimilmente inventati e inseriti in un passato lontano, per legittimare l’introduzione di nuove istituzioni grazie all’autorevolezza di un illustre precedente; non mancano inoltre gli i travestimenti ellenizzanti, secondo i quali alcuni eventi della storia romana vennero raccontati deformandoli sull’esempio di celebri episodi della storia greca o sincronizzandoli con essi; si registra inoltre per il periodo arcaico la presenza di una moltitudine di aneddoti edificanti e la menzione di atti di eroismo individuali o collettivi che avevano l’intento di colmare l’assenza di informazioni attraverso la proposta di comportamenti esemplari e celebrativi della grandezza di Roma. Si è a lungo ritenuto che i dati provenienti dalle indagini archeologiche potessero rappresentare la chiave per una puntuale verifica. La continuità insediativa plurisecolare di Roma ha però ostacolato la realizzazione di estensive campagne di scavo che alla fine dell’Ottocento si sono concentrate quasi esclusivamente nell’area del foro del colle Palatino; esse hanno interessato con maggior profitto antichi centri dell’Lazio. Una nuova prospettiva di indagine è inoltre maturata grazie all’evoluzione degli studi antropologici, i quali hanno fornito una valida chiave di lettura per miti, saghe e leggende, grazie al trasferimento al mondo antico delle metodologie di studio e di modelli interpretativi applicati alle società pre- statali e alle loro forme organizzative. Tale approccio ha condotto al recupero e alla valorizzazione di notizie sparse e circoscritte provenienti dall’antiquario, cioè dalle opere di autori e trattatisti antichi che si impegnarono a ricercare e trasmettere notizie riferite ad antichissime feste, cerimonie, culti, miti di fondazione. L’elaborazione di leggende rispondeva alla duplice finalità di individuare soluzioni facilitate di memorizzazione degli eventi trascorsi ritenuti fondanti per la storia cittadina, ma anche di costruire un passato comune per le diverse componenti etniche della Roma arcaica. 2. Fondazione di Roma  Un problema di cronologia La data della fondazione di Roma è collocata perlopiù dalle fonti storiografiche nel corso dell’VIII secolo a.C. In età imperiale finì per affermarsi come più accreditata la cronologia fissata dall’autorevole erudito latino Marco Terenzio Varrone che aveva individuato la notte tra il 20 e il 21 aprile 753 a.C. come la data in cui si sarebbe svolta fra Romolo e Remo la contesa che doveva indicare chi fra i due gemelli provenienti da Albalonga dovesse assolvere al ruolo di fondatore. La città nacque come un nuovo insediamento sul suolo vergine e proprio per decidere luogo e nome del centro abitato i gemelli si sarebbero affidati al responso divino; Remo avrebbe scelto il colle Aventino e il nome Remonia, mentre Romolo il Palatino e il nome Roma. Il primo segnalò il volo di sei avvoltoi, rivendicando l’anteriorità dell’avvistamento, mentre il secondo annuncio la comparsa di 12 uccelli, reclamandone la superiorità numerica. Il ciclo leggendario sulla nascita di Roma conosce molte versioni, ma tutte menzionano l’uccisione di Remo nel corso del rito di fondazione, allorché l’attraversamento provocatorio della linea del confine cittadino tracciata dal gemello sarebbe stato punito con la morte. I nemici di Roma sfrutteranno nel tempo l’episodio per bollare il fondatore con il marchio dell’assassino: c’è chi ha rilevato la presenza di una salvifica violenza iniziale, quasi generatrice, in tutti i miti riguardanti la nascita del cosmo e in processi identitari per comunica comunità in cerca di un nuovo inizio; C’è chi ha considerato l’abbattimento del gemello come segno della rimozione della componente selvaggia dell’uomo, per far spazio alla dimensione disciplinatrice che si esprime in un atto di civilizzazione urbana; c’è chi ha inteso la morte di Remo come un rito di sangue finalizzato alla sacralizzazione del confine, con lo scopo di sancire la proibizione a varcare in armi il limite della città, chiamato pomerio. Il significato di tale termine è inerente alle procedure con cui veniva tracciato il limite cittadino, le quali saranno ritualmente replicate per tutte le colonie che i romani fonderanno nel corso della loro espansione territoriale. A lungo si è ritenuto che la leggenda di fondazione non presentasse elementi di attendibilità e fosse maturata in epoca posteriore. Un’importante scoperta archeologica intervenuta nel 1988 confermerebbe però non solo la nascita di Roma nel corso dell’VIII secolo a.C. ma anche taluni suoi aspetti attestati dalla tradizione letteraria. Scavando la valle tra il colle Palatino e l’altura della Velia un’équipe archeologica italiana ha accertato che nella seconda metà del VII secolo a.C. tutta l’aria l’area venne realizzata per mezzo di colmate, al di sopra delle quali venne costruita la Via Sacra. Sotto il riempimento sul lato palatino vennero rinvenuti quattro muri successivi e paralleli, il più antico dei quali è stato datato con precisione tra 730 e 720 a.C. Ramnes quella latina di Romolo e nei Luceres gli etruschi, che si sarebbero aggiunti dopo la fondazione. C’è invece chi ha proposto una tripartizione in base alle funzioni secondo lo schema della società indoeuropea, considerando i Tities come dediti alle attività agricole, assegnando ai Ramnes il primato politico e religioso e delegando ai Luceres il ruolo di guerrieri. La popolazione maschile conosceva però un ulteriore articolazione perché ognuna delle tre tribù era suddivisa in 10 curie, per un totale di 30 unità. I membri delle curie prendevano il nome di Quiriti e costituirono nel loro insieme il corpo civico dei romani. Quirino era il loro Dio protettore e Romolo era riconosciuto come sua incarnazione. Tali suddivisioni della popolazione maschile incidevano soprattutto nell’organizzazione dell’esercito. In caso di guerra ogni tribù forniva una centuria di cavalieri, 100 uomini, i cosiddetti celeri, utilizzati anche come guardia personale del re, e 1000 uomini impiegati nella fanteria, al comando dei tribuni dei soldati (tribuni militum). Le 30 curie assicuravano dunque allo Stato 3000 fanti e 300 cavalieri. La somma delle curie costituivano i comizi curiati, la più antica assemblea romana; essa si riuniva nel cosiddetto comizio ed esercitava il potere di decidere provvedimenti in materia di diritto familiare. I comizi curiati avevano poteri anche in ambito religioso. Avevano inoltre facoltà di approvare o di esprimere dissenso nei confronti delle proposte formulate dal re, ma non avevano il diritto di promuovere autonomamente alcuna iniziativa politica. Erano un organismo deliberativo, ma senza autonomia di proposta. Il loro compito politico più importante consisteva nell’emanazione della legge con cui ogni anno le curie investivano il re del comando militare (lex curiata de imperio) e con cui approvavano la designazione di un nuovo re dopo la morte del suo predecessore. Nel corso dell’età regia fanno poi comparsa le prime magistrature, perlopiù in funzione di supplenza della figura del re quando questi non poteva assolvere a tutte le sue funzioni e designava qualcuno per sostituirlo. Ad esempio se il sovrano era impegnato a combattere fuori Roma, indicava un prefetto della città (prefectus urbi) per gestirla in suo sua sostituzione; quando il re era trattenuto a Roma e non poteva assumere personalmente il comando delle truppe in guerra, indicava un capo del popolo in armi (magister populi), forse affiancato da un capo dei cavalieri (magister equitum). 3. VIII-VII secolo a.C.: Roma “città aperta” Roma nacque sotto il segno della multietnicità e della vocazione espansiva. I successori allargarono la cintura egemonica intorno alla città, registrando vittorie contro Sabini e Veienti, trasferendo forzosamente in Roma gli abitanti di Albalonga, Politorio, Tellene e Ficana, fondando colonie, come ad esempio ad Ostia. A tale attività bellica si unì la progressiva inclusione nella comunità civica di gruppi di etnia, origine, estrazione sociale e consistenza numerica diversa. Di tale processo di integrazione recano traccia sia le fonti letterarie che quelle documentarie; Romolo, per popolare la nascente città, avrebbe infatti concesso il diritto di asilo, cioè la possibilità per i rifugiati provenienti dal resto d’Italia di risiedere nel nuovo insediamento, di condividere a pieno titolo i diritti politici e di partecipare alla distribuzione dei bottini di guerra. Anche l’episodio del ratto delle Sabine costituisce un’espressione traslata di come dalla guerra, attraverso la pratica di matrimoni misti, si pervenisse alla fusione tra Sabini e latini, con un riconoscimento paritario delle due componenti etniche attraverso l’affiancamento a Romolo del re Tito Tazio. L’unione si tradusse anche nell’alternanza di re latini a re Sabini e la città si andò caratterizzando sempre più per la sua dimensione di città aperta. Nella seconda metà del VII secolo a.C. si assistette peraltro in tutta l’Italia centrale all’incremento di un fenomeno già in precedenza attestato, cioè lo spostamento di interi clan di diverse etnie da una città all’altra in cerca di posizioni di dominio. 4. La “grande Roma dei Tarquini” L’ascesa al regno di Tarquinio nel 616 a.C. segnò l’inizio di quella che viene comunemente chiamata dominazione etrusca a Roma. I primi quattro sovrani di Roma avevano prodotto un’alternanza tra esponenti latini e Sabini. Gli ultimi tre re costituirono invece una vera e propria dinastia, poiché a Tarquinio, detto Prisco per distinguerlo dall’ultimo re di Roma, succedette il genero Servio Tullio, il quale venne ucciso a sua volta dal genero, Tarquinio il Superbo. Nel segmento conclusivo della monarchia il principio ereditario si affermò a spese di quello elettivo. Tarquinio Prisco fu il principale attore di una vera e propria rivoluzione tecnologica in quanto introdusse significativi cambiamenti, prodotto di nuovi saperi di cui era portatore il suo clan etnicamente composito, presto seguito in Roma dall’affluenza di numerosi altri gruppi familiari etruschi che si insediarono in forze. Tra le innovazioni importate dai clan etruschi figura in primo luogo la capacità di canalizzare le acque: si procedette infatti alla bonifica delle aree paludose e all’introduzione di nuove colture cerealicole e arboricole. L’agricoltura si avviò a divenire la protagonista assoluta dell’economia romana, implicando la definitiva sedentarizzazione delle comunità rurali e la correlata prima monumentalizzazione delle residenze sia pubbliche che private. In città si procedette alla costruzione di una rete fognaria, la cosiddetta Cloaca Massima; l’area paludosa i piedi del Palatino venne bonificata attraverso successivi riporti di terreno e trovò spazio la piazza del mercato pavimentata in pietra, chiamata Foro, su cui si affacciavano le strade pubbliche del potere (la Regia, sede dei re; il comitium, dove si riuniva il popolo in assemblea, la prima Curia hostilia, sede del Senato…) e i negozi. Dal Foro al Campidoglio venne poi lastricata una strada, la Via Sacra. Nelle vicinanze del corso del Tevere la costruzione del Foro Boario confinò il mercato del bestiame ai margini dell’abitato ma in connessione funzionale con la “via del sale”. Nella valle tra il colle Palatino e il colle Aventino il circo Massimo ospitò per la prima volta i giochi. Il volto urbano della città grazie all’edificazione dei primi templi si arricchì: il tempio di Vesta presso il Foro, i templi di Mater Matuta e della dea Fortuna ai piedi del Campidoglio. Tarquinio Prisco poi promise in voto l’edificazione di un nuovo tempio sul Campidoglio da consacrarsi a Giove Ottimo Massimo, Giunone e Minerva. Significative trasformazioni si produssero anche sul piano religioso; vennero infatti introdotto culti e modalità cerimoniali tipicamente etruschi, che si manifestarono in vario modo: alla costruzione di templi si affiancò progressivamente la tradizionale cultualità in spazi aperti; si registrò poi l’inclusione nel Pantheon di divinità prevalentemente femminili, che garantivano la fertilità dei campi, degli animali e degli uomini; alla triade maschile Marte, Giove, Quirino, si sostituì una nuova triade che contava anche presenze femminili: Giove, Giunone e Minerva. Si affermò inoltre nella vita pubblica il ricorso all’aruspicina, la scienza attraverso cui la classe sacerdotale si metteva in contatto con la divinità per interpretarne i voleri: da allora in poi qualsiasi atto dell’autorità romana veniva preceduto dagli auspicia, da apposite procedure religiose, tese a conoscere se la divinità fosse favorevole o meno all’azione che ci si accingeva a compiere. Per la celebrazione delle vittorie militari si adottò un rituale etrusco, che culminava nella cerimonia del trionfo, durante la quale il generale vittorioso percorreva alla testa del suo esercito la Via Sacra fino al tempio capitolino. 5. Le riforme di Servio Tullio Secondo la tradizione, Servio Tullio avrebbe assunto il potere grazie un colpo di mano di Tanaquil, moglie di Tarquinio Prisco; si insediò senza aver ottenuto il consenso del popolo e la ratifica del Senato. Circa la sua origine, la tradizione è assai discorde; alcuni autori lo dicono di ignoti natali, altri lo definiscono figlio di una prigioniera di guerra, da cui deriverebbe il nome Servio; l’imperatore Claudio lo ricorda invece come etrusco. Al re Servio Tullio la tradizione attribuisce un’intensa attività di riforme in vari campi; molti dubbi gravano sulla storicità di alcune di esse che potrebbero in realtà essere posteriori, ma a lui attribuite con scopo legittimante. Secondo la mentalità romana tutto ciò che si presentava come nuovo era ritenuto potenzialmente negativo, poiché contraddiceva la tradizione; la retrodatazione fittizia di taluni provvedimenti e la loro attribuzione a un illustre personaggio del passato si dimostrò quindi una pratica corrente cui si ricorse con disinvoltura nel corso della storia di Roma. L’azione politica di Servio Tullio sembra ispirata dalla volontà di allargare il nucleo di quanti partecipavano alla gestione del potere. Così il Senato accrebbe le sue unità fino a 300. Il processo aveva già preso avvio durante il regno di Tarquinio il Superbo ma con il suo successore l’accentramento del potere si accompagnò a una articolazione della società in nuove strutture organizzative con la finalità di rendere omogenea la collettività romana. Servio Tullio procedette a una nuova definizione amministrativa: - alle tribù gentilizie dell’ordinamento romuleo vennero sostituite quattro tribù territoriali, in quanto la popolazione fu distribuita in funzione del domicilio e non in più e non più in base alla nascita. Roma divenne allora “quadrata”, divisa in quattro distretti amministrativi. Le prime quattro nuove tribù si chiamarono: Suburana, Esquilina, Collina e Palatina; - il re divise poi il territorio che apparteneva a Roma, esterno però alla città (ager Romanus), in distretti rurali detti pagi e crea una dicotomia tra città e campagna, con connettendo il diritto di cittadinanza solo alla residenza urbana. La riforma dell’esercito rappresentò forse la più incisiva noti novità riferita Servio Tullio. Fino al VI secolo a.C. in tutta l’Italia centrale le azioni militari si configuravano come razzie, scaturendo dall’improvvisazione. Con Servio Tullio nacque invece una fanteria oplitica, una formazione di linea, armata pesantemente, che combatteva a ranghi serrati. L’individualismo doveva essere superato dalla coesione civica, espressione di una forte aggregazione collettiva e di un addestramento all’azione coordinata. Il carro da questo momento viene utilizzato solo come mezzo di trasporto, da parata o segno di prestigio. Nel nuovo esercito serviano ogni cittadino definiva qualitativamente il suo impegno bellico sulla base della personale capacità patrimoniale. Il soldato cittadino doveva infatti provvedere in proprio all’equipaggiamento. A tale onere corrispondeva una correlata possibilità di maggior arricchimento attraverso il bottino, un più rilevante peso politico e un accrescimento del prestigio personale. Capitolo 3: La transizione tra Monarchia e Repubblica 1. Il nuovo scenario internazionale La cacciata dei Tarquini comportò l’abbandono del regime monarchico. Secondo la tradizione letteraria, il nuovo assetto istituzionale prevede una costituzione detta repubblicana, in cui il potere militare, l’imperium, fu affidato a due nuovi magistrati di durata annuale, i consoli, eletti dai comizi centuriati. I primi consoli sarebbero stati Lucio Giunio Bruto e Marco Orazio, che, morto in guerra, lascerà il posto nello stesso anno a Publio Valerio Publicola. Però è del tutto evidente che la narrazione degli storici antichi sintetizza e semplifica un percorso di transizione di lunga durata per il quale si deve rinunciare a ricostituire una precisa scansione degli eventi; grazie al contributo di fonti archeologiche ed epigrafiche e possibile tratteggiare a grandi linee il contesto internazionale in cui si inserì il processo di mutamento istituzionale a Roma. Nell’ultimo decennio del VI secolo a.C. in tutto il quadrante del Mediterraneo occidentale si consumò infatti una lotta per il controllo della rotta commerciale tirrenica fra tre elementi etnici: quello etrusco, quello fenicio-punico e quello greco. I dati archeologici attestano per tali frangenti differenti strategie di alleanza adottate dalle città etrusche per mantenere il controllo delle percorrenze marittime attraverso le quali transitavano materie prime e prodotti finiti. Ad esempio, tre laminette d’oro di Pirgi documentano un patto siglato fra l’etrusca Cere e la fenicia Cartagine, al fine di arginare l’intraprendenza commerciale e militare greca. Anche la Roma etrusca provvide a schierarsi all’interno del conflitto in atto e il suo ultimo re Tarquinio il Superbo intavolò in trattative per stringere un trattato interstatale con Cartagine che venne però siglato solo dopo il suo allontanamento dalla città nel 509 a.C. Il testo del trattato dimostra come si fosse operata la divisione fra sfere di influenza: Roma vedeva riconosciuto il suo controllo sul territorio dell’Lazio antico ove i cartaginesi non potevano pernottare in armi o installare presidi, ma rinunciava nel contempo all’espansione nel mare Tirreno; era consentita solo la frequentazione di un tratto limitato di costa, dalla foce del Tevere al promontorio Bello. Il patto segna a livello internazionale il riconoscimento dell’egemonia di Roma sul Lazio costiero. 2. Ordinamento repubblicano: profili istituzionali Gli avvenimenti del quadrante tirrenico si intrecciarono con un profondo rimescolamento etnico all’interno della Roma etrusca. Per l’anno 505 a.C. le fonti parlano del trasferimento in Roma del sabino Atto Clauso (il nome latinizzato fu Appio Claudio), che condusse con sé 5000 clienti. Atto venne accolto e a lui furono assegnati 20 iugeri di terra mentre 2 iugeri spettarono a ciascuno dei componenti del suo clan. La saga di Mastarna attesta invece la conflittualità consumatasi nel VI secolo a.C. all’interno di alcune città etrusche, che coinvolse sia i Tarquini che esponenti di Vulci e di Faleri e si concluse con l’espatrio dei Celi e con la loro emigrazione a Roma. Le vicende legate alla cacciata dei Tarquini sembrano presentarsi non tanto come una vicenda privata interna alla dinastia etrusca, quanto piuttosto come la riacquisizione di potere in Roma da parte dell’elemento latino. Si produsse infatti con successo un moto di ribellione contro le recenti immigrazioni che innescò un lungo e graduale processo di de-etruschizzazione. L’allontanamento di Tarquinio il Superbo corrispose non solo a una rivincita di gruppi etnici latino- sabini, ma anche a una reazione delle famiglie aristocratiche le quali non avevano gradito l’appoggio fornito dalla monarchia etrusca ai ceti emergenti di artigiani, mercanti e recenti immigrati. Il mutamento istituzionale fu sancito da un giuramento con il quale la comunità romana si sarebbe solennemente impegnata a non farsi mai più governare da un re; la gestione dello Stato doveva essere riposta nella responsabilità pubblica, tanto che il nuovo ordinamento prese il nome di res publica, cioè di cosa del popolo. Nonostante il dettato delle fonti letterarie racconti un passaggio repentino da monarchia a repubblica, talune incongruenze che emergono dalla documentazione coeva prospettano in realtà l’avvio di una lunga fase di sperimentazione istituzionale. Per gli anni a cavallo tra il VI e V secolo a.C. sono attestate figure magistratuali non ben definite dalle fonti, da connettersi a una fase fluida di transizione. Tra questi si segnala il re addetto al sacro, che sembra corrispondere al sovrano il quale mantenne dell’antica carica solo gli incarichi religiosi e cultuali, continuando a soggiornare nella sua residenza, la Regia. Una magistratura di eccellenza in ambito forse militare fu quella di mastarna; essa sembra corrispondere non già a un nome personale bensì alla dizione etrusca della carica latina di magister populi, di cui non si conoscono le precise prerogative. Di nuova istituzione fu invece la carica di pretore, la cui etimologia, da pre ire (andare avanti), ne delinea una posizione di vertice, forse di carattere militare. La carica di console fu quella che progressivamente si affermò al vertice del potere esecutivo e rimase sempre assegnata a una coppia di magistrati; a costoro spettava il comando, sia quello civile dentro il pomerio che quello militare, fuori di esso (imperium). Avevano il diritto di convocare e presiedere il Senato, di indire e sovrintendere i comizi centuriati i quali ogni anno assolvevano il compito di eleggere due consoli per l’anno successivo; parlavano al popolo nel corso delle assemblee informative, dette concioni, che si riunivano nel corso dei 24 giorni precedenti la votazione delle leggi. Sembrerebbe confermare la tradizione letteraria, la quale attesta la precoce sostituzione dei re con i consoli, un documento epigrafico: i Fasti consolari. Si tratta di un elenco dei consoli dal 483 a.C. al 13 d.C., pervenuto in frammenti, unitamente a una lista di generali che ottennero il trionfo. L’elenco dei consoli fu redatto in tarda età augustea ma non risulta perfettamente attendibile in merito agli anni precedenti il 390 a.C.; è infatti fondato sugli Annali, resoconti stilati annualmente e conservati nella Regia, distrutti nel corso dell’incursione gallica di Brenno. La redazione della lista prevedeva nel margine esterno a sinistra un numero progressivo di dieci in dieci anni dalla fondazione di Roma, cui si accostano su due colonne i nomi dei massimi magistrati che davano il loro nome all’anno. È possibile che il consolato si sia fermato a conclusione di un prolungato periodo di transizione istituzionale, al termine del quale avrebbe assunto le prerogative proprie dei pretori, i quali sarebbero rimasti compiti di natura giudiziaria. Nonostante nessun documento scritto sia mai giunto a sancire la nuova architettura istituzionale, al termine di tale lento processo evolutivo si affermarono in Roma alcuni principi di base che connotarono un’esperienza costituzionale assolutamente originale. In primo luogo la separazione dei poteri provvide ad affidare a magistrature indipendenti le responsabilità di natura militare, giudiziaria e religiosa; la durata temporanea delle cariche consentì una turnazione nell’assunzione della gestione di governo; il carattere collegiale delle magistrature garantì un’amministrazione compartecipata e collettiva delle mansioni esecutive; la scelta su base elettiva innescò una serrata concorrenza per l’assegnazione delle cariche e rese il popolo almeno compartecipe del processo elettorale attraverso il voto esercitato nel corso dei comizi centuriati. Disattese tali principi solo la carica di dittatore che fu adottata in situazioni di emergenza quando un incombente pericolo bellico consigliava di unificare nelle mani di un solo soggetto la responsabilità del comando militare. In tali evenienze si produceva la sospensione del consolato e il dittatore nominava a sua scelta un capo della cavalleria (magister equitum), che lo coadiuvasse nello svolgimento delle sue mansioni; entrambi potevano rimanere in carica solo per sei mesi. Un elemento di cerniera e di continuità tra l’età monarchica e repubblicana fu rappresentato dal Senato. 3. La politica estera nel V secolo a.C. La fine della monarchia determinò a Roma cambiamenti radicali sul piano economico, sociale e militare. I conflitti che caratterizzarono la fine del VI secolo a.C. provocarono per la città la perdita di egemonia sulle numerose comunità che controllava al tempo della monarchia etrusca e tale arretramento di supremazia si coniugò ad altre gravi criticità. Una delle principali ragioni a cui ricondurre tale crisi furono le attività belliche di Sabini e Volsci. Si trattava di popolazioni di montagna stanziate sull’Appennino laziale che operavano scorrerie annuali a danno degli insediamenti di pianura. Intorno al 495 a.C. le incursioni divennero sempre più minacciose al punto che i Sabini giunsero a interrompere la percorribilità della via Salaria; i Volsci conquistarono la città di Terracina, la occuparono stabilmente e con tale colpo di mano impedirono ai romani le comunicazioni con la Campania. Ne risultarono quindi minacciati gli scambi commerciali romani sia verso nord e verso sud. Contemporaneamente Roma conobbe un periodo di gravi carestie ed epidemie. I cattivi raccolti determinarono a più riprese l’acquisto di grano in Etruria, a Cuma, in Sicilia, ma anche presso altre aree con cui Roma intratteneva rapporti, come l’africana Cartagine. Roma reagì alla critica situazione attraverso varie strategie; innanzitutto attraverso la religione. All’inizio del V secolo a. C. vennero edificati infatti numerosi templi. Nel 496 a.C. fu costruito il tempio a Saturno nel Foro, finalizzato a eliminare le influenze malefiche, essendo la divinità deputata a combattere le epidemie; nel 495 a.C. il tempio a Mercurio, Dio dei commerci; nel 493 a.C. il tempio intitolato a Cerere, dea del grano, Libero e Libera, divinità del vino, fu indirizzato a fornire raccolti e scongiurare le carestie; nel 484 a.C. il tempio a Castore e Polluce fu conseguenza dell’aiuto fornito dai due numi gemelli in occasione della vittoria romana sulla Lega Latina; nel 466 il tempio a Fidio fu dedicato per salvaguardare il patto stipulato con i popoli latini. Sul fronte militare diverse furono le strategie adottate da Roma poiché la città dovette confrontarsi su numerosi fronti: sostenne uno scontro decisivo contro una coalizione di città latine e intraprese infine una lunga guerra contro la città etrusca di Veio. Le comunità latine approfittarono delle travagliate vicende che seguirono alla cacciata dei Tarquini per dimostrare sempre maggiore insofferenza nei confronti dell’egemonia esercitata da Roma; all’interno della lega Latina la città costiera di Lavinio ambiva a esercitare una supremazia che si nell’attività domestica e agraria. Il servo era considerato proprietà del padrone ed era privo di diritti personali; d’altra parte, la sua posizione all’interno della famiglia non era molto differente da quella degli altri membri ordinari dello stesso nucleo parentale. Gli schiavi potevano rientrare in tipologie differenti: figli venduti dal capofamiglia nell’esercizio della patria potestas, oppure esservi per debiti, chiamati nexi, i quali, originariamente liberi, davano la propria persona a garanzia presso il creditore e venivano asserviti quando non potevano estinguere il debito nei tempi concordati; assai rari erano al tempo i prigionieri di guerra, perché nella società arcaica i nemici catturati spesso venivano riscattati in cambio di beni; più numerosi erano gli schiavi nati in casa d’altri servi. Gli schiavi potevano venire liberati dal padrone attraverso una procedura che prendeva il nome di manomissione, dal gesto dello schiaffo che segnalava ritualmente l’allontanamento dalla mano, cioè dal potere, dell’antico proprietario; una volta liberati, entravano a far parte della categoria sociale dei liberti che mantenevano stretti rapporti con il loro patrono. Il legame sociale che in maniera più incisiva contraddistinse la società romana fu però la clientela, la cui derivazione dal verbo cluere, cioè “ascoltare”, connota il cliente come colui che dà ascolto. Si trattava infatti di un rapporto volontario ma non paritario, contratto da due soggetti liberi di nascita e basato sulla reciproca fides, cioè lealtà nutrita di fiducia. Fra i due contraenti quello di maggiore autorità, il patrono, esercitava il patrocinio nei confronti del cliente, offrendogli sostentamento economico e assistenza giudiziaria: in cambio il cliente doveva al patrono obbedienza morale e politica. 2. Lo scontro tra patrizi e plebei: la strategia dell’alterità La società romana arcaica non sembra conoscere gravi conflittualità sociali fino al 494 a.C. Le fonti identificano i contendenti con i nomi di patrizi e plebei ma non chiariscono come sia nata questa distinzione né le dinamiche del conflitto maturato tra i due gruppi. Sappiamo che essi convivevano in Roma, ma non in condizione paritaria. I patrizi godevano di alcuni privilegi: erano gli unici a poter prendere gli auspici, ovvero a poter consultare gli dei. Poiché gli auspici erano obbligatoriamente preliminari a qualsiasi azione politico-militare, i patrizi erano gli unici a poter accedere alle magistrature repubblicane. Nella spartizione dei bottini di guerra potevano ottenere quote superiori a quelle dei plebei; in conseguenza i patrimoni dei patrizi erano generalmente più cospicui di quelli dei plebei, ragion per cui, come creditori, i patrizi potevano assoggettare più schiavi per debiti. Gli studiosi non hanno raggiunto un parere condiviso circa la composizione delle due classi. Per alcuni i patrizi sarebbero stati cavalieri mentre i plebei i fanti. Grandi proprietari terrieri, i patrizi avrebbero dato vita a un ordine chiuso, cioè gli uomini buoni e valorosi, con simboli dell’ordine tratti dall’originario equipaggiamento equestre: cioè l’anello d’oro, la striscia di porpora sulla tunica, il mantello corto, il calzare alto a stivaletto con strisce di cuoio, l’ornamento costituito dalle piastre rotonde di metallo prezioso, simili a parti dei finimenti dei cavalli. Secondo altri studiosi, patrizi e plebei costituivano la divisione del popolo tra coloro che svolgevano attività militare e coloro che ne erano esentati in quanto proletari. Altre teorie postulano che alla base della distinzione fosse sotteso l’elemento etnico. Due possibilità antitetiche sono state proposte: i clan etruschi, dopo la cacciata dei re, per contrastare l’ascesa politica delle famiglie latine avrebbero tentato di estrometterli dal potere politico, forti della circostanza che solo loro, i patrizi, conoscevano l’arte degli auspici; Secondo un’interpretazione di segno contrario, dopo la caduta della monarchia i nuclei familiari etruschi, i plebei sarebbero stati penalizzati sotto il profilo politico ed economico. È necessario rilevare che in ogni caso non si trattò di una distinzione esclusivamente di censo: si contavano infatti plebei poveri o plebei ricchi. All’inizio del V secolo a.C. lo scontro tra i due gruppi si radicalizzò, poiché in tale periodo aumentò considerevolmente l’impegno del nuovo esercito di fanteria pesante dei plebei, i quali si sentirono in diritto di avanzare proposte che migliorassero le loro condizioni di vita. La piattaforma di rivendicazioni si può riassumere in tre punti:  l’abolizione del nexum;  l’equa spartizione dei bottini di guerra;  l’ammissione alle magistrature. La lotta contro i patrizi può essere distinta in due fasi:  dal 494 al 367 a.C. venne posta in essere una strategia dell’alterità, poiché i plebei si organizzarono in Roma con proprie assemblee, propri magistrati, proprie leggi, riconosciuto ufficialmente;  dal 367 al 287 a.C. si attuò invece una strategia dell’integrazione e della parificazione. La forma di lotta adottata con successo nel corso del conflitto secolare per piegare le resistenze dei patrizi fu la secessione, che consisteva nel rifiuto della comunità plebea di partecipare alla vita religiosa e ai riti collettivi e nel suo ritiro in massa fuori dal pomerio, sul monte Sacro o sull’Aventino; tale decisione comportava per la comunità la perdita del favore degli dei e implicava la necessità per la controparte di intavolare trattative conciliatorie. Il primo caso in cui fu sperimentato tale strumento di lotta si verificò nel 494 a.C. I plebei si ritirarono fuori dell’Urbe e i patrizi inviarono a trattare un loro rappresentante, Menenio Agrippa, che pronunciò il famoso apologo in cui paragonava lo Stato a un corpo umano nel quale tutti gli organi avevano interesse a cooperare per la salvaguardia della salute. La plebe rientro però in città solo dopo aver ottenuto il riconoscimento di alcuni diritti: - quello di riunirsi in assemblea, detta concilium plebis, le cui deliberazioni, plebiscita, sarebbero risultate vincolanti solo per i plebei. Ogni anno tale nuova assemblea eleggeva dei magistrati plebei; in particolare due edili, preposti alla manutenzione dei templi dell’Aventino e il tempio di Cerere, Libero e Libera. - l’istituzione di due tribuni della plebe, anch’essi eletti annualmente dall’assemblea plebea con l’incarico di mantenere i contatti con la comunità patrizia. In quanto “magistrati-ponte” si videro riconoscere il privilegio dell’inviolabilità; in base alla legge chiamata consacrata diveniva infatti sacer, ovvero vittima sacrificale alle divinità plebee, chiunque attentasse all’incolumità di un tribuno. I tribuni della plebe godevano di due diritti: - lo ius auxilii, grazie al quale prestavano assistenza giudiziaria ai plebei contro gli abusi dei magistrati patrizi; - lo ius intercendii (diritto di veto) per cui era sufficiente che un solo tribuno opponesse il veto (intercessione) alla deliberazione di un magistrato Patrizio perché questa venisse subito annullata in quanto lesiva degli interessi della plebe. Nel 470 a.C. si procedette a una modifica sostanziale riguardo ai meccanismi di funzionamento dell’assemblea dei plebei. Si decise di non votare più per testa, ma di assumere come unità di voto la tribù. Lo scopo era disperdere la compattezza delle clientele attraverso cui i patrizi riuscivano spesso a garantirsi l’elezione dei tribuni della plebe compiacenti. I consoli cercarono di opporsi, ma la riforma passò. Così il concilium plebis divenne il concilium plebis tributum, cioè assemblea della plebe divisa per tribù; prendeva anche il nome di comizi tributi. Si faceva nel frattempo prepotente all’interno della comunità plebea la richiesta di mettere per iscritto le leggi, con l’obiettivo di ottenere un margine di salvaguardia per un’imparziale amministrazione della giustizia; le consuetudini normative erano affidate alla tradizione orale esposte a ogni sorta di arbitraria manipolazione; noto solo i pontefici era il calendario con l’indicazione dei giorni in cui risultava possibile celebrare i processi, così come di loro esclusiva conoscenza erano le formule le procedure formali formulari in base alle quali si poteva adire in giudizio. Tra il 451 e il 450 a.C. i plebei ottennero la codificazione del diritto. Il racconto della tradizione parla di una commissione preventivamente inviata in Grecia per consultazioni e della successiva sospensione delle magistrature con la conseguente elezione di un collegio di 10 membri, investiti di pieni poteri e incaricati non di emanare una nuova legislazione ma di pubblicare le norme vigenti, nonché il calendario (decemviri legibus scribundis). Gli incaricati assolsero il loro compito con la pubblicazione di 10 tavole di leggi ma nell’anno successivo, il 450 a.C., venne eletto un secondo collegio decemvirale, per metà patrizio e per metà plebeo, sotto la guida del patrizio Appio Claudio. Il collegio pubblicò le ultime due tavole che contenevano disposizioni contrarie alla plebe, come il divieto di matrimoni misti i quali, se legittimati, avrebbero potuto trasmettere per ereditarietà il diritto degli auspici. Secondo la tradizione, il decemvirato si trasformò in una tirannide per istigazione di Appio Claudio, il quale tentò di rendere sua schiava Virginia, figlia di un plebeo, che il padre uccise perché non ne fosse compromessa la virtù. Per reazione i plebei misero in atto una nuova secessione che pose fine all’esperienza decemvirale e comportò la restaurazione del consolato. I due nuovi consoli sembra abbiano varate leggi, confermative delle conquiste già conseguite dalla plebe. Nonostante una tradizione probabilmente manipolata, è certo che le Leggi delle XII Tavole furono sottoposte all’approvazione dei comizi centuriati, che le votarono: furono le prime leggi votate e resero accessibili all’intero corpo civico norme uguali per tutti. Rimasero esposte per più generazioni, forse incise in una prima redazione sul supporto di legno e poi su lastre o cippi che non sono pervenuti; tuttavia, poiché il testo delle leggi veniva memorizzato dei ragazzi come primo esercizio scolastico, numerose parti furono riportate da autori antichi. Anche dopo la pubblicazione delle 12 tavole, però, il controllo religioso della legge rimase nelle mani dei patrizi. L’energia della comunità plebea si concentrarono allora nel tentativo di abrogare il divieto delle unioni coniugali miste. L’obiettivo venne raggiunto nel 445 a.C., allorché fu approvata la legge Canuleia, un plebiscito che prende il nome dal tribuno che la propose all’assemblea dei plebei; il provvedimento rendeva lecite le nozze tra patrizi e plebei: i figli legittimi avrebbero fatto parte della componente sociale del padre, mentre i nati da unioni irregolari avrebbero acquisito lo status materno. I plebei non ottennero nell’immediato l’accesso al consolato, ma a partire dall’anno 444 a.C. si produsse un cambiamento istituzionale: al posto dei due consoli patrizi si decise di conferire il potere consolare ad alcuni dei sei tribuni militari. Tale collegio di tribuni militari con potere consolare era composto da un numero variabile di membri, ma il dato rilevante era rappresentato dal fatto che potevano essere anche plebei. Un dato è determinante per comprendere le vere ragioni di tale provvedimento: i tribuni militari con potere consolare vennero aboliti nel 367 a.C. quando si stabilì che uno dei due consoli eletti ogni anno dovesse essere plebeo; gli studiosi moderni hanno pertanto ritenuto che la novità istituzionale introdotta nel 444 rappresentasse un espediente compromissorio per avvicinare i plebei al consolato: Capitolo 5: La politica estera nel IV secolo a.C. 1. Il primo sacco di Roma Il IV secolo a.C. era iniziato per Roma con un importante successo militare: la conquista della città etrusca di Veio. Dopo pochi anni la spinta espansionistica subì una pesante e inaspettata battuta di arresto: nel 390 a.C. la città venne occupata da un contingente di Galli Senoni al capo al seguito del capo Brenno. Tale tribù era stata l’ultima a stanziarsi in Italia a seguito di un importante movimento di popoli celtici che erano penetrati in forze nella pianura padana, avevano sbaragliato la resistenza degli Etruschi padani, respinto Liguri a sud del Po e incontrato la resistenza dei soli Veneti, per proseguire poi verso sud lungo l’area adriatica. Quando la notizia dell’incursione giunse in città l’esercito uscì ad affrontare il nemico ma fu sbaragliato presso il fiume Allia in un giorno, che verrà per sempre segnato sul calendario romano come ricorrenza luttuosa. Gli abitanti di Roma vennero evacuati perlopiù a Veio, le vestali con i simboli sacri delle città della città trovarono rifugio nella città alleata di Cere, l’Urbe fu interamente occupata a eccezione del Campidoglio e si verificarono saccheggi e incendi sul larga scala, nel corso dei quali andarono distrutte la Regia e tutta la documentazione pontificale che vi era custodita. È possibile inserire l’episodio del sacco di Roma all’interno di più complesse vicende di ordine internazionale. La banda celtica non avrebbe infatti agito di propria iniziativa poiché i Galli figuravano come alleati del tiranno greco di Siracusa Dionigi I, per il quale svolgevano la funzione di mercenari. Il tiranno di Siracusa perseguiva un’energica politica espansionistica che mirava a controllare le rotte commerciali in ambito sia adriatico che tirrenico. In Adriatico lo scopo fu raggiunto attraverso l’insediamento di coloni siracusani su entrambe le sponde. Per quanto attiene alla rotta tirrenica, Dionigi mirava a impadronirsi del segmento settentrionale presidiato dai cartaginesi con l’appoggio dell’etrusca Cere. Probabilmente Roma divenne obiettivo dei Galli per il suo legame di alleanza con Cere e con Cartagine e il sacco di Roma si configurerebbe quindi come episodio dell’intraprendente politica di espansione marittima di Dionigi di Siracusa. Gli archeologi sono oggi inclini a minimizzare gli effetti distruttivi del sacco di Brenno, perché non riscontrano sul terreno gli effetti di devastazione che le fonti letterarie denunciano con grande evidenza. Conseguenza immediata della sconfitta dell’esercito romano presso il fiume Allia e dell’occupazione di Roma fu la crisi dell’alleanza tra romani e latini, i quali si erano astenuti dall’intervenire, disattendendo la prima clausola del trattato di Spurio Cassio. Si procedette quindi a innalzare una poderosa cinta muraria in tufo di Veio; essa corrisponde alle cosiddette mura serviane attribuita al monarca etrusco e viene alternativamente interpretata dagli studiosi moderni o come prova della fragilità militare evidenziata da Roma in occasione dell’occupazione gallica o come sintomo di una struttura statale ancora integra e reattiva. 2. La colonizzazione: una modalità di controllo del territorio La crisi della Lega Latina indusse la città ad adottare con maggiore determinazione ed energia uno strumento di dominio e di espansione militare che era stato occasionalmente sperimentato anche in età precedente, cioè la colonizzazione. Essa si presentava come un atto ufficiale assunto dallo Stato che poteva procedere a due diverse modalità di distribuzione dell’agro pubblico: - o all’assegnazione in proprietà a cittadini romani di appezzamenti terrieri a titolo individuale, adsignatio; - o alla fondazione di una nuova città, deductio. In entrambe le evenienze i coloni ricevevano un lotto di terra, ma nel primo caso gli assegnatari restavano sotto la giurisdizione e l’amministrazione di Roma. Nel secondo caso invece risultavano organizzati in una comunità auto-amministrata con un proprio centro civico, la colonia. Nel IV secolo a.C. la colonizzazione allontanò da Roma il proletariato indigente che, grazie all’assegnazione di lotti di terra, diventava idoneo al servizio militare poiché i beneficiari superavano i criteri censitari minimi della leva di Servio Tullio; si otteneva in tal modo il duplice obiettivo di allentare le tensioni sociali interne ed incrementare gli effettivi dell’esercito. Questo sistema circolare stava alla base dell’espansionismo romano. Le colonie potevano sorgere sia in luoghi non abitati in precedenza sia su centri preesistenti. Una volta assunta la decisione della fondazione, l’attuazione pratica ricadeva nella responsabilità del Senato; una commissione di tre membri, solitamente ex consoli, sovraintendeva alla fondazione, provvedendo a delimitare i confini del nuovo insediamento, dividere e assegnare per sorteggio i lotti ai coloni, giudicare circa le dispute tra questi ultimi e i nativi, dare la costituzione alla nuova comunità, nominare i suoi primi magistrati e sacerdoti. I tre commissari erano rivestiti di imperium e si recavano sul posto accompagnati da numeroso personale di servizio e da tecnici specializzati, deputati a determinare la misura dei campi. Ogni distribuzione di terre e fondazione di colonia era infatti accompagnata da un radicale intervento di organizzazione rurale che prevedeva il dispositivo disboscamento delle aree di pianura, la creazione di un’efficiente rete viaria. Copia della pianta del nuovo insediamento, con la registrazione del nome degli assegnatari e copia della legge istitutiva della colonia venivano incise su tavole di bronzo o pietra ed esposte nel foro della città. I commissari procedevano infine al cospetto dei nuovi abitanti, ai riti di purificazione della nascente comunità, ponendo termine con tale atto rituale alle procedure di colonizzazione. Roma aveva fondato prima della metà del IV secolo a.C. 13 colonie, ma la creazione di nuovi insediamenti coloniali si intensificò all’indomani di una nuova grande guerra latina che l’Urbe affrontò tra il 340 e il 338 a.C. al fine di recuperare l’egemonia sul Lazio; si oppose una coalizione che riuniva le città della lega Latina e tre popoli appenninici, i Volsci, gli Aurunci e i Sidicini. La battaglia decisiva si svolse presso Suessa Aurunca e registrò il successo dell’esercito romano. La disgregazione della lega Latina suggerì a Roma di sperimentare nuovi strumenti egemonici di natura giuridico-diplomatica. Fallito il foedus Cassianum, vennero impostati strumenti federativi di differente natura: Roma strinse rapporti diplomatici individuali e differenziati per ogni singola comunità, dosando accortamente privilegi e doveri secondo un’articolata gerarchia, in cui ogni alleato poteva progredire o retrocedere; così si attuò il principio convenzionalmente sintetizzato nella formula divide et impera. Nacque allora quella che per convenzione viene chiamata dai moderni Confederazione Italica, anche se le fonti nominano sempre “Roma e i suoi alleati”. Le comunità del “Lazio aggiunto” vennero inserite in quattro categorie e acquisirono o lo status di municipio, o quello di popolazione alleata, o quello di colonia o quello di comunità senza diritto di voto: - il municipio era una città libera vinta e sottoposta al dominio romano, cui era lasciata una certa autonomia interna poiché l’amministrazione restava in mano gli abitanti., che potevano eleggere proprie magistrature e osservare le proprie leggi, ma qui era imposto di assumere gli stessi obblighi che i cittadini di Roma avevano nei confronti dello Stato. Essi erano infatti soggetti alla giurisdizione legale romana, gestita dal pretore, prestavano servizio militare, pagavano le tasse e la politica estera era interamente nelle mani dei romani. In cambio, gli abitanti del municipio godevano di un diritto di cittadinanza piena: beneficiavano dell’elettorato attivo e passivo (ius suffragii), del diritto di svolgere attività commerciali (ius commercii), di contrarre matrimonio con cittadini romani (ius conubii), di trasferirsi a Roma (ius migrandi); - la civitas foederata, alleata, era una popolazione con la quale Roma aveva stretto un trattato di alleanza; manteneva l’indipendenza, ma si impegnava a fornire truppe ausiliarie. Le nuove colonie fondate dai romani erano di due tipi: in quelle di diritto latino gli abitanti godevano di tre diritti, quello di commercio, quello di matrimonio, quello di trasferimento a Roma. Era invece è precluso ai coloni latini il diritto di accesso alle magistrature di Roma (ius honorum); per quanto riguarda il diritto di voto, se si fossero trovati nell’Urbe, potevano esercitarlo solo nei comizi tributi: i coloni latini votavano venendo esclusi in una sola tribù. Potevano però ottenere la piena cittadinanza individualmente. I latini erano poi obbligati a militare in corpi loro riservati e il nome cessò di indicare un determinato gruppo etnico geograficamente circoscritto per caratterizzare invece uno status particolare. La latinitas venne così a costituire una sorta di anticamera della concessione della piena cittadinanza; - nella seconda tipologia di colonie, quelle di diritto romano, gli abitanti erano cittadini a pieno titolo e godevano di tutti i diritti connessi alla cittadinanza, compreso quello di voto a Roma. In quanto estensione della madrepatria, tali colonie furono inizialmente amministrate attraverso prefetti ma ben presto si dotarono di proprie istituzioni: assemblee popolari, magistrature, Senato; - un caso particolare è rappresentato dalle comunità senza diritto di voto (civitates sine suffragio); erano città autonome cui era stato concordato il diritto di commercio e matrimonio con i cittadini dell’Urbe; non potevano però promuovere in proprio alcune iniziativa di politica estera e gli abitanti prestavano obbligatoriamente servizio militare per Roma. 3. Le guerre sannitiche Il IV secolo fu il momento in cui si decise in Italia lo scontro tra monte e piano. Volsci, Sanniti, Lucani, Bruzi, tutti popoli di campagna, premevano infatti sulle città costiere, etrusche, latine, greche. Roma scelse di schierarsi con insediamenti urbani di pianura contro le popolazioni di montagna. Si alleò e protesse le colonie greche dell’Italia meridionale perché si considerava legata a esse da una profonda affinità culturale. Il modello della pianura e della città uscirà vincente dallo scontro e sarà esportato da Roma in tutti i territori dove estenderà nel tempo la sua egemonia. Il conflitto si svolse nella seconda metà del IV secolo a.C. e i Sanniti furono il popolo appenninico che con maggiore ostinazione si oppose per più generazioni alla Repubblica. 6. L’espansione del III secolo a.C. 1. L’imperialismo romano Gli strumenti di conquista sperimentati da Roma durante le guerre sannitiche vennero ulteriormente perfezionati nel corso del III secolo a.C., periodo in cui si assistette a un forte impulso espansionistico di Roma in un contesto italico ed extra italico: fu questo l’imperialismo romano. Le guerre di Roma erano sempre avallate dagli dei, l’impero poggiava su valori etici: il diritto feziale che giustificava solo le guerre difensive, l’equità nei rapporti interstatali, la clemenza nei confronti dei vinti, la realtà nelle relazioni con gli alleati. I ceti dirigenti romani perseguirono una programmatica volontà di espansione, orientata secondo vettori differenziati. La guerra si configurava come strumento di arricchimento per tutta la comunità: classi dirigenti, ceto medio, proletariato urbano e contadino, alleati italici. Le classi dirigenti erano attivamente coinvolte nella politica espansionistica. In caso di esito vittorioso della campagna militare, il Senato accordava al comandante al suo esercito l’onore del trionfo, solo nell’evenienza fossero stati assolti alcuni requisiti: se il generale aveva di persona tratto gli auspici, se elevato era stato il numero di nemici uccisi, se l’esercito era stato ricondotto in patria senza eccessive perdite, se il successo era stato risolutivo e aveva comportato l’acquisizione di nuovi territori. La cerimonia produceva sul popolo un grandissimo impatto propagandistico, assicurando al vincitore vasta popolarità e autorevolezza. La riconoscenza del popolo era motivata anche dal bottino di guerra: una parte era devoluta a scopo motivo come ringraziamento alla divinità che aveva propiziato la vittoria; il comandante poteva poi suggerire di dedurre colonie nel territorio requisito al nemico e indicarne il tipo per poi favorire l’adesione di molti suoi clienti al bando coloniario. Il vincitore decideva anche quale trattamento riservare ai vinti, di cui diventava il protettore; le popolazioni sottomesse avrebbero continuato a fare riferimento a lui per dialogare con la Repubblica due nomi: nasceva così la cosiddetta “clientela dei vinti”. Anche il ceto medio era fortemente interessato ai profitti della guerra, poiché essa consentiva di aprire nuovi mercati dove esportare prodotti finiti e da cui importare materie prime. Ma nelle dinamiche della dialettica politica del tempo anche il proletariato urbano e contadino faceva spesso sentire la propria volontà attraverso il tramite del rapporto clientelare; i ceti subalterni traevano vantaggi dall’espansione perché essa spesso comportava distribuzione di terre o fondazione di colonie. Anche gli alleati traevano vantaggi dalle conquiste militari romane. Vi intervenivano fornendo leve militari e potevano partecipare alla deduzione di colonie di diritto latino. Era quindi il meccanismo stesso del rapporto interstatale a spingere verso l’espansione e il comune interesse assicurava una forte coesione fra i due contraenti del rapporto federativo. 2. L’espansione romana nell’Italia centro-meridionale Dopo aver posto fine alle guerre sannitiche, Roma combattè una breve guerra contro gli Etruschi il cui territorio era ormai limitato alla Toscana e al Lazio settentrionale e che si erano nuovamente alleate con i Galli, questa volta con la tribù dei Boi insediati nell’attuale Emilia (284-282 a.C.). Ben più ardua fu la guerra che impegnoò a meridione Roma dalle 282 al 275 a.C. contro Taranto, che da tempo si prodigava per salvaguardare il proprio ruolo egemonico sulle altre città italiote. A tale scopo la ricca città marittima era ricorsa a più riprese al suo corso dire stranieri: dapprima Archidamo re di Sparta, poi Alessandro il Molosso, zio di Alessandro magno, Agatocle tiranno di Siracusa, il re spartano Cleonimo. Nel 302 a.C., aveva stretto alleanza con Roma che si era impegnata a non navigare oltre il capo Lacinio. A rompere l’equilibrio fra i due contraenti intervenne però la richiesta avanzata dalla città italiota di Turi di ricevere un presidio militare romano a scopo di difesa contro i Bruzi; l’invio di soldati fu interpretato dai tarantini come un’indebita ingerenza nella propria sfera egemonica, ma la situazione precipitò quando una flottiglia romana nel 284 a.C. penetrò nel Golfo di Taranto. La città magnogreca rifiutò ogni composizione del caso, perché poteva contare sull’appoggio di Pirro. Per la prima volta le truppe della Repubblica si trovarono ad affrontare un esercito di stampo ellenistico, fondato formato dal contingente di mercenari, da fanteria di linea usa combattere a falange e soprattutto da elefanti. I romani subirono nel primo scontro una grave sconfitta ad Eraclea. Pirro inviò il plenipotenziario Cinea a Roma per trattare la resa ma il Senato rifiutò l’offerta. L’anno successivo una nuova disfatta romana si registrò ad Ascoli Satriano. Pesarono però sulla decisione di continuare la lotta i dissensi che stavano emergendo fra il re e i tarantini, l’elevato numero di caduti che Pirro aveva dovuto subire nelle due battaglie pur vittoriose, la fedeltà degli alleati laziali e campane, la pressione esercitata da Cartagine. Pirro non seppe approfittare delle circostanze e decise di trasferirsi in Sicilia per farsi promotore della lotta contro i cartaginesi che da secoli contendevano ai Sicelioti (Greci di Sicilia) il controllo dell’isola e delle rotte a essa connesse. La lontananza di Pirro consentì a Roma di organizzare le proprie forze e, quando il re dell’Epiro torno nella penisola, le legioni lo affrontarono nei pressi della località di Malevento. La vittoria arrise ai romani di nuovo per opera del console Manio Curio Dentato (275 a.C.) e il luogo della battaglia cambiò il nome in Benevento; Pirro rientrò in patria. Taranto fu costretta a consegnare ostaggi e ad accogliere un presidio romano, ma le fu concesso di conservare i propri ordinamenti, in ossequio alla tradizione culturale greca che ispirava in Roma grande rispetto. Al termine del conflitto Roma aveva inglobato nella sua rete di alleanze e tutta l’Italia meridionale fino a Reggio e iniziava a imporsi sulla scena internazionale tanto che il re d’Egitto, Tolomeo II, si premurò di inviare un ambasceria nell’Urbe per intavolare relazioni diplomatiche. 3. Roma sul mare: la prima guerra punica L’estensione del controllo in Italia fino all’estremità del Bruzio e la disponibilità anche delle prime flottiglie navali comportò per la Repubblica un radicale cambiamento di strategie espansive. Fino ad allora Roma aveva privilegiato le conquiste via terra e si era astenuta dalla competizione per il monopolio delle rotte marittime che si era consumata per secoli nel quadrante tirrenico e adriatico. Il sensibile cambiamento degli equilibri di forze in ambito mediterraneo suggeriva la possibilità di contendere per la supremazia nella frequentazione della rotta tirrenica e dello stretto di Messina di cui Roma controllava ora la sponda peninsulare. Tale ambizione egemonica implicava però una collisione di interessi con la tradizionale alleata Cartagine, che era in grado di controllare le coste dell’Africa settentrionale, la Spagna meridionale, la Sardegna, la Corsica e la parte occidentale della Sicilia. Roma non esitò a ingaggiare con l’ex alleata un’estenuante guerra di logoramento che impegnò uomini e risorse per un’intera generazione, dal 264 al 241 a.C. La guerra con Cartagine (prima guerra punica) fu il prodotto di una deliberata scelta della comunità romana; il Senato lasciò infatti all’assemblea popolare il compito di decidere se accogliere o meno la richiesta di aiuto di Messina; la città greca aveva invocato il soccorso di Roma a seguito dell’occupazione da parte di mercenari campani detti Mamertini. Si trattò di un conflitto di lunga durata che si giocò su diversi fronti e che registrò repentini cambi di alleanza delle città Siceliote. Nonostante i primi successi ottenuti nell’isola e il cambio di alleanze della greca Siracusa il cui tiranno Ierone II passò poi dalla parte di Roma, fu presto chiaro che la Repubblica dovesse dotarsi di una flotta, che fu costruita sul modello delle navi da guerra cartaginesi. I romani tuttavia apportarono un’innovazione: idearono i “corvi”, passerelle mobili dotate di arpioni sommità che agganciavano saldamente le navi nemiche e consentivano il combattimento corpo a corpo. Grazie a questo espediente tattico il console Gaio Duilio vinse la flotta cartaginese a Milazzo nel 260 a.C. Il console Gaio Attilio Regolo decise nel 256 a.C. di aprire un nuovo fronte, trasferendo le truppe romane sul suolo nemico; la campagna in Africa si tradusse però in una grave sconfitta e il comandante ritornò nella città punica per non mancare alla parola data e affrontò il supplizio. Nonostante tali rovesci, le legioni riuscirono a conquistare Palermo e la nuova battaglia decisiva venne combattuta nel 241 a.C. sul mare da Gaio Lutazio Catulo presso le isole Egadi. Due furono le conseguenze della prima guerra punica; grazie a tale successo a Roma iniziò a conseguire quel dominio sul mare Mediterraneo. Attivò inoltre una politica di provincializzazione: procedette infatti all’annessione della Sicilia abbandonata dei cartaginesi e poco dopo, nel 227 a.C., della Sardegna e della Corsica; a essa Roma inasprì ulteriormente gli indennizzi di guerra. 4. Nuovi vettori di espansione: Roma sull’altra sponda e sul fronte cisalpino Il progetto egemonico di Roma sulle rotte marittime non si limitava al comprensorio tirrenico; si estendeva anche all’area adriatica dove contava ormai tra i coloni: Rimini, Senigallia e Brindisi. Per tale motivo decise di arginare la pirateria degli Illiri che condizionavano pesantemente i traffici per mare. Fra la costellazione di tribù costiere, emergeva la figura della regina Teuta che fece uccidere uno degli inviati domani. Essa si sviluppò in due campagne vittoriose (230-229 a.C. 219 a.C.) in cui furono impiegate sia squadre navali che truppe di terra. In conseguenza delle due guerre illiriche fu conquistata parte della costa dell’attuale Albania su cui furono insediati alcuni avamposti a Durazzo ed Apollonia. La conquista dell’egemonia sulle rotte del Mediterraneo occidentale aveva assorbito risorse ed energie della Repubblica; dei successi avevano usufruito soprattutto i ceti dediti all’artigianato e al commercio. Nella seconda metà del III secolo a.C. si generò quindi una divaricazione di orientamenti in Senato tra gli esponenti sostenuti da clientele dediti all’artigianato e al commercio e membri di famiglie sostenuti da clientele contadine che prediligevano vettori di espansione che un console cui spesso veniva concesso di prorogare la propria magistratura con il titolo di propretore o proconsole. Il governatore, quando partiva da Roma per amministrare la provincia assegnatagli, era accompagnato da personale tecnico di servizio (cohors praetoria) e da un nutrito stuolo di amici e clienti (cohors amicorum); tra i primi figuravano un questore adibito a compiti amministrativi e finanziari, nonché alcuni legati; fra i secondi erano compresi i consiglieri privati e giovani rampolli dell’aristocrazia del soggiorno in provincia intendevano ricavare nuove esperienze e profitti economici spesso illegali. Il governatore aveva la responsabilità della sicurezza militare della provincia ma non poteva autonomamente decidere di dichiarare guerra; rientrava tra le sue competenze l’invio a Roma del tributo; tuttavia il suo principale compito risiedeva nell’esercizio delle funzioni giudiziarie. A tal scopo veniva annualmente allestito un tribunale itinerante che toccava i centri più importanti della provincia secondo un prefissato calendario di udienze. Le modalità di governo dei territori extra- italici secondo il regime provinciale conferivano dunque ampia autonomia al governatore di rango senatorio ma fu inevitabile che ricorresse al sistema dell’appalto a privati che esporrà spesso i provinciali a gravi abusi. Capitolo 7: La conquista nel II secolo a.C. Nel II secolo a.C. Roma mise le legioni nuovamente al servizio di una politica espansionistica. L’esercito romano, attraverso i suoi successi, garantì la conquista e la successiva riduzione a provincia della Spagna Citeriore e della Spagna Ulteriore nel 197 a.C., della Macedonia nel 146 a.C., dell’Africa nel 146 a.C., dell’Asia nel 133 a.C., della Gallia Transalpina nel 121 a.C., rinominata Gallia Narbonense nel 118 a.C. Motivazioni diverse sollecitavano tale volontà di conquista: - esigenze di sicurezza dei confini di un impero territoriale che ormai si sviluppava in buona parte del bacino del Mediterraneo; - ambizioni di ampliare e consolidare reti di affari ma anche rapporti personali; esponenti dell’aristocrazia romana interferivano infatti in più occasioni a titolo individuale nella politica interna di Stati indipendenti per tutelare interessi personali; - anche i timori per l’inviolabilità del territorio italico svolsero un ruolo nelle strategie di conquista: i romani, dopo l’esperienza dell’invasione di Annibale, manifestarono più volte la paura per la sicurezza della penisola. 1. Le guerre in Oriente Il primo impegno militare che Roma dovette affrontare dopo la sconfitta di Annibale fu la seconda guerra macedonica. Nel 215 a.C. le legioni romane avevano ripreso il mare alla volta dell’Oriente. Le grandi potenze del tempo in quel settore geografico erano le eredi dell’impero di Alessandro Magno, transitato ai suoi generali e ora nelle mani dei loro successori. Elemento fondamentale nella strategia di Annibale contro Roma era stata l’apertura di molti fronti di guerra in cui impegnare gli eserciti dell’Urbe. A questo fine nel 215 a.C. il generale cartaginese aveva stretto un’alleanza con Filippo V, re di Macedonia. La prima guerra macedonica si era configurata come un’appendice del conflitto punico. L’efficacia del piano del cartaginese era stata in parte inficiata dal fallimento dell’effetto sorpresa. Valorizzando le relazioni diplomatiche che intrattenevano con numerose città-stato greche fin dal tempo della guerra contro i pirati illirici, avevano dato vita ad una coalizione ostile a Filippo V, guidato dalla lega etolica, partner di Roma da 212-211 a.C. Nel 205 a.C. era stata siglata in vittoria la pace di Fenice. Non era interesse di Roma protrarre le ostilità in un momento in cui non era stata ancora conclusa vittoriosamente la guerra contro Cartagine. Si era trattato, tuttavia, di una ricomposizione transitoria: ben presto le ambizioni espansionistiche di Filippo V determinarono, infatti, tensioni lungo le coste dell’Asia Minore e nel Mar Egeo. Il coinvolgimento di comunità che avevano garantito in precedenza a Roma il loro sostegno, come il regno di Pergamo e Rodi, nel 200 a.C. costrinse l’Urbe ad un’azione diretta. Il Senato inviò al re di Macedonia un ultimatum con cui gli si intimava di cessare le ostilità. I comizi centuriati in realtà avevano già deciso per la guerra, ma tale richiesta a Filippo V consentiva ai romani di entrare nel conflitto come liberatori della Grecia, di fronte alla minaccia di un’invasione nemica. A Roma l’opzione bellica era stata stabilita dopo accese discussioni: la Repubblica non si era ancora ripresa dal conflitto annibalico e quindi era diffusa una posizione netta a un nuovo investimento di uomini e risorse. Inoltre, una guerra in Oriente si preannunciava come una garanzia di introiti notevoli tanto per i generali e le truppe coinvolte quanto per le casse dello Stato. La seconda guerra macedonica segnò l’inizio dell’intervento romano nel mondo greco su larga scala. Nel 200 a.C. i romani varcarono l’Adriatico. Nel 198 a.C. il comando delle operazioni fu affidato al console Tito Quinzio Flaminino; soprattutto egli fu artefice di una gestione più propagandistica del conflitto che determinò notevoli vantaggi per Roma: imponendo a Filippo V come condizione per la pace lo sgombero della Tessaglia, Flaminino rimarcava il ruolo di liberatrice della Grecia oppressa assunto da Roma e in tal modo determinava l’adesione alla causa anti-macedone. Filippo V avviò le trattative. Nel frattempo il Senato prorog il comando a Flaminino che perseguì l’obiettivo anche di una decisiva vittoria sul campo: nel 197 a.C. nella battaglia di Cinocefale in Tessaglia l’esercito romano sbaragliò le truppe macedoni. La Macedonia dovette rinunciare alla sua flotta, ritirarsi dall’intera Grecia e pagare una consistente indennità di guerra. Nel 196 a.C. a Corinto, nel corso dei giochi istmici, Flaminino proclamò la libertà della Grecia. Dimostrò che Roma non aveva interesse instaurare un controllo diretto su essa. Le legioni lasciarono quindi il suolo ellenico nel 194 a.C. I nuovi equilibri che facevano seguito alla seconda guerra macedonica lasciavano insoddisfatta la lega etolica. Essa aveva infatti contribuito al successo di Roma ma non aveva ottenuto dalla vittoria quell’ampliamento territoriale in cui sperava. Del resto l’accordo sottoscritto con Roma nel 212-211 a.C. prevedeva che le comunità che fossero transitate dalla parte degli Etoli o dei romani parimenti confluissero nell’orbita etolica e nel 197 a.C. con la restituzione della libertà alla Grecia i romani avevano disatteso queste condizioni; probabilmente si trattava di una ritorsione per il patto separato che gli Etoli avevano stretto con Filippo V nel 206 a.C., nell’ambito della prima guerra macedonica, costringendo i romani a una rapida chiusura del conflitto attraverso l’insoddisfacente pace di Fenice. Per questa ragione gli Etoli raggiunsero un accordo con il re di Siria Antioco III, originando un pericoloso asse anti-romano. Antioco contestava l’ingerenza dell’Urbe in un’area come l’Asia Minore che riteneva di sua competenza e forte dell’appoggio etolico nel 192 a.C. mosse guerra contro Roma: si apriva la guerra siriaca. I romani avevano intimato senza successo al re di liberare la città dell’Eolide e della Ionia. La Macedonia sostenne la causa romana. Nel 191 a.C. il console Magno Acilio Glabrione vinse alle Termopili. Dopo numerosi scontri vittoriosi per terra e per mare, i romani sconfissero debiti definitivamente gli eserciti siriaci a Magnesia sul Sipilo nel 189 a.C. e siglarono la pace con il re di Siria nel 188 a.C. ad Apamea. La guerra siriaca rappresentò l’occasione per un nuovo confronto tra Scipione l’Africano e Annibale. Scipione assunse il ruolo di legato del fratello Lucio. Annibale affiancò Antioco. Ancora una volta perdente, il generale cartaginese dovette fuggire per evitare di essere consegnato a Roma. Trovò riparo in Bitinia e lì si tolse la vita nel 183 a.C. Nel 179 a.C. morì Filippo V di Macedonia e ascesa al trono il figlio Perseo. Questi era animato da Annia e la via Popilia provenienti da Rimini, ove la via Flaminia consentiva di raggiungere l’Urbe con percorso transappenninico. Il contesto di insediamento ligure riceveva anche esso intorno al 120 a.C. una nuova colonia, Tortona, la quale, divenuta capolinea della via consolare Emilia Scauri che collegava Pisa a Genova, funse da polo di romanizzazione per tutto il comprensorio nord- occidentale. Roma inviò anche i propri eserciti nella Francia meridionale ove intorno al 150 a.C. un intervento dell’Urbe contro la tribù locale dei Salluvii fu sollecitato da Marsiglia. I romani dedussero le colonie di Aix en Provence (Aquae Sextiae) nel 122 a.C. e di Narbonne (Narbo Martius) Nel 118 a.C. La provincia di Gallia Transalpina venne istituita nel 121 a.C. il suo nome cambiò nel 118 a.C. in Gallia Narbonense. Capitolo 8: La società romana tra III e II secolo a.C. 1. Una nuova articolazione sociale In conseguenza dell’espansione e dello slancio economico che essa comportò, l’organigramma sociale subì un’evoluzione che rafforzò l’ordinamento aristocratico: esso, cui avevano ormai partecipazioni anche i plebei, prevedeva una stratificazione piramidale che individuava il suo vertice nella nobiltà senatoria e la sua base degli schiavi. Tale gerarchia era il risultato di svariati fattori: privilegi di nascita, capacità personale, consistenza patrimoniale. Di molti benefici si giocava l’aristocrazia patrizio-plebea. Durante il III secolo a.C. si produsse un’apertura del Senato in due direzioni: vennero ammessi elementi appartenenti a famiglie provenienti da città di aria tirrenica (apertura geografica) e si assistette anche un’apertura verso il basso, ovvero alla possibilità di ascesa di figure nuove che potevano definirsi “uomini nuovi”, poiché avevano raggiunto il consolato senza che la loro famiglia appartenesse all’ordine senatorio e avesse quindi già dato magistrati alla Repubblica. Due erano i requisiti imprescindibili per una simile ascesa: il legame con esponenti di famiglie aristocratiche e la disponibilità di un cospicuo patrimonio. Infatti per ambire a una carica si doveva poter finanziare la campagna elettorale e solo gli aristocratici possedevano un patrimonio adeguato; era necessario poi disporre di masse di clienti, sul cui voto poter far conto; si doveva infine poter accettare magistrature che non erano retribuite e anzi spesso presupponevano obblighi finanziari. L’aristocrazia disponeva inoltre degli strumenti per assicurarsi il mantenimento del potere di controllare l’evoluzione delle dinamiche politiche: solo i magistrati potevano infatti convocare le assemblee; solo i magistrati avevano diritto propositivo nei comizi e la capacità del tribunale o della plebe di incidere nella vita politica andava diminuendo perché dei 10 tribuni uno solo aveva diritto di veto ed era quindi più facile che fosse sottoposto a pressioni o tentativi di corruzione; soprattutto i magistrati disponevano inoltre di consolidate clientele, in particolare quelle dei vinti, che si andavano rafforzando in tutta la penisola. Si trattava di un’aristocrazia strutturata in modo da perpetuarsi e rafforzarsi continuamente, e che, mantenendo un rapporto diretto con la sua base di consenso attraverso la clientela, era in grado di soddisfare le aspettative attraverso i profitti dell’espansione. Fondamento della ricchezza dell’aristocrazia rimase la proprietà terriera. Nel 218 a.C. infatti la legge Claudia vietò ai senatori di possedere navi commerciali di capacità superiore a 300 anfore. Tale divieto derivava da un pregiudizio ideologico contro il commercio il quale, diversamente dalla ricchezza fondiaria, era considerato una via di arricchimento impropria. L’esclusione dei senatori dei profitti mercantili aprì la strada alla nascita di un ceto, che riuniva quanti disponevano di un consistente patrimonio derivato e alimentato dal commercio, dalle iniziative finanziarie e da un’attività imprenditoriale. Tale ceto si rafforzò quando Roma divenne una potenza marittima e transitò per gradi verso un’economia monetaria. Roma aveva infatti attivato anche un circuito monetale dedicato a sostenere le spese militari e a finanziare la costruzione di infrastrutture; si trattava di emissioni di monete detto dette romano-campane; intorno al 300 a.C. risalgono le prime monete d’argento che vennero emesse in diverse serie nei decenni successivi fino al 225 a.C. quando fu introdotto un nuovo tipo denominato quadrigato. La guerra annibalica segnò però un radicale cambiamento, perché nel 211 a.C. la Repubblica si risolse a coniare una nuova moneta destinata a caratterizzare tutta la storia economica mediterranea per almeno cinque secoli: il denario. Contemporaneamente all’emissione di regolare moneta argentea e alla progressione nella conquista delle rotte, si iniziò a registrare una sempre più cospicua presenza di mercati mercanti al seguito degli eserciti. Assai nutrita in Roma era anche la presenza di artigiani specializzati con ottime conoscenze tecniche e capacità imprenditoriali. A fronte del rafforzamento del ceto di addetti al commercio e all’artigianato, resisteva e anzi si ampliava in Italia il numero di piccoli e medi proprietari terrieri. Aumentava la consistenza della classe contadina che incrementava conseguentemente le potenzialità di arruolamenti legionari. Nel 241 a.C. vennero istituite le ultime tribù romane che raggiunsero il numero di 35. Anche il numero e l’importanza dei liberti crebbe vertiginosamente, perché le famiglie più eminenti di Roma emancipano molti schiavi, allo scopo di incrementare le clientele e farne massa di manovra nelle assemblee popolari. Anche la schiavitù era cambiata. Abolito il nexum e ormai caduta in disuso la pratica della vendita dei figli, ai sistemi tradizionali per l’acquisizione di manodopera gratuita si era sostituita la guerra. In età arcaica i prigionieri erano rilasciati dietro riscatto, sia perché avvertiti come affini per lingua e stirpe, sia perché non trovavano ancora utilizzazione intensiva nell’economia prevalentemente agricola; nel III secolo a.C. invece essendo perlopiù stranieri per lingua e di costumi diversi, venivano serviti in massa e venduti sul libero mercato. Pur trattati alla stregua di oggetti, moltissimi schiavi venivano però liberati quando raggiungevano un’età avanzata: la schiavitù, almeno in linea teorica, era inteso infatti come uno sfruttamento temporaneo del lavoro, dopo il quale il servo, ormai considerato improduttivo, veniva emancipato, poiché era ritenuto utile quale agente commerciale al servizio dell’ex padrone e comunque quale elettore vincolato alle sue indicazioni di voto. Esterni alla gerarchia piramidale della società romana erano gli alleati, che nel III secolo a.C. vivevano una situazione di passaggio verso l’integrazione: alcune famiglie italiche erano già state ammesse in Senato, ma anche i ceti subalterni traevano vantaggio dall’espansione grazie alla deduzione di colonie latine. In virtù di tale processo di compartecipazione ai profitti della guerra, in vasti territori dell’Italia si formò un diffuso strato contadino filoromano, che determinò la sconfitta di Annibale, mantenendo fede agli accordi con Roma. La conquista incise anche nella condizione delle matrone romane. Il benessere ottenuto dalle famiglie sottrasse le donne altolocate a molti dei loro compiti domestici, ora delegati a personale schiavile, e consentì loro di dedicarsi alla propria formazione culturale. Quest’ultima fu incoraggiata dal diffondersi a Roma di una nuova mentalità, in conseguenza del contatto con culture diverse; per i padri l’investimento nell’educazione delle figlie divenne un’opzione ricorrente, per le sue ricadute in termini di prestigio sociale e quale indicatore di ricchezza, oltreché circostanza vantaggiosa nella prospettiva di un matrimonio di rango. L’acquisizione di importanti biblioteche ubicate nelle residenze private dei grandi conquistatori romani permise anche alle donne di maturare e approfondire interessi culturali; tale opportunità assicurò ad alcune matrone quelle competenze relazionali e quella conoscenza della politica che nel tempo delle guerre civili, tra la fine del secondo e il I secolo a.C., permisero loro di contribuire alla vita pubblica nelle veci dei loro uomini. La figura più rappresentativa di questa trasformazione è Cornelia, figlia di Publio Cornelio Scipione Africano e madre di Tiberio e gaio Sempronio Gracco. 2. Le ricadute della conquista sugli assetti sociali Le conseguenze della politica di espansione sul piano economico furono incommensurabili. Entrarono a far parte dello Stato romano estesi territori con una produzione agricola altamente sviluppata. Roma si impossessò inoltre di ricchi giacimenti di materie prime e li trasformò in proprietà demaniali. Si resero poi disponibili masse illimitate di forza lavoro a basso prezzo, perché le vittorie fecero affluire in Italia milioni di schiavi di guerra; a tale fonte di approvvigionamento servile si aggiunse l’impianto nell’isola di Delo di un mercato di schiavi costantemente rifornito dalla pirateria mediterranea. Roma assunse infine il controllo di vasti mercati dove poter esportare i propri manufatti.  L’aristocrazia senatoria L’aristocrazia senatoria visse, all’inizio del II secolo a.C., un aspro scontro tra due componenti: una, che si potrebbe definire tradizionalista, capeggiata dall’uomo nuovo Marco Porcio Catone, ostentava come proprio obiettivo la tutela delle antiche tradizioni, sosteneva l’agricoltura come valore primario e patrocinava il ceto dei piccoli e medi proprietari italici. L’altra, che si dimostrava disponibile al cambiamento, era capeggiata dalla famiglia degli Scipioni; era favorevole all’espansione in Oriente, all’apertura di nuovi mercati, all’incremento del ceto artigiano- commerciale, alla penetrazione della cultura ellenica in Roma. Nel 187 a.C. Catone intento un processo contro Lucio Cornelio Scipione, per aver amministrato, senza consultare il Senato, parte dell’indennità di guerra dovuta dal sovrano di Siria Antioco III. Nel 184 accusò di connivenza con Antioco l’Africano; appoggiò infine leggi moralizzatrici e restrittive a proposito di propaganda elettorale, di lusso praticato durante i banchetti, di ostentazione della ricchezza. Un dibattito accesissimo lo vide soccombente in occasione dell’abrogazione nel 195 a.C. della legge Oppia che aveva limitato l’esibizione del lusso da parte delle matrone romane. Una sorta di composizione del conflitto si registra nel 180 a.C. grazie all’approvazione della legge Villia annuale che rappresenta un compromesso fra le parti, in quanto regolamentò la successione delle cariche politiche, il cosiddetto cursus honorum. L’intento era quello di disciplinare la competizione per le magistrature al fine di impedire il protagonismo di personalità come Publio Cornelio Scipione l’Africano.  Il nuovo ordine equestre Per tale ragione nel II secolo a.C. si andò consolidando in Italia un ceto imprenditoriale di forte peso. Per supplire alle carenze di uno Stato che non disponeva ancora di un apparato burocratico in grado di adempiere alle funzioni amministrative di un ormai esteso dominio territoriale, si erano andate costituendo le cosiddette “società di pubblicani”; si trattava di consorzi di privati cittadini che concorrevano alle gare d’appalto annualmente bandite dallo Stato per la realizzazione di opere pubbliche, la conduzione delle miniere, l’esazione delle imposte e dei dazi nelle province. Roma delegava i privati delle funzioni gestionali nei territori extra-italici senza regolamenti vincolanti. Gli appalti avevano generalmente durata quinquennale e consentivano ai pubblicani di arricchirsi enormemente. Costoro adottavano infatti metodi estorsivi violando la legge, spesso con la connivenza di governatori provinciali corrotti, cui devolvevano parte dei profitti illegali. Per quanto riguarda l’esazione delle imposte, lo Stato romano fissava la quota contributiva che doveva ricevere da ogni singola provincia, ma non si curava di quanto i pubblicani potessero arbitrariamente prelevare con sistemi coercitivi; tali entrate aggiuntive rimanevano come utile netto alle società preposte all’esazione. Grazie a tali molteplici attività numerosi imprenditori erano divenuti in alcuni casi addirittura più facoltosi dei senatori. Lo Stato si risolse a riconoscere l’importanza di tale nuovo ceto attraverso un atto simbolico, disposto dalla legge sulla restituzione dei cavalli che venne emanata nel 129 a.C., e sancì la nascita dell’ordine dei cavalieri. Si trattava di questo: i 300 senatori, che appartenevano per censo la prima classe dell’ordinamento di Servio Tullio, ricevevano dallo Stato un cavallo a titolo onorifico; la legge ordinò loro la restituzione dei 300 cavalli, che vennero assegnati, sempre quale segno di prestigio, ai 300 cittadini più facoltosi esclusi dal Senato. L’ordine equestre andò a dunque costituire la dirigenza economica dello Stato romano, quell’aristocrazia del denaro che contribuì lentamente a riabilitare nella mentalità comune le attività commerciali e manifatturiere, cui si iniziarono a riconoscere dignità e rispetto. 9. La crisi della Repubblica 1. I problemi in campo L’anno 133 a.C. segna l’inizio di una lunga fase di trasformazioni politiche e sociali nella comunità di Roma che condurranno alla crisi dell’assetto repubblicano e la nascita del principato nel 27 a.C. Nella seconda metà del II secolo a.C. l’esercito romano aveva garantito a Roma un’espansione di proporzioni straordinarie, ma palesò gravi manchevolezze. Due furono i contesti in cui tali difficoltà si manifestarono in maniera particolarmente evidente: l’assedio della città spagnola di Numanzia e la guerra contro Giugurta in Africa. Nel primo caso i romani dovettero impiegare notevolissime risorse di uomini e mezzi per ottenere la capitolazione di Numanzia. La roccaforte della resistenza spagnola venne presa per fame nel 133 a.C. da Publio Cornelio Scipione Emiliano e i suoi abitanti, perduta ogni speranza, incendiarono la città e si diedero la morte. Determinante fu l’apporto assicurato all’esercito romano dai reparti di cavalleria numidica al cui comando il re Micipsa aveva inviato il giovane Giugurta. Costui divenne in seguito il nemico contro cui le regioni della Repubblica palesarono ancora una volta le loro gravi difficoltà. In Africa Roma combatte contro Giugurta dal 112 al 105 a.C.; le legioni romane, al comando di Lucio Calpurnio Bestia, poi di Spurio e in seguito del fratello Aulo Postumio Albino, infine di Quinto Cecilio Metello, non riuscirono a sconfiggere le truppe nemiche. L’esito del conflitto, favorevole a Roma, si dovette alla riorganizzazione dell’esercito a opera di Gaio Mario e all’astuto intervento di Silla, allora suo questore. Negli ultimi decenni del II secolo a.C. gli alleati italici vivevano un forte disagio. L’élite delle comunità italiche erano escluse dalle decisioni politiche; inoltre le confische agrarie di cui lo Stato si fece promotore alla fine del II secolo a.C. sembra avessero colpito anche i possedimenti degli alleati. La forte spinta alla conquista che aveva caratterizzato il IV, il III e parte del II secolo a.C. determinò una crescita abnorme nella disponibilità di schiavi presso i mercati dell’Urbe, tanto che Roma si poteva nel II secolo a.C. ormai definire una società schiavistica: lo schiavo non era più percepito come un oggetto di proprietà del padrone e pertanto doveva essere posto nelle condizioni di rendere economicamente al massimo delle possibilità. Si imponevano ora le due tipologie degli schiavi nati da genitori schiavi e degli schiavi di guerra. Destinati a mansioni anche molto difformi per tipologia e condizioni di vita, gli schiavi rappresentavano una categoria assai diversificata, circostanza che non consentiva elaborassero una progettualità comune. Le numerose e talvolta violente rivolte di cui furono promotori gli schiavi muovevano da un solo obiettivo condiviso, ovvero il ritorno nelle terre natie. Nella seconda metà del II secolo a.C. emersero in tutta la loro gravità anche i problemi scaturiti dall’amministrazione delle province. In non pochi casi i governatori romani depredavano i territori sottoposti alla loro giurisdizione; analogamente le società di pubblicani si rendevano colpevoli di estorsione ai danni delle popolazioni locali. Tale situazione determinò la formulazione di proteste e denunce presso il Senato di Roma. Nel 133 a.C. Aristonico, figlio naturale di Eumene II, sobilla il popolo alla rivolta, vantando il diritto di subentrare come re al fratellastro defunto, che aveva invece lasciato il suo regno in eredità ai romani. Nella sua propaganda agli argomenti di natura dinastica si affiancavano solidi riferimenti alle cattive pratiche di amministrazione romana. La ribellione venne soffocata nel sangue nel 129 a.C. da Marco Ebuzio Perperna. Tra l’88 e 63 a.C. Mitridate VI re del ponto strumentalizzò per i suoi fini l’animosità che già i provinciali nutrivano nei confronti dei romani a causa della loro cattiva amministrazione. Egli si presentava come un liberatore, spinto all’azione da motivazioni ideali. Mitridate riscosse quindi ampie adesioni nella provincia d’Asia. Tra II e I secolo a.C. si palesò anche una grave di crisi delle istituzioni romane. Essa si protrasse per più di 100 anni e si avviò a soluzione solo attraverso l’instaurazione del principato. Alcuni aspetti risultarono particolarmente significativi. Il rapporto clientelare assunse una nuova forma: la clientela militare. Secondo una tendenza inaugurata da Scipione l’Africano ma portata a piena maturazione e divenuta prassi con Mario e Silla e poi con Pompeo e Cesare, l’esercito affiancò alla sua tradizionale funzione di motore della conquista il ruolo di forza politica, al servizio dei singoli comandanti. Il ceto equestre rivendicò il diritto a operare anche in politica. La plebe fu coinvolta nella politica attraverso i tradizionali canali clientelari, ma venne anche manipolata come strumento di pressione da capi rivoluzionari che se ne assicuravano l’appoggio attraverso donazioni di alimenti e denaro. Tali problemi furono al centro del dibattito e delle iniziative politiche dei protagonisti sulla scena pubblica, che talvolta mancarono il risultato ma che in alcuni casi aprirono la via all’articolata iniziativa riformista di Augusto. 2. La questione agraria La seconda guerra punica fu gravida di conseguenze in ambito di economia agraria. Il conflitto determinò profonde devastazioni nell’Italia centro-meridionale che indussero all’abbandono di estese aree di pianura. Si registrò inoltre un forte calo demografico. Questi fenomeni portarono in questi territori al tramonto dell’agricoltura di sussistenza, che venne sostituita dall’allevamento transumante e la villa schiavistica. Nel II secolo a.C. l’Italia peninsulare divenne teatro di un’economia pastorale su larga scala. Le aree di pianura furono sfruttate per i pascoli invernali di greggi che d’estate venivano trasferite nelle pianure alture appenniniche. Tale rivoluzione pastorale fu opera di imprenditori postbellici che sfruttarono favorevoli congiunture economiche. Con i guadagni che si erano assicurati grazie ai successi della politica espansionistica e lucrando sul persistente stato di guerra, disponevano di capitali da investire nell’acquisto di schiavi, da destinare alla pastorizia, e di bestiame, da utilizzare per le forniture militari. La transumanza era gestita infatti dell’elezione, i consoli sospesero le operazioni di voto e scoppiarono dei tafferugli. Lo stesso Tiberio, con 300 suoi sostenitori, venne ucciso, in quanto era stato apertamente accusato di aspirare al regno, circostanza che nel legittimava l’uccisione. Dopo la morte di Tiberio la commissione proseguì la sua attività fino al 129 a.C. 4. Le leggi tabellarie Dopo la morte violenta di Tiberio Gracco, un fattore di profonda trasformazione nelle dinamiche politiche fu l’approvazione delle leggi tabellarie. Alla votazione per alzata di mano si sostituì infatti progressivamente quella attraverso una scheda cerata nella quale il cittadino elettore esprimeva la sua volontà. In tal modo si affermò la pratica del voto segreto. Le tabelle furono introdotte nelle assemblee preposte all’elezione dei magistrati nel 139 a.C. con la legge Gabinia, nelle sessioni dei comizi deputate alla funzione di tribunale popolare nel 137 a.C. mediante la legge Cassia, nelle assemblee legislative nel 131 a.C. attraverso la legge Papiria, nei comizi preposti a giudicare i casi di alto tradimento nel 107 a.C. con la legge Celia. L’adozione della nuova procedura compromise il controllo esercitato sul popolo dei membri della classe dirigente attraverso le relazioni clientelari: fino ad allora le modalità di votazione palese consentiva infatti una verifica diretta dell’obbedienza dei clienti; la pratica del voto segreto sottraeva invece qualsiasi controllo l’azione dei clienti, liberi di agire ora secondo valutazioni personali e interessi propri. 5. L’azione riformatrice di Gaio Sempronio Gracco Gaio Sempronio Gracco era il fratello minore di Tiberio e ne aveva condiviso i legami parentali e la formazione culturale, militare e politica. Nel 123 a.C. venne eletto al tribunato della plebe. Come il fratello, si avvalse degli strumenti di azione garantiti dalla carica; nel 123 a.C. ottenne che i comizi tributi legittimassero l’interazione delle magistrature e nel 122 a.C. si candidò una seconda volta al tribunato, raggiungendo l’elezione, per garantire l’attuazione delle sue riforme. La decisione dell’assemblea popolare decretava la riabilitazione postuma del fratello. Gaio Gracco era sostenuto da un gruppo assai diversificato al proprio interno quanto ad appartenenza sociale, che comprendeva esponenti dell’aristocrazia senatoria ma soprattutto cavalieri, membri delle municipalità italiche e dell’élite provinciali, nonché ampi settori della plebe rurale e cittadina. Egli promosse un programma che si proponeva di risolvere gran parte delle criticità palesate dallo Stato romano negli ultimi decenni, con un’attenzione specifica a soddisfare le esigenze dei ceti subalterni, a premiare l’ordine equestre in rapida ascesa e divenuto progressivamente la forza economica dello Stato romano, ad assicurare infine garanzie ai provinciali di fronte agli abusi dell’amministrazione romana. Propose un pacchetto di 17 provvedimenti legislativi, che ottennero tutti l’approvazione dell’assemblea popolare tranne uno, relativo all’equiparazione giuridica degli alleati italici ai cittadini romani. Un primo provvedimento teso a migliorare le condizioni di vita del popolo fu la legge agraria. Essa proponeva l’iniziativa di Tiberio, che mirava a ricostruire il ceto dei medi e piccoli proprietari terrieri. Tuttavia il provvedimento di Gaio integrava alcuni contenuti della legge del fratello: - Stabiliva infatti che nei territori in cui, dopo le confische, si fosse proceduto alla ridistribuzione di agro pubblico in piccoli lotti ai nullatenenti, lo Stato avrebbe assunto l’onere di realizzare nuove strade perché agli agricoltori risultasse più agevole vendere i propri prodotti presso i mercati cittadini. - In favore del proletariato urbano venne approvata anche la legge Sempronia frumentaria, che attribuiva all’amministrazione centrale l’onere di provvedere mensilmente a distribuzioni di grano a prezzo politico alla plebe della città di Roma. - La legge Rubria riavviava la politica di deduzioni coloniali, consentendo che venissero fondate nuove comunità in territorio italico, ma anche in area extra-italica. - A vantaggio di quei cittadini che in questa fase storica erano tenuti a servire la Repubblica attraverso la milizia, Gaio Gracco fece approvare la legge militare, secondo la quale lo Stato non avrebbe potuto reclutare giovani sotto la soglia dei 17 anni e avrebbe inoltre fornito ai soldati quantomeno l’uniforme. - Gaio ottenne inoltre l’approvazione di una legge sulla pratica giudiziaria secondo la quale un cittadino romano poteva subire la condanna alla pena capitale solo in seguito a un pronunciamento popolare. Gaio Gracco legifera anche in favore dell’ordine equestre: ottenne l’approvazione della legge sulla provincia d’Asia, che attribuiva alle società di pubblicani l’appalto per la riscossione delle tasse nella provincia istituita in seguito al lascito testamentario di Attalo III nel 133 a.C. - Un ulteriore risultato raggiunto dei cavalieri fu l’approvazione di una seconda legge giudiziaria (legge Acilia), che interveniva nella composizione della giuria del tribunale permanente preposto ai processi di concussione nelle province e incaricato di giudicare i governatori, di rango senatorio, accusati di malversazione. Il tribunale, all’epoca presieduto da un pretore e affidato esclusivamente a giudici di rango senatorio, secondo la nuova legge vide conferire la maggioranza della giuria a membri appartenenti all’ordine equestre. La legge inoltre prevedeva un inasprimento delle pene per i governatori giudicati colpevoli che avrebbero dovuto rifondere una cifra doppia rispetto a quanto estorto. - Gaio Gracco intervenne anche in favore dei provinciali. Promosse infatti l’emanazione di un senatusconsultum, attraverso cui si intimò al governatore di una delle province spagnole di rimborsare alle città locali i costi del grano che aveva illegalmente riscosso e inviato a Roma. La sola tra le proposte di legge di Gaio Gracco a non essere approvata prevedeva la concessione della cittadinanza romana ai latini e del diritto latino agli alleati italici. Un ampliamento della cittadinanza era già stato proposto da Marco Fulvio Flacco. Egli aveva proposto la concessione della cittadinanza romana agli italici e si era scontato scontrato con la stessa resistenza che non l’avrebbe saputo fronteggiare nemmeno Gaio Gracco. Quest’ultima iniziativa legislativa pose infatti Gaio in contrasto con il più esteso fra i suoi bacini clientelari, ovvero la plebe urbana, che boicottò la proposta di legge. Nel 121 a.C. Gaio Gracco non riuscì nel tentativo di assumere per la terza volta il tribunale della plebe. Privo dell’inviolabilità connessa alla carica, sarebbe stato esposto alle ritorsioni di quanti avevano subito danni dalle sue leggi. Nell’occasione il Senato per la prima volta emanò un senatusconsultum ultimum, un provvedimento di emergenza che consentiva ai consoli di entrare in città con le armi e placare le sommosse anche con la forza. Gaio armò i suoi seguaci e scoppiarono tafferugli nel corso dei quali egli stesso morì. La riforma agraria proposta dei fratelli Gracchi in parte fallì. Intorno al 121 a.C. una legge stabilì che i destinatari di fondi pubblici avevano facoltà di vendere i lotti loro assegnati. Nel 119 a.C. circa si interruppero le operazioni di ripartizione e ridistribuzione della terra. Nel 111 a.C. una nuova legge agraria abolì il canone di affitto dei lotti distribuiti che divennero proprietà privata e furono presto rivenduti. 6. Ottimati e popolari In seguito all’esperienza graccana, nell’ambito dell’aristocrazia senatoria maturarono due schieramenti contrapposti. Coloro che si autodefinivano gli ottimati; si proponevano il consolidamento dei privilegi acquisiti nei secoli al vertice dello Stato romano e il mantenimento della situazione politica, economica e sociale esistente. Coloro che si definivano i popolari si vantavano di rappresentare gli interessi del popolo ma soprattutto favorivano la plebe urbana. Non mancavano di tutelare i ceti emergenti, come l’ordine equestre, ma anche gli alleati italici, che rivendicavano il diritto a un nuovo ruolo. Gli esponenti della fazione popolare elaborarono un programma inteso alla trasformazione della Repubblica e fatto proprio nel corso del I secolo a.C. I cardini di tale piattaforma rivendicativa erano: - la promozione di provvedimenti a favore degli italici; - la definizione della questione agraria, che si intendeva risolvere attraverso la ricostruzione della piccola proprietà; - l’attivazione di un’articolata politica di strumentazioni a vantaggio della plebe urbana; - l’alleanza infine con il ceto equestre. L’attivazione di tale politica esporrà a gravi pericoli i tribuni che se ne faranno promotori: Lucio Apuleio Saturnino, tribuno della plebe nel 103 a.C., venne ucciso nel 100 a.C.; Marco Livio Druso, tribuno nel 91 a.C., fu assassinato nello stesso anno. instaurava così un legame di mutua solidarietà e convergenza di interessi tra generale e soldati: fu questo il secolo dei “signori della guerra”, cioè di politici che assumevano il comando degli eserciti e miravano a raggiungere il potere personale grazie alla base di consenso rappresentato dai soldati. La riforma di Mario comprese anche aspetti tecnico-tattici. Poiché era lo Stato a fornire ora l’armamento, dall’esercito scomparvero i veliti, gli armati alla leggera dell’esercito manipolare. L’unità strategica divenne la coorte, un’unità tattica che riuniva i manipoli a tre a tre. Mario ne precisò la struttura, rendendo l’esercito più manovrabile ma mantenendone nel contempo l’elasticità: Mario accorpò i 30 manipoli della legione, che all’epoca comprendeva 5000-6000 uomini, in 10 corti; ognuna di esse contava 500-600 uomini e poteva operare autonomamente. Mentre ancora si trovava in Africa, nell’autunno del 105 a.C. Mario venne eletto per un secondo consolato. L’incarico conferito a Mario rispondeva a un’emergenza: la minaccia di una nuova invasione dei Cimbri e Teutoni. Intorno al 120 a.C. orde di popolazioni germaniche si erano spostate dalla penisola dello Jutland e dalle circostanti aree verso sud. Gli eserciti romani avevano subito numerose sconfitte: nel 113 a.C. a Noreia, nel 109 a.C. nella Gallia Narbonense; nel 107 a.C. ancora in Gallia, nel 105 a.C. ad Arausio. Mario addestrò duramente i suoi soldati impegnandoli in opere utili e faticose come la realizzazione della Fossa Mariana, canale navigabile che metteva in collegamento il Rodano con la costa mediterranea ed era funzionale a garantire approvvigionamenti sicuri all’esercito. I Cimbri e si spostarono verso la Spagna, mentre i Teutoni rimasero in Gallia, dove i due gruppi infine conversero, pronti invadere la penisola da tre punti diversi. Nel 102 a.C. Mario sconfisse i Teutoni presso Aquae Sextiae e nel 101 a.C. i Cimbri ai Campi Raudii, in Gallia Cisalpina. Mario, riconfermato al consolato ancora nel 100 a.C., dovette impegnarsi sulla scena politica. La questione più delicata era rappresentata dalle iniziative legislative del tribuno della plebe Lucio Apuleio saturnino. Egli proponeva provvedimenti di ispirazione graccana: - l’attribuzione di terre quale compenso per i veterani di Mario rientrati dalle spedizioni militari; - la distribuzione di grano a prezzo inferiore rispetto a quello di mercato; - la deduzione di colonie nelle province; - la ripartizione in lotti e l’assegnazione ai cittadini romani delle terre in Gallia. Sulla scena politica era in quegli anni attivo anche il pretore Gaio Servilio Glaucia. Candidato al consolato, quando fu chiaro che al suo posto sarebbe stato eletto Gaio Memmio, Glaucia assieme a Saturnino ne commissionò l’assassinio. Il Senato emanò lo stesso provvedimento repressivo adottato in occasione della morte di aio Gracco, un senatusconsultum ultimum, e dichiarò Saturnino e Glaucia nemici pubblici. Saturnino venne ucciso a colpi di pietra dalla folla salita sul tetto; Glaucia fu assassinato sulla strada.  L’uso politico dell’esercito di Silla Al rientro di Gaio Mario 91 a.C. andò radicalizzandosi la latente rivalità con Publio Cornelio Silla. Fu costui l’esponente più rappresentativo della parte degli ottimati nella prima metà del I secolo a.C. L’antagonismo fra i due scoppiò quando si aprì per Roma un nuovo conflitto: nell’88 a.C. Mitridate VI Eupatore, re del Ponto invase la Grecia, con ambizioni espansive in tutta l’area orientale occupata dai Romani. Il sovrano nutriva forti mire espansionistiche. In breve tempo gli eserciti di Mitridate dilagarono in tutta l’Asia romana e il loro successo attestava l’efficacia della propaganda del sovrano pontico, che gli aveva assicurato ampi consensi, ma anche l’animosità diffusa presso i popoli assoggettati nei confronti del dominio romano. Il Senato affidò a Silla la conduzione della guerra; dopo disordini interni, i comizi decisero tuttavia il trasferimento del mandato a Mario. Silla marciò su Roma alla testa delle sue truppe. Mario si diede alla fuga e raggiunse l’Africa. Silla, prima di partire per la spedizione orientale come proconsole, assunse provvedimenti intesi a limitare i poteri dei comizi: passa una norma che prevedeva che ogni legge dovesse essere approvata preventivamente dal Senato per transitare poi all’esame dell’assemblea popolare; si stabilì anche che solo i comizi centuriati avessero la facoltà di votare provvedimenti legislativi, esautorando di tale prerogativa i comizi tributi. La campagna orientale di Silla fu coronata da successo e si venne alla stipula di un accordo nell’85 a.C. a Dardano, che stabiliva il pagamento da parte di Mitridate di una consistente indennità di guerra e il rientro dei suoi eserciti nei confini del Ponto. Così si concludeva la prima guerra mitridatica (88-84 a.C.). Alla sconfitta del re aveva contribuito anche un altro contingente romano, posto agli ordini di Gaio Flavio Fimbria. Mario era infatti nel frattempo rientrato a Roma alla testa di un esercito e nell’87 a.C. era stato eletto console per la settima volta insieme al compagno di parte politica Lucio Cornelio Cinna. I due neo eletti avevano promosso una severissima repressione nei confronti di Silla ma nell’86 a.C. Mario morì.Cinna fu console anche nel biennio successivo, esercitando una sorta di dittatura a Roma tanto che gli anni del suo mandato, fra l’87 e l’84 a.C., furono definiti dominazione cinnana, ma morì nell’84 a.C. Solo nell’83 a.C. Silla fece ritorno nella penisola, mentre in Oriente esplodeva la seconda guerra mitridatica, destinata a protrarsi fino all’81 a.C. In Italia l’esercito di Silla si scontrò nell’82 a.C. presso Porta Collina con le armate di Sanniti e Lucani agli ordini di comandanti mariani; vittorioso, Silla entrò nell’Urbe. Inaugurò allora le prescrizioni; stilò e rese pubblica una lista di avversari politici di cui legittimava l’uccisione e la confisca dei patrimoni. Nell’82 a.C. attraverso la legge Valeria, proposta da Lucio Valerio Flacco, Silla venne eletto dal popolo di dictator legibus scribundis et rei publicae constituendae, ovvero dittatore con l’incarico di riscrivere le leggi rifondare lo Stato, carica che gli mantenne fino al 79 a.C. Attraverso tale magistratura Silla fece approvare una serie di provvedimenti intesi ad assicurare un rinnovamento dell’architettura istituzionale dello Stato. - Tra le iniziative più importanti vi fu l’ampliamento del numero dei senatori, portati a 600; - la rimodulazione delle giurie dei tribunali deputati a giudicare i reati di concussione nelle province che furono riconsegnate all’ordine senatorio; - l’incremento dei questori a 20 e dei pretori a 10. - Silla intervenne anche sui tribuni della plebe, carica che era divenuta lo strumento attraverso cui agivano i demagoghi per perseguire i loro fini personali, ma che rimaneva essenziale per la rappresentatività del popolo nel sistema istituzionale romano. Con Silla si stabilì che l’assunzione della carica di tribuno della plebe pregiudicasse la prosecuzione della carriera politica. - Inoltre si posero importanti limitazioni sia all’utilizzo del veto tribunizio sia alla facoltà dei tribuni di proporre leggi. In merito alla scansione delle magistrature, si decise che nessun cittadino potesse iterare una carica se non dopo 10 anni, che la questura potesse essere ricoperta non prima dei 30 anni, le edilità dei 36, la pretura dei 39 e il consolato dei 42. - Silla predispose che si effettuassero confische nelle aree in cui i suoi avversari politici avevano goduto di maggiori consensi e procedette alla redistribuzione delle terre dei suoi veterani. - Il dittatore ampliò il confine di Roma fino alla linea Rubicone-Arno, territorio all’interno del quale non potevano circolare uomini in armi. Nel 79 a.C. Silla abdicò e si ritirò a vita privata, morendo poi un anno dopo. La sua azione politica si era proposta un duplice obiettivo: ammodernare la struttura dello Stato che presentava ormai un’articolata complessità attraverso il coinvolgimento di un numero più ampio di senatori e magistrati ed eliminare dall’agone politico l’influenza della fazione popolare che considerava pericolosamente destabilizzante. Già nell’anno della sua morte parte del suo intervento di riforma dello Stato venne messa in pericolo. Il console in carica, Marco Emilio Lepido propose la riattivazione delle distribuzioni di grano al popolo, il ripristino degli antichi diritti di proprietà a vantaggio delle popolazioni italiche espropriate per favorire i veterani sillani, il rientro dei proscritti fuggiti. Scoppiò una ribellione in Etruria, Lepido si unì ai rivoltosi e marciò su Roma. Il Senato emanò un senatusconsultum ultimum e conferì il potere militare e l’incarico di intervenire in Etruria al giovane Gneo Pompeo. Questi si era già distinto accorrendo ad accogliere Silla al suo rientro dall’Oriente e portando tre legioni da lui stesso arruolate tra i clienti della sua famiglia nel Piceno. La ribellione venne repressa, Lepido fuggì in Sardegna e lì morì. Marco Perperna, suo luogo tenente trasferire truppe in Spagna, ove Quinto Sertorio comandava gli ultimi eserciti mariani. Il Senato ivi inviò contro di lui Pompeo. Nel 76 a.C. questi subì la vigorosa azione militare di Sertorio, ma poi riguarda il mio terreno. Perperna assassinò sartorio, persuaso di poterne trarre vantaggio; al contrario, fu sconfitto e fatto uccidere da Pompeo nel 71 a.C. Nel 70 a.C. i consoli Marco Licinio Crasso e Gneo Pompeo Magno attraverso una legge ripristinarono i poteri dei tribuni della plebe. 2. Gli alleati italici in guerra All’inizio del I secolo a.C. si avviò a soluzione la richiesta formulata a più riprese dagli alleati italici di equiparazione giuridica con i cittadini romani. In questo caso la soluzione fece seguito a uno scontro in armi che coinvolse ampi settori della penisola: si tratta della cosiddetta guerra degli alleati (guerra sociale - bellum sociale), cioè del conflitto combattuto contro gli alleati (socii) tra il 91 e l’89 a.C. Gli italici rappresentavano un gruppo composito e pertanto individuavano nel riconoscimento della cittadinanza la risposta a esigenze diverse. Le classi dirigenti miravano a ottenere l’elettorato attivo e passivo per esercitare un ruolo nella politica a Roma, al cui servizio da tempo ponevano uomini e risorse finanziarie; inoltre ritenevano che l’equiparazione giuridica costituisse una sorta di risarcimento, poiché probabilmente anche gli italici erano stati colpiti dalle confische agrarie previste dalle leggi dei Gracchi a danno dei grandi proprietari terrieri. I ceti subalterni ambivano quindi a partecipare ai vantaggi di cui godeva la plebe urbana: le elargizioni frumentarie, l’arruolamento nelle legioni e non nelle truppe ausiliarie, come pure i vantaggi della vita nell’Urbe dove sussisteva l’opportunità di sostentarsi grazie alla clientela. Per la soluzione dei conflitti connessi all’amministrazione provinciale si adottò allora l’istituzione di un tribunale permanente, preposto a giudicare i governatori inquisiti per il reato di concussione. Aspetti decisivi per l’efficacia del provvedimento si rivelarono in tre fattori: la composizione della giuria, la possibilità riconosciuta ai provinciali di presentare in proprio la denuncia nei confronti dei magistrati romani, l’entità delle pene eventualmente comminate ai colpevoli. Fu la legge Calpurnia a restituire nel 149 a.C. l’apposita corte di giustizia permanente per i reati di concussione, la quaestio perpetua de repetundis. La giuria, presieduta dal pretore urbano, era composta da senatori, che deliberavano a maggioranza. La legge Calpurnia stabiliva che i provinciali non potessero ricorrere in proprio, ma dovessero presentare le proprie istanze attraverso padroni, che in molti casi appartenevano all’ordine senatorio come gli imputati. In numerose occasioni costoro attuavano quindi una tecnica processuale dilatoria funzionale agli interessi dei loro colleghi fino a che i clienti rinunciavano e rientravano nella loro provincia. In caso di condanna dell’imputato, la pena comminata si esauriva nel solo risarcimento. Nel 123 a.C. il tribuno della plebe Manio Acilio Glabrione ottenne dai comizi tributi l’approvazione della legge Acilia, che modificava la normativa in tema di concussione. - La giuria sarebbe stata ora composto da cavalieri; - prima che la sentenza divenisse definitiva l’accusato avrebbe potuto fruire di una sorta di appello, tre giorni dopo il primo grado di giudizio; - i provinciali avrebbero beneficiato della facoltà di ricorrere in proprio; - la pena avrebbe previsto la corresponsione alla provincia di una cifra doppia rispetto a quanto è storto. In conseguenza della legge, i governatori divennero però ostaggio dei cavalieri e furono indotti a coprire gli abusi perpetuati dalla società di pubblicani. Nel corso della sua dittatura Silla intervenne nella legislazione riguardante la concussione e assunse alcuni provvedimenti favorevoli ai senatori a cui riaffidò la giuria del relativo tribunale. Nel 70 a.C. il pretore Lucio Aurelio Cotta ottenne l’approvazione della legge Aurelia giudiziaria. - Si stabilì che la giuria dovesse presentare una composizione mista, ovvero prevedere un terzo di senatori, un terzo di cavalieri e un terzo dei tribuni e rari, cioè cittadini che disponessero di un censo pari a quello dei cavalieri senza far parte dell’ordine. In tal modo gli equestri detenevano nuovamente il controllo del tribunale. Giulio Cesare nel 46 a.C. rimise mano la questione emanando la legge Giulia sulla concussione. - Il dittatore espulse dalla giuria i tribuni erari. Ai governatori venne fatto divieto di ricevere i doni e di imporre a propria discrezione tributi in provincia. Per i governatori giudicati colpevoli era prevista la condanna a versare il quadruplo delle somme indebitate sottratte e la restituzione del denaro rientrò nei doveri degli eredi, in modo che il condannato non risolvesse la questione attraverso il suicidio. Fu anche previsto che i colpevoli venissero radiati dal Senato. Capitolo 11: La crisi delle istituzioni repubblicane 1. Le rinnovate modalità della politica Tra la fine del II e il I secolo a.C. emerse in tutta la sua gravità l’inadeguatezza delle istituzioni repubblicane che si manifestò attraverso ripetute infrazioni alla normativa vigente, rappresentata soprattutto dalla legge Villia annuale che dal 180 a.C. disciplinava la successione delle cariche. Le reiterate violazioni da un lato scaturivano dalla necessità di rispondere alle eterogenee esigenze gestionali dello Stato, il cui organigramma burocratico-amministrativo si dimostrava deficitario rispetto alle nuove necessità della Repubblica; dall’altro derivavano dall’opportunità di ridefinire gli equilibri di potere all’interno della classe dirigente e di rinnovare le modalità della politica, in ragione delle mutate condizioni economiche, sociali, culturali del I secolo a.C. Il ceto senatorio e l’ordine equestre subirono pesanti ridimensionamenti dei loro tradizionali organici, in conseguenza del protrarsi delle guerre e del moltiplicarsi di episodi di violenza ritorsione nei confronti della parte di volta in volta soccombente nei conflitti intestini. Silla nell’82 a.C. i triumviri cesariani nel 43 a.C. ricorsero alle prescrizioni, eliminando migliaia di avversari. Parallelamente a tale contrazione della classe dirigente, Silla prima e poi Giulio Cesare poi ampliarono rispettivamente a 600 e poi a 900 il numero dei senatori. All’élite italiche e delle province occidentali si aprirono così opportunità di carriera a Roma. La loro integrazione nella classe dirigente romana era conseguenza di numerosi fattori: l’accresciuto peso dei loro affari nelle dinamiche economiche della Repubblica, il loro ruolo sempre più incisivo negli scontri militari, l’intervento delle loro relazioni clientelari con i leader romani, nonché la loro progressiva integrazione giuridica dello Stato romano. Questi esponenti delle classi dirigenti della penisola acquisirono quindi l’opportunità di assumere le magistrature divenendo uomini nuovi.  Le violazioni istituzionali In conseguenza di tante novità, la vita politica romana subì profonde trasformazioni e lacerazioni istituzionali. Il consolato venne conferito a uno stesso individuo senza soluzione di continuità anche per cinque anni di seguito senza rispettare l’intervallo previsto e in altre occasioni fu attribuito a un solo individuo anziché ad una coppia. Inoltre il Senato riconobbe comandi straordinari per missioni militari specifiche, in violazione della normativa che stabiliva sempre per l’esercizio del potere militare un confine geografico determinato e una durata temporale precisa. Furono poi stretti accordi extra-istituzionali tra leader politici per la gestione dello Stato a vantaggio personale (i due triumvirati). Si consentì perfino ai governatori di amministrare la provincia rimanendo a Roma e delegando l’incarico ai propri legati. Infine, la dittatura viene utilizzata in una forma nuova, che tradiva lo spirito per cui essa stessa era stata istituita. Nel I secolo a.C. acquistò caratteristiche molto diverse: fu innanzitutto auto-conferita e solo successivamente legalizzata dai comizi; fu motivata dall’esigenza della guerra civile e non da minacce esterne; durò ben più dei sei mesi previsti; venne giustificata dalla necessità di un riassetto costituzionale (per scrivere le leggi e ridisegnare la costituzione dello Stato).  L’affermarsi di grandi personalità Le violazioni istituzionali della tarda repubblica furono accettate dal popolo in conseguenza di un importante trasformazione nell’ideologia. La storia di Roma in ciascuna sua fase non era il portato dell’azione di singoli individui, ma l’esito di uno sforzo collettivo. Diversamente, nella tarda età repubblicana, la politica fu gestita da grandi personalità che si assicuravano un eccezionale ruolo di potere a vantaggio di sé stessi. La nobiltà senatoria perse gradualmente il controllo delle truppe che divennero di fatto milizie personali. L’aristocrazia identificò il proprio candidato al potere in Pompeo, che era un cavaliere.  Episodi di eversione Il clima di illegittimità e di disordine istituzionale che caratterizzò gli ultimi decenni della Repubblica indusse anche alcuni personaggi della scena politica a perseguire la propria affermazione personale attraverso la promozione di progetti sovversivi. Lucio Sergio Catilina, nel 63, riunì intorno a sé una clientela composita: schiavi fuggitivi, plebe rurale, veterani che avevano ottenuto terra come buonuscita ma erano stati costretti a vendere l’appezzamento a causa dei debiti contratti con il gioco d’azzardo e la vita dissoluta. Figuravano però fra i suoi seguaci anche giovani nobili in difficoltà economica. L’obiettivo di Catilina era acquisire una posizione di potere nello Stato. Inizialmente si era presentato per il consolato nel 65 a.C., ma era stato respinto per indegnità; nel 64 a.C. si era candidato alla stessa carica e si era ripresentato nel 63 a.C., quando la magistratura era detenuta da Marco Tullio Cicerone. All’epoca sembra fosse sostenuto dal ricchissimo Marco Licinio Crasso e Oriente, confermando il regno di Armenia a Tigrane ma sottraendo alla sua influenza la Siria che nel 64 a.C. istituì come provincia romana. Occupò poi la Palestina e la sua capitale Gerusalemme, rendendo lo Stato giudaico tributario. Costruì infine in Oriente una ramificata rete di relazioni clientelari, che non poco giovarono alla sua carriera. Rientrato a Roma nel 62 a.C., Pompeo non ottenne però nell’immediato quanto riteneva gli sarebbe stato subito concesso come riconoscimento delle sue vittorie, ovvero la ratifica della riorganizzazione che aveva attuato in Oriente e l’attribuzione del compenso in terre ai suoi veterani. Il Senato infatti si levavano voci a lui fortemente ostili, tra cui Catone il Giovane, il futuro Uticense, e Lucullo, a cui Pompeo aveva di fatto sottratto il comando della guerra mitridatica e i relativi onori. A Roma egli era trattato con freddezza proprio da quei nobili al cui fianco aveva militato sin dal principio della sua carriera. Costoro erano preoccupati dalla sua crescente influenza e dal suo prestigio, che avrebbe potuto tramutarsi in un potere personale straordinario sul modello di Silla. La questione venne risolta in breve tempo grazie all’alleanza stretta da Pompeo, Cesare e Crasso. Nel 60 a.C. fu l’abilità diplomatica di Giulio Cesare a consentire la stipula di un patto tra le tre personalità più influenti del tempo; Pompeo, Crasso e Cesare stesso: fu inaugurato dunque il primo triunvirato, per il quale si decise una durata quinquennale. Gli obiettivi immediati dell’accordo contemplavano: - l’ascesa di Cesare al consolato per il 59 a.C.; - la soddisfazione delle richieste dei veterani di Pompeo; - la ratifica della riorganizzazione promossa da quest’ultimo in Oriente. L’accordo fu rinnovato nel 56 a.C. a Lucca per un ulteriore quinquennio e Cesare ebbe assicurato per altri cinque anni il comando in Gallia. Anche dopo la stipula dell’accordo triumvirale e il suo rinnovo, la carriera di Pompeo fu contrassegnata dall’illegittimità istituzionale. Nell’anno del suo secondo consolato, il 55 a.C., la legge Trebonia sulle province consolari assegnò a Pompeo il proconsolato delle due Spagne e a Crasso quello della Siria. Pompeo però non si recò nella provincia ma rimase a Roma per poter controllare l’evolvere della situazione politica e attuare un’incisiva azione di edilizia pubblica, molto remunerativa in termini di immagine e di consenso popolare: tra le iniziative di cui si fece promotore, nel 61 nel Campo Marzio avviò i lavori di costruzione del suo teatro, che sarebbe stato il primo in muratura nell’Urbe e che gli avrebbe garantito un ritorno di immagine eccezionale presso il popolo di Roma. Nel 52 a.C. Pompeo ricoprì nuovamente il consolato; ma nell’occasione non venne eletto insieme a lui un collega. L’essere console senza collega costituiva una palese violazione del principio della collegialità delle cariche. Altrettanto anticostituzionale risulta il fatto che Pompeo fosse autorizzato a detenere contestualmente anche il comando proconsolare per le Spagne conferitogli in precedenza, nonché l’incarico per l’approvvigionamento del grano, preziosissimo strumento per garantirsi il consenso popolare a Roma.  Un aristocratico di parte popolare: Cesare La carriera di Gaio Giulio Cesare rappresentò un elemento di novità nella storia romana non tanto per il carattere anticostituzionale dei poteri assunti, quanto per la tipologia delle sue clientele e per l’uso che egli ne fece a sostegno della sua causa personale. Giulio Cesare era nato il 13 luglio 100 a.C. all’interno di una delle più antiche famiglie del patriziato romano, che vantavano una discendenza da Venere, attraverso il figlio di Enea Ascanio. L’esordio di Cesare in politica era stato complicato e rallentato dall’insufficiente disponibilità economica della famiglia. Cesare aveva scelto la parte popolare, raccogliendo l’eredità di Mario e di Cinna. Fin dalla sua prima carica, la questura, assunta nel 70 a.C., Cesare aveva promosso un attento recupero della memoria di Gaio Mario. Egli perseguiva due obiettivi: l’affermazione della linea politica dei popolari contro la politica dello schieramento ottimate e il successo personale. Gli strumenti utilizzati per raggiungere tali scopi furono molteplici. In primo luogo agì con il fine di acquisire solide basi economiche, per attivare un’incisiva campagna elettorale e supportare i propri sostenitori; inizialmente fruì di cospicui prestiti da parte di Crasso, poi valorizzò le potenzialità dei bottini di guerra derivanti dalla sua campagna in Gallia e infine utilizzò risorse finanziarie dello Stato. In secondo luogo perseguì l’alleanza con uomini potenti. In terzo luogo si garantì il comando di un esercito forte. Cesare riuscì ad armonizzare gli interessi di clientele composite. Un ruolo centrale fu riservato ai provinciali. Seppe guadagnare il sostegno dei provinciali e li ricompensò in vari modi. Inoltre premiò i suoi sostenitori nativi delle regioni occidentali dell’impero attraverso un miglioramento della loro condizione giuridica. All’intera Sicilia riconobbe il diritto latino. La Transpadana nel 49 a.C. ottenne la piena cittadinanza romana attraverso la legge Giulia sui transpadani. Inoltre a partire da quello stesso anno numerosi provinciali furono messi da Cesare in Senato. Altro componente fondamentale del bacino clientelare cesariano era la plebe. Cesare si spese per l’abrogazione delle norme sillane sul tribunato e raggiunse l’obiettivo, sostenendo per il 70 a.C. la candidatura al consolato di Pompeo e Crasso che le cancellarono. Inoltre nel corso della sua utilità nel 65 a.C. organizzò giochi, spettacoli gladiatori, caccia, banchetti pubblici al fine di guadagnare popolarità presso la plebe. Una componente essenziale della sua clientela fu rappresentata dai soldati. Durante il suo proconsolato Cesare seppe guadagnare la fedeltà di un esercito, in prevalenza arruolato nella Gallia Transalpina e Cisalpina e nell’Illirico, che era forte, fedele, ma anche consapevole di poter esercitare un ruolo politico e che scelse non solo di combattere gli ordini di Cesare per ottenere benefici economici ma anche di assecondare il proprio comandante nella guerra civile, lungo la via dell’illegalità. Cesare seppe infatti instaurare un rapporto particolare con i suoi soldati, condividendone le fatiche, le dure condizioni di vita, i pericoli nelle battaglie, mantenendo però un’autorevolezza indiscussa sulle proprie truppe. Anche alla luce della volontà di acquisire un consistente esercito e di beneficiare del suo consenso si giustifica la lunga guerra combattuta da Cesare in Gallia. In quanto console, nel 59 a.C. Cesare ottenne un governatorato per il 58 a.C. Si trattava di un vero e proprio comando straordinario perché avrebbe dovuto avere una durata quinquennale e avrebbe compreso più territori: Gallia Cisalpina, Narbonense, Illirico. La scelta della Gallia rispondeva a molteplici considerazioni. Forse già nel 59 a.C. Cesare progettava di sfruttare l’eventuale vittoria nella regione come punto di partenza per la conquista di un potere personale di assoluto rilievo, ma altri argomenti si imponevano l’attenzione. - La Gallia garantiva un importante ritorno di immagine: Gaio Mario, lo zio acquisito, gli aveva vittoriosamente combattuto ed il ricordo delle sue imprese era ancora vivo presso l’opinione pubblica. Il timore che una nuova invasione del Nord potesse colpire la Cisalpina o addirittura l’Italia determinò il deciso sostegno alle campagne cesariane di larghi strati dell’opinione pubblica. - L’operazione in Gallia aveva poi un’altra specifica ragione: il legame con la Transpadana. Cesare fin da fasi precoci si era fatto paladino della richiesta di equiparazione giuridica dei Transpadani. Il governatorato della Cisalpina gli avrebbe consentito di preparare il terreno per tale importante concessione e già la promessa concreta di un impegno in tal senso avrebbe esteso le sue clientele in quella regione. - Infine, un proconsolato in Gallia avrebbe permesso a Cesare un ampliamento della propria base clientelare. La campagna di conquista della Gallia si protrasse per un decennio, ma comportò anche enorme impegno e costrinse Cesare ad affrontare gravi pericoli per sé e per il suo esercito, nonché a fronteggiare una minacciosa opposizione nel Senato di Roma. Le operazioni militari presero avvio come intervento preventivo all’interno di una regione popolata da tribù celtiche in perenne reciproco antagonismo. Cesare attaccò gli Elvezi. A Bibcrate vinse ma a costo di gravi perdite. I Sequani chiamarono in aiuto la tribù germanica dei Suevi di Ariovisto. Egli mosse guerra e Cesare lo sconfisse a Vesonzio. Nella nuova campagna del 57 a.C. Cesare batté i Belgi e il suo legato Publio Licinio Crasso ottenne un avanzamento nella Gallia nord-occidentale. Cesare in un primo tempo sconfisse le popolazioni della Bretagna in rivolta e poi sterminò il popolo degli Usipeti e dei Tencteri. Nella stessa estate passò la Manica per minacciare le popolazioni celtiche dell’isola che fornivano sostegno ai Galli della costa e presso le quali si trovavano le radici santuariali dei sacerdoti Druidi. L’anno successivo Cesare guidò una seconda campagna in Britannia, raggiungendo il Tamigi. Nel 53 a.C. il governatore consolidò la presenza romana in Gallia, ma nel 52 a.C. diverse tribù locali riuscirono a dar vita a un’estesa alleanza, al comando del capo degli Averni, Vercingetorige. La controffensiva prese l’avvio con la strage di italici a Cenabo. Cesare rientrò della cisalpina e assediò Gergovia. Insieme a Tito Labieno inseguì Vercingetorige che si asserragliò ad Alesia. Cinta d’assedio la città, Cesare ebbe l’intuizione di far costruire non solo una cinta muraria per l’aggressione all’insediamento nemico ma anche un secondo anello. Alesia cadde, Vercingetorige si arrese e fu condotto a Roma dove, dopo sei anni di carcere, sfilò nel trionfo di Cesare prima di essere decapitato. Gli accordi di Lucca avevano previsto il comando provinciale della Spagna per Pompeo e della Siria per Crasso, il quale ambiva a guidare una campagna contro i Parti perché mirava a consolidare con il prestigio militare la sua posizione politica. La spedizione orientale fu fatale al triumviro e al figlio Publio, che perirono nella piana di Carre nel giugno del 53 a.C.: i Parti fecero scempio dei loro corpi, sterminarono le legioni romane, si impossessarono delle insegne, catturarono molti prigionieri. La scomparsa di Crasso trasformava pericolosamente il triunvirato in diarchia. Nel 54 a.C. inoltre era morta di parto Giulia, la figlia che Cesare aveva dato in sposa a Pompeo come suggello dell’accordo triumvirale; si decideva così un prezioso legame tra i due triumviri superstiti. Nel 52 a.C. a Roma era stato assassinato Clodio e il Senato aveva affidato a Pompeo il compito di sedare i disordini di piazza e reprimere gli atti sediziosi. Cesare aveva perseguito la via del compromesso: aveva chiesto di concorrere per il consolato dell’anno successivo senza presentare personalmente la candidatura. Il suo scopo era evitare di rientrare a Roma, scaduto il potere Capitolo 12: La Repubblica dopo Cesare 1. Cesariani contro cesaricidi La sopravvivenza dello Stato romano dopo un periodo di conflitti intestini lungo oltre un secolo si deve alla come politico di un giovane uomo: Ottaviano Augusto, colui che per testamento Cesare aveva designato proprio erede. Gaio Ottavio nacque il 23 settembre 63 a.C. La sua famiglia proveniva da Velletri ed erano espressione di quella categoria di famiglia originaria di piccoli centri dell’Italia, che si erano affermate da tempo, avevano costituito solidi patrimoni e importanti relazioni di amicizia e di parentela a Roma, ma erano ancora ai margini alla vita politica nell’Urbe. L’ascesa di Ottaviano va ricondotta alla sua precoce e acutissima visione politica e alla sua temerarietà. Nel 44 a.C. egli accettò l’eredità cesariana. L’accettazione implicava anche un diretto coinvolgimento nella politica del tempo, che molti familiari e amici gli sconsigliavano. Costoro temevano infatti che egli non avrebbe saputo fronteggiare gli oppositori del dittatore. Raccolta l’eredità del dittatore, Ottaviano comprese fin da subito l’importanza di assicurarsi un consistente e fedele esercito e di acquisire credibilità e prestigio nel partito di Cesare. Dopo la morte del leader, il partito viveva momenti di disorientamento, faticando a individuare una nuova guida carismatica su cui convergessero i consensi di tutte le eterogenee clientele del dittatore. Colui che riteneva di poter assumere questo ruolo e che godeva di un largo seguito era Marco Antonio. All’indomani delle idi di marzo Antonio, console in carica, aveva assunto l’iniziativa, raggiungendo una mediazione con Bruto e Cassio: aveva dovuto accettare l’amnistia per i cosiddetti liberatori ma aveva anche ottenuto la celebrazione dei funerali pubblici per l’ucciso e il riconoscimento della validità di tutti i provvedimenti assunti dal dittatore. Nel partito di Cesare il consenso su un eventuale successione di Antonio non era tuttavia unanime. La guida di quanti non si riconoscevano in lui era stata assunta dei consoli che sarebbero entrati in carica nel 43 a.C., Aulo Irzio e Gaio Pansa. Alla leadership di questo gruppo doveva puntare Ottaviano. Proprio nell’ottica di consolidare la sua posizione in vista di uno scontro con Antonio, Ottaviano promosse tre iniziative: perseguì con successo un’intesa con Cicerone. Ottaviano pagò al popolo il consistente lascito testamentario del dittatore; ed egli arruolò a proprie spese un esercito, richiamando in servizio numerosi tra i veterani delle campagne galliche e della guerra civile che Giulio Cesare aveva stanziato in Campania. In occasione del primo scontro militare di rilievo dopo il cesaricidio nei primi mesi del 43 a.C., Ottaviano si alleò con il Senato. Bruto e Cassio dopo il tirannicidio non avevano ottenuto quei consensi presso l’opinione pubblica in cui speravano. Avevano quindi lasciato l’Italia per l’Oriente. Il contesto in cui Ottaviano scelse la causa di Decimo Bruto contro Antonio era la cosiddetta guerra di Modena, combattuta nel 43 a.C. Antonio stava allora assediando Modena, dove era asserragliato Bruto. Quest’ultimo aveva assunto il governatorato della Gallia Cisalpina e Antonio combatteva in armi Bruto proprio perché voleva assumere quel governatorato, forte di un pronunciamento del popolo che aveva emanato una legge sulla sostituzione delle province. Il dittatore aveva stabilito che nel 43 a.C., mentre egli si sarebbe trovato in Oriente, Antonio assumesse il comando della Macedonia, che sarebbe stata provincia strategica per i collegamenti tra l’Italia e l’esercito; ma ora, annullata la campagna partica, Antonio avrebbe tratto maggior profitto dal governatorato della Gallia Cisalpina. Ottaviano, schierato con il Senato, vinse Antonio, che dovette velocemente ripiegare nella Gallia Narbonense, di cui aveva assunto il proconsolato il cesariano Marco Emilio Lepido. A Modena, nell’infuriare dello scontro era morto Irzio e Pansa poco dopo, consoli nel 43 a.C.: forte del prestigio militare e delle legioni che nel nome di Cesare aveva arruolato presso i veterani di Campania, Ottaviano si impose alla guida della fazione cesariana ostile ad Antonio. Raggiunta questa posizione di forza, l’erede di Cesare fu protagonista di una nuova spregiudicata inversione di rotta: abbandonò la causa del Senato, che non gli aveva concesso il consolato a cui pure egli aspirava nonostante la giovinezza, e pervenne ad un accordo con i cesariani Lepido e Antonio. Forte di questa alleanza in via di definizione, il 19 agosto 43 a.C. l’erede di Cesare marciò su Roma e ottenne il consolato. La legge Pedia contro gli uccisori di Cesare diede avvio alla vendetta su quanti fossero stati a vario titolo coinvolti nell’uccisione di Cesare. 2. Ottaviano, Antonio e Lepido: il secondo triumvirato Il 27 novembre 43 a.C. la legge Tizia attribuì per cinque anni il potere supremo nello Stato ad Antonio, Ottaviano e Lepido, triumviri per la ricostituzione dello Stato. A differenza del cosiddetto primo triunvirato, questa nuova alleanza sfociò in una magistratura, dal carattere del tutto innovativo. I triumviri individuarono le rispettive aree di influenza: - Antonio avrebbe mantenuto sotto il suo controllo la Gallia Cisalpina e la Gallia Comata; - Lepido la Gallia Narbonense, la Spagna Citeriore e la Spagna Ulteriore; - Ottaviano l’Africa, la Sicilia, la Sardegna e la Corsica. Una delle prime iniziative dei nuovi magistrati fu l’emanazione di nuove liste di proscrizione. La vittima più illustre fu Marco Tullio Cicerone, ucciso per l’animosità che la sua politica e le orazioni Filippiche avevano suscitato contro di lui in Antonio. Si trattava di una soluzione cruenta adottata anche per incamerare i patrimoni, necessari per la guerra in Oriente che i cesariani si accingevano a compiere. I cesaricidi si erano trasferiti in Oriente per raccogliere denaro e un ingente esercito in vista dello scontro finale. Ottaviano si presentò quindi come il solo legittimato a compiere la vendetta per il cesaricidio. Nel gennaio del 42 a.C. Cesare venne divinizzato e tale provvedimento assicurò a Ottaviano il privilegio di potersi definire Divi filius. La vendetta si attua a Filippi nell’ottobre del 42 a.C. Nelle due battaglia di filippi morirono suicidi sia Cassio, prima, che Bruto, poi. Sul campo vinse Antonio; per la propaganda il vendicatore di Cesare fu tuttavia Ottaviano. L’aver acquisito il controllo delle province orientali determinò una nuova spartizione del potere tra i soli Ottaviano e Antonio; già in questa fase si produsse infatti un primo tentativo di estromettere Lepido, che veniva accusato di collusione con Sesto Pompeo, il figlio di Pompeo che aveva accolto i proscritti e costituito una flotta con cui dalla Sicilia bloccava le navi annonarie provenienti dall’Africa e dirette a Roma. La posizione di Sesto era stata legittimata dal Senato nel 43 a.C., quando questi aveva ricevuto la carica di prefetto della flotta (praefectus classis et orae maritimae). Si stabilì che Ottaviano rientrasse in Italia per occuparsi dell’assegnazione delle terre che erano state promesse dai triumviri ai loro soldati; inoltre che Antonio rimanesse in Oriente per riorganizzare un territorio che era stato a lungo sotto il controllo dei cesaricidi e conservasse la gestione delle Gallie, infine che Lepido governasse l’Africa. Antonio e Ottaviano si incontrarono nuovamente a Brindisi. Una ridefinizione dei loro rapporti si imponeva perché, mentre Antonio si trovava in Oriente, dove aveva iniziato la sua relazione con Cleopatra, in Italia tra il 41 e il 40 a.C. era scoppiata una nuova guerra civile, la cosiddetta guerra di Perugia. Il fratello di Antonio, Lucio Antonio console in carica, e la moglie di Antonio, Fulvia, contestavano le modalità di reperimento e di riassegnazione delle terre italiche ai veterani da parte di Antonio, che si era visto costretto a effettuare confische a danno di proprietari terrieri italici e che premiava i propri soldati prima di quelli del collega. I generali di Antonio in Occidente si erano mossi con cautela perché il loro triumviro di riferimento non esprimeva disposizioni, forse ignorando i fatti o forse tenendosi opportunamente fuori da una nuova guerra civile. Lucio e Fulvia grave crisi comportò la trasformazione dell’assetto politico dello Stato. Tale processo di cambiamento si produsse secondo modalità ispirate a estrema cautela, caratterizzate da uno sperimentalismo costante e dalla disponibilità continua del principe al ripensamento delle sue decisioni. Augusto confezionò per i contemporanei e per i posteri un’immagine del nuovo governo come prosecuzione dell’esperienza repubblicana e rivitalizzazione del mos maiorum. Inoltre giustificò la sua particolare posizione nello Stato, la quale concentrava nelle sue mani i poteri che la normativa prevedeva invece fossero ripartiti tra magistrati diversi, attraverso un consenso generalizzato (consensus universorum). Il favore largamente condiviso presso l’opinione pubblica derivava dall’esigenza di una pace stabile ottenuta anche a prezzo della rinuncia alla libertà politica. Ottaviano nel 27 a.C. si rese protagonista di un gesto di grande effetto propagandistico, la restitutio rei publicae; il 13 gennaio egli riconsegnò al Senato e al popolo romano i poteri eccezionali che gli erano stati conferiti per lo scontro con Antonio e avviò la restaurazione dell’istituzioni repubblicane. Per decreto del Senato a Ottaviano fu allora conferito il nome Augusto. Si trattava di un titolo cultuale, che rifletteva l’eccellenza del suo detentore e connetteva il suo primato nello Stato alla sua autorità s’ovvero alla sua autorevolezza, conseguente a una particolare predilezione divina. Intorno al 28 a.C. aveva acquisito anche quello di princeps, la qualificazione tradizionale del senatore più eminente (princeps senatus) che veniva a riferirsi a un primato generalizzato nella Repubblica. Nel 2 a.C. Augusto avrebbe poi ottenuto anche il titolo di pater patriae, che definiva il ruolo da lui esercitato nella salvezza dello Stato. 2. I poteri di Augusto Nonostante la restaurazione delle istituzioni repubblicane, nel 27 a.C. Augusto mantenne il consolato e lo depose solo nel 23 a.C. Nello stesso 27 a.C. fu attribuito al principe per 10 anni un esteso comando provinciale, comprensivo delle Spagne, delle Gallie, della Siria, della Cilicia e di Cipro. In queste province erano di stanza reparti legionari che costituivano la gran parte delle forze armate romane; di essi il principe assunse il comando. Si operò di conseguenza una ripartizione delle province in due categorie: le province non pacificate, sede di reparti legionari perché non erano ancora sicure nei confini, e le province pacificate, quindi prive di eserciti al proprio interno. Le prime furono attribuite alla gestione del principe; definite province imperiali, ne era proconsole Augusto stesso che vi esercitava il proprio comando e agiva per mezzo di legati di rango pretorio o consolare di propria nomina e a lui subordinati che rimanevano in servizio quanto il principe stabiliva di volta in volta (Legati Augusti propraetore). Le province pacificate erano affidate invece alla gestione del Senato: definite pubbliche o del popolo romano, erano governate da promagistrati assegnati per sorteggio che rimanevano in carica un anno. All’Egitto, territorio di primaria importanza per la sua funzione di fornitore di grano e per la sua posizione strategica, fu inoltre riconosciuto uno statuto particolare: fu affidato in amministrazione a un funzionario equestre di nomina imperiale, il prefetto di Egitto. Inoltre ai senatori romani fu proibito l’accesso alla regione, se non autorizzati espressamente dal principe. Nella progressiva definizione del suo potere nello Stato, Augusto scisse i poteri delle cariche che tradizionalmente li esprimevano. In tal modo, assumendo i poteri ma non le magistrature, Augusto rispetto ai criteri di collegialità, annualità ed eleggibilità delle cariche. A partire dal 23 a.C., Augusto amministrò lo Stato mediante la somma di tre poteri fondamentali. - Il primo fu la potestà tribunizia perpetua, che assicurò al principe le prerogative riservate ai tribuni della plebe, ovvero il diritto di veto, l’iniziativa legislativa, la facoltà di convocare il popolo e il Senato, inviolabilità e l’opportunità di instaurare un rapporto di patronato nei confronti della plebe. Il potere veniva rinnovato ogni anno e quindi la sua menzione nella titolatura imperiale costituisce un elemento datante. - Il secondo potere è detenuto dal principe fu il potere proconsolare superiore, conferito nel 23 a.C. Il principe esercitò quindi un comando militare superiore a quello degli altri proconsoli. La critica discute se si trattasse di un potere esteso a tutte le province dell’impero (e quindi infinito) oppure se si riferisce, oltre che alle province già amministrate da Augusto, anche a quelle in cui egli avrebbe operato nel corso della campagna orientale che si accingeva a compiere, quindi Sicilia, Acaia, Asia, Bitinia-Ponto. - Il terzo potere venne acquisito attraverso l’assunzione della più prestigiosa carica religiosa, il pontificato massimo: ciò avvenne nel 12 a.C., alla morte di Lepido che lo deteneva dall’uccisione di Giulio Cesare. Attraverso il pontificato massimo Augusto fu artefice di numerose riforme in ambito religioso, dando reviviscenza ad alcuni culti e riti da tempo non più praticati. Inoltre egli evitò di trasferirsi nella residenza dei pontefici massimi presso il foro; rese invece pubblica una parte della sua abitazione sul Palatino e qui fece costruire un santuario per le Vestali. Il primato di Augusto nello Stato era quindi garantito dalla somma dei tre poteri e della sua autorevolezza (auctoritas). Il principato non divenne una magistratura, subì una trasformazione in questo senso solo all’avvento della dinastia Flavia. Mutuando uno dei principi fondamentali dell’assetto istituzionale repubblicano, già nel 23 a.C. Augusto sperimentò una gestione collegiale dell’impero, condividendo alcuni dei suoi poteri, potere militare e potestà tribunizia, con un collega. Il primo a beneficiare di tale concessione fu il genero Marco Vipsanio Agrippa; dopo la sua morte, avvenuta nel 12 a.C., il principe condivide i poteri con Tiberio. Anche altri giovani esponenti della famiglia del principe divennero destinatari di tali prerogative: Druso maggiore e Gaio Cesare. 3. La sopravvivenza delle istituzioni repubblicane In età augustea le istituzioni repubblicane continuarono a funzionare come nel passato. Malgrado l’apparente indipendenza, tali organismi erano sottoposti all’autorità del principe. - Il Senato fu riportato a 600 membri, attraverso alcune epurazioni, di cui la più severa ebbe luogo nel 18 a.C. - Fino all’età augustea il censo minimo richiesto sia per accedere alla curia sia per far parte dell’ordine equestre era di 400.000 sesterzi; ora per il Senato la soglia fu innalzata 1.000.000 di sesterzi. - Il ruolo del Senato fu di fatto ridimensionato, sia perché l’autorevole consesso perse i propri poteri tradizionali in ambito di politica estera e finanziaria sia perché subì la concorrenza di due nuovi strumenti di governo e centri di potere. Il consilium principis, cioè il consiglio composto da coloro che il principe sceglieva tra i suoi amici o i suoi servitori, assunse competenze e ambiti di azione che venivano di volta in volta decisi dall’imperatore ma che talora gli consentirono di risultare assai incisivo. La domus principis rappresentava anch’essa un nuovo luogo del potere che agiva come un soggetto politico. - Le magistrature della carriera senatoria rimasero pressoché le stesse rispetto all’età repubblicana: la questura rappresentà ancora la prima tappa della carriera senatoria, ma il numero dei questori fu ridotto nuovamente a 20. L’edilità e il tribunato della plebe sopravvissero. Anche la pretura fu mantenuta. In merito al consolato, Augusto mise a regime la pratica del suffettato: ogni anno la coppia di consoli ordinari entrava in carica il 1 gennaio, per cedere poi il posto a una coppia di consoli supplenti, suffecti, che in genere si insediavano il primo luglio. La censura invece decadde perché il principe assunse parte delle prerogative attraverso la soprintendenza dei costumi. - Per quanto riguarda le assemblee popolari, i comizi curiati continuarono a occuparsi di diritto familiare e in particolare delle questioni connesse alle adozioni; i comizi tributi rimasero l’organismo legislativo per eccellenza, condividendo il potere elettorale con i comizi centuriati. - Le elezioni erano state riattivate a partire già dal 27 a.C., ma l’interferenza di Augusto veniva esercitata secondo due modalità: attraverso la procedura secondo cui il magistrato preposto alle elezioni poteva accettare o rifiutare la candidatura; mediante la raccomandazione che era facoltà dell’imperatore formulare a sostegno di un candidato. Nonostante tali limitazioni, fino al 5 d.C. la contesa elettorale procedette ancora come ai tempi della libera Repubblica; tuttavia a partire da quell’anno l’introduzione di una nuova procedura, detta destinatio, rese inefficace il voto popolare. - Tali centurie corrispondevano a comitati ristretti di senatori e cavalieri che erano incaricati di designare con raccomandazione (destinatio) i candidati alla pretura e il consolato che i comizi centuriati avrebbero eletto. 4. Le forze armate augustee Dopo Azio, Augusto procedette a una profonda riforma dell’esercito, che divenne permanente, stabile, costituito da soldati professionisti e articolato in diversi reparti. - In merito alle legioni, che erano stanziate nelle province, Augusto ne mantenne in servizio 28 (170.000 uomini circa). Le legioni sarebbero state sciolte solo se annientate dal nemico o colpevoli di rivolte o di viltà. Esse vennero numerate da I a XXII; alcuni numeri erano attribuiti a più di una legione perché l’esercito di Augusto comprendeva, oltre ai suoi reparti, anche quelli acquisiti dai triumviri Lepido e Antonio. - Augusto stabilì che la durata del servizio militare dei legionari fosse di 20 anni. Lo stipendio fu fissato a 225 denari l’anno ma il legionario doveva sostenere in proprio le spese per vivere, vestiario, calzature, equipaggiamento in cuoio, tenda, armi. - Nel 6 d.C. istituì l’erario militare, il cui avvio fu garantito da un versamento da parte di Augusto di 170 milioni di sesterzi e il cui funzionamento a regime fu finanziato da nuove imposte a carico dei cittadini romani. - Si stabilì che al momento del congedo i veterani ricevessero con il certificato di buona condotta una liquidazione di 3000 denari. - Augusto concesse poi il cosiddetto peculio castrense: il soldato entrava cioè in possesso del suo stipendio della buona uscita, anche se il pater familias era ancora in vita: fu questa la prima infrazione, consentita per legge, alla patria potestà, che fino ad allora aveva imposto che ogni bene acquisito da un figlio venisse attribuita in proprietà al padre. - Tra il 27 il 26 a.C. Augusto istituì il corpo dei pretoriani. Si trattava della sua guardia del corpo e assolveva al compito di presidiare l’Italia. I pretoriani erano organizzati in nove - Per agevolare inoltre le comunicazioni tra i governatori e Roma, fu istituito un apposito servizio di posta per l’amministrazione statale. Si ampliò quindi il sistema di grandi arterie stradali, soprattutto nelle province, e se ne curò la manutenzione. - In ogni provincia furono poi istituite assemblee periodiche, in cui rappresentanti di tutte le città si riunivano per provvedere al culto di Roma e Augusto e per discutere i problemi di interesse comune. - Le province furono anche teatro di una forte spinta all’urbanizzazione, che coinvolse colonie e municipi e divenne un efficace vettore di romanizzazione. - Venne concessa infine la cittadinanza ad personam a esponenti di alcune élite provinciali e si assicurò loro l’accesso al Senato, secondo un modello di integrazione già sperimentato con successo da Giulio Cesare. 8. La riorganizzazione di Roma e dell’Italia Augusto compensò abbondantemente la sua composita clientela, ma esercitò anche un’energica azione di tutela della proprietà, per tranquillizzare i ceti abbienti e quanti temessero pericoli di sovvertimento sociale. - Risarcì con il proprio patrimonio coloro i quali erano state requisite le terre in favore dei veterani. - Restituì anche gli schiavi fuggitivi ai legittimi padroni nel rispetto del rapporto dominus- servus. - Procedette inoltre a fini amministrativi a una nuova ripartizione di Roma e dell’Italia. La propaganda augustea sottolineava la centralità dell’Urbe nell’impero ed era chiaro come la sede del potere si dovesse identificare in Roma, a cui Augusto presto notevoli attenzioni attraverso una munifica politica urbanistica, una particolare sollecitudine per l’ordine pubblico e la sicurezza, la realizzazione di importanti infrastrutture, ma anche attraverso una riorganizzazione interna. Roma fu suddivisa con finalità amministrative in 14 distretti (detti regiones) allora interno ripartiti in quartieri (vici). Augusto divise inoltre l’Italia in 11 regioni, con l’obiettivo primario di agevolare le operazioni di censimento e di esazione fiscale. Capitolo 14: Il consolidamento del principato augusteo 1. La pace di Augusto Dopo quasi un secolo di guerre civili, l’opinione pubblica romana espresse una forte esigenza di pace. Attraverso l’orchestrazione di un’articolata strategia comunicativa, Augusto si presentò come il garante dell’ordine ritrovato in questa veste e riuscì a far accettare la sua eccezionale posizione di primato nello Stato. Il tema della ritrovata pace venne utilizzato da Augusto in diversi ambiti: la politica estera, la gestione del dissenso interno, le strategie elaborate in riferimento alla successione. La pace augustea tuttavia non corrisponde all’assenza di guerra; al contrario, essa è una pace garantita dalla guerra. Per le popolazioni oggetto di conquista e la sottomissione a Roma ridefinisce in termini di ordine e di legalità, e quindi di pace, la situazione interna. Per l’impero romano è l’assenza di guerre civili a garantire la pace. L’incremento delle risorse assicura la crescita di tutti i ceti della società senza che si rendano necessarie tra essi azioni competitive e di conflitto. Nell’esperienza romana il conflitto sociale si risolse a spese di terzi, ovvero dei popoli sconfitti. È questa la pace di Augusto, la pace garantita da una politica estera aggressiva e fortunata.  Una pace che nasce dalle vittorie Nel corso del principato augusteo si assistette a una spinta espansionistica di notevoli proporzioni. La vittoria su Antonio e Cleopatra consentì a Ottaviano di annettere l’Egitto nel 30 a.C.; il territorio, preziosissimo per la sua posizione strategica in quanto grandi produttori di cereali, fu affidato all’amministrazione di prefetti di rango equestre, con l’obiettivo di assicurare floridi commerci ai mercanti italici e provinciali. Le legioni romane furono impegnate anche nella Spagna nord-occidentale, dal 27 al 19 a.C. Alle due province di Spagna Citeriore e Ulteriore vennero sostituite le tre nuove province di Terraconense, Betica e Lusitania. Nel 25 a.C. furono annessi all’impero romano le Alpi occidentali, nel 16-15 a.C. le Alpi centrali e orientali, tra il 14 e il 9 a.C. la Pannonia. Tali conquiste risultavano decisive per assicurare i collegamenti sicuri con l’Europa settentrionale e l’aria illirica, che era stata conquistata nel 35-34 a.C. attraverso la guerra dalmatica. Druso e Tiberio tra il 12 e il 7 a.C. combatterono nella regione renana della Germania, ottenendo la sottomissione dei territori compresi fino al fiume Elba. In oriente nel 25 a.C. fu conquistata la Galazia; ma l’estensione dell’egemonia nel levante fu promossa preferibilmente mediante l’impostazione dei rapporti clientelari con regni indipendenti (regni clienti) e per mezzo dell’imposizione dire filoromani. Nonostante la molteplicità dei vettori espansionistici felicemente attivati in età augustea, in due contesti le legioni non rappresentarono un proficuo strumento di conquista: l’oriente controllato dai Parti e la Germania contesa dalle tribù stanziate presso il fiume Elba. In età augustea il regno partico rappresentava ancora una concreta minaccia all’influenza romana. In più occasioni i romani avevano pianificato campagna di vendetta: Cesare stesso alle idi di marzo era in procinto di partire alla volta dell’Oriente per affrontare sul campo i Parti. Ventidio Basso tra il 39 e il 38 a.C. in tre occasioni si era imposto sul campo e aveva anche celebrato un trionfo sui Parti. Dopo un primo tempo in cui sembra avesse a sua volta caldeggiato una campagna di vendetta, Augusto optò invece per la soluzione diplomatica: intorno al 23 a.C. promosse intense negoziazioni con Fraate, re dei Parti indebolito da contrasti dinastici. Nel 20 a.C. Augusto inviò in Oriente Tiberio. Le insegne furono rimpatriate e a Roma vennero custodite nel tempio di Marte Ultore, ovvero vendicatore. Da questo momento la sicurezza del confine orientale fu garantita attraverso legami stretti con re alleati. Nelle strategie di Augusto la rinuncia alla soluzione in armi talvolta rispondeva all’opportunità di risparmiare gli elevati costi di azioni militari; talvolta faceva invece seguito a tentativi sul campo rivelati fallimentari o stime che inducessero a prevedere come assai probabile un insuccesso. La soluzione accordata alla questiona partica suscitò contro Augusto un esteso di senso. L’opposizione interna era ben consapevole delle difficoltà di cui l’esercito augusteo aveva dato prova in alcune occasioni e le traduceva in uno dei suoi argomenti polemici più forti contro Augusto. Per questo la propaganda del principe attribuì al compromesso della diplomazia le caratteristiche di una vittoria militare e l’accordo fu festeggiato secondo modalità per molti aspetti simili a quelli proprie dei trionfi: fu innalzato da Augusto un arco, a celebrazione del suo successo, e si attribuì ai Parti il ruolo dei supplici. I commerci con l’Oriente furono agevolati dalla scoperta dei monsoni, che consentirono ai mercati romani di raggiungere l’India via mare. La politica espansionistica augustea conobbe il suo più grande fallimento lungo il fronte settentrionale. Dopo le fortunate campagne di Druso Maggiore e Tiberio, l’avanzata in Germania subì un brusco arretramento rispetto al confine ideale in origine identificato le fiume Elba e si arrestò lungo la linea costituita dal Reno. Nel 9 d.C., Arminio, capo dei Cherusci, dopo un lungo tempo in cui manteneva rapporti strettissimi con l’ufficialità romana nelle vesti di alleato, tese un’imboscata a tre legioni romane (XVII, XVIII, XIX), che stavano raggiungendo i quartieri d’inverno alla guida del governatore Publio Quintilio Varo. Esse furono massacrate insieme a tre ali di cavalleria ausiliaria sei corti di fanteria nella foresta di Teutoburgo: fu la cosiddetta strage di Varo, la clades Variana.  La repressione del dissenso interno La propensione ad accogliere in pace coloro che si fossero dimostrati disponibili alla sottomissione e a distruggere quanti avessero opposto resistenza al suo potere costituisce anche l’indirizzo adottato dal principe per la propria condotta in ambito di politica interna e in particolare nella gestione del dissenso. In questo contesto il rigore non solo nell’applicazione di strumenti preventivi ma anche nell’attuazione di una severissima azione repressiva induce tacito a definire la pace augustea come una pace insanguinata. Anche se l’età augustea è accreditato dalla propaganda come un periodo di pace e di assenza di tensioni, molteplici furono le rivendicazioni espresse dagli oppositori politici del principe. Tre fasi caratterizzano la storia del dissenso oggi augusteo. Le prime manifestazioni eversive presero corpo nel 31 a.C. e miravano un ritorno effettivo alle istituzioni repubblicane. I promotori erano conservatori filorepubblicani. Dopo il 27 a.C. vennero istituite nuove congiure anti-augustee. Gli artefici furono gli integrati, ovvero coloro che, dopo aver militato nelle file, erano stati poi compresi dal vincitore Ottaviano nell’organigramma del nuovo Stato. Se l’opposizione augustea non riuscì mai nei suoi intenti, tuttavia costrinse Augusto a insanguinare la sua pace interna a rivedere alcune decisioni politiche alla luce delle rivendicazioni degli eversori. La storiografia risente pesantemente della rilettura degli eventi promossa da Augusto attraverso la sua pubblicistica e consegna la memoria degli avversari politici spesso inquinata dalla volontà di salvaguardare l’immagine del principe. Con l’assunzione del potere da parte di Tiberio si apre la dinastia giulio-claudia. Nel corso del principato alle donne della famiglia imperiale venne attribuito il compito di generare eredi per l’imperatore: figli ma anche i nipoti, legati da vincoli di consanguineità. Livia non diede figlia di Augusto, ma, adottata dal marito dopo la morte di questi, ne divenne figlia; per questo Tiberio fu legittimato dal fatto di essere figlio adottivo del principe e figlio biologico di colei che era divenuta figlia di Augusto. Morto Augusto nel 14 d.C., Tiberio, che era investito della potestà tribunizia e del potere proconsolare, dovette affrontare serie minacce al suo primato. In Senato l’opportunità di una trasmissione del potere imperiale in termini dinastici venne discussa. A Roma alcuni senatori e cavalieri sostennero l’iniziativa eversiva antitiberiana di Clemente. Questi, schiavo di Agrippa Postumo assassinato alla morte di Augusto, assunse l’identità del suo padrone rivitalizzando l’ipotesi di una successione giulia: nel 16 d.C. venne catturato e ucciso, ma gli ideali di cui si era reso portavoce gli sopravvissero; le truppe germaniche inoltre sollecitavano ad assumere Germanico: dal 4 d.C. era figlio adottivo di Tiberio e riuniva in sé il sangue dei giuli e quello dei claudi; godeva infine di estesissimi consensi presso l’opinione pubblica. Il giovane dichiarò però la propria fedeltà al padre adottivo. I destini di Germanico incisero significativamente anche nel futuro del principato di Tiberio, sia per la perdurante contrapposizione dinastica all’interno della famiglia imperiale sia per gli esiti della politica estera. Nel 19 d.C. Germanico morì in circostanze oscure in Oriente, dove era stato inviato dall’imperatore allo scopo di dirimere delle vertenze con i Parti dopo fortunate campagne sul fronte del Reno. Lo stesso giovane nel corso della malattia che lo portò alla morte accusò di averlo avvelenato il governatore della Siria, Pisone. Nel contempo si celebrò in Senato anche il processo contro Pisone, che si suicidò per prevenire un verdetto. Di questi fatti reca a memoria la tradizione letteraria ma conserva testimonianza anche un’importantissima serie di documenti epigrafici, per contenuti in parte sovrapponibili: la Tabula Hebana, la Tabula Siarensis, il senatusconsultum de Cnaeo Pisone patre. La prima iscrizione testimonia come nel 19 d.C., per onorare il defunto Germanico, si estendesse a 15 il numero delle centurie che nel 5 d.C. erano state preposte alla preselezione dei candidati alla pretura e al consolato. La seconda iscrizione ricorda gli onori decisi dal Senato e dal popolo per Germanico in occasione della sua morte. La terza iscrizione riporta il verbale del processo intentato contro Pisone per la morte di Germanico e la sentenza di colpevolezza emanata a suo carico. Dopo la morte di Germanico, l’erede designato fu Druso Minore, ma questi morì prematuramente nel 23 d.C. E allora la via della successione parve dischiudersi per un personaggio esterno alla dinastia: Lucio Elio Seiano, prefetto del pretorio tra il 16 e il 31 d.C. Nel 27 d.C. Tiberio fissò la sua residenza a Capri, di fatto lasciando la capitale dell’impero alla gestione di Seiano e dei pretoriani. Seiano aveva stretto una relazione con Livilla, figlia di Druso Maggiore e Antonia, donna che egli ambiva a sposare, per ottenere attraverso di lei l’accesso alla famiglia imperiale e pertanto la legittimazione a governare. Ma nelle sue strategie rientrava anche l’eliminazione di quanti avrebbero potuto fondatamente ambire alla successione, tra cui in primo luogo la moglie e i figli maggiori di Germanico, che nel 29 d.C. vennero esclusi dalla scena. Tuttavia nel 31 d.C., probabilmente informato da Antonia, Tiberio fece eseguire la condanna morte di Seiano. L’ascesa di Seiano dimostrava l’entità del potere esercitato dal prefetto del pretorio. In politica estera, Tiberio non promosse campagne di conquista. Sul fronte settentrionale fu impegnato per suo incarico Germanico, tra il 14 e il 16 d.C. Tiberio decise per un arretramento del confine che si tradusse nel definitivo abbandono della Germania. In Oriente anche in questo caso attraverso Germanico, Tiberio fu artefice di un’efficace politica di consolidamento dell’egemonia romana attraverso lo strumento dei regni clienti. In età di Tiberio vennero istituite nuove province: la Commagene e la Cappadocia; parte della Cilicia fu annessa alla provincia di Siria. Nella gestione interna dello Stato Tiberio, a cui storici e biografi riservano pesanti critiche soprattutto in ragione della sua propensione all’ipocrisia (Tacito, Svetonio e Cassio Dione) ma che viene valorizzato da altri storici (come Velleio Patercolo e Valerio Massimo), dimostrò capacità di buon amministratore. Usò con oculatezza le risorse pubbliche e assunse provvedimenti in favore dei debitori. Per gran parte del suo principato Tiberio perseguì una politica di confronto dialettico con il Senato, che venne meno negli ultimi anni di governo, quando il principe volontariamente relegato a Capri intensificò la pratica di processi celebrati al suo cospetto. Le assemblee popolari perso il controllo dell’elezione dei magistrati superiori. Tiberio morì di morte naturale nel 37 d.C. 2. Caligola: verso un principato autocratico (37 – 41 d.C.) Anche la successione a Tiberio non fu immune da turbolenze. Tiberio aveva indicato per via testamentaria quali suoi eredi Tiberio Gemello, nato da suo figlio Druso Minore e da Livilla, e Gaio, figlio di Germanico e Agrippina e soprannominato Caligola per le calzature che indossava da bambino quando accompagnava il padre presso gli accampamenti militari in Germania. La discendenza dei claudi privilegiava Caligola, che anche grazie alla memoria del padre Germanico godeva di ampi consensi presso i pretoriani, le legioni sul Reno, l’aristocrazia romana, la plebe urbana. Con Caligola per la prima volta si registrò l’interferenza dei pretoriani nella successione: queste truppe scelte individuarono l’erede a loro gradito e lo proclamarono imperatore, mentre solo in un secondo momento interviene la ratifica senatoria. Si affiancava dunque ora un’altra modalità per divenire imperatori: la preferenza dei soldati. Il nuovo principe era espressione della famiglia di Augusto, quindi il principio dinastico non veniva messo in discussione. La gestione del potere da parte di Caligola seguì due orientamenti diversi nel corso del suo breve principato. Inizialmente egli perseguì una politica di concertazione e accordo con il Senato; rientrarono in questa linea di condotta l’abolizione dei processi per lesa maestà, il perdono di quanti erano stati esiliati e il loro reintegro a Roma, gli onori riconosciuti al suo predecessore. Nel 38 d.C. Caligola fu colpito da una grave malattia; nella circostanza il prefetto del pretorio Macrone predispose la successione di Tiberio Gemello. Il principe interpretò tali iniziative come una prevaricazione e produsse una prima lacerazione dei suoi rapporti con il Senato. Gemello fu eliminato; il prefetto del pretorio e i suoi complici furono indotti al suicidio. Nel 39 d.C. Caligola pronunciò un discorso in Senato sottolineando come l’assemblea avesse perduto l’antica dignità e fosse era costituita solo da adulatori ipocriti. Da questo momento governò sostenuto dal favore del popolo e dei cavalieri: le assemblee popolari ottennero nuovamente il controllo dell’elezione dei magistrati e l’ordine dei cavalieri venne rinvigorito attraverso innesti di uomini nuovi e revisione delle liste che portarono all’esclusione di personaggi indegni. Nel 39 d.C. Caligola sfuggì a una congiura; i promotori erano personaggi a lui molto vicini: il cognato Lepido, le sorelle Agrippina Minore e Livilla. L’obiettivo era imporre un nuovo successore e la scelta era forse caduta sul figlio di Agrippina, Lucio Domizio Enobarbo, il futuro Nerone. La cospirazione fu sventata e l’imperatore escluse da ogni ambito di potere i suoi familiari. L’esigenza di ostentare il legame con il compianto Germanico indusse Caligola a promuovere alcune campagne militari. Tra il 39 e il 40 d.C. condusse una campagna intesa a determinare la sottomissione della Britannia. Essa non produsse però alcun ampliamento dei confini dell’impero, anche se la spedizione fu celebrata come una grande vittoria, tanto che Caligola ottenne il trionfo. La politica religiosa di Caligola per alcuni aspetti si discostò da quella dei suoi predecessori. Il Senato in più occasioni gli offrì onori divini, che il principe rifiutò fino al 40 d.C., quando invece accettò l’istituzione di un suo culto. Nel 41 d.C. Caligola fu assassinato: a organizzare la congiura era stato un tribuno di corte dei pretoriani, ma a essa avevano aderito alcuni senatori, cavalieri, liberti e anche i prefetti del pretorio che erano tornati a essere nuovamente due. La damnatio memoriae, ovvero la condanna all’oblio, consacrò Caligola come nemico dello Stato romano. 3. Claudio: una nuova fase espansiva (41 – 54 d.C.) Alla morte di Caligola, il potere passò nelle mani di Claudio. Claudio era sfuggito alle epurazioni compiute da Seiano ai danni della famiglia imperiale solo perché è del tutto estraneo alla vita politica: un’accentuata balbuzie gli precludeva l’impegno oratorio e l’andatura claudicante ostava a un efficace servizio nelle milizie. Inoltre coltivava tra le sue attività prevalenti interessi di ambito storico-letterario, che lo rendevano più un intellettuale che un politico. Anche per Claudio furono i pretoriani a caldeggiare la sua investitura alla porpora imperiale, in ragione di tre considerazioni: - la sua discendenza di Augusto che avrebbe assicurato la continuità dinastica; - la morte prematura di tutti gli altri successori possibili tra i familiari di Caligola; - la decisa volontà di non consentire l’ascesa di un candidato conservatore che spostasse il baricentro del potere nuovamente sul Senato. Fu un imperatore e di mediazione e si adoperò al fine di rispondere alle sollecitazioni che gli pervenivano dalle diverse componenti della società romana. La promozione di campagne di conquista soddisfece le aspettative dei militari. La realizzazione di opere pubbliche e iniziative di beneficenza pubblica favorirono la plebe. La riorganizzazione burocratico-amministrativa dello Stato premiò i liberti e l’ordine equestre. Nel 43 d.C. Claudio guidò vittoriosamente una campagna di conquista in Britannia. Il suo obiettivo era acquisire quel prestigio personale in ambito militare che finora gli faceva difetto e assicurare compimento un progetto coltivato da Giulio Cesare e poi da Augusto. E la propaganda imperiale con toni enfatici attribuì a Claudio la conquista di un nuovo continente aldilà dell’oceano. La plebe romana ottenne dall’imperatore l’attuazione di un articolato programma di opere pubbliche: - l’ampliamento del porto di Ostia; - la realizzazione nell’Urbe di un complesso edilizio per la distribuzione del grano al popolo; - la costruzione di due nuovi acquedotti; - la bonifica del lago Fucino. A vantaggio del popolo l’imperatore promosse con prodigalità numerose frumentazioni e allestì giochi e spettacoli. sconfitto dal governatore della Germania superiore e si tolse la vita. Galba ottenne il supporto di un Nimfidio Sabino, nuovo prefetto del pretorio. Il Senato dichiarò Nerone nemico pubblico. Il principe si tolse la vita il 9 giugno 68 d.C. Egli non lasciava eredi in quell’anno si sperimentò una nuova modalità di successione, gli arcana imperi, ovvero i segreti del potere, a cui fa riferimento Tacito: ora il principe poteva essere nominato fuori Roma e all’esterno della dinastia regnante. Capitolo 16: La guerra civile del 68-69 d.C. e la dinastia flavia 1. L’anno dei quattro imperatori Sin dall’età augustea il principato si era strutturato progressivamente come una somma di prerogative magistratuali (potestà tribunizia, potere proconsolare, pontificato massimo), imperniate sull’auctoritas. Dall’epoca di Tiberio in poi la successione dei principi giulio-claudi trova la propria legittimazione nella comune discendenza da Giulio Cesare e da Augusto. Il problema della definizione del potere imperiale si impose per la prima volta in termini nuovi al 68 d.C., quando il territorio dello Stato romano fu nuovamente sconvolto da sanguinose guerre civili. I governatori delle province occidentali rifiutarono l’obbedienza a Nerone e proclamarono imperatore un anziano consolare, governatore della Spagna Tarraconense: Servio Sulpicio Galba. Con lui si schierarono altri eserciti e province e uno dei prefetti del pretorio. Il Senato riconobbe Galba come principe. A causa della crisi determinata dalla condotta di Nerone fu accettata come fonte del potere imperiale la scelta del Senato. Galba decise di adottare il trentenne Lucio Calpurnio Pisone, indicando chiaramente in lui il proprio successore. La scelta non fu gradita ai pretoriani, che linciarono Galba nel foro e al suo posto proclamarono principe Marco Salvio Otone, governatore della Lusitania. Qualche giorno prima anche le legioni sul Reno erano insorte, nominando imperatore il governatore della Germania Inferiore, Aulo Vitellio. Questi scese rapidamente in Italia con i suoi seguaci, che prevalsero su Otone a Bedriaco. L’imperatore sconfitto si suicidò, ma Vitellio dovette presto fronteggiare un altro usurpatore: Tito Flavio Vespasiano. Vespasiano era stato proclamato imperatore dalle legioni orientali nel luglio del 69 d.C. All’epoca egli si trovava in Giudea, dove era stato inviato da Nerone per sedare un’estesa rivolta della popolazione locale. Il prevalere dei flaviani sui vitelliani si consolidò grazie alle vittorie riportate nei mesi finali del 69 d.C., nelle battaglie di Bedriaco e Saxa Rubra. Nel frattempo nella capitale Vitellio cercò di organizzare un’estrema resistenza: Flavio Sabino, fratello di Vespasiano e prefetto urbano, fu ucciso dopo essersi asserragliato sul Campidoglio, mentre Domiziano riuscì a stento a trarsi in salvo. La completa conquista di Roma da parte dei sostenitori di Vespasiano avvenne alla fine del 69 d.C., quando Vitellio fu linciato dalla folla nel foro. A seguito di tali avvenimenti il Senato emanò un decreto che riconosceva ufficialmente il generale Flavio come nuovo imperatore. Ebbe così termine quello che Tacito definisce il “lungo e insolito anno”. 2. Vespasiano (69 – 79 d.C.): il principe magistrato Alla fine della guerra civile la posizione di Vespasiano fu consolidata grazie all’emanazione di una legge che indicava con precisione gli ambiti di competenza del nuovo imperatore. Si tratta probabilmente del testo più celebre e importante dell’epigrafia giuridica romana, noto come Lex de imperio Vespasiani. Quanto ci è pervenuto corrisponde all’ultima tavola di una legge comiziale, che sanciva una serie di diritti riconosciuti all’imperatore Vespasiano all’indomani della sua vittoria su Vitellio. È chiaro che il testo rispecchi in realtà la connotazione che Vespasiano stesso intendeva attribuire al potere imperiale. Egli fu il primo imperatore estraneo alla famiglia giulio-claudia che si impose a lungo dopo la guerra civile del 68-69 d.C. e dovette quindi legittimare la propria posizione per una via diversa rispetto a quella dinastica. Vespasiano era un “uomo nuovo”, quindi la Lex de imperio Vespasiani fornisce una nuova definizione costituzionale delle prerogative del principe, canonizzando definitivamente i poteri goduti in precedenza da Augusto e dei suoi successori. Fino ad allora la posizione dell’imperatore nello Stato era stata assicurata dall’esercizio di una somma di prerogative, conferita ciascuno individualmente e non trasmesse in termini di eredità. Sotto Vespasiano, invece quella del principe divenne una figura istituzionalizzata, quasi una magistratura, con competenze e ambiti di azione ben diversi. Il testo della legge prevede che l’imperatore possa: - concludere trattati con controparti internazionali da lui stesso designate; - convocare sedute legittime del Senato; - intervenire nell’elezione dei magistrati, esplicitando la propria raccomandazione (commendatio) nei confronti di un candidato; - allargare la cinta del pomerio; - godere di un’ampissima libertà di iniziativa (clausola discrezionale), essendo svincolato dal rispetto delle leggi e dei plebisciti (legibus solutus). Ciascuna di queste prerogative acquisisce legittimità dal confronto con l’esperienza pregressa: per molte clausole sono infatti esplicitamente citati i modelli virtuosi di Augusto, Tiberio e Claudio; tra i precedenti imperatori non sono invece annoverati Caligola e Nerone, perché già colpiti dalla cancellazione della memoria. Infine, anche i provvedimenti sostenuti da Vespasiano ai tempi della guerra civile contro Vitellio ricevono ufficialmente una ratifica retroattiva. Per quanto concerne la politica estera, Vespasiano fu artefice di un progressivo consolidamento dei territori dello Stato romano. Nel 70 d.C. suo figlio Tito sedò la rivolta giudaica, concludendo l’assedio di Gerusalemme e dando così inizio alla diaspora ebraica. Nell’epoca di Vespasiano la Spagna ricevette la cittadinanza di diritto latino e il conseguente statuto municipale. In questo periodo, d’altronde, le province spagnole si distinguevano sulle altre tanto per il loro dinamismo in ambito economico quanto per la loro preminenza nel campo filosofico, letterario e culturale: di origine ispanica erano infatti gli scrittori Seneca, Lucano, Marziale e Quintiliano. Seguendo il modello di Augusto, Vespasiano volle distinguersi per il rispetto formale della tradizione e per il mantenimento o il ripristino delle antiche istituzioni. Abbracciando ancora il paradigma augusteo, egli celebrò anche il raggiungimento della pace, intesa come fine delle discordie civili e conseguimento di vittorie esterne. Nell’area dei fori imperiali fece edificare un nuovo complesso furono forense, noto come Tempio della Pace. L’imperatore diede così vita a un monumentale progetto di interventi edilizi nella capitale, che comprendeva anche l’erezione dell’Anfiteatro Flavio o Colosseo. 3. Tito (79 – 81 d.C.) e Domiziano (81 – 96 d.C.): i principi fratelli All’epoca della guerra civile del 69 d.C. l’ascesa al trono di Vespasiano era stata favorita anche dal fatto che egli aveva due figli maschi, ai quali si guardava per una possibile successione dinastica. Già dal 71 d.C. Tito fu associato al padre, ricevendo il potere proconsolare, la potestà tribunizia e i intendeva arrendersi in maniera definitiva. Nel 105 d.C. l’esercito romano salpò allora da Ancona. Giunta sull’altra sponda dell’Adriatico, l’armata romana si trasferì nuovamente sul teatro di guerra. Avendo compreso l’imminenza della sua sconfitta, nel 106 d.C. Decebalo si tolse la vita tagliandosi la gola. L’intera serie di campagne militari che portò alla conquista della Dacia è descritta con precisione nel fregio istoriato della colonna Traiana. Grazie alle due campagne daciche, i romani riuscirono a provincializzare permanentemente un’ampia area a nord del Danubio. Si trattava di una regione ricca di giacimenti metalliferi, in particolare d’oro, nella quale venne attuato un programma di colonizzazione di massa. Nello stesso anno in cui si concluse la conquista della Dacia Roma entrò in possesso anche del regno dei Nabatei. Sul suo territorio venne creata la nuova provincia d’Arabia. Il sovrano volle poi rimettere in discussione anche il delicato equilibrio che da decenni contrassegnava il rapporto con il regno dei Parti. Nel 114 d.C. Traiano invase l’Armenia, trasformandola in provincia. L’anno successivo il confine fu portato al Tigri e venne creata la provincia di Mesopotamia. Nel 116 d.C. venne conquistata Ctesifonte e l’imperatore raggiunse la riva del Golfo Persico. Il modello dichiarato di Traiano era quello di Alessandro Magno: tale processo emulativo, spesso chiamato “imitazione di Alessandro”, era già stato intrapreso da numerosi altri comandanti militari e uomini politici dell’antichità. In tal modo sotto Traiano l’impero romano giunse alla sua massima espansione. Le condizioni di salute dell’imperatore si aggravarono però abbastanza rapidamente: nell’agosto del 117 d.C. egli morì sulla costa della Cilicia. 3. Adriano (117 – 138 d.C.): il principe viaggiatore Prima della sua partenza per la capitale, Traiano aveva affidato il comando delle legioni orientali al governatore della Siria, Publio Elio Adriano. Fu questi che i soldati acclamarono come nuovo imperatore. L’ascesa al trono di un uomo di fiducia che disponesse di un’esperienza militare in Oriente già consolidata si rendeva d’altronde necessaria per concludere la repressione di un’importante rivolta scoppiata all’interno delle comunità ebraiche della diaspora. Ben presto Adriano dimostrò di voler adottare una politica estera diametralmente opposta a quella sostenuta dal proprio predecessore. Numerose conquiste di Traiano furono infatti cedute e il corso dell’Eufrate fu consolidato come naturale confine dell’impero verso Oriente. La rinuncia all’espansionismo da parte di Adriano fu bilanciato dal rapporto di stretta familiarità e di profonda competenza che egli sviluppò con l’intero territorio dello Stato romano. Dopo aver inizialmente soggiornato per un triennio nella capitale, nel 121 d.C. l’imperatore cominciò infatti a intraprendere una prima lunga serie di viaggi, che gli consentì di conoscere da vicino i problemi di ciascuna delle realtà geografiche che componevano il mosaico del suolo imperiale. Adriano visitò le Gallie, la Germania e la Britannia, dove inaugurò i lavori di costruzione del celebre vallo. Passò poi nelle Spagne e quindi in Oriente, soffermandosi in particolar modo ad Atene. Vasto ed eclettico fu infatti il filo ellenismo di Adriano. Anche in Italia Adriano fu artefice di restauri e grandi costruzioni. A Roma riedificò il Pantheon di Agrippa e si fece erigere un monumentale mausoleo a pianta circolare, l’attuale Castel Sant’Angelo. Celebre e imponente e poi la villa di Adriano a Tivoli. Una seconda serie di viaggi, intraprese a partire dal 128 d.C., portò Adriano in Africa, dove fu iniziata la fortificazione del confine con il deserto chiamata fossato dell’Africa. Mentre la corte imperiale soggiornava in Egitto, trovò la morte nelle acque del Nilo Antinoo, il ventenne amante di Adriano: il giovane fu immediatamente divinizzato. Poco dopo il passaggio dell’imperatore per la Giudea scoppiò nella regione una nuova insurrezione, causata dalla decisione di fondare sul sito di Gerusalemme una colonia, che prevedeva anche la costruzione di un edificio consacrato a Giove Ottimo Massimo, da erigersi sul sito del distrutto tempio ebraico. La repressione della rivolta fu durissima: fra i morti si contarono circa 500.000 persone. Per quanto concerne l’amministrazione dello Stato, il principato di Adriano fu contrassegnato da numerose iniziative migliorative. - Si procedette a una riorganizzazione della burocrazia equestre. In particolare, la carriera dei procuratori equestri si strutturò secondo una progressione con stipendi annui fissi: 60.000 sesterzi ai sessagenari, 100.000 ai centenari, 200.000 ai ducenari. - L’imperatore assegnò inoltre al giurista Salvio Giuliano la codificazione del cosiddetto editto perpetuo: tradizionalmente l’editto consisteva nel manifesto programmatico con cui all’inizio dell’anno il pretore esponeva i criteri generali, le linee-guida, che avrebbe seguito nell’esercizio della propria carica rispetto alle singole controversie da giudicare; tale testo recepiva la consuetudine trasmessa di volta in volta nei provvedimenti emessi dai pretori predecessori. L’editto venne cristallizzato diventando un testo definitivo, modificabile solo dall’imperatore. Adriano indicò infine una sua prima volontà in merito alla successione adottando nel 136 d.C. il console di quell’anno Lucio Elio Cesare, che morì però prematuramente. Adriano indirizzò allora la sua seconda scelta sul senatore Arrio Antonino, la cui famiglia era originaria della Gallia Narbonense. 4. Il principato silente di Antonino Pio (138 – 161 d.C.) Il nuovo imperatore, Antonino, assunse ufficialmente il cognome Pio per la devozione dimostrata nei confronti del padre adottivo. Il suo principato si protrasse per molti anni, ma non risulta caratterizzato da eventi particolarmente significativi. Questa assenza di notizie è giustificata in parte dalla scarsità delle fonti relative al periodo. L’unico approfondimento monografico e infatti quello è costituito dalla vita dell’imperatore contenuta nella Historia Augusta. Un’opera tardo-antica ricca di aneddoti che, proseguendo il modello di Svetonio, raccoglie le biografie di quasi tutti gli imperatori romani da Adriano alla seconda metà del III secolo d.C. Il governo di Antonino fu inoltre contraddistinto da una sostanziale continuità con quello di Adriano: come il suo predecessore, il nuovo principe rinunciò infatti all’espansionismo esterno e preferì consolidare le linee di confine. In Britannia il vallo di Adriano fu affiancato da una nuova fortificazione nota come vallo di Antonino. Proprio l’assenza di campagne militari e di grandi scontri armati è da ritenere almeno in parte la causa del silenzio delle fonti letterarie. La storiografia antica era infatti concepita innanzitutto come narrazione di guerre o di competizioni politiche, sulla scorta del modello fornito da Tucidide. A differenza di Adriano, Antonino trascorse però una vita sedentaria. Durante il suo lungo principato risiedette quasi esclusivamente a Roma. Fra le numerose opere edilizie che Antonino promosse in Italia e a Roma si segnala il monumentale tempio eretto in onore della sua augusta consorte, Faustina Maggiore. Prima di morire Adriano aveva ordinato ad Antonino Pio di adottare a sua volta due giovani: il diciassettenne Marco Aurelio, nipote di Antonino stesso, e Lucio Vero, figlio di Lucio Elio Cesare. Nel 145 d.C. Marco Aurelio sposò Faustina Minore, figlia di Antonino, rinsaldando ulteriormente il proprio legame con quest’ultimo. 5. Marco Aurelio (161 – 180 d.C.) e Lucio Vero (161 – 169 d.C.): i principi colleghi Alla morte di Antonino Pio, agli inizi del 161 d.C., l’impero passò nelle mani di Marco Aurelio. Questi volle che il Senato gli associasse subito su un piano di parità il fratello adottivo Lucio Vero: era la prima volta nella storia del principato che il massimo potere veniva ufficialmente condiviso da due augusti. Nacque così una forma di diarchia. I due nuovi imperatori si ripartirono immediatamente gli ambiti di intervento. Dal 161 al 166 d.C. Lucio Vero si spostò in Oriente, dove mosse guerra all’impero partico. Le legioni riportarono buoni successi, ma un grave problema insorto in Europa obbligò Lucio Vero ad abbandonare repentinamente le nuove conquiste. Sul fronte del Danubio, i Quadi e i Marcomanni, avevano infranto le difese momentaneamente sguarnite. Essi passarono addirittura nell’Italia nord-orientale, giungendo a incendiare Oderzo e ad assediare Aquileia. È probabile che l’incursione debba datarsi al 167 d.C. La calata dei Quadi e dei Marcomanni ebbe conseguenze più nefaste di quelle meramente psicologiche: le truppe romane rientrate dal fronte partico per contenere il pericolo dell’incursione portarono con sé una terribile epidemia, la cosiddetta peste Antonina. Nel 169 d.C. anche Lucio Vero morì. Negli anni successivi Marco Aurelio riuscì a ricacciare le tribù germaniche e a spostare la controffensiva oltre il corso del Danubio, dove cercò di provincializzare i territori della Marcomanni e della Sarmazia. Le vittorie dell’imperatore vennero immortalate nei fregi di una seconda colonna istoriata, detta colonna Antonina, in Campo Marzio. Nell’ambito della politica interna l’operato di Marco Aurelio fu caratterizzato dalla sua forte adesione ai precetti dello stoicismo. I suoi Ricordi sono una delle poche opere letterarie a firma di un principe romano che ci siano pervenute: in essi Marco Aurelio espose in lingua greca i suoi dubbi e le sue riflessioni sul ruolo di responsabilità che si era trovato a ricoprire. L’imperatore espresse una solida concezione del dovere e dei principi di uguaglianza e libertà. Dal punto di vista della religione, Marco Aurelio diede prova di un eclettismo che rasentava volte l’incoerenza: la credenza in un principio razionale (logos) di matrice storica fu affiancata infatti dalla fede che l’imperatore prestò a maghi e indovini. Agli ultimi anni di regno di Marco Aurelio risale anche uno dei primi casi documentati di persecuzione locale contro i cristiani: la popolazione di Lione linciò infatti decine di credenti, rivolgendo loro false accuse divenute poi topiche, fra cui quelle di incesto e cannibalismo. Nella fase finale del proprio regno, Marco Aurelio associò a sé stesso con il rango di Augusto il giovane figlio Lucio Aurelio Commodo. In questo modo il principio dinastico tornava a prevalere su quello meritocratico. L’imperatore-filosofo si spense a Vienna nel 180 d.C. 6. Commodo (180 – 192 d.C.): il principe gladiatore terracotta. La produzione fittile realizzata in serie era commercializzata in tutto l’impero. È il caso delle lucerne di terracotta, necessarie per l’illuminazione domestica, che conobbero una grande diffusione. Ampiamente attestata e anche la ceramica fine da mensa a vernice rossa denominata terra sigillata. I manufatti ceramici non circolavano soltanto come beni autonomi, ma anzi, il più delle volte, a causa dei prodotti in essi contenuti: è il caso delle anfore, il recipiente da trasporto per eccellenza. Il primo e il II secolo d.C. furono dunque testimoni della massima espansione del commercio di breve e lungo raggio, che si avvalse inoltre della generale diffusione in tutto l’impero dell’economia monetaria. Tale sistema era basato sul denario, la moneta d’argento battuta dalle zecche imperiali. Oltre che dall’espansione della rete viaria, l’intensità degli scambi commerciali è testimoniata anche dalla diffusione delle compagnie di navigazione, protagoniste dei traffici marittimi e fluviali. Gli addetti ai trasporti acquei (navicularii) erano riuniti in associazioni professionali (collegia) e si occupavano in prevalenza di garantire l’approvvigionamento alimentare degli eserciti e dei grandi centri urbani come Roma. Durante l’epoca del principato si consolidarono quindi le premesse per la formazione di un sistema economico nuovo, caratterizzato da una serie di condizioni paleo-capitalistiche: - la disponibilità di materie prime quasi inesauribili si coniugava infatti con la presenza di innumerevoli centri produttivi urbani; - un’unica moneta in tutto l’impero si affiancava a uno sviluppato un sistema bancario e creditizio; - imprenditori interessati ad attività lucrative si giovavano di una manodopera con ottime competenze artigianali; - massa di forza-lavoro a basso costo convivevano con un sistema diffuso di lavoro salariato. Ciò che non avvenne fu però la spinta a una vera e propria rivoluzione industriale, che non fu attuata innanzitutto per una mancanza di volontà, determinata da ostacoli di natura ideologica. Le autorità romane preferirono infatti evitare la diffusione di innovazioni tecnologiche per mantenere il controllo delle masse lavoratrici. 2. L’intervento dello stato nell’economia: gli alimenta Per buona parte del I secolo d.C. gli imperatori mantennero una posizione liberista nei confronti dell’economia: evitarono cioè di intervenire nei processi produttivi e non si intromisero nelle dinamiche locali riguardanti le singole province. I diversi territori dell’impero facevano ormai parte di unico sistema economico, il cui complesso equilibrio si era dimostrato fino ad allora funzionante, anche se non esente da sperequazione. Da un lato infatti i proprietari terrieri italici avevano da tempo destinato in prevalenza i loro fondi al pascolo estensivo o a colture arboricole specializzate; dall’altro il suolo di alcune province era pressoché interamente utilizzato per produrre cereali. Il parassitismo di Roma e le esigenze della sua plebe frumentaria aumentarono però progressivamente nel corso dell’età imperiale. Al tempo stesso le province di più antica romanizzazione che si affacciavano sul Mediterraneo occidentale si dedicarono sempre più alla produzione locale di olio e vino a prezzi concorrenziali. Lo sviluppo delle colture specializzate in ambito provinciale iniziò dunque a contrastare il primato della penisola in campo economico. A fronte di tali squilibri, le autorità centrali dell’impero cominciarono ad attuare una politica pacatamente dirigista. In particolare, Domiziano ordinò la distruzione di buona parte dei vigneti provinciali. In epoca antonina Traiano elaborò invece un più sofisticato piano di riequilibrio economico. - Egli obbligò innanzitutto i senatori a investire almeno un terzo del loro patrimonio in beni terrieri ubicati in Italia, facendone così salire il prezzo. - Il secondo punto del piano economico di Traiano consisteva nell’elaborazione di un complesso programma di assistenzialismo statale, denominato alimenta (sussidi alimentari). Tale istituzione rappresenta forse il più ambizioso intervento pubblico nel settore economico dell’intera età antica. Il progetto si fondava sull’investimento di parte delle cospicue risorse acquisite dal fisco grazie ai proventi auriferi della nuova provincia di Dacia. Tali capitali imperiali venivano prestati a proprietari di fondi agricoli di dimensioni medio-grandi ubicati in Italia. Costoro, con la corresponsione di un modico interesse pari al 5% annuo e senza dover restituire il denaro ricevuto in prestito, procedevano alla riconversione di parte delle loro colture da arboricole in cerealicole; pagavano inoltre le somme dovute ai municipi italici presso cui erano ubicati i loro terreni. Tali municipi utilizzavano infine queste entrate per finalizzare sussidi mensili ai ragazzi e alle ragazze che risiedevano nel loro territorio. Le fonti per ricostruire il meccanismo degli alimenta sono molteplici. Fra essi figurano numerose monete emesse dall’autorità imperiale, assieme ad altri manufatti artistici destinati a propagandare l’iniziativa promossa da Traiano. Altre fonti sono costituite dalle iscrizioni di ringraziamento apposte dai giovani di entrambi sessi che trassero beneficio dalla munificenza dell’imperatore. I documenti che consentono di comprendere più dettagliatamente il funzionamento del dispositivo economico sono però due celebri tavole di bronzo, provenienti dal municipio di Veleia e da quello dei Liguri Bebiani. - La gestione ordinaria del programma fu assegnata a prefetti di rango senatorio, denominati prefetti dei sussidi alimentari (praefecti alimentorum). - Altro personale ispettivo o di sorveglianza fu reclutato tra la burocrazia di ceto equestre: questo è il caso dei procuratori dei sussidi alimentari (procurator alimentorum), che controllavano i prestiti elargiti dalla cassa imperiale. - Gli addetti alla gestione del provvedimento presso i municipi erano invece magistrati locali, che ricoprivano l’incarico di questori dei sussidi alimentari (quaestores alimentorum). Gli alimenta si prefiggevano un ampio ventaglio di finalità. Gli studiosi moderni hanno però riconosciuto come la corresponsione dell’interesse annuo su fondi agricoli dati in garanzia venisse di fatto a coincidere con la creazione di un onere fondiario (vectigal) surrettizio, che aggirava la tradizionale immunità fiscale dei terreni italici, qualificandoli di fatto a quelli provinciali. La propaganda imperiale mirava invece a sottolineare il carattere filantropico degli alimenta, il cui scopo dichiarato era quello di incrementare la natalità italica. La sproporzione a vantaggio dei maschi fra i beneficiari del provvedimento rendeva tuttavia evidente il desiderio di facilitare il reclutamento legionario e la formazione di quadri dell’ufficialità militare e della burocrazia imperiale di estrazione italica che restassero fedeli a Traiano. 3. Città e cittadinanza: l’espansione del modello urbano Per quanto attiene allo statuto giuridico della popolazione dell’impero, a partire dall’epoca cesariana e augustea si era delineato un quadro che contrapponeva l’Italia alle province. L’estensione della cittadinanza romana nei contesti provinciali andò spesso di pari passo con un altro fenomeno: il successo del fattore urbano come modello di organizzazione comunitaria. L’organizzazione capillare fu il risultato di una consapevole e immediata politica degli imperatori, che ambiva al duplice obiettivo di favorire il processo di romanizzazione e di delegare ai notabili locali l’onere della gestione delle comunità soggette. Dal punto di vista giuridico le città si distinguevano in colonie e municipi. Nel periodo imperiale divenne prevalente l’estensione dello statuto di colonia come titolo onorifico concesso dal sovrano anche a comunità già costituite, nelle quali si procedeva a una riorganizzazione dello sfruttamento del territorio. In numerose province continuavano poi esistere le città o comunità alleate. Se si eccettua il nome dei magistrati supremi, municipi e colonie presentavano comunque ordinamenti simili e uniformi. La popolazione si componeva di due gruppi: - i cittadini, che godevano del pieno diritto di appartenenza alle comunità locale per nascita, naturalizzazione o emancipazione; - gli incolae, termine con cui si indicavano tanto gli appartenenti alla popolazione indigena, quanto i residenti di altre province dell’impero. L’insieme della popolazione cittadina era suddiviso in curie e si radunava nei comizi locali. Organo di governo delle città era il consiglio o Senato locale. I consiglieri erano chiamati i decurioni e, assieme alle loro famiglie, costituivano l’ordine dei decurioni. Nella scelta delle persone da iscrivere all’albo decurionale la preferenza era accordata ai magistrati degli ultimi anni e ai raccomandati dall’imperatore o da altre persone influenti. Le sedute del consiglio si svolgevano nell’edificio della curia ed erano valide se i due terzi dei consiglieri erano presenti. Le competenze dei decurioni erano vastissime e riguardavano tutte le branche dell’amministrazione locale. I magistrati supremi erano generalmente chiamati: - duoviri nelle colonie; - quattrorviri giurisdicenti nei municipi. In entrambi i casi erano costituiti da una coppia di individui, che rispecchiava a grandi linee il ruolo dei due consoli a Roma. Inferiori ai duoviri e ai quattrorviri giurisdicenti erano: - gli edili per le colonie; - i quattrorviri con potere edilizio per i municipi. Si occupavano dell’approvvigionamento idrico della città, dirigevano la politica annonaria e sorvegliavano le strade e gli edifici pubblici. Vi erano poi i questori, che erano incaricati dell’amministrazione della cassa pubblica. Avevano rappresentanti propri anche le circoscrizioni amministrative rurali e i quartieri cittadini: tali figure erano denominate in entrambi i casi magistri. I magistrati cittadini venivano eletti dai comizi locali. Se a Roma in epoca alto-imperiale la contesa elettorale fu annientata dalle pratiche della destinatio e della successiva raccomandazione esplicita
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