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Il ruolo delle banche miste nell'industrializzazione italiana (1861-1914), Tesine universitarie di Storia Economica

Storia delle società azionarie in ItaliaStoria del capitale in ItaliaStoria dell'industrializzazione in ItaliaStoria dell'economia italianaStoria delle banche in Italia

Il ruolo svolto dalle banche miste, come la Banca Commerciale Italiana e il Credito Italiano, nel processo di industrializzazione italiana tra il 1861 e il 1914. Viene discusso come queste banche, unendo il credito commerciale al credito industriale a medio e lungo termine, abbiano svolto un ruolo cruciale nell'erogazione di capitali alle imprese attive in settori innovativi. Tuttavia, questo coinvolgimento ha anche portato a una crisi di liquidità per le banche miste, che solo l'intervento dello stato, con la creazione dell'IRI, è riuscito a risolvere.

Cosa imparerai

  • Quali furono le principali tare dell’economia nazionale secondo il Rossi?

Tipologia: Tesine universitarie

2017/2018

Caricato il 15/06/2018

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fede3317 🇮🇹

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Scarica Il ruolo delle banche miste nell'industrializzazione italiana (1861-1914) e più Tesine universitarie in PDF di Storia Economica solo su Docsity! 287 Capitolo X L’ANOMALIA ITALIANA TRA RITARDO STORICO E SUPPLENZA DELLO STATO 1. Un paese in ritardo Anche l’Italia giunse tardi alla rivoluzione industriale. È inutile ricor- darne in questa sede le cause remote, che riportano alla progressiva e- marginazione della penisola dai grandi flussi commerciali e alla sua de- cadenza politica. Rimane un fatto che pur disponendo di una antica tradizione manifat- turiera, e di vaste aree in cui la lavorazione casalinga – organizzata o me- no dalla figura del mercante-imprenditore – si saldava proficuamente col mercato, nel nostro paese non si sviluppò un ceto borghese in grado di cogliere subito le opportunità offerte dai nuovi metodi di produzione. Talché l’avvio dell’industrializzazione fu lento e faticoso, incontrando problemi comuni alle altre nazioni che per prime si industrializzarono, ma anche nodi tutti italiani. Come in altre realtà, anche in Italia la forma prevalente d’impresa fu all’inizio l’impresa individuale. Ma mentre in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e in Germania si dif- fusero presto anche le società di persone, nel nostro paese esse attec- chirono poco, e ancor meno erano le aziende organizzate in forma di società anonima, l’antica denominazione delle società azionarie. Il finanziamento per l’attività di rischio, se poggiava anche da noi sul- le risorse personali e familiari, presentava aspetti più problematici: i no- stri mercanti-imprenditori decisi a fare il salto verso il sistema di fabbri- ca, e comunque gli aspiranti imprenditori, disponevano di risorse infe- riori a quelle dei loro omologhi stranieri, e si scontravano nel loro repe- rimento di capitali nella cerchia familiare e amicale con una radicata dif- fidenza verso le nuove forme di produzione. Capitolo decimo 288 L’unificazione politica era stata diretta da una classe dirigente aristo- cratica od alto-borghese, i cui interessi poggiavano sulla rendita agraria o sull’impresa agricola: ed alla difesa di questi interessi si informò l’a- zione del nuovo stato. I timori per i fenomeni di inurbamento connessi ad un processo di industrializzazione, e per le tensioni sociali che ne sarebbero derivate, il che nelle classi proprietarie si traduceva nel timore di tensioni salariali all’interno del mondo rurale, si accompagnavano nel comune sentire al- l’idea che l’Italia mai avrebbe potuto colmare il divario che la separava dai paesi industrializzati. Per cui l’attività industriale non avrebbe mai potuto prosperare. Meglio, quindi, migliorare i nostri arretrati sistemi agricoli, incrementando l’esportazione di derrate con il cui ricavato si sarebbero potuti acquistare all’estero i moderni manufatti industriali, in una concezione di divisione internazionale del lavoro di scuola liberista che trovava solido riscontro nella politica liberoscambista del giovane stato. In questa visione, sia i grandi rentiers, i capitalisti agrari o la stessa borghesia delle professioni, preferiva continuare a collocare i propri ca- pitali, ed i propri risparmi, nell’investimento fondiario e immobiliare e nei titoli di stato, sia italiani che stranieri. Da questa resistenza trae ori- gine la minore disponibilità italiana di capitali da destinare all’attività di rischio, e la stessa ostilità legislativa al principale strumento di raccolta delle risorse di un moderno capitalismo industriale: la società anonima. 2. Il nodo delle società azionarie Fu contro questa fondamentale anomalia italiana, ma anche contro una politica doganale liberoscambista che impediva alle debolissime imprese italiane di irrobustirsi, che si mosse l’attività di un piccolo gruppo di im- prenditori che – poco dopo l’unità nazionale – avevano ritenuto di do- ver difendere le proprie ragioni brigando il mandato parlamentare, ed opporsi così in parlamento al predominio degli interessi agrari. Il principale esponente di questo esiguo drappello era il vicentino Alessandro Rossi, titolare di una importante ditta laniera – la Francesco Rossi di Schio1 – e più tardi di altre aziende minori, il quale dopo una 1 Ditta ovviamente individuale, e probabilmente la più grande azienda industriale degli anni Sessanta, con circa 3.000 dipendenti e quasi un migliaio di telai. Cfr. L’anomalia italiana 291 “delinquenziali” che come enti responsabili e degni di fede pubblica e privata3. Tale “Sindacato” non fu ovviamente bene accolto negli ambienti finanziari, industriali – o più semplicemente affaristici – del giovane re- gno. Se i giornali radicali e di opposizione accusarono il governo di «soffocare la libertà economica», i diretti interessati – e cioè alcuni gruppi che controllavano le (pochissime) grandi anonime dell’epoca – alimentarono una articolata campagna di stampa che proponeva, visto che al controllo pubblico il governo non intendeva rinunciare, di dele- garlo alle Camere di commercio: si giocava sull’aver queste ultime a suo tempo convenuto sulla necessità di un qualche controllo, ma in pratica si scontava il fatto che esse non potevano che esercitare un controllo del tutto nominale, essendo nelle singole città le rappresentanti naturali dei ceti economici più cospicui. E alla fine, nel 1869, il governo cedeva, sopprimendo il sindacato e istituendo al suo posto degli Ispettorati locali presso le suddette Camere di commercio: le quali solo formalmente erano presiedute dai prefetti, ma erano di fatto in mano alle burocrazie (e quindi alle clientele economiche) cittadine. Per i sostenitori della più assoluta libertà delle anonime, Rossi in testa, non si trattò che di una prima, e parzialissima, vittoria. Essi, se da un lato si battevano perché la liquidità stagnante di mercanti e pro- prietari fondiari affluisse alle anonime, attratte dal duplice miraggio dell’interesse sul capitale versato e dal possibile dividendo4, contesta- vano infatti alla radice i vincoli che la legislazione italiana poneva all’intraprendenza associativa in nome di quella che consideravano una male intesa difesa dei piccoli azionisti. Che in realtà i vincoli governativi non fossero poi tanto immotivati, era dimostrato dalla ventata speculativa che aveva scosso i primi anni del nuovo stato italiano: la creazione stessa di un mercato di imprevista (anche se ancora teorica) vastità, l’afflusso di capitali esteri, l’emergere nella gracile struttura borsistica e finanziaria del nostro paese di av- venturieri e aggiotatori d’assalto, aveva alimentato spericolate manovre di borsa e le più svariate iniziative fraudolente, società fittizie o drenanti 3 Cfr. C. DE CESARE, Il sindacato governativo, le Società commerciali e gli Istituti di credito del Regno d’Italia, Firenze, 1867. 4 Tale duplice forma di remunerazione capitale, un interesse fisso sul versato più un dividendo sugli utili realizzati, era uno degli strumenti adottati dalle anonime italiane per attrarre liquidità restia ad essere investita in attività di rischio. Capitolo decimo 292 capitali verso l’estero ecc., che avevano convinto il governo ad inte- rvenire duramente. Né il disordinato sviluppo delle anonime creava problemi solo da noi: anche in Francia e in Germania abbiamo visto come le autorità erano state portate a porre vincoli e a sottoporre a controlli gli enti societari, dell’espansione dei quali non si esitava a fornire immagini catastrofiche ancorché verosimili. Tra gli anni Settanta ed Ottanta del XIX secolo scriveva, ad esempio, uno studioso tedesco: «Sotto gli occhi del le- gislatore, le società per azioni si sono trasformate in enti briganteschi e truffaldini, la cui storia segreta nasconde più infamia, più disonore e più abiezione d’una casa di pena, con la sola differenza che, nelle società per azioni, ladri, briganti e truffatori sono circondati non da sbarre di ferro, ma da barre d’oro [...]; i danni provocati dalle società per azioni sono incomparabilmente più elevati dei loro vantaggi. Le rovine pro- vocate nella proprietà privata sono più gravi che se fuoco ed alluvioni, carestia e terremoti, guerra ed occupazione nemica avessero congiurato per rovinare il benessere nazionale. Nulla può attenuare la spietata con- danna del nostro sistema azionario, contenuta nel confronto tra un listino di borsa del tempo dell’ultima catastrofe (1873) ed un listino della Gründerzeit. Essa ci mostra un campo di battaglia, un cimitero: pozze di sangue, cadaveri, tombe, saccheggiatori, sciacalli. E solo questi ultimi si trovano a loro agio, perché sono i soli ad averci guadagno»5. Proprio a partire dalle polemiche sull’istituto dell’«Ispezione», si inco- minciò a profilare in sede di dibattito parlamentare un nuovo orienta- mento antivincolistico, che doveva confluire poi – dopo oltre un decen- nio di elaborazione, ma anche di contraddittorio andamento economico del paese – nel nuovo codice di commercio, il cosiddetto Codice Man- cini (1882) dal nome del ministro proponente. Alessandro Rossi fu uno dei protagonisti di tale dibattito, animando anche un vivace duello parlamentare con Matteo Pescatore6, giurista di raffinata dottrina, il quale osteggiava la concezione privatistica della società per azioni, apparendogli l’anonima «una specie di Stato eco- nomico-finanziario, il governo del quale debbe essere ordinato con le 5 R. VON JHERING, Lo scopo del diritto, Torino, 1972 [1a ed. ted. 1877-1883]. 6 Per i testi della polemica, cfr. Gli idilli sul piccolo azionista, “Rivista delle società”, 1961, pp. 311-325. L’anomalia italiana 293 forme degli Stati liberi e rappresentativi»7. La difesa dell’interesse delle minoranze azionarie, e cioè di quella gran massa dei piccoli azionisti che forniscono il capitale alle anonime, spingeva il Pescatore non già a difendere la tesi dell’autorizzazione governativa, bensì a sostenere che si dovesse «disporre l’intero ordinamento delle società in base al concetto che la loro fosse non già una libertà di ragion privata ma, dal momento che facevano appello al capitale nazionale, di ragion pubblica»8. Era ciò che più indignava gli industrialisti italiani, che vedevano in una giuri- sdizione pubblicistica unita alla difesa ad oltranza dei piccoli azionisti, il rischio di un definitivo immobilismo delle imprese industriali. Ma se sul versante di un diritto pubblicistico delle anonime, la dottrina stessa era molto divisa e in realtà perplessa, l’esigenza di tutela della (potenzial- mente) larga fascia di azionisti-risparmiatori trovava ancora ampio so- stegno. Fu quello della eccessiva difesa del piccolo azionariato un tema che Alessandro Rossi riprese più volte, e nelle più svariate sedi: anche nelle relazioni all’Assemblea degli azionisti dell’anonima Lanificio Rossi, nella quale egli era riuscito a fondere (1873) la sua ditta individuale Francesco Rossi ed altre aziende minori (di terzi, o da lui direttamente controllate), dando così vita alla più grande società industriale a base azionaria del paese. In alcune delle menzionate relazioni, quelle delle assemblee societarie del 1874 e del 1875, si coglie la lucida denuncia dell’immobilismo a cui l’impresa industriale sarebbe stata condannata dal permanere dei controlli e dall’isterica difesa di interessi economici parcellizzati. In particolare, la relazione alla prima assemblea del 18749, costituì, come nota il Cafagna che a ragione la considera un documento «sto- rico», una autentica dichiarazione di guerra con la quale nasceva in Italia la figura, e il concetto stesso, del capitano d’industria: «il quale avanza la pretesa di subordinare alla sua direttiva, dello sviluppo in- dustriale, di un calcolo a più lunga scadenza, una massa di interessi di piccolo cabotaggio, pavidi e di poca prospettiva. Essa pone nettamente la differenza che passa tra la semplice formazione ed esistenza di ca- 7 Cit. in P. UNGARI, Profilo storico del diritto delle anonime in Italia (Lezioni), Roma, Bulzoni, 1974, p. 64, da M. PESCATORE, Filosofia e dottrine giuridiche, Roma- Milano-Firenze 1879. 8 Ibidem. 9 Il testo è pubblicato in L. CAFAGNA, Il Nord nella storia d’Italia. Antologia politica dell’Italia industriale, Bari, Laterza, 1962, pp. 105-111. Capitolo decimo 296 porti con le maestranze ecc. Il Codice del 1882 sciolse tutti questi nodi, permettendo non solo la nomina di amministratori non azionisti, ma soprattutto abolendo ogni vincolismo alla formazione delle società azionarie, financo l’autorizza- zione governativa. E riservando solo ai tribunali il controllo, meramente formale, sulla conformità degli statuti sociali alle norme imperative dettate dal codice, e concernenti in particolari gli organi societari, la tenuta dei libri sociali e dei bilanci, garanzie per le minoranze azionarie. Anche per l’Italia si aprì così la stagione delle società azionarie. Che – seppure temperata da una tradizione mercantile ancorata, an- che in ditte di rilevanti dimensioni, alla forma individuale e alla respon- sabilità illimitata – segnò positivamente il periodo di preparazione al decollo industriale, e l’avvio di imprese nuove in settori che per loro natura richiedevano elevate capitalizzazioni, e quindi una vasta raccolta di risorse finanziarie: la moderna siderurgia, la chimica, la produzione e distri-buzione di energia elettrica, la meccanica qualificata17. tecnici? [...]. Passano vergini agli archivi, qualora non ispirino vane e nojose cor- rispondenze, che è peggio ancora. – Un esempio pratico: supponete che noi abbi- sogniamo ora di costruire un canale del quale abbiamo diritti e terreni assicurati, onde fare economia su carbone. Col Consiglio ordinario, così detto di ammini- strazione, ecco cosa avviene: – La Gerenza studia dei mesi a concretare un progetto, e lo manda al Consiglio; il Consiglio, che sente di non essere competente, nomina una Commissione; la Commissione si associa, molto naturalmente, dei periti onde si pongano in contraddittorio coi periti del Lanificio, e studino per essa. I medesimi riferiscono e scaricano la responsabilità sulla Commissione, la quale riferisce alla sua volta e scarica la responsabilità sul Consiglio: questo discute fin- ché, pure alla sua volta, gira l’affare al Gerente perché vi dia esecuzione, sotto- lineando, ben inteso, le parole sotto la sua responsabilità. – Ecco ciò che avverrebbe con questo congegno singolare di reciproco carico e scarico [...]. [Bisogna invece] familiarizzare i Gerenti coll’alta amministrazione; operare la fusione morale del Direttore commerciale coi Direttori tecnici, e di tutti loro col Consiglio [...]. È un assurdo l’idea di Direttori tecnici affatto isolati dalla questione amministrativa, o viceversa: ogni questione nel Lanificio è sempre e tutt’insieme tecnica, commer- ciale e finanziaria [...]. Nel nuovo Consiglio i diversi lati delle questioni si tro- veranno tutti in contraddittorio, ed è così che le medesime riusciranno rapidamente e risolte davvero». In LANIFICIO ROSSI, Seconda Assemblea..., pp. 9-10. 17 Questo paragrafo è già stato pubblicato in G. ROVERATO, A. Rossi tra mobi- litazione di capitale agrario..., in FONTANA (a cura di), op. cit, pp. 301-318. L’anomalia italiana 297 3. Il protezionismo Se il 1882 creò le premesse per un libero afflusso di capitali all’in- dustria, che tuttavia si concretò davvero con la formazione di quelle “banche miste” di cui diremo al prossimo paragrafo, fu solo nel 1887 che l’industria acquistò una sua legittimazione nel corpo giuridico (e quindi sociale) dello stato. E – cioè – con il varo di una nuova politica doganale che introdusse, accanto al protezionismo cerealicolo, un ac- cettabile grado di protezione anche per svariate attività manifatturiere, in particolare quelle tessili (lana e cotone) e quelle metallurgiche. Un timido precedente c’era già stato con il ritocco doganale del 1878, che però era stato assolutamente ininfluente rispetto ai problemi posti da anni dai circoli industrialisti. Le tariffe del 1887, tuttavia, non nacquero per soddisfare le esigenze da questi avanzate, bensì come risposta difensiva (e tutto sommato arre- trata) all’emergente crisi agraria causata, tra l’altro, da quell’invasione di derrate agricole americane sui mercati europei che le moderne tecniche di produzione agricola degli Stati Uniti, che l’abbattimento dei costi di trasporto determinati dalla navigazione a vapore, stavano consentendo. Solo che, dopo aver strenuamente difeso il liberoscambismo, il Par- lamento italiano egemonizzato dagli interessi agrari non poté invertire rotta senza giungere ad un qualche compromesso con gli interessi ma- nifatturieri, che dalla protezione cerealicola avrebbero subito un danno immediato per le tensioni salariali derivanti dal maggior costo della vita della propria manodopera. Questo compromesso, che si concretò nel protezionismo esteso a porzioni significative delle produzioni manifatturiere, significò la nasci- ta di quel blocco agrario-industriale che per decenni avrebbe influito sulla politica nazionale, con l’abbandono da parte della esigua borghesia industriale di qualsiasi velleità egemonica. Abbandono testimoniato an- che nel differente grado di protezione accordato all’industria (la tariffa era in media del 20%) e all’agricoltura (30% per il grano, oltre il 50% per un’altra derrata protetta, lo zucchero Anche se partì da qui la minorità politica (ed ideologica) della bor- ghesia industriale italiana, per certi versi evidente ancor oggi, il pur tardivo e pasticciato protezionismo doganale consentì comunque alla fragile industria nazionale un rapido recupero sulla concorrenza stra- niera: nelle produzioni meno qualificate essa riuscì infatti a ricavarsi una sicura posizione di predominio interno, che permise – pur in modo Capitolo decimo 298 disuguale tra i vari settori – l’irrobustimento delle nostre imprese, e l’ac- cumulazione necessaria al balzo che da fine secolo giunse almeno alla guerra di Libia. Le tariffe doganali del 1887 sono spesso considerate dagli storici economici come l’avvio di quello stretto legame tra lo stato e gli am- bienti imprenditoriali, che hanno fatto talvolta parlare della industrializ- zazione italiana come di una industrializzazione parzialmente “guida- ta” dal potere politico18. Un legame, che come è noto, andò via via rafforzandosi, divenendo una peculiarità della nostra economia. In realtà c’era già stato un precedente di notevole interesse, anche se originato più da interessi strategico-militari che da preciso disegno eco- nomico: il riferimento è alla fondazione, nel 1884, della Società degli Altiforni Acciaierie e Fonderie di Terni ad opera di un gruppo di capi- talisti guidati da Vincenzo Stefano Breda, a capo di una delle prime e più importanti imprese di costruzioni generali del paese, la Società Ve- neta per imprese e costruzioni pubbliche, avente sede in Padova. Si trat- tava di un moderno impianto, il primo a ciclo integrale, che fu finanzia- to con cospicue anticipazioni dello stato (più volte aumentate nel tem- po) in conto future forniture di piastre corazzate ed altro materiale siderurgico per la regia marina. Nacque da lì l’interesse pubblico per un settore considerato strategico per lo sviluppo: interesse che rimase nonostante gli scandali che in- vestirono l’Acciaieria di Terni, incapace di ripagare lo stato delle anti- cipazioni fatte, e che dovette a più riprese essere risanata con il danaro dell’erario19. Vale la pena, a questo proposito, di riportare la difesa che in Senato il Breda – ormai senatore del Regno, ma accusato di cattiva gestione, se non di vera e propria malversazione a proposito dell’affaire ternano – fece dell’operazione, e che giungeva a teorizzare in nome dell’interesse nazionale il connubio che tra stato e gruppi finanziario-industriali stava nascendo e consolidandosi. «Il grande stabilimento siderurgico di Terni – affermava l’industriale-senatore – non è sorto per iniziativa privata, non sono stati cioè i privati, industriali o capitalisti, i quali abbiano ideato la creazione di questo stabilimento per fare un affare. Fu il go- 18 Cfr. per una disanima dell’argomento il saggio di V. ZAMAGNI, Lo stato italiano e l’economia (storia dell’intervento pubblico dall’unificazione ai giorni nostri) , Firenze, Le Monnier Università, 1981. 19 Cfr. F. BONELLI, Lo sviluppo di una grande impresa. La Terni dal 1884 al 1962, Torino, Einaudi, 1975. L’anomalia italiana 301 cinque esistenti, e cioè la Banca Nazionale nel Regno, che aveva svolto il ruolo tipico di una banca centrale (e cioè di “prestatore di ultima istanza”) pur non avendone lo status giuridico, fu costretto a consumare parte delle sue risorse per salvare dal fallimento molte delle imprese bancarie travolte dalla crisi. Questo fondamentale ruolo – attraverso il quale lo stato italiano, tito- lare della proprietà di questo come degli altri istituti di emissione, avviò oltre alla sovvenzione diretta (cfr. l’esempio della Terni) e alla prote- zione doganale un terzo strumento di intervento economico, e cioè il “salvataggio dal fallimento” di enti economici privati – valse nel 1893 alla Banca Nazionale la trasformazione in Banca d’Italia, che assor- bendo i diritti di emissione di due delle altre quattro banche a ciò au- torizzate (la cessata Banca Romana e la Banca Toscana), assumeva di fatto – ma non ancora formalmente – la leadership del governo del cre- dito. La ristrutturazione della Banca Nazionale non fu però completa: la nuova Banca d’Italia rimase ancora un istituto che univa a compiti pubblici anche attività di banca ordinaria, anche se a poco a poco i primi (manovra sul tasso di sconto, interventi sul mercato valutario, ruolo di prestatore di ultima istanza) presero il sopravvento. Il fallimento delle due più importanti banche d’affari, e la più ge- nerale instabilità del mercato creditizio, portò il governo Crispi a favo- rire – sollecitandolo nell’ambito delle strette relazioni politiche ormai esistenti con la Germania imperiale – l’intervento di capitali bancari di quel paese che, uniti a capitali italiani, diedero vita a due nuovi istituti vocati – sul modello tedesco della c.d. “banca mista” – all’investimento industriale. Sorsero così la Banca Commerciale Italiana (1894) con sede a Milano, e il Credito Italiano (1895) con sede legale a Genova, ma anch’essa operativa nel capoluogo lombardo23. Grazie a queste istituzioni, e in presenza di una favorevole con- giuntura internazionale, lo sviluppo industriale italiano prese finalmente avvio nel c.d. “triangolo” compreso tra Milano, Genova e Torino, ma con effetti diffusivi anche in Veneto, Toscana e nell’area napoletana (Bagnoli). Napoli, e il Banco di Sicilia). Con la Banca Nazionale nel Regno in una indefinita posizione di prima inter pares. 23 Sulla nascita di questi due istituti, si veda P. HERTNER, Il capitale tedesco in Italia dall’Unità alla prima guerra mondiale (banche miste e e sviluppo economico italiano), Bologna, Il Mulino, 1984, in particolare ai capitt. II e III. Capitolo decimo 302 Questo periodo, noto come età giolittiana per i governi presieduti da Giovanni Giolitti o da questi direttamente influenzati, fu caratterizzato dall’irrobustimento della siderurgia, l’avvio dell’industria automobili- stica, l’esplosione dell’industria produttrice di energia elettrica e di quel- la dei macchinari ad essa destinati e dall’ancor timido emergere di moderne produzioni chimiche. Alle soglie della prima guerra mondiale, il processo di industrializzazione si era ormai definitivamente affermato in Lombardia, Liguria e Piemonte, mentre in altre regioni aveva inte- ressato solo aree modeste. Da tale punto di vista, il ruolo delle “banche miste” – così chiamate perché accompagnarono al normale credito d’esercizio (o commerciale) operazioni di credito industriale a medio e lungo termine, intervenendo in taluni casi nella stessa sottoscrizione azionaria del capitale di imprese attive in settori innovativi (elettricità, meccanica qualificata, siderur- gia)24 – fu importantissimo. Ma comunque non sufficiente ad avvalorare la tesi, avanzata in passato da alcuni studiosi25, che tali banche co- stituirono il fattore decisivo per l’industrializzazione italiana. È vero, piuttosto, che esse rappresentarono un canale prezioso per convogliare i depositi di risparmiatori per nulla inclini all’investimento industriale al finanziamento del capitale di rischio: e, quindi, per rispondere alla ca- 24 Quasi mai all’inizio, o raramente, si trattò di partecipazioni “strategiche”, ma solo di operazioni a mezza via tra il normale impiego di portafoglio (e quindi liquidabili a breve) e la promozione del collocamento borsistico di azioni di imprese innovative. Secondo l’esperienza tedesca, queste banche svolgevano infatti anche funzioni di assistenza finanziaria per imprese di nuova formazione, o di imprese già affermate che desideravano aumentare il loro capitale per affrontare nuovi e più vasti piani di investimento: per le quali curavano perciò l’emissione delle azioni, e nelle more del loro collocamento totale sul mercato ne assorbivano una quota sotto forma di investimento di portafoglio. Un’operazione analoga a quella che dal secondo dopoguerra in poi si trovò, pressoché unica in Italia, a svolgere Mediobanca assistendo svariate società azionarie nel collocamento di periodici aumenti di capitale o di emissioni obbligazionarie. 25 È la tesi classica espressa da A. GERSCHENKRON nel volume Il problema storico dell’arretratezza economica, Torino, Einaudi, 1974 [ediz. orig. Economic Bacwardness in Historical Perspective, Cambridge (Mass.), 1962], e poi sviluppata da J. COHEN nel saggio Financing Industrialization in Italy, “Journal of Economic History”, XXVII (1967), e nel suo contributo Italia (1861-1914) alla miscellanea curata da R. CAMERON, Le banche e lo sviluppo del sistema industriale, Bologna, Il Mulino, 1976. Essa è stata efficacemente ridimensionata, tra gli altri, dal prezioso studio di A. CONFALONIERI, Banca e industria in Italia 1894-1906, 3 voll., Milano, Banca Commerciale Italiana, 1974-1976. L’anomalia italiana 303 rente capitalizzazione delle imprese. Esse assolsero in sostanza ad una funzione di volano dell’economia, senza il quale probabilmente il paese non avrebbe conosciuto l’accelerazione del periodo prebellico. Ma l’a- zione di tali banche fu efficace in quanto poté essere esplicata in un contesto in cui le energie individuali dei singoli imprenditori già manife- stavano, ancorché in regime di sottocapitalizzazione, una indiscutibile vivacità. I finanziamenti della banca mista, in sostanza, arrivarono al momento giusto: esplicando effetti moltiplicatori che solo in quel par- ticolare periodo storico avrebbero potuto manifestarsi: con una acci- dentalità tipica dei momenti cruciali di un paese. Con la banca mista si concretizzò quindi quel meccanismo di finan- ziamento industriale auspicato dal Rossi e dagli industrialisti: perché, a parte il ruolo svolto nell’erogazione di prestiti a medio-lungo termine, essa fu la principale stimolatrice dello sviluppo delle società azionarie in Italia. Le due banche prima menzionate finirono infatti, seguendo l’ot- tica con cui in Germania operavano le grandi banche d’affari, per pri- vilegiare negli impieghi le società per azioni, data la formalizzazione della gestione (e quindi la maggior “trasparenza”) che la legge impo- neva loro. E quindi si adoperarono perché le principali aziende loro clienti assumessero tale forma giuridica, anche al fine di coinvolgere nel rischio d’impresa un numero più elevato di soggetti. Da qui quel- l’articolato ruolo, enunciato in nota 24, di sottoscrittrici dirette di ca- pitale, ma anche di “parcheggio” di quote azionarie da liberare gradual- mente sul mercato finanziario. Non furono però tutte rose e fiori: con la guerra mondiale – durante la quale il capitale tedesco partecipante a tali banche fu dapprima con- gelato perché appartenente a paese nemico, e quindi italianizzato – e più ancora con la riconversione postbellica, iniziò un periodo di gravi turbolenze economiche che portarono le banche miste a sempre più pe- santi coinvolgimenti nelle imprese finanziate. Da un lato le erogazioni alle imprese di prestiti (o più semplicemente di anticipazioni in conto corrente) aumentarono considerevolmente, dall’altro queste ultime cominciarono ad essere inadempienti rispetto alle scadenze dei rimborsi. Si creò una situazione tale per cui questi istituti si trovarono ad affrontare periodiche (ma fino alla fine degli anni Venti contenibili) crisi di liquidità, derivanti dalla sfasatura tra una prevalente raccolta a breve del danaro (i depositi) e gli impieghi a lungo termine che essi dovevano effettuare per far fronte alle esigenze delle imprese. Talvolta, furono indotti a preferire all’erogazione di ulteriori
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