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RRiassunto Manuale di Storia delle Religioni di Maria Vittoria Cerutti, Sintesi del corso di Storia

Riassunto per esame di Storia delle religioni

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020
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Caricato il 02/03/2020

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Scarica RRiassunto Manuale di Storia delle Religioni di Maria Vittoria Cerutti e più Sintesi del corso in PDF di Storia solo su Docsity! RIASSUNTO MANUALE “STORIA DELLE RELIGIONI- OGGETTO, E METODO, TEMI E PROBLEMI” di Maria Vittoria Cerutti LO STATUTO EPISTEMOLOGICO DELLA STORIA DELLE RELIGIONI.OGGETTO E METODO. Introduzione alla disciplina “Storia delle religioni” La storia delle religioni non è una disciplina idiografica, ovvero una disciplina che studi, sulla base del metodo storico, un singolo ambito storico e culturale nei suoi diversi aspetti e nella sua storia o una singola religione. La storia delle religioni si occupa della pluralità delle religioni e lo fa sulla base del metodo che le è proprio, ovvero quello storico-comparativo. La storia delle religioni non è neppure una disciplina soltanto “euristica” e meramente descrittiva. Infatti, essa non si limita a ricercare, trovare e raccogliere (in questo senso “euristica” e poi descrivere i dati; i dati acquisiti dalla ricerca storico- religiosa non sono una sorta di materiale bruto in attesa d'interpretazione da parte di altre discipline, quali in particolare la filosofia o la teologia. La storia delle religioni è una disciplina interpretativa che può e deve, dopo le fasi necessarie del reperimento, della raccolta, della descrizione e della catalogazione dei dati, addivenire a un'interpretazione dei dati stessi di tipo storico. Dunque, alla storia delle religioni non dev'essere riservato il solo compito dell'accertamento dei dati, attribuendo, invece, ad altre discipline, il compito della ricerca del “senso” del dato stesso. La storia delle religioni mira a comprendere, e dunque, come detto, non meramente a descrivere, i fenomeni religiosi, non fermandosi all'attualità degli stessi ma piuttosto andando alle origini e ai primi, o comunque ai successivi sviluppi dei fenomeni religiosi considerati. Una migliore conoscenza dello “ieri” è fondamentale per una miglior comprensione dell'oggi, e di questo la storia delle religioni ne è ben consapevole. Tale disciplina non è inoltre chiamata a formulare giudizi di verità sulle religioni, ma piuttosto giudizi di valore. L'oggetto della storia delle religioni sono “le religioni” come fatti storici, e il suo metodo è quello “storico-comparativo”. La ricerca storico-religiosa è dunque una ricerca storico-comparativa che muovendo da un concreto contesto culturale e religioso, o da un singolo fenomeno al suo interno, gradualmente si allarga verso ambienti e fenomeni contigui e verso quelli più lontani, venendo così a percepire le affinità e le differenze tra i vari contesti e fenomeni studiati, i quali – contesti e fenomeni – in tal modo saranno collocati e studiati sullo sfondo e in relazione alla vasta e complessa trama della storia. Il tutto rimanendo nei limiti di una sana ricerca storica che non pretenda di formulare teorie interpretative troppo rigide e assolute. Cenni di storia degli studi Un approccio scientifico alle religioni nella loro pluralità e diversità, condotto sulla base di una cosciente metodologia di studio, è abbastanza recente. Nasce, infatti, attorno alla metà del XIX secolo, anche se conosce antecedenti significativi già nel XVIII secolo. Naturalmente l'interesse per le religioni sotto un profilo in senso lato “comparativo” è molto antico; al riguardo si citano solitamente gli interessi di Erodoto (484-425 a.C), nelle sue “Storie”, o di Plutarco (45-120 d.C), in diverse sue opere quali De Iside et Osiride. Torniamo all'età moderna. Fondamentale per la nascita di un interesse scientifico, in senso comparativo, per le diverse tradizioni religiose note fu, come detto, attorno alle metà del XIX secolo e con antecedenti significativi già nel XVIII secolo, lo stimolo costituito dalla sempre maggior conoscenza in Occidente delle espressioni religiose dei popoli illetterati e delle tradizioni religiose orientali, documentate da testi che venivano via via decifrati o tradotti. In primo luogo, dunque, si vennero a conoscere sempre più i gruppi umani cosiddetti “primitivi”; in secondo luogo, si ebbe la conoscenza più approfondita delle tradizioni religiose orientali, a seguito della scoperta dei testi religiosi dell'India (in particolare i Veda), dell'Iran (l'Avesta) e di testi mesopotamici ed egizi; in terzo luogo, ci fu nell'ambito degli studi linguistici l'individuazione della famiglia linguistica indoeuropea. Fu comunque in Olanda, che l'insegnamento accademico delle religioni, sganciato da presupposti teologici, si affermò, nel 1877 a Leiden, con Cornelius Tiele, pastore della Chiesa riformata olandese e autore di quello che può essere considerato come il primo manuale di storia delle religioni, Geschiedenis van den godsdienst; si affermò anche a Utrecht, Groningen e Amsterdam, ove insegnava Pierre Daniel Chantepie de la Saussaye, il cui Lehrbuch der Religionsgeschichte introduce negli studi l’espressione “fenomenologia della religione”. Veniamo ai principali indirizzi metodologici che segnarono l’interesse scientifico per le religioni nel XIX secolo. Lo studio filologico comparato delle lingue indoeuropee fu il presupposto della mitologia comparata come praticata da F. Max Muller (1823-1900), glottologo e studioso dei Veda. La ricerca comparata condotta da Max Müller, a differenza di quelle condotte dalle scuole evoluzionistiche cui faremo più avanti riferimento, si basa sulla comparazione linguistica nell’ambito della famiglia linguistica indoeuropea. Tale indirizzo riteneva comparabile solo ciò che fosse linguisticamente comparabile. Di fatto, tale indirizzo di studi condivideva con quello antropologico l’interesse per il problema della natura e delle origini della religione, e il tentativo di formulare delle ipotesi globali e totalizzanti quali soluzione a tali problemi. Lo studio comparato dei fatti religiosi, si proponeva come scopo quello di ricercare l’origine della religione e di ricostruire la storia religiosa dell’umanità. Così, la scuola della Mitologia della natura riteneva che l’origine delle divinità proprie delle varie tradizioni religiose politeistiche fosse da individuarsi in quella che veniva identificata come una sorta di “malattia del linguaggio”, per la quale i nomi di entità ed eventi della natura col trascorrere del tempo avrebbero finito con il designare figure sovrumane. A questa prima forma di religione naturale sarebbe seguito la fase delle religioni cosiddette rivelate. In sostanza, le figure sovrumane altro non sarebbero che personificazioni degli oggetti e dei fenomeni della natura. Ad esempio, il nome di una delle principali divinità dell’antico pantheon vedico, ovvero Agni, all’origine avrebbe indicato soltanto il fatto naturale del fuoco. Successivamente, in sede di studi linguistici, si sarebbe addivenuti talora a un rovesciamento delle tesi sostenute da Max Müller, e si sarebbe parlato di u processo di “laicizzazione” di concetti originariamente religiosi. A partire dalla metà del secolo XIX, furono elaborate alcune teorie interpretative della religione che, pur diverse, tutte risentivano dei presupposti filosofico-scientifici dell’epoca, dominata dal positivismo filosofico e dall’evoluzionismo. Si ammise un inizio delle credenze religiose comune per tutti i popoli e per tutte le culture, inizio di cui sarebbero testimoni contemporanei i popoli cosiddetti primitivi, ossia quelle popolazioni di cultura più o meno arcaica che le scoperte geografiche e soprattutto l’opera di colonizzazione metteva a contatto diretto con la società europea. Fondamentale per la comprensione delle varie teorie evoluzionistiche risulta di fatto la circostanza che lo stesso secolo XIX fu il secolo del colonialismo, l’epoca in cui si instaurò una rete di contatti più diretti e continui tra le popolazioni europee e quelle dell’Africa, dell’Asia, delle Americhe, dell’Australia. Nelle relazioni con queste civiltà così lontane dal modello europeo si sottolineò subito la disparità, intesa nel senso dell’inferiorità più o meno radicale, ed esse furono definite primitive; fu grande l’interesse per le credenze religiose e le pratiche cultuali di questi popoli, e la diversità fu immediatamente percepita dalla maggior parte degli occidentali come segno di statuto primitivo e rudimentale, per cui si affermò la tendenza a ritenere il complesso di concezioni di cui questi popoli erano portatori come quello che meglio poteva riflettere i primi inizi in assoluto delle credenze religiose dell’umanità. Si cercò allora di circoscrivere proprio quelle credenze e pratiche che apparivano a prima vista più lontane da quelle occidentali, per porle all’origine di un processo evolutivo in cui sarebbe stata interessata l’intera storia umana, per porle all’inizio della storia religiosa. Sulla base di presupposti tali da risentire della temperie positivistica ed evoluzionistica dell’epoca, furono formulate diverse teorie interpretative della religione, tutte orientate a ricercare nelle religioni quel comune denominatore minimale dalla quale si sarebbe verificato un processo di evoluzione comune a tutta l’umanità. Sulla base di questi postulati fu elaborata, da parte dell’antropologo inglese E. Burnett Tylor (1832-1917), la teoria dell’animismo, come primordiale credenza religiosa dell’umanità. Lo studioso, dopo aver raccolto sulle popolazioni primitive una grande massa di nuove informazioni fornite da missionari, … constatò la grande diffusione di un tipo di credenza che egli definì “animismo”, e che pose alla base dello sviluppo religioso dell’umanità. Tylor utilizzò il termine di “anima” per indicare un elemento invisibile e intangibile ma pure ritenuto dall’uomo primitivo presente negli individui, negli animali e nelle cose; si trattava di un’ ”anima immagine”, una sorta di “doppio”, di un alter ego invisibile e intangibile. Una sorta di loro rappresentazione formalmente identica ma impalpabile e separabile, tale da poter agire in maniera indipendente dal suo “proprietario” e da allontanarsi da questo. Questa “anima-doppio”, in quanto riproduce le fattezze dell’individuo, dell’animale e della cosa cui attiene, sarebbe percepita dall’uomo primitivo soprattutto nelle esperienze del sogno o dell’estasi. Talora le anime “separabili” tendono anche ad assumere una più accentuata “personalità”, a concentrarsi in determinati luoghi come nella boscaglia o nel deserto, o comunque in luoghi non abitati. Tylor, ritenne che tale credenza potesse essere a fondamento di tutto lo sviluppo religioso dell’umanità. Lo studioso commise in primo luogo l’errore di estendere a tutti i popoli una credenza presente solo presso alcuni di essi. In secondo luogo, si trascurò il fatto che una tale credenza si situa sempre in un contesto più ampio. Non si dà storicamente, infatti, nessuna cultura che abbia soltanto credenze “animistiche”, ma queste credenze convivono e si integrano con altre. Il Tylor e gli altri studiosi di analoga impostazione metodologica, una volta individuate credenze particolarmente diffuse tra popolazioni di cultura arcaica, e trascurate altre componenti dell’orizzonte religioso in cui esse si collocano e che esse non vengono pertanto a esaurire, vengono a intenderle come una sorta di minimo comune denominatore di tutte le religioni. Di fatto, sempre da parte di Tylor, si ritenne che dall’animismo si sarebbe sviluppato il politeismo, in quanto alcune anime avrebbero assunto una maggiore rilevanza, acquistando caratteri personalistici; il monoteismo, dal canto suo, si sarebbe formato a partire dal politeismo, a seguito di una sorta di “concentrazione” in un unico personaggio divino di prerogative e funzioni proprie dei vari dei degli ambiti appare sanzionata religiosamente, per gli evoluzionisti sarebbe un fatto piuttosto tardo. La tesi del Lang pertanto rivoluzionava tutto il quadro ideologico dell’evoluzionismo, perché sottolineava l’impossibilità che la nozione dell’Essere supremo potesse essere scaturita dalla supposta nozione originaria di anima. Le reazioni alla teoria del Lang furono varie, e in primo momento essa fu addirittura quasi misconosciuta. Tuttavia, per l’intervento deciso sul tema dello studioso austriaco Schmidt, questa teoria finì per imporsi all’attenzione del mondo scientifico, ricevendo conferme dalla scuola storico- culturale. Tale scuola raccolse una notevole documentazione atta a contraddire le teorie dello sviluppo unilaterale e generale della cultura in genere e della religione in particolare, che erano state affermate nell’ambito evoluzionistico. Frazer quasi non rispose alle critiche, mente Lang vi oppose una breve pubblicazione in cui si limitava a ribadire che la nozione dell’Essere supremo, quale il Lang l’aveva messa in luce, era dovuta all’influsso delle alte culture, in particolare all’opera dei missionari. Contro questa obiezione Lang fece notare che le nozioni relative all’Essere supremo di solito risultavano essere esclusivo patrimonio degli uomini (no donne e bambini). Esse facevano parte di un patrimonio di conoscenze di cui venivano messi a parte solo i giovani maschi nel momento dell’iniziazione, ossia di quelle cerimonie segrete che sanzionavano il loro accesso alla società degli adulti. Si sottolineò pertanto come la nozione di Essere supremo fosse specificatamente legata a una prassi rituale esoterica, segreta a donne e bambini. Se vi fosse stata davvero un’influenza missionaria alla base di tale concetto (Essere supremo), anche le donne e i fanciulli avrebbero dovuto essere partecipi delle nozioni che lo riguardano. A ciò si aggiunga la reticenza da parte egli uomini nel riferire a osservatori estranei i miti e le credenze relativi all’Essere supremo. Uno dei pochi a riuscire a conoscere davvero tali culture primitive fu Alfred W. Howitt, che non solo apprese la lingua di molte tribù dell’Australia del Sud-Est, ma riuscì anche ad acquisire tale familiarità con esse da ottenere egli stesso di partecipare ai riti iniziatici. Non è possibile seguire nei dettagli tutta l’ampia argomentazione dello Schmidt, volta a dimostrare il carattere autoctono e arcaico delle credenze relative all’Essere supremo presso le varie popolazioni primitive. Diciamo solo che egli discute e confuta l’interpretazione di Howitt, secondo la quale tale nozione sarebbe sorta da quella relativa al capo-tribù defunto ed eroizzato. Contro tale interpretazione, lo Schmidt fece notare come presso le popolazioni australiane più arcaiche, la figura del capo- tribù avesse scarso peso e non era oggetto di culto dopo la morte, mentre l’Essere supremo era immortale ed eterno. In conclusione, nell’opera L’origine dell’idea di Dio, lo Schmidt ribaltò la teoria evoluzionistica e vi oppose la teoria secondo cui le più antiche credenze dell’umanità sarebbero state di tipo monoteistico. Lo studioso ritenne di poter definire “monoteismo” il complesso religioso gravitante intorno alla figura di Essere supremo, e individuò in esso la forma primordiale di religione. In tal modo venne a delinearsi una prospettiva devolutiva, ammettendo che alcune popolazioni avrebbero mantenuto le loro originali concezioni monoteistiche, altre le avrebbero elaborate ulteriormente per costituire i grandi monoteismi storici, mentre altri popoli sarebbero decaduti dalla originaria forma religiosa in credenze animistiche, politeistiche, … . Anche questa teoria si presta alle medesime critiche formulate nei confronti del metodo evoluzionistico; Pettazzoni obiettò l’impossibilità di assimilare la figura dell’Essere supremo al Dio sommo dei monoteismi storici, in quanto l’Essere supremo non esclude accanto a sé la presenza di altri esseri sovrumani. Inoltre il Pettazzoni notò che l’Essere supremo di alcune colture primitive viene spesso rappresentato come “ozioso” nell’attualità, che talora ha moglie e figli, che all’origine abitava con gli uomini e poi, per una colpa commessa da un personaggio umano o sovrumano, o per un incidente, si allontana in cielo, e di là non agisce più su questo mondo ma delega. Questa situazioni è molto diversa da quella del dio unico dei grandi monoteismi storici, la cui presenza è perennemente attiva nella storia umana e cosmica. Inoltre, a definitiva smentita delle tesi dello Schmidt, Pettazzoni formula la teoria del carattere rivoluzionario dei monoteismi storici, i quali implicherebbero una situazione precedente politeistica, rispetto alla quale il fondatore-profeta opporrebbe il proprio messaggio sull’esistenza di un dio unico. Anche la tesi di Pettazzoni circa la nascita del monoteismo a seguito di un’opera di rivoluzione da parte di un fondatore-profeta soffre di eccessiva rigidità. Quanto alla tesi di Schmidt sul “monoteismo originario”, non è accettabile in quanto, avendo posto alle origini dello sviluppo religioso una credenza monoteistica, egli afferma che l’apparizione del dato mitologico sarebbe un elemento posteriore; con il manifestarsi di tale quadro mitologico si sarebbe passati dal monoteismo ad altre forme religiose. Schmidt fa intervenire in questo processo di trasformazione l’oziosità presente dell’Essere supremo; lo Schmidt ritiene che il politeismo sarebbe nato in conseguenza del fenomeno dell’oziosità dell’Essere supremo, e del connesso emergere di personaggio che assumono, per sua delega, alcune delle sue capacità e facoltà. Tuttavia, presso anche le più arcaiche culture la componente mitica è ben presente e comprendente la figura di Essere supremo, il quale appare protagonista di racconti vari. Dunque, non è possibile distinguere un supposto momento originario da un successivo momento mitologico. La teoria dello Schmidt, mentre condivide con le posizioni evoluzionistiche la ricerca di un’origine, si colloca ai loro antipodi per il suo delineare la storia religiosa non come un’evoluzione, ma come una devoluzione. Infine, la teoria dello Schmidt utilizzava un postulato teologico, ovvero riconnetteva la credenza dallo studioso definita come “monoteismo primordiale” a una rivelazione originaria. Se per gli evoluzionisti le origini della religione sono in un processo mentale, per Schmidt, invece, esse sono in una rivelazione soprannaturale primordiale, che fa di Dio il creatore della religione. ---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Esistono tre tipi di comparazione in sede di storia delle religioni, oltre a quella filologica: quella propria delle scuole evoluzionistiche, quella fenomenologica e quella più propriamente storica. La prima era soprattutto di tipo naturalistico, consistendo nella applicazione allo studio dei popoli a livello etnologico di leggi desunte dalle scienze naturali, il che portava ad accomunare i cosiddetti “primitivi” all’interno de primo gradino di una supposta scala evolutiva. In sostanza, credenze e usi religiosi venivano comparati e sistemati in un’unica e predeterminata evoluzione sulla base di un generico e storicamente non qualificato passaggio dal più semplice ed embrionale fino al più complesso, appunto, “evoluto”, e moderno. L’ipoteca evoluzionistica e scientista conduceva, da un lato, a una ricerca di quelle forme elementari che si riteneva potessero essere offerti dalle tradizioni dei popoli illetterati del tempo, e che si pensava avessero potuto costituire l’inizio dello sviluppo religioso dell’umanità; inoltre veniva a costruire modelli religiosi astratti (come “feticismo” o “animismo”) e li ordinava all’interno di un altrettanto astratta scala religiosa universale. Dall’altro lato, conduceva a ritenere che uno studio comparato siffatto potesse contribuire al processo, comunque inarrestabile, di scomparsa della religione stessa. Se la religione s’origina da una “malattia” (v. “malattia del linguaggio” con Müller), se si origina da una “falsa scienza” (Frazer), non potrà che renderla superflua, inutile. Infine, la comparazione come praticata in sede di approcci evoluzionistici, tutt’attenta com’era, all’origine della religione e alle sopravvivenze (survivals) di credenze e pratiche “primitive” in culture superiori e nelle loro religioni, misconosceva e mortificava la ricchezza e la complessità di queste. La scuola sociologica francese, che faceva capo a Durkheim, rappresenta l’erede dell’impostazione evoluzionistico- positivistica dominante il secolo XIX. Durkheim vede all’origine dei fatti culturali e , nello specifico, religiosi, non l’individuo ma la società. L’individuo esiste culturalmente in quanto membro di un gruppo sociale. Per Durkheim la religione viene a essere l’ipostatizzazione del senso di sacralità, di maestà, di potenza che emana dal gruppo sociale. Di fatto, in occasione delle grandi cerimonie collettive espletate da una comunità, si sprigionerebbe dal gruppo sociale un senso di potenza e di maestà che sarebbe percepito come sua origine e fondamento; religione come “espressione del potere esercitato dalla società”. Se tale teoria ha il merito di valorizzare l’aspetto collettivo, sociale e tradizionale del fatto religioso, viene tuttavia a trascurare il peso costituito dall’iniziativa dell’individuo. La vita dell’individuo in sé, in tale prospettiva, è il regno del profano e dell’insignificante. Di fatto, tuttavia, in ogni quadro religioso i due elementi costituiti dall’individuale e dal sociale convergono. In sostanza l’interpretazione sociologica della religione riduce sistematicamente il religioso al sociale. La società è per i suoi membri quello che è un dio per i suoi fedeli. L’azione collettiva del clan spiega la creazione del sacro nel comportamento dell’uomo. Ma affermare questo non vuol dire negare che la religione sia anche un fatto sociale e che possa contribuire a dare coesione e solidità alla vita della società. Un cenno poi all’antropologia nella sua declinazione funzionalista. L’antropologia è portata a considerare le religioni “in funzione di”, ovvero significative ai fini della sopravvivenza delle società. La verità di una religione, in tale prospettiva, si esprimerebbe nella sua utilità. L’approccio funzionalista, inoltre, generalmente rifiuta la comparazione, affermando che fenomeni all’apparenza simili possano rivestire significato diverso nelle diverse culture. Soprattutto in passato, come reazione alle impostazioni pseudo-storiche degli evoluzionisti, nelle sue forme più rigide l’antropologia affermava l’irrilevanza della storia, mentre in una fase successiva essa si dimostrò più aperta alla ricerca storica. Va ricordata la branca strutturale dell’antropologia, la quale fa particolare riferimento a Lévi-Strauss. Lo strutturalismo, ovvero lo studio che riguarda l’uomo nelle sue strutture profonde e fondamentali, ha accostato indirettamente anche motivi religiosi. Una posizione strutturalistica è portata ad ammettere che dietro l’infinita varietà delle culture vi sia una trama strutturale unica, dal momento che le varie culture non sono altro che combinazioni diverse degli stessi elementi base (di numero finito); la storia determina come si aggreghino tali elementi. L’approccio fenomenologico ha subito ampiamente l’influsso del pensiero dello studioso tedesco Rudolph Otto. Egli si oppone a ogni impostazione evoluzionistica nello studio della religione. Per lui l’essenza del fenomeno religioso viene a coincidere con una realtà dotata di una sua ontologica consistenza, appunto il sacro. Secondo Otto, le diverse religioni sarebbero tutte da ricondurre a quella che chiama l’esperienza del sacro. Sanctus è tutto ciò che deve essere tenuto separato dall’esperienza profana perché ha in sé aspetti fortemente pericolosi; è qualcosa che si riferisce all’esperienza del sovrumano e come tale è degno del massimo rispetto; partendo da questa nozione l’Otto procede a chiarire la sua concezione del sacro, che da una parte definisce “numinoso” (lat. numen), che esprime il senso di una presenza sovrumana talora difficile da individuare nella sua specifica personalità, ma percepita come potente; inoltre il sacro si caratterizza come qualcosa di “completamente altro” rispetto all’esperienza comune dell’uomo. Questo sacro è in pari tempo fascinans e tremendum, ossia qualcosa che attrae e contestualmente incute timore. Il sacro viene percepito dall’uomo mediante una facoltà religiosa, che gli permette di quale manifestazione sia a livello personale (rivelazione interiore) sia a livello oggettivo, storico. La Sfameni Gasparro avanza delle riserve che lo storico delle religioni esprime nei confronti della teoria stessa: innanzitutto, in merito alla realtà oggettiva del sacro, lo studioso opera più da filosofo e teologo che non da storico delle religioni, perché muove da una precisa asserzione dalla quale dipende tutto il ragionamento successivo, ovvero l’esistenza reale del sacro, modulato secondo le categorie del fascinans e del tremendum, in rapporto alla quale l’uomo si pone, percependola con quella innata facoltà religiosa di cui sarebbe dotato. Lo storico invece non può spingersi fino a questo punto per affermare né per negare tale realtà; egli piuttosto constata come, nei diversi contesti storici a lui noti, ammette l’esistenza di un livello sovrumano. Tuttavia lo storico non si pronunzi né sull’esistenza obiettiva né sulla non esistenza di tale livello, perché nel farlo formulerebbe un giudizio di valore; lo storico deve indagare le diverse modalità del sacro senza emettere giudizi di verità sulla questione dell’esistenza o meno di un livello trascendente. In sede di indagine storica non si può accettare né il postulato dell’esistenza a priori del sacro, né la sua negazione. Se come uomo egli legittimamente potrà essere credente o meno, in quanto storico non è autorizzato a emettere giudizi di valore sui fenomeni storici analizzati. Criticabile è anche il carattere molto generico ma culturalmente determinato della nozione di sacro definita da Otto. Essa infatti non risulta applicabile a tutti i contesti storici essendo chiaramente collegabile ad alcune tradizioni religiose. In particolare, essa è il prodotto della tradizione cristiana di tipo protestante e di alcune tradizioni filosofiche da cui dipende l’Otto. La definizione proposta da Otto pecca dunque per un verso di genericità e non risulta applicabile a tutti i contesti religiosi, e per l’altro si rivela condizionata da certe esperienze religiose nelle quali il livello del sovrumano si caratterizza con i caratteri di un’estrema alterità che insieme affascina e incute timore. Un altro elemento contestabile della teoria ottiana è il riferimento preminente alle facoltà irrazionali per la spiegazione dell’atteggiamento religioso, ossia l’”esperienza del sacro”. Egli infatti dichiara in maniera netta che in questa esperienza non intervengono le capacità razionai dell’uomo, ma piuttosto quella innata facoltà specifica di percezione del sacro. Tale conclusione minimizza o addirittura esclude quanto di interessi e di esigenze di tipo logico-razionale interviene anche nel fenomeno religioso. Si è osservato come posizioni, quali quella ottiana, attuino anch’esse un procedimento riduzionistico. Infatti, essa vede nel sentimento del sacro il comune denominatore delle religioni, riproponendo così un aspetto della vana ricerca di Tylor, e di altri, di un comune denominatore di tutte le religioni. In sostanza sembra che la fenomenologia della religione possa essa stessa risultare riduttiva, quando si rifaccia a teorizzazioni generalizzanti quali, ad esempio, quella ottiana del “sacro”. Inoltre, mentre le posizioni evoluzionistiche attribuivano una funzione prevalente agli atteggiamenti razionalistici, la interpretazione ottiana privilegia quelli irrazionali e sentimentali. Le due formule interpretative sono entrambe contestabili poiché nel fatto religioso convergono in misura diversa secondo i casi esigenze di tipo logico-razionale ed esigenze di tipo psicologico, sentimentale o anche irrazionale. La comparazione di tipo fenomenologico intende pervenire all’identificazione di costanti e di tipi ricorrenti, o strutture, che si riproporrebbero identiche a sé stesse nel cangiare delle religioni, e alla definizione dell’”essenza” di religione. La fenomenologia della religione è una corrente di studi che ha le sue radici dottrinali nella sua svolta antipositivistica attuatasi con la filosofia di E. Husserl, il quale si è prefisso di partire dal fenomeno e non da principi astratti universali. Tuttavia, un antecedente del metodo fenomenologico è da taluni visto in F. Schleiermacher, che si oppone alle forme di riduzione dell’esperienza religiosa sia di carattere razionalistico, sia di carattere moralistico. Schleiermacher afferma che la religione non è una conoscenza razionale o una moralità, ma è sentimento dell’infinita dipendenza dell’uomo rispetto a un Qualcosa che infinitamente lo trascende. Tale posizione inaugura una linea interpretativa che è portata a valorizzare il nucleo emozionale dell’esperienza religiosa; essa apre la strada, appunto, all’approccio fenomenologico. La fenomenologia si proponeva di combattere ogni atteggiamento riduzionistico, che pretendesse di scoprire l’origine della religione riconducendola a ciò che religione non era. Se gli evoluzionisti erano tesi a cogliere il momento e il modo del sorgere delle manifestazioni religiose, e privilegiavano le culture etnologiche, in tale loro tensione a identificare l’inizio della religione mortificavano la ricchezza del religioso, sia nelle società arcaiche che nelle grandi religioni storiche, ridotte a luoghi di sopravvivenze di più arcaiche formazioni religiose. I fenomenologi, invece, tentano di identificare l’essenza della religione, che si troverebbe già nella sua pienezza ovunque si ha una religione. Non vi è un processo dall’embrionale e inferiore al complesso e superiore, in materia di religione. La fenomenologia si prefigge dunque di cogliere nella diversità dei fenomeni religiosi il fenomeno religioso in quanto tale, ovvero di scoprire l’essenza della religione, ciò che permane e si ripropone al di sotto o al di là delle differenze. Suo scopo è individuare le strutture permanenti. Essa è dunque scienza che intende studiare in maniera sistematica i fenomeni religiosi disseminati nel tempo e nello spazio, ordinandoli secondo tipi, forme, strutture. Se “fenomenologia” è “discorso intorno a ciò che appare”, suo oggetto è il fenomeno, ovvero ciò che appare a qualcuno che lo descrive e che per farlo deve immedesimarsi in esso. Essa si accosta pertanto al mondo delle religioni con una precomprensione per la quale soltanto chi è religioso può veramente comprendere il mondo delle religioni, pur con un’oscillazione tra coloro che ritengono che l’avere una certa predisposizione religiosa sia sufficiente a comprendere la religione e coloro che invece ritengono necessario riconoscere tout court la verità di un’esperienza religiosa. La fenomenologia non è più chiamata a quello “spiegare”, di stampo positivistico, per il quale la religione era un semplice oggetto di studio, ma è chiamata a “comprendere” i fatti religiosi, e a ciò può pervenire solamente mediante una immedesimazione da parte dello studioso nei fatti religiosi stessi. R. Otto poté affermare che soltanto chi ha la facoltà di percepire il sacro – facoltà simile alla sensibilità artistica – può studiare e capire i fatti religiosi. Primo grande rappresentante della fenomenologia della religione può essere considerato G. van der Leeuw. In parte subendo l’influsso di Otto, egli afferma che alla base dell’esperienza religiosa sta il sentimento di “distanza” e che rituale degli eventi mitici serve a fondare la realtà e il tempo profano, a garantirli e non ad abolirli. Pettazzoni stesso parla di una “verità del mito”, nel senso che il mito fonda la realtà attuale e anche risponde al bisogno umano di comprendere il perché di eventi quali la morte. Anche a U. Bianchi la nozione eliadiana di religione è parsa implicare una forzatura: non si vede perché la religione debba essere in antipatia così assoluta verso la storia, dal momento che si può constatare come, in particolare nelle grandi religioni di ascendenza biblica e nello zotoastrismo, la religione sia orientata positivamente verso la storia. Inoltre, Bianchi contesta la descrizione eliadiana del sacro: per Bianchi essa non tiene conto delle risultanze dello studio delle varie religioni che mostrano come il primordiale, nelle concezioni religiose, abbia almeno due aspetti; uno per il quale il primordiale si presenta come caotico e informe, e uno per il quale esso si offre come pienezza originaria, intatta e perfetta (Eliade prendeva in considerazione solo l’aspetto perfetto delle origini). In sostanza, quella di Eliade, per Bianchi, sarebbe una concezione univoca della religione e una concezione univoca del sacro, a causa della sacralità di quelle origini che sole danno senso all’esistenza, tant’è che anche la società desacralizzata di oggi, affermava Eliade, sente una profonda nostalgia del sacro. Bianchi invece ritiene la nozione di religione una nozione analogica, non univoca, ove l’analogia si riferisce alla presenza di elementi di difformità insieme a elementi di somiglianza che legano tutti quei fatti che chiamiamo religiosi. Depurata dalle sue caratteristiche postulatorie, la posizione di Eliade tuttavia, ritiene Bianchi, va apprezzata in quanto contraria a ogni riduzionismo a priori dei dati religiosi e attenta a indagare pensiero e prassi religiose in tutte le loro pieghe. Nello studio delle religioni, metodi nuovi si sono affacciati sulla scena, e metodi antichi sono stati rivisitati. Tali metodi sono oggi accomunati sotto l’etichetta di “Scienze delle religioni”, che viene a comprendere diverse discipline che si occupano di religione sulla base di approcci metodologici diversi; altre discipline che, sulla base di metodi diversi da quello storico- comparativo, pure accostano le religioni. L’antropologia religiosa fa riferimento in particolare alla figura e agli studi di Julian Resi, che ha progressivamente elaborato una visione che pone al suo centro la nozione di homo religiosus, ossia dell’uomo come naturaliter religiosus. Le sue ricerche intendono illuminare le tracce dell’homo religiosus nelle diverse culture, a principiare da quella preistorica. La categoria di homo religiosus, sulla quale si fonda nella prospettiva di Ries l’antropologia religiosa, si pone come una dimensione dell’”uomo totale”; l’emergere biologico e storico dell’uomo implica la formazione dell’homo religiosus in quanto sua costitutiva caratteristica. La psicologia della religione è una disciplina psicologica che studia quei comportamenti e quegli atteggiamenti che sono qualificati come religiosi, e cerca di comprenderne i fattori motivazionali. Ha, propriamente, quale oggetto non la religione ma la psiche, sia pure nelle sue manifestazioni religiose La sociologia religiosa ha come oggetto la società, sia pure sotto il profilo delle sue dimensioni e manifestazioni religiose. La storia delle religioni, diversamente, ha come oggetto le religioni; ciò non significa negare la legittimità della psicologia della religione e della sociologia della religione, ma soltanto tener presente che, essendo oggetto delle due discipline la psiche e la società, esse risultano inadatte a cogliere lo specifico del fatto religioso. Scienze che si occupano più espressamente della religione e delle religioni sono la filosofia e la teologia delle religioni. Scopo della filosofia della religione è chiarire la portata filosofica dei problemi e dei concetti religiosi; tale disciplina si interroga sul senso e sul significato della religione, e può legittimamente emettere giudizi di valore e di verità, entro i limiti della ragione, sui fatti religiosi. La teologia delle religioni, invece, designa, nella sua più diffusa accezione, quella parte della teologia cristiana che ha come oggetto e campo di riflessione le religioni non cristiane. Ma l’espressione “teologia delle religioni” può intendersi anche come teologia elaborata dall’una o dall’altra delle varie religioni storiche Di fatto, le grandi religioni offrono ciascuna una riflessione “teologica” in merito alle altre religioni. Qui parleremo della teologia delle religioni come elaborata in ambito cattolico; dunque la teologia delle religioni (non cristiane) è la valutazione alla luce della rivelazione biblica e della tradizione della Chiesa delle religioni e si singoli loro aspetti. Suo compito è offrire i fondamenti teologici che permettono di pensare le religioni nella storia della salvezza. La teologia delle religioni è chiamata a formulare giudizi di valore e di verità sulle religioni e su loro pratiche e dottrine, e a interrogarsi sul significato della pluralità delle religioni in quanto tale. Storicamente, la teologia delle religioni non cristiane si è sviluppata in rapporto agli studi comparatisti dell’800, che hanno portato a una miglior conoscenza delle diverse tradizioni religiose. La questione tra religione cristiana e altre religioni si è posta prima alle chiese protestanti. Si sono delineate, nella prima metà del XX secolo, due tendenze: una prima tendenza, che fa riferimento a H. Kraemer, afferma una irriducibile discontinuità tra il messaggio cristiano e quello delle altre religioni; una seconda tendenza, espressasi per esempio in W. E. Hocking, vede invece una profonda discontinuità nel senso delle esperienze religiose dell’umanità. È soprattutto con il Concilio Vaticano II che viene formalizzato nell’ambito della teologica cattolica il paradigma di una “teologia delle religioni” non cristiane. Le fondamenta di questo paradigma si trovano nel Nostra Aetate, un documento che si pone di fronte alle religioni non cristiane in maniera nuova, per esempio non considerandole più come una realtà unitaria. Tale documento, dopo aver descritto la domanda religiosa come una componente essenziale della natura umana e aver sottolineato il carattere comunitario della religione a partire dalla stessa natura sociale dell’uomo, viene a differenziare le diverse religioni sulla base del loro diverso rapporto con Cristo. Nella prospettiva della missione della Chiesa come “sacramento universale di salvezza” in Gesù, i cristiani sono invitati a un atteggiamento di conoscenza e collaborazione verso i seguaci delle altre religioni; tale documento riflette questa prospettiva, in quanto esso stesso si definisce di “sincero rispetto” verso “quei modi di agire e di vivere”. Questione teologica particolarmente dibattuta nell’ambito della teologia delle religioni non è tanto se gli uomini possano raggiungere la salvezza anche se non appartengono “visibilmente” alla Chiesa cattolica, ma se si possa ancora parlare della necessità della Chiesa per la salvezza, e se questo principio sia compatibile con la volontà salvifica universale di Dio. A questa questione rispondono diversi documenti magisteriali, nei quali, ribadita la necessità della Chiesa per la salvezza si ammette un’azione anche presso gli uomini appartenenti ad altre religioni, viene ribadita dell’azione salvifica di Cristo oltre i confini visibili della Chiesa a tutta l’umanità. In questo specifico senso, la visione teologica delle religioni espresse da queste posizioni non è esclusivista (salvezza solo nel cristianesimo, solo nella Chiesa) ma piuttosto inclusivista. Entrambe le tendenze (esclusiva e inclusiva) si differenziano da una terza, la tendenza “pluralista”, la quale colloca il cristianesimo sul piano delle altre religioni, non solo nella loro portata veritativa, ma anche per quanto concerne il loro valore salvifico, e riconoscendo una pluralità d’itinerari salvifici ugualmente validi, perde il dato dell’assolutezza del cristianesimo e dell’esclusività della mediazione salvifica di Cristo. Con la globalizzazione, negli ultimi decenni, si sono delineate nella teologia cristiana posizioni pluralistiche (nessuna religione può ritenersi vera a fronte della altre che sarebbero false); tra i rappresentanti della “teoria pluralista delle religioni” abbiamo John Hick, teologo presbiteriano che esprime una posizione teologica orientata a ricercare un’unità all’interno delle religioni, allorché l’autore si richiama a una “verità ultima e trascendente” che si rispecchierebbe nelle grandi guide spirituali dell’umanità. Egli rifiuta l’identificazione di una singola figura storica (Gesù) con il Dio vivente, e Cristo viene relativizzato come una delle tante figure ideali che nella storia rinviano al “totalmente altro”. Altri autori rappresentanti della teologia pluralista delle religioni sono P. Knitter e J. Dupuis. Torniamo alla menzione di altre discipline che accostano i fatti religiosi. L’ecologia della religione è l’esame del rapporto che intercorre tra religione e natura, condotto attraverso le discipline degli studi religiosi, della storia delle religioni dell’antropologia della religione. Ma ci sono due importanti limitazioni per gli studi ecologico-religiosi. In primo luogo essi sono applicabili soltanto alle cosiddette culture primitive, in cui l’impatto dell’ambiente sulla cultura ha un peso maggiore di quello della tecnologia. In secondo luogo l’ecologia della religione non può sostituire la storia delle religioni nel discernere il contenuto religioso, la formazione delle credenze religiose e lo sviluppo dei miti e dei rituali individuali. L’etologi intende chiarire aspetti rituali del comportamento religioso umano in rapporto alla ritualità esplicata dagli animali. Gli studi ispirati a tale indirizzo metodologico si sono posti di fonte a categorie classificatorie ormai tradizionali nell’ambito degli studi religiosi, quali quelle di mito, rito, sacrificio. Le categorie sopra evocate di mito, rito e sacrificio sono state oggetto in tempi recenti di una teoria interpretativa formulata da W. Burkert, studioso della Grecia e del Vicino Oriente. Nella sua indagine dei miti, ovvero di quei “racconti tradizionali”, nel senso di narrazioni significanti per il gruppo umano che li ritiene degni di essere tramandati, egli intende mostrare come i miti esprimano delle sequenze basate su un complesso programma di azioni, il quale sarebbe desunto dalla biologia. La struttura peculiare del mito in quanto tale, sarebbe espressa da una serie di imperativi: “esci, chiedi, trova, combatti per quello che hai trovato, prendi e fuggi”. Burkert ritiene la categoria di rito primaria rispetto a quella di mito e fondante di quest’ultima. Nella propria interpretazione del rito, lo studioso fa largo spazio al sentimento della paura, che il rito susciterebbe e verrebbe a trasferire dalla realtà a una sfera simbolica, appunto quella rituale, per poter così padroneggiare, in qualche misura, la paura stessa. In sostanza, nel rituale religioso si esprimerebbe il bisogno di rappresentare sentimenti di ansia e di paura per poterli controllare e dirigere verso una soluzione positiva. Quanto poi a quello specifico atto rituale che è il sacrificio cruento, la proposta interpretativa di Burkert vuole porsi come universale; egli viene a identificare nella aggressività, ovvero nella violenza dell’uomo sull’uomo, l’atteggiamento primario e costitutivo dell’uomo, e insieme l’origine dell’atteggiamento religioso. Il sacrificio cruento è l’atto religioso che manifesta e sancisce l’aggressività, e l’esperienza fondamentale del sacro è l’uccisione delle vittime: “l’homo religiosus agisce e diventa conscio di sé in quanto homo necans”. Tali proposte interpretative suscitano riserve da parte dello storico delle religioni. Innanzitutto per la categoria di mito la formula interpretativa di Burkert vuole proporsi valida per tutti i miti, mentre nel concreto non riescono a essere ricondotte a essa alcune categorie di miti come i miti delle origini, che non appaiono riconducibili alla sequenza di “programmi di azione”. Per quanto concerne la categoria di rito, e nello specifico di rito sacrificale, anche taluni riti noti all’antropologo e allo storico delle religioni non contemplano aggressione o spargimento di sangue, né si lasciano ingabbiare nella teoria del legame fondante tra sentimento della paura e rito religioso. Continuando con la lista delle altre discipline che si sono accostate alle religioni, sulla linea in cui si colloca l’ultima che abbiamo menzionato, ovvero quella di Burkert, una linea tesa a definire che cosa sia religione per il tramite dell’indagine di come e perché essa nasca e permanga, si pongono anche le ricerche che le neuroscienze dedicano al fenomeno religioso. Si tratta di un nuovo approccio metodologico diffusosi a partire dagli anni ’90 che prende il nome di Scienza cognitiva della religione. Essa intende individuare i meccanismi cognitivi che starebbero alla base dell’elaborazione, della trasmissione e dell’accoglimento delle idee religiose. Nello specifico tale approccio intende rispondere al perché ricorrano caratteristiche comuni nelle religioni e che cosa renda le idee religiose così attrattive per le menti umane. Tuttavia tale indirizzo metodologico, riservando attenzione pressoché esclusiva al dato razionale del fatto religioso, tralasciando la componente emozionale, sentimentale, … ne offre una rappresentazione meramente intellettualistica, e dunque riduttiva. Inoltre tale indirizzo trascura quasi completamente il significato e il ruolo delle componenti rituali e cultuali, che invece svolgono un ruolo fondamentale negli orizzonti religiosi. Gli studi di genere (Gender Studies), poi, applicati ai fenomeni religiosi, declinano secondo le proprie peculiari prospettive la dialettica potere/religione che offrirebbe la chiave d’interpretazione dei fatti religiosi come fatti in cui risulterebbero predominanti e determinanti le dinamiche di potere. Tali studi tendono a mostrare come le realtà religiose siano frutto del potere gestito da uomini al pari dell’interpretazione di quelle stesse realtà. Tali studi tendono anche a promuovere la donna come soggetto degli studi stessi e oggetto dei medesimi. In tal senso vengono definiti “studi femministi”. Un altro ambito d’indagine nel quale ha trovato applicazione la dialettica potere/religione è quello degli studi post-coloniali, che applicano tale dialettica nel rapporto tra l’Occidente e le culture “altre”. Tali studi affermano la necessità di dare più spazio alla voce dei locali come contraltare a quella degli occidentali. L’oggetto della Storia delle religioni L’oggetto della storia delle religioni è costituito da quei fatti, contesti e processi storici definiti “religiosi”. La difficoltà a definire preliminarmente l’oggetto della Storia delle religioni scaturisce dalla natura stessa del metodo della disciplina in questione (storico-comparativo), basato su una ricerca positivo-induttiva. Infatti, una ricerca positivo-induttiva parte dai dati e arriva a categorizzazioni e definizioni, e non viceversa. Lo storico si basa dunque su un metodo positivo-induttiva, ovvero egli muove dall’esame dei concreti fatti storici, i quali gli si offrono in tutta la loro molteplicità e diversità. Basti pensare alla diversità tra, per es., un contesto come quello cristiano (monoteistico) e u contesto come quello proprio di molte popolazioni illetterate caratterizzate dalla credenza in una molteplicità di entità sovrumane, non assimilabili agli dei politeistici, ma identificabili piuttosto come “spiriti”. Di fatto, in entrambi i casi emerge comunque uno degli aspetti tipici del fatto religioso, ossia l’idea che l’uomo possa instaurar dei rapporti, variamente qualificati caso per caso, con entità potenti, diverse da sé, non visibili né tangibili ma pure presenti nella realtà che lo circonda e capaci di intervenire nella sua esistenza. La personalità di tali potenze può essere nettamente definita, come nel caso di un dio di tipo monoteistico, o assai sfuggente, com’è quella degli “spiriti”. Con tali potenze l’uomo ritiene di poter instaurare un rapporto che si concretizza in delle specie di azioni rivolte a entità pertinenti a un livello diverso dall’umano, e pure ritenuto capace di influire più o meno radicalmente sulla vita dell’uomo e sullo scenario cosmico in cui egli muove. In sostanza, la constatazione della presenza di credenze e comportamenti atti a mettere in rapporto l’individuo e il gruppo cui esso appartiene con potenze pertinenti a un livello altro da quello umano, ritenute esistenti e capaci di operare efficacemente nella vita cosmica e umana, consentirà allo studioso di collocare entrambi i fenomeni tra i fatti religiosi, anche se, sotto il profilo dei contenuti, essi appaiono così diversi tra di loro. Un primo aspetto che è apparso identificare la qualitas peculiare di quei fenomeni comunemente definiti “religiosi” è stato identificato, in taluni studi storico-religiosi, nei termini di una “rottura di livello”, espressione proposta da Mircea Eliade. In una prospettiva religiosa si ammette l’esistenza di un “al di là” che è insieme un supra, ossia una realtà che sovrasta per potenza l’uomo e lo condiziona in vario modo, e un prius, ossia una realtà che precede l’uomo stesso e la realtà fenomenica in cui egli si muove. In altri termini, si tratta del livello occupato da potenze non umane, sovrumane o extraumane, a vario titolo personali, ossia dotate di una propria individualità e capaci di agire autonomamente, sia pure a titolo assai diverso. Si possono distinguere i contesti religiosi nei quali il supra attuale si identifica con il prius, dai contesti nei quali il supra attuale non si identifica con il prius e, viceversa, il prius non si identifica con il supra attuale. Buon esempio dei primi è costituito dai contesti religiosi monoteistici, caratterizzato dalla nozione di “creazione”, mentre un esempio dei secondi è dato dai contesti di tipo teo-cosmogonico. Infatti nei primi la medesima potenza, ossia il Dio creatore e signore della storia, è ritenuto attivo anche agli inizi, e non solo nell’attualità; nei secondi, invece, le potenze presenti sulla scena agli inizi sono altre rispetto a quelle attuali. Buon esempio delle credenze religiose che non contemplano una sovrapponibilità tra supra attuale e prius è costituito dalle narrazioni mitiche proprie di popoli tradizionali, le quali narrano di entità sovrumane che, dopo aver dato vita alla realtà attuale, si allontanano in regioni lontane, delegando, in una condizione di oziosità. Ma torniamo alla nozione di “rottura di livello”. L’aspetto che appare qualificante un quadro definibile religioso, ossia la sua peculiare qualità definibile come “rottura di livello”, nel senso del suo riferirsi a un supra e a un prius di presenze non umane, efficaci nel condizionare la vita umana, all’origine e nella attualità, si esprime su due piani: il piano che si può definire “credenza”, ossia della formulazione di una serie di nozioni definite “miti”, e quello costituito dalla pratica rituale. Ciò che determina la specificità del fenomeno religioso è la connessione dialettica fra credenze e riti/culti, i quali (riti e culti) sono atti a mettere in religiones, ovvero le pratiche religiose tradizionali, saranno sempre difese da lui in quanto pontefice. Tutta la religione del popolo romano (“omnis populi Romani religio”) era divisa in riti e auspici, a cui si aggiungeva una terza suddivisione: le predizioni degli interpreti della Sibilla e degli aruspici. Cotta, rivolgendosi a Balbo, gli domanda una giustificazione razionale della religione, essendo lui un filosofo, mentre afferma che lui, in quanto pontefice, deve credere anche senza nessuna prova. “Omnis populi Romani religio” è un complesso di pratiche tradizionali, tramandate nei secoli attraverso le successive generazioni, in cui gli elementi fondamentali sono i riti e gli auspici, cioè la prassi sacrificale, consistente soprattutto nel sacrificio cruento, e l’osservazione dei segni attraverso i quali si manifestava la volontà degli dei affinché, correttamente interpretati dal collegio sacerdotale degli augures, guidassero il comportamento degli uomini a livello sociale, ovvero regolassero l’azione dello Stato e non del singolo individuo nei confronti dei propri dei. L’autore era rappresentante ufficiale della divinazione pubblica, e quindi affermava con decisione, attraverso Cotta, la necessità del corretto mantenimento della pratica degli auspicia: solo interpretando correttamente i segni della volontà divina, la comunità può agire in conformità con tale volontà, da cui dipende la propria sussistenza. L’auspicium era un elemento essenziale della vita cittadina, sicché non si intraprendeva alcuna impresa di rilevanza sociale e militare se prima gli àuguri non avessero interpretato la volontà divina per sapere se la divinità approvava o meno quella iniziativa. Si trattava in concreto di decidere se in quel particolare momento bisognava compiere una certa impresa perché gli dèi erano favorevoli, o meno. Il sacrificio era l’atto di omaggio che l’uomo compiva nei confronti della divinità per riconoscerne il potere e per magnificarlo; era la tecnica che permetteva all’uomo membro di una comunità di inserirsi nel piano divino preordinato, che deve conoscere per mantenere integro quel rapporto armonico tra i due livello che si definisce pax deorum. Il terzo elemento evocato nel discorso di Cotta sono le predizioni degli interpreti della Sibilla e degli aruspici. La scienza dell’aruspicina era la scienza divinatoria tipicamente etrusca assunta dai romani, e i Libri sibillini erano quel complesso di scritti contenenti gli oracoli divini. Cotta chiede al filosofo una spiegazione razionale della religio, ossia una dimostrazione logica dell’esistenza degli dèi, mentre alle tradizioni dei padri non richiede alcuna spiegazione; a esse dà un pieno assensoposizione tipica dell’intellettuale romano del I a.C. Se sono le scuole filosofiche a interrogarsi in merito alla verità del divino o degli dei, le religiones del mondo romano sono invece estranee alla questione veritativa. In Grecia e poi a Roma, infatti, la riflessione sulla dimensione veritativa di una religione o, meglio, degli dei, perteneva alla sfera della filosofia e non della religione. Il cristianesimo di lingua latina, invece, si proporrà, diversamente dalle tante religiones diffusesi nell’impero, come religio vera. Nel passaggio dall’orizzonte politeistico greco-romano a quello monoteistico il termine di religio si carica di una ineliminabile valenza veritativa. L’espressione vera religio, con cui il cristianesimo si autodefinì, in sostanza univa i due aspetti che nell’ambito dei politeismi del mondo circummediterraneo antico erano distinti: la ricerca della verità e la pratica della religio. Lo stretto legame che si offre, invece, tra la religio cristiana e la questione della sua verità, è attestato anche dall’uso che alcuni autori cristiani fecero del termine philosophia, per designare la religione cristiana stessa. L’espressione vera philosophia, ove applicata al cristianesimo, mette l’accento sull’incidenza dell’elemento della ricerca razionale nella nuova religione, e sulla distinzione tra una ricerca che approda alla verità, e quelle proprie delle tante scuole filosofiche pagane che in misura maggiore o minore si avvicinavano alla verità senza mai raggiungerla pienamente, e che dunque non potevano pregiarsi dell’appellativo di vere. Agli autori ecclesiastici e ai Padri della Chiesa si deve il sorgere e lo svilupparsi di una filosofia cristiana; il cristianesimo per i Padri, con la sua intrinseca razionalità, rappresentava la risposta alla ricerca filosofica di tanti secoli. Il significato del termine “filosofia” era diverso dall’attuale, e rappresentava il termine che meglio poteva esprimere quella sintesi tra aspetti dottrinari e condotta di vita, che è venuto a esprimere il termine religione nel suo percorso storico. Del resto, nel mondo greco-romano era all’interno della filosofia, e non delle religiones, che si poteva trovare un atteggiamento analogo a quello che in ambito cristiano era la conversione, nel momento in cui la filosofia richiedeva un cambiamento totale da uno stile di vita considerato inferiore a un altro, superiore. La filosofia, inoltre, aveva i suoi “uomini santi”, come Socrate, Pitagora o Platone; in sostanza essa occupava un posto analogo a quello che nei secoli successivi avrebbe occupato la religione. Una fonte cristiana che offre espliciti echi del De natura deorum, e in particolare della posizione di Cotta, è l’Octavius di Minucio Felice e, in esso, in particolare la posizione difesa dal pagano Cecilio. L’opera è una delle prime del cristianesimo latino, scritta nei primi decenni del III d.C e appartiene alla tradizione letteraria “apologetica”, in quanto volta principalmente, ma non esclusivamente, alla difesa del cristianesimo. L’Octavius si presenta come un dialogo fittizio tra tre amici: Minucio, pagano convertito al cristianesimo; Cecilio, pagano, e Ottavio, cristiano. Mentre lo scrittore funge da arbitro, i due esprimono le proprie visioni religiose. Cecilio, pagano, scettico e scrupoloso difensore della religione tradizionale, incara una posizione tipica dei rappresentanti dello scetticismo antico. Dopo il prologo, il pagano Cecilio inizia col difendere la tendenza scettica del pensiero antico e rifiuta le pretese di verità avanzate dai cristiani, da lui definiti ironicamente “campioni di verità”. Cecilio suggerisce che tutto sia determinato dalla fortuna o dal caso; o la verità che rimane per noi incerta è occultata soffocata, o, ciò che è piuttosto da credere per il pagano, attraverso i casi vari e instabili, sciolta da ogni legge, la fortuna esercita il suo dominio. Cecilio afferma dunque il dominio su tutto del caso. L’affermazione “dogmatica” di Cecilio sul dominio del caso distingue nettamente la sua posizione da quella del suo modello letterario, ossia lo scettico Cotta. Al riguardo, allora, taluni critici ritengono che molto debba dipendere dal tipo di interlocutore che Cecilio si trovava davanti: gli interlocutori di Cotta erano un epicureo e uno storico, mentre l’interlocutore di Cecilio è un cristiano; Cecilio si trova dunque non solo nella necessità di contrapporre ai cristiani che parlavano di religio vera e Dio vero l’impossibilità scettica di giungere al vero, e dunque la necessità della sospensione del giudizio, ma anche nella necessità di contrapporre al Dio provvidente dei cristiani un principio dominante in maniera cieca e arbitraria tutta la realtà, e al quale ricondurre le cause degli avvenimenti. Cecilio non è “figura” di una posizione filosofica, ma è difensore della religio tradizionale e della sua legittimità; a questa legittimazione della religio tradizionale risultano perfettamente funzionali sia l’affermazione scettica (quando si parla di incerta natura) sia l’affermazione dogmatica (fortuna certa). Viene, infatti, ad affermare Cecilio: “poiché dunque o la fortuna è un dato incontrovertibile o la natura non offre alcuna certezza, quanto sarebbe più rispettoso e opportuno per i campioni della verità accogliere l’insegnamento degli antenati piuttosto che voler conoscere troppo da vicino le potenze soprannaturali”. In questa posizione di Cecilio si esprime la divaricazione tra conoscenza e culto, e sembra affacciarsi il tema della carica potenzialmente distruttiva, riconosciuta da Cecilio, alla conoscenza nei confronti della religione. Poiché tutto è incerto, bisogna rispettare le antiche tradizioni religiose, come fanno i diversi popoli con le loro e come fanno i Romani con la religio ereditata dai padri e con le religiones straniere accolte. La pratica tutta romana di accogliere, e talora sollecitare, l’ingresso di dèi stranieri nel proprio pantheon e del loro culto tra i culti praticati dal civis romanus, afferma Cecilio, ha fatto grande Roma. L’idea qui espressa è che il culto degli dei sia il garante della prosperità dei popoli, e che anche la grandezza di Roma sia dovuta al culto degli dei. Le diverse tradizioni religiose, compresa la romana, hanno l’antichità quale criterio non di verità, che è irraggiungibile, ma di validità. In più, il culto degli dei di Roma e di quelli degli altri popoli che via via lo stato romano ingloba, si rivela “utile” perché, argomenta Cecilio, operando così, Roma è arrivata a dominare il mondo. In sostanza, tutto il discorso di Cecilio è, nell’essenza, un rifiuto delle pretese di verità cristiane. Vi sono delle differenze tra le posizioni di Cotta e di Cecilio; in Cotta le personali convinzioni filosofiche, scettiche, sono giustapposte al suo radicamento nella tradizione religiosa romana e al suo ossequio verso le diverse componenti di questa, in particolare sacrifici e auspici, per il tramite delle quali ottenere e mantenere il favore degli dei. Invece in Cecilio, la professione scettica costituisce il retroterra ideologico che porta all’accettazione della religio tradizionale, del mos maiorum. Non potendo conoscere il vero, ci si ferma al verosimile, che è la religio antica, rivelatisi, per di più, utile. Cecilio colora il suo ragionamento con un tono di rassegnazione: dal momento che non si può conoscere nulla, l’unica soluzione è quella di adattarsi alla religione tradizionale. Il discorso del pagano Cecilio appare come una fonte esemplare, ma non certo unica, di una posizione qualificante l’orizzonte religioso greco-romano di fronte alla proposta cristiana: in quello non sono gli dei che hanno creato lo Stato, ma è lo Stato che ha istituito gli dei, la cui venerazione è essenziale per l’ordinamento dello Stato e per il buon comportamento dei cittadini. Ovvero: religio e conoscenza razionale del reale si configurano come due sfere separate; la religio non trae la sua giustificazione dalla realtà del divino, ma dalla sua funzione politica. Nell’orizzonte politeistico della Roma repubblicana e poi imperiale, il criterio di validità di una religio era, insieme alla sua antichità, la sua efficacia nel tutelare la collettività e le sue istituzioni. Staccata dalla verità, la religio è consuetudine, ossia insieme di atti e di regole consacrati da un uso di lunga data e ritenuti efficaci. A fronte di questa situazione, Tertulliano deriva la posizione cristiana dicendo che Cristo ha affermato di essere la verità, non la consuetudine. Il termine consuetudo, impiegato da Tertulliano in relaziona alla religione tradizionale di Roma, potrebbe essere reso come “moda culturale”. Tertulliano (ca. 150/160-240 d.C.) , a difesa del cristianesimo, compose intorno al 197 d.C due opere polemiche: Ad Nationes, ovvero “alle genti”, ossia alle popolazioni che praticavano i culti politeisti e Apologeticum, ossia un’apologia a difesa della nuova realtà religiosa cristiana, definita già nella prima di queste opere come “religio nostra”. Si parla della Romana religio, alla quale si contrappone vera religionem Dei veri (“la vera religione del Dio vero”), ossia quella cristiana. Tertulliano formula chiaramente la nozione di tre distinti contesti storico-culturali, caratterizzati ciascuno da una forma di religio egualmente distinta e specifica, definibile rispettivamente come Iudaica, Romana e religio nostra; tre diverse modalità di rapporto uomo-divinità, definibili in base all’appartenenza “nazionale” nel caso di giudei e romani, e in base a un criterio di “verità” nel caso della religio del nuovo popolo cristiano. Veniamo ora ai due scrittori cristiani in opposizione alla connessione additata da Cicerone di religio con relegere, propongono derivazioni diverse. Innanzitutto Lattanzio, che, come Tertulliano e Arnobio, è un convertito dal paganesimo. Egli redasse le Divinae Institutiones (304-311), un’opera che ha come oggetto le institutiones divine, cioè tutto il complesso di insegnamenti e precetti che definiscono la vera religio. Egli intende mostrare ai suoi interlocutori pagani che il nuovo messaggio è una sintesi organica di religio e di sapientia. L’autore addita la via della salvezza nell’abbandono dell’errore e nella pratica della “vera religione”; infatti, se noi siamo generati, è a condizione di offrire i giusti e dovuti ossequi al Dio che ci ha generati. A questo Dio noi siamo connessi strettamente e legati da un vincolo di pietà, dal che la religio stessa prese questo nome, non come ha interpretato Cicerone da “riprendere”. L’autore poi cita il passo del De natura deorum II, 28, contestando l’opposizione tra superstitio e religio, in quanto, per Lattanzio, entrambi atteggiamenti che comunque riguardano il culto delle false divinità del politeismo. All’opposizione tra superstitio e religio egli sostituisce l’opposizione fra religio come vero culto e superstitio come falso: i superstiziosi sono dunque quelli che onorano dèi numerosi e falsi, i religiosi coloro che rivolgono le preghiere al Dio unico e vero. Secondo Lattanzio, dunque, religio deriva da religare, “legare strettamente”; ciò implica il riconoscimento che l’uomo è come legato a un Dio unico, che si contrappone alla pluralità di dii dell’orizzonte ciceroniano e in genere politeistico, a un Dio che, afferma Lattanzio, ci ha generato. Si delinea una prospettiva nella quale al primario dato “teologico” consistente nel riconoscimento di ordine intellettuale da parte dell’uomo dell’esistenza di un Dio unico e creatore, e conseguentemente del derivare da Lui l’esistenza, si lega strettamente il dato pratico-cultuale consistente nel rendere a Dio il debito ossequio non solo interiormente, ma anche nelle forme esterne del culto. In tale prospettiva, religio, pur non identificandosi in una prassi cultuale, ingloba in sé anche questa prassi, intesa come espressione “visibile” di quell’atteggiamento interiore di pietà con cui l’uomo si sente legato. L’ultimo autore cristiano che occorre menzionare a testimonianza dell’evoluzione del significato di religio è Agostino di Ippona (354-430) e la sua opera De civitate Dei (la città di Dio), composta fra il 413 e il 426. Agostino riprende la connessione ciceroniana fra religio e religere o relegere, ma le attribuisce un altro significato, che avvicina il verbo al religare lattanziano. Si ha l’uso di un verbo, religere, che qui viene usato come sinonimo di relegere, ma in un’accezione diversa da quella attribuita ad esso da Cicerone. In una sorta di ispirazione “comparatista” egli propone una serie di confronti fra i termini latini e quelli greci pertinenti alla sfera del culto e delle credenze religiose, mostrandone analogie ma anche differenze. Parlando del culto rivolto a Dio, da tributarsi a Lui sia con le pratiche rituali sia nell’intimo della coscienza, egli afferma: “Scegliendolo, anzi scegliendolo di nuovo (religentes), perché l’avevamo perduto scartandolo dalla nostra scelta; scegliendolo di nuovo (religere) dunque, poiché proprio da questo si fa derivare il termine religio, tendiamo a lui con una scelta di amore”. Il verbo religere, dunque, nell’ottica agostiniana si pone come equivalente di relegere, inteso nel senso di “scegliere nuovamente” (re-eligere), e non nel senso ciceroniano di “scegliere attentamente”, “ri-osservare”. Questa “nuova scelta” si spiega nelle parole di Agostino, perché “lo avevamo perduto trascurandolo”: un’umanità, dunque, che alle origini era in diretto rapporto con Dio, ma che ha abbandonato il suo creatore cadendo nel peccato. L’uomo pertanto sceglie di nuovo Dio in quanto l’aveva perduto, trascurandolo. Nel testo di Lattanzio si parlava della pietas che lega l’uomo a Dio, mentre in Agostino il discorso si fa ancora più intimo: è la dilectio, l’affezione che lega l’uomo alla divinità “affinché giungendo a lui possiamo avere riposo”. Di fatto, nell’immagine del ritorno a Dio inteso come riposo e insieme raggiungimento della perfezione, è espressa la nozione cristiana di Dio come il fine dell’uomo in cui questo può riposare beatus, ossia raggiungere la felicità. Va poi ricordato che nel de vera religione Agostino registra la comune convinzione che il termine religio derivi dall’idea del legare, e identifichi come legame quello che unisce le anime a dio. Nelle Retractationes dichiara di preferire tale etimo all’altro che fa derivare religio da re-eligere, ovvero “scegliere di nuovo”. La Storia delle religioni, in quanto scienza storica si qualifica per l’uso (prevalente) del metodo induttivo. Il che vuol dire che lo storico delle religioni non partirà da definizioni date di religione. Del resto, l’estrema varietà di posizioni individuabili all’interno del campo d’indagine della disciplina impedisce l’utilizzo di una definizione rigida e sistematica di religione. Ma se una definizione previa, rigida di religione non si può dare all’inizio di una ricerca storica, lo storico delle religioni avrà purtuttavia bisogno di una definizione di religione, al fine di orientare la propria ricerca. Si tratta dunque di partire dall’esperienza culturale dello storico medesimo, il quale è consapevole del fatto che nel proprio ambiente culturale e nella tradizione storica che lo ha plasmato diversi fenomeni sono per opinione comune ritenuti religiosi. Egli, allargando progressivamente la propria esperienza a culture sempre più lontane nel tempo e nello spazio, indagherà in esse quei fenomeni che presentano analogie più o meno stringenti ma sempre qualificanti con ciò che nel suo ambiente culturale è considerato “religione”. Il criterio dell’analogia non implica identità di contenuti e di funzioni, ma neppure radicale diversità, e permette di situare in una categoria estremamente ampia e diversificata, ma sostanzialmente omogena, fenomeni apparentemente diversi. Pertanto, legittimamente, egli chiamerà religiosi quei fenomeni che, riscontrati in aree culturali affini o diverse rispetto a quella in cui egli si è formato, offrano significative affinità con ciò che nella sua cultura d’appartenenza, ovvero la cultura occidentale moderna, è percepito come religione. Ma tali affinità non saranno sempre le stesse, e potranno essere diverse volta per volta: affinità basate su uno specifico contenuto, su istituzioni, … . Il che vuol dire che “religione” non esprime un contenuto o una funzione o una forma (o atteggiamento) che siano sempre e comunque presenti nella molteplicità e disparità dei concreti storici a cui viene applicato il termine “religione”; illusoria è la ricerca di un denominatore comune tra le religioni. Il termine e la nozione di “religione”, se non hanno un significato univoco, non hanno neppure un significato equivoco, ma hanno invece un significato analogo. L’analogia implica la presenza di aspetti comuni, vale a dire la presenza di affinità profonde e di non meno profonde disparità, formali, di contenuto e di funzione. La religione non è un genere di cui le varie religioni storiche siano delle specie, come se tutto ciò che si trova nel genere si ritrovi anche nelle specie. Bianchi afferma che l’analogia è “un’analogia di partecipazione, senza un analogatum princeps; piuttosto un complesso di storico-religiosa ha piuttosto il compito di indagare e circoscrivere, con gli strumenti dell’indagine positivo-induttiva, ossia su base documentaria, quella componente di un quadro culturale che, in senso analogico rispetto alla nozione di religione elaborata nel corso della tradizione occidentale di matrice antico-romana e cristiana, può essere denominata appunto religiosa. E ciò in base a quella presenza di qualificati aspetti analoghi e di differenze che la comparazione permette di individuare. Concludiamo. L’indagine storico-religiosa intende contrastare ogni forma di riduzionismo e affermare l’irriducibilità del fenomeno religioso alle altre e diverse componenti culturali del quadro sociale nel quale esso si manifesta e con le quali è connesso, come pure l’irriducibilità dell’atteggiamento religioso a singole e specifiche facoltà umane, siano esse il raziocinio o l’emozione o il sentimento, e così via. Una ricerca storica e storico-comparativa che si avvalga in maniera critica di una nozione di religione analogica e storicamente condizionata, potrà offrire un argine alle tendenze decostruzioniste che sono oggi particolarmente diffuse, e che vengono a colpire nozioni di lungo e consolidato uso scientifico come quelle, per esempio, di politeismo, monoteismo, induismo e religione. In relazione a quest’ultima, la deriva decostruzionista sorge da un lato a seguito delle difficoltà manifestatisi nella ricerca di una definizione “univoca” di religione; dall’altro lato a seguito dell’acquisizione di una coscienza critica nei confronti dell’etnocentrismo che spesso avrebbe caratterizzato gli studi religionistici. In direzione decostruttiva si è posto un recente indirizzo di studi che in Italia fa capo a Sabbatucci e che propone la “vanificazione” della religione. Con questa espressione si intende affermare che, essendo la nozione di religione un prodotto della cultura occidentale di matrice cristiana, tale nozione non può essere applicata a culture altre e diverse da questa. In ambito internazionale, va ricordata la critica mossa alla nozione di religione da parte di W. Cantwell Smith. Per lo studioso, “religione” è quella “tradizione cumulativa” che esprime attraverso elementi esterni e osservabili l’aspetto interno costituito dalla fede personale nella trascendenza. Eric J. Sharpe critica l’uso di studi della categoria denominata “religione”, la quale per lui risulta una costruzione intellettuale. Jonathan Z. Smith giunge ad affermare che la religione è esclusivamente una creazione della ricerca dello studioso. In sostanza “religione” non è una categoria autonoma, ma è una costruzione analitica dello studioso. Altri studiosi come Timothy Fitzgerald pure suggeriscono l’abbandono del termine “religione”, in quanto utilizzarlo sarebbe una ennesima espressione del colonialismo occidentale; in sostanza quella di “religione” sarebbe una categoria ideologica creata dall’Occidente per i propri interessi. Lo studioso propone di puntare l’attenzione sul solo studio del rituale, nel quale si esprimerebbero adeguatamente i valori di una cultura. Ninian Smart propone di usare i termini indigeni e non quelli di matrice occidentale e in particolare cristiana per indicare precise realtà religiose al di fuori di tali contesti; di non usare il termine “religione” ma altri termini, quali worldview (visione del mondo), intendendo con questo termine un sistema di credenze che, attraverso simboli e azioni, mette in moto i sentimenti e i desideri degli esseri umani. Il pericolo, additato da tale linea interpretativa, di un uso acritico del termine religione per contesti altri e diversi da quello cristiano occidentale, e di più, il pericolo di un uso che risulterebbe espressione di un nuovo “colonialismo” occidentale, sembra, tuttavia, possa venire evitato ove si abbia una precisa coscienza che la nozione di religione che si va usando, oltre che storicamente condizionata, è anche una nozione analogica, non univoca. La nozione analogica di “religione” può essere pertanto usata per designare fenomeni che, in contesti storico-culturali più o meno lontani dalla matrice occidentale, offrano con ciò che nell’occidente moderno è intesto per “religione”, e con questo termine espresso significative analogie. Intimamente legata alla identificazione della religione come una realtà analogica è, nella riflessione di Bianchi, l’identificazione della religione come un “universale storico” o un “universale concreto”. Infatti, la ricerca storico- comparativa constata la diffusione universale della religione, nel senso analogico sopra illustrato. La religione, sulla base di quanto detto, non sarà da intendere come un esteso e articolato universale concreto o storico. Dunque, “universale” in relaziona alla diffusione di questi aspetti comuni, e “storico” o concreto perché si tratta di fatti storici, i fatti religiosi, aperti alla verifica storica. L’universalità del fatto religioso, nell’ambito della storia delle religioni, è constatata dalla ricerca storico-comparativa, e dunque affermata per via induttiva. Diversamente accade in altre discipline che si occupano di religione e religioni sulla base di una certa impostazione fenomenologica, la quale fa della religione un prodotto dell’homo religiosus, e dunque un universale. Il metodo della Storia delle religioni Una possibile definizione della disciplina così suona: la Storia delle religioni è una scienza storica e più precisamente storico- comparativa il cui oggetto è costituito da quei fenomeni che, manifestatisi nell’universalità del tempo e dello spazio, vengono, con termine che lo studioso farà oggetto di una problematizzazione, qualificati come “religiosi”. In quanto scienza storica, ovvero fondata sul metodo storico, e più precisamente storico-comparativo, essa studia il particolare e il concreto storico, ciò che è esistito e si è manifestato. E lo studia nel concreto del divenire storico, ovvero non solo nel suo manifestarsi ma anche nel suo divenire, nonché nel suo trovarsi vitalmente situato in un contesto storico che, a sua volta, si identifica come un processo storico. A tale caratteristica della ricerca storica si riferisce Pettazzoni, il quale afferma che “ogni phainomenon è un genomenon”. Tale espressione significa che per comprendere un qualsiasi fatto culturale e dunque anche i fatti religiosi dobbiamo ricostruirne la genesi e seguire gli sviluppi. Con essa, Pettazzoni vuole opporre alle analisi fenomenologiche la necessità dell’interpretazione storica. In quanto scienza storica, inoltre, essa è nutrita di filologia, intesa nel senso di attenzione alle fonti e di critica delle fonti (scritte, orali, archeologiche, monumentali e iconografiche). Per quanto concerne le fonti orali, vanno fatte alcune precisazioni. Ad esse, prevalentemente, si deve affidare lo studio delle religioni dei popoli non-letterati. Pur se una relazione viene presentata come fedele resoconto di quanto espresso da componenti o qualificati rappresentanti di un gruppo “primitivo”, può accadere che chi trascrive tenda a sovrapporre le proprie convinzioni a quelle espresse dal “primitivo”. Anche lo studio delle fonti orali, dunque, implica una critica delle fonti. La ricerca propria della Storia delle religioni comporta anche il ricorso a quelle che venivano dette “scienze ausiliarie” della storia, ovvero a quelle discipline (archeologia, paleografia, …) che, sorte ai margini e in funzione del lavoro storico e assurte successivamente alla dignità di discipline autonome, indagano documenti e fonti di diverso genere. La Storia delle religioni dunque muove dall’analisi di specifici fatti, quelli tradizionalmente definiti “religiosi”; tali fatti vengono analizzati e interpretati da essa, in primo luogo, con attenzione alla loro contestualizzazione. Poi essa studia tali fatti nelle loro manifestazioni e nel loro sviluppo storico, indagando le loro origini, e sfocia nella comparazione. Per comparazione, lo storico delle religioni intende sia quella verticale (“ogni phainomenon è un genomenon”), sia quella orizzontale, che si ha comparando un fatto con altri offerti da situazioni analoghe. Il metodo storico-comparativo, capace di cogliere somiglianze e differenze tra i fenomeni religiosi, è chiamato anche a rendere ragione, una ragione “storica” delle une come delle altre. Esso, nel tentativo di interpretare le analogie che intravede tra fenomeni storici diversi, sarà chiamato a pronunciarsi o nel senso della diffusione a partire da un’origine unica dei fatti studiati (monogenesi), allorché, per esempio, si constati la presenza di una religione nella genesi di un’altra; oppure nel senso di sviluppi paralleli e indipendenti a partire da più eventi originanti quei fatti stessi (poligenesi). Per Pettazzoni, l’approccio storico-comparativo doveva consistere in una comparazione che, superando il momento descrittivo e classificatorio, valesse a stimolare il pensiero alla scoperta di nuovi rapporti e all’approfondimento della coscienza storica. Una comparazione, dunque, storica, tra fatti ma anche, e soprattutto, tra contesti e processi storici; ovvero una comparazione che avviene tra immagini “in movimento”. Brelich affermava che ciò che è importante è che lo storico delle religioni studi una data religione come storico delle religioni, e non come storico della civiltà corrispondente; che la sua problematica e il suo metodo siano quelli della storia delle religioni; un metodo essenzialmente comparativo, anche se oggi nella comparazione lo studioso deve affidarsi alle ricerche dei suoi colleghi specializzati in altri settori storici e filologici, ma ugualmente storici delle religioni. Scopo della comparazione non è dunque identificare cose disparate, ma distinguere cose altrimenti confuse, individuandone lo specifico. Il metodo storico-comparativo non è teso ad “appiattire” tutte le religioni sullo stesso piano; al contrario esso appare uno strumento atto a meglio distinguere, ovvero comprendere, le singole religioni, illuminando tramite la comparazione ciò che costituisce lo specifico di esse; Turcan in tal senso diceva: “Il faut comparer pour distinguer, distinguer pour comprendre”. La fenomenologia religiosa opera sulla base della comparazione come la storia delle religioni, ma mentre in quest’ultima la comparazione serve, soprattutto, a individuare in ogni singola formazione religiosa ciò che vi è di specifico e di nuovo sullo sfondo di ciò che invece l’accomuna ad altre formazioni parzialmente affini, in fenomenologia la comparazione serve soprattutto a individuare ciò che tra formazioni storiche diverse vi è di strutturalmente comune. In sostanza, la fenomenologia, comparando tratti morfologico-formali decontestualizzati e destorificati, rischia di vedere come simili fenomeni la cui somiglianza è soltanto il riflesso illusorio di processi di sviluppo diversi, e di vedere come diversi fatti che dietro una diversità esteriore o di superficie adombrano una sostanziale omogeneità di processi. Essa diventa antistorica nel momento in cui cerca di ricostruire strutture atemporali comuni alle religioni. I fenomenologi della religione sono più propensi a cogliere un’unitarietà dietro la diversità, e pertanto a concepire la religione come concetto univoco, laddove gli storici delle religioni, valorizzando le diversità e affermando la impossibilità di cogliere denominatori comuni alle varie religioni, concepiscono la religione come un concetto analogico. In sostanza la storia delle religioni identifica delle “strutture” nel pensiero religioso e nella prassi religiosa, che chiamerà piuttosto tipologie religiose o tipologie storiche, di carattere analogico e non univoco. Alla luce di quanto espresso circa il metodo comparativo, appaiono ulteriormente chiare le riserve espresse da storici delle religioni nei confronti di nozioni chiave, quali sacro e homo religiosus, proprie della fenomenologia e dell’antropologia religiosa; Bianchi sul tema scriveva che “il concetto di sacro e anche quello di homo religiosus, oltre che generici e perciò in parte arbitrari, specie il concetto di sacro, sono anche fortemente ambivalenti; lo sono non soltanto nel senso di quell’ambivalenza posta dall’Otto tra l’aspetto fascinans e quello tremendum del sacro, ma anche nel senso che la pretesa uniformità sostanziale della percezione del sacro nelle diverse religioni e culture, impedisce una valutazione sia storica che teologica del processo evolutivo e “revolutivo” cui il fatto religioso è disponibile nella storia”. Va distinto, secondo Bianchi, il metodo storico da ogni impostazione storicistica. Se Pettazzoni, iniziatore in Italia della Storia delle religioni, risentiva solo parzialmente della temperie storicistica del suo tempo, un’impostazione storicistica caratterizzava invece una linea di studi che da Pettazzoni s’origina, rappresentata in particolare da E. De Martino e Brelich. Il presupposto storicistico risulta evidente, per esempio, in posizioni quali quella di E. de Martino, allorché questi afferma che il compito dello storico “è compito essenzialmente, esclusivamente di trovare le ragioni umane delle religioni”. L’approccio storicistico è un approccio totalizzante alla storia, nel senso che concepisce ogni realtà, anche quella religiosa, come mero frutto di condizionamenti storici. Esso afferma che la religione è un prodotto esclusivamente umano; unica realtà è la storia, e l’uomo è l’unico fautore di essa. La Storia delle religioni, invece, indaga i fatti religiosi in quanto fatti della storia e indagabili con mezzi, metodi e strumenti della ricerca storica, ovvero della storiografia. Bianchi afferma che lo storico delle religioni, in quanto storico, non deve essere né credente, né non credente, quando ciò significa una presupposta tenenza o, al contrario, sostanziale disinteresse per i dati in questione. Unico presupposto del suo lavoro deve essere un sincero interesse per i fatti religiosi, il quale faciliti la loro comprensione. Di contro alle ammissioni, ben presenti in sede fenomenologica, che solo una capacità innata o solo la condivisione di una fede consentano all’uomo di comprendere la religione, Bianchi osservò che ciò significa la fine della ricerca positivo-induttiva sulle religioni, la quale ricerca, invece, dev’essere aperta, praticabile e verificabile da chiunque voglia praticare e attenersi alla metodologia propria di ogni ricerca storica. Pertanto, la Storia delle religioni non può considerarsi “impegnata” e richiedere allo storico la condivisione di una fede come condizione necessaria per condurre la sua ricerca; ma nemmeno deve essere, al contrario, agnostica o neutrale e richiedere allo storico la non condivisione di una fede. Essa deve solo preoccuparsi di essere e di essere considerata come metodologicamente pertinente alla sua natura di ricerca storico-positiva. Altro aspetto di fondamentale importanza per quanto concerne il metodo storico-comparativo proprio della Storia delle religioni è che esso non porta a emettere giudizi di verità sui fatti religiosi. Tuttavia, esso può, e forse deve, condurre a legittimi giudizi di valore, ovvero giudizi circa, per esempio, il ruolo o la funzione esercitati da una determinata espressione religiosa all’interno di una determinata cultura; o giudizi circa una maggiore o minore ricchezza o complessità di prospettive e di contenuti di una tradizione religiosa rispetto a un’altra. Quanto ancora alle finalità della Storia delle religioni, Bianchi ne difendeva il carattere di disciplina non programmaticamente tesa a un, e neppure troppo immediatamente trasferibile in un “mutuo intendimento” tra religioni, e nemmeno primariamente tesa a un dialogo tra le religioni. PER UNA TIPOLOGIA STORICA DELLE RELIGIONI Introduzione alle tipologie storiche: La disciplina storico-religiosa, dunque, comporta una ricerca storico-comparativa che muovendo da un concreto contesto culturale gradualmente si allarga verso ambienti contigui fino a quelli più lontani, nel tempo e nello spazio, venendo a cogliere tra quei fenomeni che con termine di significato analogico essa, come visto, chiama religiosi, le difformità ma anche le affinità che permettono di raggruppare le religioni in tipologie sulla base di criteri diversi. Tali tipologie sono dunque costituite empiricamente, ossia attraverso l’esperienza dei diversi ambiti religiosi e nel rispetto della specificità storica di ciascuno. Di fronte alla ricchezza e varietà delle forme religiose si impone anzitutto il dovere di classificare. Le tipologie storiche sono categorie in cui sono situabili i vari fenomeni sulla base di significative affinità che la ricerca storico-comparativa riscontra tra quelli. Essi identificano tipi di religioni che, pur rimanendo ciascuna unica e irripetibile nella sua individualità, offrono tra di loro qualificate somiglianze sotto specifici aspetti che pertengono la loro origine nella storia (religioni etniche e fondate), la loro diffusione e “vocazione” (religioni nazionali, universali e complessi mitico-rituali cosmopolitici), i loro contenuti (fondamentalmente, a non esclusivamente: politeismi, monoteismi, monismi, dualismi). La ricerca storico-comparativa è chiamata a spiegare le affinità da essa riscontrate tra i fenomeni, ovvero a optare tra due opposte possibilità: da un lato, l’ipotesi genetica e diffusionistica, che ammette la possibilità di rapporti genetici o di influssi documentati tra fatti e processi storici e che comporta il diffusionismo, ovvero la diffusione storicamente provato di un rito, una credenza, una istituzione a partire da un centro originario; dall’altro lato, l’ipotesi che comporta il policentrismo o parallelismo, ovvero lo sviluppo parallelo di riti, credenze, istituzioni, a partire da una pluralità di centri di origine e da un’affinità storicamente valutabile di circostanze che ne hanno segnato l’origine, ne hanno offerto gli impulsi iniziali e ne hanno caratterizzato i rispettivi svolgimenti. Bianchi affermava che queste due possibilità corrispondono a due tipi di comparazione; una più propriamente “storica”, che studia i rapporti storici tra fatti, contesti o processi, ovvero tra realtà che siano state in contatto tra di loro nel tempo e nello spazio. L’altra, di “tipologia storica”, che studia parallelismo di sviluppo che non implichino il contatto storico, ma implichino invece la produzione indipendente, in più luoghi e tempi, di certi effetti legati a certe cause o a certe occasioni simili. Questa seconda studia comparativamente fatti e processi storici che non siano stati tra di loro in verificabile contatto nel tempo e nello spazio, ma che tuttavia rispondano a una tipologia di genesi e di sviluppo sufficientemente analoga. La tipologia favorisce la comprensione storica. Infatti, la comparazione tra le formazioni appartenenti a una medesima tipologia, conduce a cogliere meglio la specificità di una singola formazione religiosa in relazione alle altre della tipologia cui appartiene. Le tipologie storiche costruite dall’indagine storico-comparativa sono diverse dai tipi fenomenologici, quali quelli elaborati, per esempio, autorappresenta ovvero è rappresentato nella tradizione relativa come destinatario di una rivelazione divina, di cui media la trasmissione agli uomini. In relazione alle religioni fondate, un problema storico fondamentale è costituito dal rapporto tra il fondatore e l’ambiente culturale in cui egli si muove, già caratterizzato da una specifica tradizione religiosa la quale può essere a sua volta di tipo etnico ma anche di tipo fondato. In sostanza, il fondatore per un verso utilizzerà elementi della tradizione precedente rielaborandoli nel nuovo contesto, mentre per altro verso si opporrà a essa o comunque proporrà novità più o meno radicali. Talora la questione della continuità (almeno parziale) tra il fondatore e l’ambiente culturale e religioso nel quale egli si forma e agisce risulta particolarmente importante e può venire a decidere della (e a chiarire la) qualitas religiosa del messaggio del fondatore. È il caso del buddhismo originario, in relazione al quale si constata come molte nozioni della dottrina buddhista già svolgessero un importante ruolo in India e nella sua peculiare tradizione religiosa al tempo del Buddha. Esempio tipico di religione fondata è quella islamica. Maometto è un fondatore cui la documentazione in nostro possesso consente di attribuire l’esplicita intenzione di annunciare un messaggio religioso nuovo che viene custodito in un testo sacro, il Corano, il quale intende presentarsi come la trascrizione fedele della rivelazione divina ricevuta da Maometto, parola di Allah. L’islamismo nasce nel contesto di una religione etnica, quella del popolo arabo. La predicazione di Maometto per un verso opera un netto rifiuto delle tradizioni anteriori nel momento in cui alla credenza in esseri sovrumani molteplici contrappone la credenza nell’unico Dio, Allah, di cui Maometto si presenta come il profeta. Per altro verso, accetta di quelle stesse tradizioni alcuni contenuti, come le credenze demonologiche, e pratiche rituali come il culto tradizionali reso dalle tribù beduine a la Mecca. Lo stesso contenuto monoteistico del messaggio di Maometto, ovvero la credenza nel dio unico, Allah, mentre costituisce un elemento di rottura con la tradizione etnica araba, è da lui stesso in maniera programmatica posto in diretta continuità con la tradizione biblica, dal momento che Maometto afferma che il Dio unico che a lui si è rivelato come all’ultimo profeta, è lo stesso Dio rivelatosi ad Abramo e a Gesù, considerato da Maometto come profeta. Maometto, in effetti, fu a contatto con comunità giudaiche e cristiane, e dunque tale continuità ha una precisa consistenza storica. Il cristianesimo, dal canto suo, si presenta come religione fondata a contenuto monoteistico che nasce nel solco della tradizione religiosa giudaica, e dunque nell’ambito di una religione anch’essa a suo modo fondata, pur con ineliminabile caratteristiche etnico-nazionali, e anch’essa di contenuto monoteistico. Gesù di Nazareth si presenta come perfettamente inserito nella tradizione ancestrale del popolo ebraico, di cui è membro, e in pari tempo portatore di un nuovo messaggio. Ovvero, se per un verso vi è profonda continuità tra il nuovo messaggio e la tradizione giudaica nel senso che Gesù di Nazareth si dichiara Figlio dello stesso Dio che era il fondamento di quella tradizione, per altro verso, proprio nel manifestarsi come Figlio incarnato di quel Dio rivoluziona profondamente la prospettiva monoteistica giudaica. Pertanto, il messaggio di Gesù di Nazareth, se trova accoglienza in una parte del popolo, viene respinto dalla maggioranza di esso e soprattutto dai rappresentanti ufficiali del giudaismo. Il rifiuto a livello religioso sfocia nella consegna all’autorità politica di Roma e nella conseguente condanna alla pena capitale. Un altro esempio di religione fondata è costituito dalla religione zoroastriana, così denominata dal suo fondatore, Zarathustra, vissuto in ambiente iranico in un’epoca difficilmente definibile, mentre nel caso di Gesù di Nazareth e di Maometto si hanno dei precisi riferimenti storici, le fonti che a lui si riferiscono sono per lo più di epoca molto più tarda e riflettono una profonda elaborazione delle tradizioni a lui relative. Si possiede tuttavia un gruppo di Inni, le Gatha, che, facenti parte del libro sacro degli zoroastriani, l’Avesta, risalgono probabilmente allo stesso Zarathustra, nel senso che ne raccolgono il messaggio messo per iscritto dai discepoli. Tuttavia gli studiosi oscillano nella datazione di questi testi e nella collocazione storica del personaggio tra l’VIII-VII secolo a.C e la fine del II millennio o inizi del I millennio a.C. Il messaggio di Zarathustra, caratterizzato dall’affermazione dell’esistenza di un unico e sommo dio, Ahura Mazda, creatore di tutta la realtà e dotato di caratteristiche morali fortemente accentuate, si offre come monoteistico e tale da offrire anche forti valenze dualistiche. Pertanto, nel caso dello zoroastrismo, come, ma solo parzialmente, nel caso sopra considerato dell’islamismo, il rapporto tra il fondatore e il contesto religioso precedente risulta caratterizzato da due forti aspetti di diversità poiché, in primo luogo, da una religione a carattere etnico si viene a una religione fondata, e in secondo luogo tale religione fondata si presenta come messaggio religioso a carattere monoteistico rispetto a una tradizione precedente o politeistica (quale quella iranica), o comunque tale da ammettere una pluralità di esseri sovrumani variamente caratterizzati (quale quella dell’Arabia preislamica). Vero è che nel caso dello zoroastrismo ci troviamo di fronte a una religione fondata e monoteistico-dualistica la quale a un certo punto della sua storia recupera alcuni elementi della stessa tradizione etnica che era venuta a contestare, rielaborandoli. Una menzione particolare, in relazione alle questioni qui dibattute, i culti profetici presso i primitivi. Si tratta di movimenti religiosi e, in senso embrionale, politici suscitati da singole personalità appellantesi solitamente a rivelazioni o investiture dall’alto, in ambienti primitivi, come reazione agli influssi culturali delle nazioni colonizzatrici. In simili circostanze, avviene talvolta che sorga una predicazione catastrofica ed escatologica da parte di qualche indigeno, che attribuisce i mali presenti alla presenza dei bianchi e all’ira dei vecchi dèi della tribù. Si tratta allora di pacificare questi dei rifiutando tutto il nuovo; o più spesso si tratta di affermare come dottrina salvatrice una dottrina, o un complesso di nozioni, in cui vengono fusi in maniera artificiosa e non di rado grottesca, elementi cristiani di origine missionaria ed elementi etnici, pagani, in contrasto e in contraddizione con la dottrina ufficiale dei missionari; questa dottrina nuova viene in genere, come si è detto, presentata come frutto di una rivelazione o di una ispirazione. Ci troviamo di fronte, in questi casi, a religioni (ma meglio sarebbe dire “culti”) che solo in un certo senso noi possiamo chiamare fondate. Giacché si deve notare che il sorgere di questi “profeti” avviene spesso in ambienti già toccati più o meno profondamente dall’opera del missionario (i profeti medesimi sono in genere indigeni ex cristiani). Non solo: ma si deve anche notare come fatto sintomatico che movimenti profetici indigeni di questo tipo sorgono soprattutto in terre colonizzate ed evangelizzate da protestanti. Religioni nazionali e religioni universali: Per religioni nazionali s’intendono quelle religioni etniche pertinenti ai popoli di alta cultura (e dunque distinte da quelle dei popoli privi di scrittura) le quali si rivolgono programmaticamente alla “nazione” che ne è portatrice e di essa intendono costituire l’espressione religiosa peculiare, anche se non esclusiva, accettando di convivere con altre tradizioni religiose o con loro specifici complessi cultuali che siano penetrati nell’ambito della religione nazionale in questione. Le religioni nazionali sono dunque religioni di tipo entico, non fondato, le quali sono percepite dai loro stessi portatori come espressione del proprio essere una “nazione”. Grandi religiosi nazionali nel mondo antico furono, ad esempio, quelle dei Sumeri e degli Assiro-Babilonesi, degli Egizi, dei Greci e dei Romani. Nell’ambito delle religioni etniche di tipo “nazionale”, la religione è, pertanto, l’espressione di un popolo, e come tale è riconosciuta legittima dagli altri popolo. Vi è tra le religioni etnico-nazionali nel mondo antico un rapporto reciproco e mutuo riconoscimento. Tale atteggiamento (“mutuo riconoscimento”) comporta il riconoscimento da parte di una tradizione religiosa etnico-nazionale a struttura politeistica della propria omogeneità con le altre tradizioni affini, quali furono, appunto, nell’antichità quelle dell’area mediterranea e vicino-orientale, con l’eccezione dell’ebraismo- giudaismo, ove si affermò gradualmente la figura di un unico dio creatore di tutte le realtà e di tutti gli uomini, il che non privò il giudaismo di una patente di legittimità da parte delle religioni etnico-nazionali a struttura politeistica, in quanto riconosciuto religione, appunto, del popolo d’Israele. Tale omogeneità rese possibile il fenomeno dell’interpretatio, o “traduzione” di un dio inserito in una tradizione religiosa con quello di un’altra tradizione il quale presentasse o sembrasse presentare attributi e funzioni analoghe. In tal modo, per esempio, Erodoto ritiene di poter riconoscere la omogeneità dell’egizio Osiride con il greco Dioniso. Ci troviamo di fronte all’attestazione presso taluni interpreti del “paganesimo” antico di una sorta di universalismo, fondato non su un messaggio, ma sulla polinomia dei grandi dèi, cioè sulla credenza in una loro universalità solo mascherata dalla differenza di nome. Già nella visione di Erodoto, e poi in quella ellenocentrica di Plutarco, gli dèi, o almeno la loro maggioranza, hanno una presenza e una verità universali, al di là dei confini di popoli e culture; il sistema politeistico, ancora nel suo pieno vigore, si riafferma negando una parte importante della sua essenza: esso non è più il portato originale e irriducibile di culture disparate, le quali si definiscono come etniche. Al contrario, questo nuovo politeismo si fa interetnico e sovrannazionale, traducibile in molte lingue e raffigurabile in molte immagini. In tal senso si può dire che i politeismi seppero esprimere, entro i limiti del “sistema” che fu loro proprio, posizioni universalistiche (ben diverse dall’universalismo che, come vedremo, venne a caratterizzare i messaggi monoteistici), vale a dire tali da ammettere che gli dèi o taluni di essi sono comuni a tutti i popoli pur se venerati con nomi diversi. Se, come sopra detto, una religione nazionale intende porsi come l’espressione religiosa peculiare di una determinata nazione ma non esclusiva, si potrà parlare di una religione nazionale come di una religione che è giunta a una particolare coscienza di sé sul piano dei valori nazionali, ma anche, corrispondentemente, a una particolare coscienza dei propri limiti sul piano del soddisfacimento delle esigenze religiose del singolo. Per esempio, lo shintoismo ha accettato di convivere, in Giappone, con il buddhismo. Ma tale caratteristica si esprime anche nel caso delle religioni nazionali dell’antichità classica. Si pensi al caso di Roma, ove una religione che da etnica si fa sempre più coscientemente nazionale, e che tale rimane nonostante gli apporti ricercati o subiti delle religioni circonvicine, percepisce a un certo punto e riconosce la sua insufficienza al soddisfacimento delle esigenze religiose crescenti del singolo, e accetta di fatto di convivere con i più disparati culti, misterici o non, provenienti dal lontano oriente, e anzi talora sollecita l’avvento di questi culti (culto della Magna Mater), limitandosi a intervenire con divieti motivati dall’ordine pubblico e dalla moralità (Baccanali). Accetta di convivere con il solo patto della lealtà del singolo e dei gruppi nazionali. Dunque, a una religione ufficiale si unisce una religione individuale. E veniamo alle religioni universali. La distinzione tra queste ultime e le religioni nazionali concerne non tanto, o non solamente, il fatto della diffusione universale o meno delle religioni in oggetto, quanto la presenza o meno, in esse, di una vocazione, di una tendenza, di una apertura universali. Abbiamo detto “non tanto o non solamente” giacché anche il fatto obiettivo della diffusione universale (o relativamente universale) di una religione ha il suo peso per l’attribuzione di essa all’una o all’altra categoria. Giacché si possono dare religioni, o sistemi religiosi, che siano stati concepiti dai loro fondatori in funzione universale, ma che tale diffusione non abbiano mai attinto. Diversamente dalle religioni etnico-nazionali o nazionali tout court, le religioni universali di rivolgono a ciascun individuo e conseguentemente a tutti gli individui, indipendentemente dalla loro appartenenza etnica e nazionale; si appellano innanzitutto alla persona. Dunque, sono al contempo universali e individuali (o personalistiche), ma ciascuna di esse con differenze storicamente rilevanti rispetto alle altre. Le religioni universali sono basate su un messaggio universale di salvezza, non limitato a gruppi specifici, e sono caratterizzate sia da prospettive escatologiche e oltremondane sia da un forte impegno etico. Nell’ambito di tali religioni vanno annoverati il cristianesimo, l’islamismo, il buddhismo, e in qualche modo anche il giudaismo, seppur con le specificità che tratteranno più avanti la nostra attenzione, e l’induismo, seppur questo sia profondamente legato a una dimensione etnico-geografica e a una struttura castale. Bianchi afferma che le religioni universali sono personalistiche; se sono personalistiche hanno evidentemente in sé una dinamica che insiste nel contatto personale fra la verità (Dio, la divinità) e le persone che sono “interpellate”, vocate a questa conversione; questo perché nelle grandi religioni universalistiche si entra per conversione e non per diritto di nascita. Questo implica evidentemente tutto un complesso di rapporti che è in sé dinamico. Se ci si basa sul concetto di persona viene avanti tutta una quantità di rapporti che sono intimamente dinamici. C’è un dinamismo in queste religioni, nel senso che non possono non appellare alla coscienza. Dunque una dinamica non tanto di queste religioni come tali, quanto piuttosto una dinamica nella coscienza delle persone. Quanto alla posizione del cristianesimo rispetto alle altre religioni personalistiche, sembra si possa vedere rappresentato, nel cristianesimo, il carattere personalistico in maniera del tutto specifica: nel cristianesimo c’è un contatto con la Persona che è Dio e con la Persona che è Gesù Cristo; una persona, Cristo, che interpella in modo del tutto originale rispetto a quello di ogni altro fondatore o profeta. In altre parole, nel contatto attuale con la persona di cristo si celebra in maniera estrema il carattere personalistico della religione cristiana. Tutto quello che ho detto prima per le altre religioni vale di più per il cristianesimo, nella misura in cui la persona di Gesù accentua nel cristianesimo, e a suo modo assolutizza, quell’incontro personale. Altra religione al pari del cristianesimo compiutamente universalistica, di un universalismo de iure ma anche de facto, e senza residui di nazionalismo, è il buddhismo. Esso si offre come un messaggio religioso con forte connotazione filosofico-speculativa, che nell’Indi del VI a.C si rivolge all’uomo in quanto tale. A differenza del cristianesimo, tuttavia, esso può coesistere con altre credenze e pratiche religiose, come avviene, per esempio, in Giappone con lo shintoismo. Infatti, il buddhismo è, come il cristianesimo, religione fondata e universalistica, ma a differenza del cristianesimo non esprime un contenuto monoteistico. Per queste sue caratteristiche esso è tipologicamente affine al manicheismo. Tuttavia, buddhismo e manicheismo derivano l’apertura universalistica dei rispettivi messaggi da presupposti dottrinali diversi tra di loro, e diversi da quelli implicati da una religione monoteistica: in quest’ultima è proprio l’idea monoteistica a implicare l’universalismo, perché comporta la nozione di un unico dio creatore di tutta la realtà e di tutti gli uomini. Il cristianesimo pertanto poggia la sua apertura insieme universalistica e personalistica su un contenuto monoteistico, e chiama l’individuo a un’adesione totale ed esclusiva (conversone); esso è dunque rigorosamente esclusivista. Ciò lo differenzia dalle religioni etnico-nazionali, le quali invece riconoscono pari legittimità alle tradizioni degli altri popoli e, nel quadro del fenomeno tipicamente ellenistico dell’incontro fra popoli e culture diverse, danno luogo ai cosiddetti culti cosmopolitici. Ma lo differenzia anche da altre religioni di apertura universalistica e personalistica come, per l’appunto, il buddhismo. Quest’ultimo deriva tale apertura dal volersi porre come messaggio di salvezza che, indagando le radici del dolore come esperienza universalmente umana, vuole additarne le cause e insieme proporne i rimedi e con essi la via della salvezza aperta all’uomo in quanto tale, e dunque a tutti gli uomini. Il manicheismo dal canto suo fonda la sua apertura universalistica sulla dottrina della presenza nell’uomo e in ogni uomo di una scintilla divina, perdutasi nella materia ma che può essere salvata e ricondotta al modo divino a lei connaturale. Pertanto, l’universalità dei messaggi religiosi quali quello buddhistico e quello manicheo va distinta dall’universalità propria di altre proposte religiose universalistiche: nel momento, infatti, in cui possono convivere nella persona del fedele con altre adesioni religiose, essi si pongono piuttosto sulla linea delle formazioni religiose cosmopolitiche o sovranazionali, che non su quella delle religioni propriamente universali, le quali richiedono una conversione. Nell’ambito delle religioni universali si danno poi alcuni casi nei quali tali religioni risultano essere associate a specifiche culture, e pertanto possono comprendere anche una prospettiva nazionale. Così, l’islamismo inizialmente si pone come messaggio profetico indirizzato alla nazione araba; progressivamente, con l’espansione dell’Islam, si attua la l’apertura universalistica che era implicita nel messaggio monoteistico. Venendo alla religione d’Israele, poi, essa ha fortissimi connotati nazionali: Iahwé è Colui che ha stretto con Israele un rapporto privilegiato. Il popolo ebraico esiste in conseguenza di questo patto. Tuttavia, del Dio di Israele si predicano una unicità e una universalità che superano ogni orizzonte nazionale. Quanto allo zoroastrismo, esso è stato per lungo periodo la religione nazionale dell’Iran e degli imperi che si sono succeduti su questo suolo. Lo zoroastrismo si rivolge in maniera privilegiata alla nazione iranica. D’altra parte esso ha conosciuto anche una qualche diffusione al di fuori del territorio iranico, in quelle terre che per periodo più o meno lunghi appartennero all’impero persiano e furono soggette a un’emigrazione iranica qualificata. Religioni universalistiche come il cristianesimo e lo comunità fondate, sotto il profilo economico, sullo sfruttamento del suolo. L’invenzione dell’agricoltura con l’aratro e contestualmente la semina del cereale fu un fatto decisivo nella storia dell’umanità; per quanto riguarda l’ambiente mediterraneo e vicino-orientale, tale evento si verificò nella cosiddetta “mezzaluna fertile”, l’area compresa tra il bacino del Tigri e dell’Eufrate, ossia la Mesopotamia e le terre circostanti, per giungere in Egitto. In quest’area si verificarono i due grandi fenomeni decisivi per la storia culturale dell’umanità: l’invenzione dell’agricoltura e quella della scrittura. Intorno al 6000 a.C sembra potersi fissare l’inizio delle pratiche agricole e cerealicole e successivamente, a partire dal terzo millennio, l’invenzione della scrittura. Le invenzioni dell’agricoltura e della scrittura furono in qualche modo i fattori scatenanti di un processo di accelerazione culturale che, con l’accrescersi di comunità umane in sedi stabili, portò a una notevole articolazione all’interno di queste. In una comunità a base agricolo cerealicola si cominciarono a delineare delle specializzazioni di arti e mestieri, sorse la tessitura, la possibilità di lavorare i metalli, … sicché la società si organizzò secondo distinte classi sociali e specifiche attività economiche. La società in questa sua maggiore articolazione creò delle strutture politiche più elaborate, che di solito risultarono di tipo regale. Contestualmente alla notevole articolazione della comunità sotto il profilo sociale, economico e politico si ebbe un’articolazione molto complessa e un’organizzazione del livello del divino. Nell’ambito delle alte culture ci troviamo di fronte a quei fenomeni religiosi che possiamo chiamare legittimamente di tipo politeistico, perché non si tratta soltanto di ammettere l’esistenza di numerose potenze sovrumane, ma di concepire queste potenze sovrumane come inserite in una rete organica di reciproci rapporti. Tale impostazione storica del problema delle origini del politeismo, ovvero il suo manifestarsi in civiltà superiori, consente di superare sia le ipotesi evoluzionistiche sia quelle ipotesi che, al contrario, lo ritenevano il prodotto della degenerazione di un monoteismo primordiale. Talora gli studi si sono particolarmente impegnati a valorizzare la componente “politica” del politeismo. I politeismi antichi sono essenzialmente politeismi politici, e questo a prescindere dalla diversa struttura delle comunità politiche. Gli dèi dei sistemi politeistici sono chiamati a fondare e regolare un cosmo in cui le forze della natura collaborano a sostenere e a far funzionare la vita stessa dello Stato. Tale caratteristica emerge con particolare chiarezza nel cosiddetto fenomeno della regalità sacra; l’autorità del sovrano è garantita o dalla sua origine divina o dalla scelta degli dèi stessi. Il compito degli dèi della città o dello Stato, infatti, è quello di cooperare alla realizzazione del benessere della comunità cittadina o statuale. Presso i popoli “primitivi” interviene una molteplicità di esseri sovrumani, privi tuttavia di quella fisionomia personalistica e di quella funzionalità specializzata in relazione ai settori cosmici e alle diverse attività umane che caratterizzano gli dèi dei contesti politeistici. Si tratta, invece, di una pluralità di entità, venerate nel culto o attive soltanto nei miti, quali spiriti, antenati, eroi culturali, dema o la figura dell’Essere supremo. Le principali religioni politeiste sono, procedendo da est a ovest, lo shintoismo giapponese, la religione vedica dell’India, la religione persiana prezoroastriana, la mesopotamica, quella degli ittiti, quella egizia, greca, romana, etrusca e dei popoli italici, la germanica, la celtica e le religioni precolombiane del Messico (Maya, Aztechi) e del Perù (Inca). Quanto alle origini del politeismo gli studiosi si sono divisi. Da un lato vi sono coloro che sostengono una ipotesi monogenetica e diffusionistica, ovvero ritengono che il politeismo si sia formato una sola volta, e che poi si sia diffuso attraverso le vie dei contatti culturali. Il primo politeismo sarebbe stato quello dei Sumeri in Mesopotamia. Dall’altro lato vi sono coloro che sostengono lo sviluppo parallelo; una tesi che vede i politeismi come sorti indipendentemente in diverse regioni del globo, in contesti culturali fortemente analoghi e sulla base di condizioni storiche fortemente analoghe, quelle proprie delle cosiddette alte culture del mondo antico. Attuali forme di politeismo sono lo shintoismo giapponese e l’induismo, soprattutto in forme di devozione popolare. Lo shintoismo fu la religione ufficiale dello Stato giapponese dal 1870 al 1889. Successivamente rimase un riferimento obbligatorio per il cittadino giapponese. Religione politeistica, senza escatologia e senza soteriologia, dai forti riferimenti naturistici, è ancora oggi via privilegiata di espressione di lealismo e devozione verso l’Imperatore, venerato fino a tempi non lontani come essere di ascendenza divina. Politeismo: una struttura dinastico-dipartimentale: A. Brelich enumera differenti tipi di esseri sovrumani o extraumani non divini. In primo luogo, esseri mitici non divini, che compaiono nei miti di origine, spesso con caratteristiche animalesche e talora nelle vesti di collaboratori-avversari del creatore; vi sono poi gli antenati, ovvero entità che avevano uno statuto umano e che, defunte, sono oggetto di atti cultuali. Si danno inoltre esseri protagonisti, talora esclusivi, di miti di origine, che li presentano come tali da aver istituito delle forme di esistenza legate all’alimentazione e alla ritualità, e come morti per lo più di morte violenta: si tratta dei dema e degli antenati totemici. Si hanno poi gli spiriti; privi di una personalità definita e tali da esercitare un’attività solo limitata e sporadica. Da ultimo, anche la categoria degli Esseri supremi va distinta da quella degli dèi. Veniamo alla categoria degli “dei” (lat. dei o dii, gr. theoi): discussa è l’etimologia del termine greco theos e del latino deus. A ogni modo esso veicola la percezione del “dio” in una religione politeistica quale quella greca, e solo successivamente fu applicato al dio di religioni monoteistiche. Si tratta di entità che sono percepite come tali da sovrastare l’uomo, e dalle quali questi sente una forma di dipendenza. Tra i loro attributi, va menzionato innanzitutto il loro carattere personalistico. Gli dei sono esseri sovrumani o extraumani percepiti come entità personali, ossia dotate di caratteristiche individuali per le quali agiscono autonomamente, secondo specifici attributi e ambiti di competenza. Un cenno solamente all’antropomorfismo, ovvero sulla tipica rappresentazione delle divinità sotto le apparenze di persone umane. È noto, innanzitutto, come nell’antica religione egizia le divinità presentino tratti iconografici teriomorfi (forma di animale). Tali rappresentazioni teriomorfe o teriocefale (animale e uomo, credo) obbediscono all’esigenza di rappresentare il non umano. Talora l’antropomorfismo può diventare ipermorfismo, e venire a esprimere anche per questa via l’alterità del divino rispetto all’umano. Nel caso dell’antropomorfismo degli dei della Grecia antica, Brelich ha sostenuto che esso rappresenta una conquista, ovvero il prodotto finale di una tendenza creativa che ha ormai superato la rappresentazione teriomorfa. L’esigenza di un rapporto di tipo personale con le divinità sarebbe, secondo quest’interpretazione, alla base di questo processo di antropomorfizzazione. L’antropomorfismo tuttavia non elimina la delineazione delle caratteristiche di ineliminabile alterità dl divino rispetto all’umano. Dunque, le divinità delle religioni politeistiche hanno ciascuna una ben definita personalità, diversa da quella di altre. A contribuire alla delineazione di tale personalità intervengono i nomi, gli epiteti, ovvero forme aggettivali che rilevano una qualità della divinità e ne evidenziano un aspetto particolare, le epiclesi, ossia brevi frasi o formule stereotipate che assolvono a funzione analoga a quella degli epiteti. A delineare la personalità degli dei intervengono anche le specifiche funzioni che essi svolgono. Infatti, le divinità politeistiche sono connesse con il funzionamento di questo mondo. Da qui il carattere “dipartimentale” di un tipico pantheon politeistico; ogni figura divina ha un suo ambito di competenza ben definito (dipartimento), per esempio Poseidone ha il mare. Le connessioni tra la potenza divina e l’ambito cosmico da essa tutelato non andranno interpretate nel senso che un dio sia la “personificazione” di un elemento naturale, giacché mai una personalità divina si identifica con l’ambito cosmico al quale presiede e rispetto al quale è entità trascendente e personale. Di fatto, questo rapporto tra gli dèi del politeismo e gli ambiti cosmici è fondamentale; il mondo funziona e con esso si dà per l’uomo la possibilità di vita, in quanto esistono le potenze divine che hanno messo in moto quest’ordine, lo garantiscono e lo mantengono. L’azione degli dèi di un pantheon politeistico, tuttavia, come detto, non si esplica soltanto in relazione agli elementi cosmici, ma offre anche connessioni con vari aspetti della vita umana. Così, gli dei del politeismo possono essere attivi a più livelli e presentare una plurivalenza di funzioni. Basti ricordare qui il caso di Demetra, che non solo è la dea che presiede ai ritmi agrari ordinati, e nello specifico a quelli cerealicoli, ma è anche la dea che dà i thesmoi, le leggi che regolano la vita umana soprattutto sotto il profilo matrimoniale. Una caratteristica importante che interviene a delineare la personalità delle figure divine nei pantheon politeistici è pertanto costituita dal fatto che le divinità sono per lo più percepite come efficaci nell’attualità. Questa caratteristica le distingue da esseri come i dema o come gli Esseri supremi “oziosi”, attivi solo nel tempo del mito. In quanto attivi ed efficaci nell’attualità, gli dei sono oggetto di culto, che non si esaurisce nella rievocazione delle gesta da loro compiute all’inizio dei tempi. Nelle religioni politeistiche, infatti, le varie forme di culto e i loro elementi costitutivi possono avere anche la funzione di precisare e fissare i caratteri della divinità (per esempio, i sacrifici possono essere diversi a seconda delle diverse personalità divine). Il culto prestato alle divinità politeistiche è fondamentalmente lo strumento, necessario, mediante il quale l’uomo riconosce la funzione o prerogativa del dio, la sua timé, e la fa essere. Il culto contribuisce al retto funzionamento di quel cosmo che gli dei hanno posto in essere e che tutelano ciascuno secondo le proprie competenze (timai); se viene meno il culto, l’ordine cosmico entra in crisi perché gli dei sono privati della timé, l’onore che spetta loro. La nozione della necessità del culto ai fini dell’ordinato funzionamento del mondo è bene espressa, tra le altre fonti, anche dall’Inno “omerico” a Demetra. Tale inno narra di come nel tempo mitico, talune divinità si siano sottratte alle proprie funzioni. È il caso di Demetra, che, come narra il mito offerto dall’Inno pseudo-omerico “A Demetra”, essendole stata rapita la figlia, si rifiuta di assolvere il proprio compito di datrice della fertilità agraria. Quando la dea rinuncia a tutelare la sua sfera di competenza e a esercitare la sua timé, gli uomini rischiano di perire per la mancanza del grano, e anche gli dèi, privati delle offerte costituite dai sacrifici, entrano in crisi. Sulla base dell’Inno in questione, risulta confermata, dunque, la tipica caratteristica del politeismo come di una specifica struttura costituita da un complesso di entità sovrumane, a ciascuna delle quali spetta un ambito specifico che deve essere rispettato dagli altri dèi, i quali non possono interferire in esso. Un sistema equilibrato, dunque, il cui equilibrio si poggia sull’esercizio da parte degli esseri divini della loro specifica funzione, e da parte degli esseri umani della sfera cultuale. Gli dei sono inoltre dotati di immortalità. Essi sono immortali come realtà cui essi presiedono. Un caso a sé, è quello dei cosiddetti “dying gods” (dèi morenti); dèi che muoiono per poi riprodursi da una loro parte, o per vivere come sovrani dell’Ade. Oppure che muoiono, ma il cui statuto non è propriamente divino ma semidivino. Ogni pantheon politeistico si qualifica come una struttura organica non solo di tipo dipartimentale, ma anche di tipo genealogico-dinastico, ovvero come un quadro religioso che contempla un organico complesso di divinità, legate da rapporti di parentela. Non solo antropomorfe solo le singole divinità, ma antropomorfa è la comunità divina, modellata sulla comunità umana. Il mondo divino viene a strutturarsi secondo uno schema dinastico; gli dèi dell’attualità solitamente si manifestano a conclusione di un processo teo- cosmogonico, essendo venuto all’esistenza, insieme alle realtà cosmiche, attraverso un succedersi di coppie divine, e più generalmente attraverso genealogie divine, a partire da entità primordiali, da archai. Per quanto concerne specificatamente il pantheon greco, le diverse e successive generazioni si caratterizzano per caratteri che le distinguono. Si pensi al carattere impersonale delle figure della prima generazione (Urano, Gaia); al carattere violento e immane degli dèi della generazione intermedia; al carattere compiutamente differenziato e oltremodo complesso dell’ultima generazione. Tali caratteri che emergono dallo schema genealogico come offerto nella Theogonia di Esiodo, poema che descrive le varie generazioni divine che si succedono a partire dalla coppia primordiale formata da Urano e Gaia. I singoli pantheon politeistici in momenti diversi della storia e sulla scorta di circostanze storiche e politiche diverse, hanno conosciuto fenomeni di “teocrasia”, ovvero di fusione delle maggiori figure divine in una sola figura, nonché fenomeni di assorbimento delle minori da parte delle maggiori, di cui le prime diventano epiteti, aspetti e funzioni. Politeismo: un sistema “aperto”: Il politeismo si può definire come un sistema aperto, e non rigido, ovvero aperto al riconoscimento dell’altro. Tale caratteristica si offre con maggiore incidenza a Roma rispetto alla Grecia. Del resto la religione romana è religione di una città multietnica fin dalle origini, è religione di un ethnos. Si è parlato spesso negli studi di una fondamentale tolleranza del politeismo e dei politeismi, opposta a una fondamentale intolleranza del monoteismo e dei monoteismi. Tale equazione è oggetto di una opinione ormai diffusa ma non per questo totalmente fondata. “Tolleranza” significa “sopportazione paziente”, accettazione e sopportazione di un qualche cosa di negativo. Nel mondo antico, per quanto concerne l’ambito delle tradizioni religiose circum- mediterranee, quelle situazioni per le quali si ricorre impropriamente alle idee, appunto, di tolleranza e di libertà religiosa, sono (salvo specifici casi come, per esempio, quello costituito nella Roma imperiale, dall’Editto di Costantino del 313, in materia di libertà religiosa) più situazioni di fatto che non conseguenze di scelte argomentate e teoricamente motivate. Infatti, le facies religiose politeistiche dei vari ambiti culturali del Vicino Oriente e dell’Occidente greco-romano erano caratterizzate dalla mancanza di un concetto di “ortodossia” ed erano ampiamente disponibili non solo alla convivenza ma anche al reciproco riconoscimento delle rispettive tradizioni, accompagnata dalla tendenza più o meno accentuata a proporre “identificazioni” o forse meglio “equivalenze” tra figure divine appartenenti a pantheon diversi ma dotate di analoghe prerogative e funzioni. Tali equivalenze permettevano l’accettazione di culti stranieri e la loro integrazione in un nuovo panorama religioso. Di fatto, in Grecia e a Roma erano diverse le modalità di introduzione dei culti stranieri. In Grecia essa doveva sottostare a un’accettazione ufficiale da parte delle autorità cittadine. Le forme d’introduzione privata erano invece considerate illecite e tacciate di empietà. A Roma, invece, l’ostilità e la repressione del culto straniero scattavano allorché le modalità del culto straniero infrangessero i canoni comportamentali della prassi rituale tradizionale. Inoltre, nei loro domini i romani proibirono e combatterono specifiche prassi rituali (come i sacrifici umani) proprie di religioni esterne quali la religione punica e quella celtica. Appare evidente come, sullo sfondo delineato e costituito alle religioni etnico nazionali a struttura politeistica greca e romana e dai culti stranieri, cosmopolitici o sovranazionali, che in esse trovavano accoglienza, risulti improprio il concetto di “tolleranza”, date le connotazioni negative che esso comporta per quanto riguarda l’oggetto “tollerato”, come improprio risulta il concetto di libertà religiosa che implica un positivo riconoscimento teorico e argomentato dei diritti individuali, e neppure si potrà troppo agevolmente ricorrere alla nozione di “indifferenza” della autorità statale e politica nei confronti dei contenuti ideologici delle diverse espressioni religiose che convivevano in uno stesso ambiente geografico e sociale. Sul politeismo in Grecia: tendenza “olimpica” e tendenza “mistica”: Nell’ambito di una religione politeistica, l’uomo è fondamentalmente concepito in una posizione di assoluta dipendenza rispetto al mondo divino e di netta distinzione da esso. Infatti, la prerogativa peculiare degli dèi è, insieme alla loro potenza, l’immortalità. Tutti i contesti politeistici del Vicino Oriente esprimono netta la distinzione fra uomini e dèi, pur qualificandola in maniera diversa. Nell’ambito mesopotamico, sumero-accadico, ad esempio, è presente la nozione dell’uomo come servo, “schiavo” del dio; l’umanità è formata per prestare il necessario culto agli dei. Le pratiche culturali costituiscono il dovere imprescindibile per l’uomo e unico momento e luogo nel quale si dà contatto fra il livello umano e quello divino. Diverso rispetto al mondo mesopotamico è quello greco, ove l’uomo non è considerato come servo degli dei, ma nella sua qualità di essere mortale appartiene comunque a un livello completamente diverso da quello divino. Di fatto, una struttura politeistica implica una netta separazione tra il livello degli dei e il livello degli uomini. In tale contesto, la pratica rituale, e nello specifico sacrificale, si pone come modalità privilegiata di comunicazione tra il livello umano e quello divino. Il politeismo greco conosce a partire dai più antichi testi letterari di interesse religioso e in particolare dai poemi omerici ed esiodei una tendenza, che negli studi storico-religiosi che fanno capo all’impostazione metodologica di Bianchi, viene definita “olimpica”, la quale sottolinea notevolmente il distacco tra gli dèi beati, stabili, non toccati dal dolore della morte, e gli uomini che invece sono soggetti a un destino, aisa, mortale, e alle pene dalle qualità eccezionali di questa nutrice, la spia e, vedendo il bambino nel fuoco, lancia un grido spezzando l’incantesimo. Demetra si manifesta allora nella sua vera identità, ed esige di avere un tempio dagli uomini, non potendo ormai stare in immediato contatto con loro. Demetra in lutto fa cessare la fecondità del suolo. Si constata come tutta la vicenda è inserita in quella prospettiva olimpica che già conosciamo: Demetra è la garante dei ritmi agrari, sicché, se ella scompare, se entra in lutto, tali ritmi non funzionano più, e ciò minaccia l’intero ordine cosmico. Zeus deve dunque intervenire; egli cede al volere di Demetra e invia Hermes all’Ade affinché la fanciulla sia riconsegnata alla madre. Tuttavia, Hades, lo sposo infero di Persefone, non può più lasciare in maniera definitiva la fanciulla. Ciò è espresso miticamente con l’immagine di un cibo (chicchi di melograno) offerto alla fanciulla, che mangia di esso; di fatto, chi è stato accolto negli Inferi e vi ha preso cibo rimane a essi indissolubilmente legato. Hades dice alla fanciulla di ritornare dalla madre, ma nel contempo dichiara che ella resterà sua sposa e regina degli Inferi. Persefone ritorna presso Demetra e questa accetta che la fanciulla divida il suo tempo tra i due livelli: la vicenda si conclude quindi in maniera positiva. Bisogna ora vedere quali sono i riflessi a livello umano di questa complessa vicenda divina. Demetra è divenuta nutrice di un bambino ma ha fallito nella sua immortalizzazione, e si è fatta costruire un tempo dagli abitanti di Eleusi. A questo punto, la dea promette di consegnare agli uomini sacri i riti (orgia) esoterici, i quali saranno celebrati in suo onore a Eleusi dalle famiglie del luogo. Celebrando questo culto, dice la dea, gli uomini si renderanno propizio il suo animo. Ma ancora l’Inno non è concluso: nei versetti finali sono illustrate le modalità e le finalità del culto. Si proclama infatti olbios, cioè felice e fortunato, chi tra gli uomini mortali “ha visto” questi riti perché quando se ne andrà nell’oscura tenebra dell’Ade non avrà la stessa aisa, lo stesso destino che hanno tutti gli uomini. Si ha pertanto un’apertura in senso escatologico delle prospettive offerte dal culto misterico. Il culto eleusino permette all’uomo di partecipare simpateticamente alla vicenda divina narrata nell’Inno. I riti misterici mettevano l’uomo in diretto contatto con Demetra e Persefone, considerate come personaggi che hanno sofferto, subito una crisi superata in modo positivo, non come impassibili divinità olimpiche. La partecipazione rituale alla vicenda aveva degli effetti benefici per l’uomo in duplice direzione: durante la vita terrena una garanzia di benessere, ma anche per la vita ultraterrena. Si configura in tal modo una prospettiva religiosa diversa rispetto a quella olimpica, la quale trova una delle sue espressioni più nette nell’ambito del culto demetriaco di Eleusi, la cui caratteristica peculiare è quella di essere, come abbiamo detto, un culto misterico, cioè un culto che implica iniziazione ed esoterismo. Tuttavia, ciò che è tipico della facies eleusina non è soltanto la struttura rituale esoterico-iniziatica, ma anche il particolare rapporto che al suo interno si instaura tra l’uomo e la divinità. Egualmente specifico è il carattere delle figure divine della tradizione mitico-rituale di Eleusi. Si tratta di personaggi in crisi, divinità che hanno subito una particolare vicenda drammatica che ha posto in discussione la loro stessa natura e le loro prerogative. Divinità in crisi la cui soluzione positiva ha un riflesso preciso sul destino dell’uomo. Infatti, all’uomo che accetta di sottoporsi all’iniziazione e di partecipare al culto misterico di Eleusi, si aprono delle prospettive speciali, le quali sono rivolte in una duplice direzione: cosmica, infra-mondana e nell’aldilà Il mondo greco oltre al fenomeno eleusino conosce altri fenomeni più o meno analoghi. Un culto a carattere esoterico-iniziatico, egualmente definito “misteri”, è attestato già da Erodoto (V secolo a.C) con sede nell’isola di Samotracia. Sappiamo che gli dèi venerati a Samotracia erano indicati con l’appellativo di Megaloi Theoi (grandi dei), ma, ci dice una fonte, i loro veri nomi non erano noti altro che agli iniziati. Si è pertanto in presenza di un culto che riserva soltanto agli iniziati la conoscenza della vera identità delle personalità divine cui si rivolge. Scarsissime sono anche le testimonianze sui riti: risulterebbe che a Samotracia si compiva la ricerca di una fanciulla divina, qui identificata con Harmonia. Le prospettive offerte a Samotracia, dove i grandi dei erano spesso chiamati “salvatori”, erano di una salvezza sostanzialmente terrena, specificatamente dai pericoli del mare; un rituale iniziatico- esoterico che forniva, dunque, garanzie completamente infraterrene a chi vi partecipava. Dunque i misteri non sono collegati in maniera imprescindibile con la nozione di una salvezza escatologica. La misteriosofia: Il termine designa un particolare tipo di credenze e prassi religiose comportanti una dottrina sapienziale, ovvero una sophia, avente al suo centro l’idea della natura divina dell’anima umana, caduta dal mondo divino a seguito di eventi drammatici variamente configuratisi, e destinata a essere reintegrata alla sua “patria” d’origine. Prima grande espressione in Grecia di un’ideologia misteriosofica è l’orfismo, una tradizione religiosa risalente almeno al VI secolo a.C. L’orfismo si caratterizza essenzialmente per essere una lettura di una serie di testi posti sotto l’autorità del personaggio mitico di Orfeo. Si tratta di testi letterari di vario genere accomunati dall’idea che nell’uomo sia presente un’anima intesa di natura, di derivazione e di destinazione divina, protagonista di una vicenda di caduta dal divino a seguito di una “colpa antecedente”, e destinata a una reintegrazione al divino, a seguito di un doloroso ciclo di metensomatosi espiatorie. L’orfismo si pone come efficace espressione di quell’età assiale, ovvero il VI secolo a.C, che in Occidente vede appunto la svolta orfica e quella pitagorica, e in Oriente la contestazione dell’induismo da parte dell’”eresia” buddhista e di quella jainista. Tutte espressioni accomunate da un atteggiamento anticosmico, che proclama la necessità della fuga dal mondo e dal ciclo delle esistenze nel mondo. L’antropologia orfica, nel suo essere dualistica, cioè fondata sull’idea di una netta dicotomia fra l’anima (psyche) e il corpo (soma), considerato come una prigione dell’anima, si pone in opposizione rispetto alle comuni concezioni antropologiche proprie dell’ambito della religione ufficiale della polis, secondo le quali l’uomo è un essere mortale, composto da elementi spirituali e materiali, tra i quali tuttavia non sussiste alcuna opposizione. Ogni forma di felicità va perseguita su questa terra giacché dopo la morte attende l’uomo soltanto una forma di sopravvivenza umbratile nel buio regno dell’Ade. La religione misterica offre all’uomo una migliore prospettiva nell’aldilà, ma questa prospettiva non implica in sé l’idea della natura divina dell’anima, né l’idea di una divinizzazione dell’uomo. Infatti, dopo la morte, l’iniziato andrà nell’Ade, ma laggiù godrà di una “parte” (aisa) migliore rispetto a quella che spetta ai non iniziati: la condizione degli iniziati sarà presentata in termini di vicinanza e familiarità con Hades e Persefone, nonché di soggiorno beato in boschetti luminosi e ameni. Si consideri l’uso che gli Orfici facevano del materiale mitico tradizionale, in particolare quello dionisiaco. Esemplare al riguardo è una particolare narrazione mitica relativa a Dionisio; nel mito Dioniso, figlio di Zeus e Persefone o, secondo un’alternativa, di Demetra, viene affidato ai Titani, nemici di Zeus e degli dèi olimpici. L’ambiente orfico, utilizzando varie tradizioni appartenenti al comune contesto religioso greco, le trasforma per adattarle ai propri presupposti teologici. I Titani, se per un verso sono custodi del bambino Dionisio, per l’altro si comportano in maniera aggressiva e violenta. Essi offrono dei giocattoli al fanciullo per distrarlo e lo assalgono, lo fanno a pezzi e lo sottopongono a un duplice trattamento di cottura, in quanto ne fanno bollire e arrostire le carni. Dopi l’uccisone di Dionisio bambino, Zeus punisce i Titani scagliando contro di loro il suo fulmine; essi vengono inceneriti e dai fumi delle loro ceneri sarà poi formata l’umanità. Questa ha pertanto in sé una componente dionisiaca, perché i Titani si sono cibati delle carni cucinate di Dionisio; l’umanità che nasce dai fumi delle ceneri dei Titani eredita da costoro, insieme alla loro natura aggressiva e violenta, anche la sostanza dionisiaca. Dionisio, alla fine del mito, rinasce a nuova vita poiché dal cuore del fanciullo viene formato un nuovo dio. Nell’ambito dell’orfismo è stato dunque operato un recupero di tematiche dionisiache, ma fortemente rielaborate e inserite in un contesto ideologico nuovo. Infatti, tutto questo discorso su Dionisio ucciso, sbranato dai Titani, cotto e mangiato, mira a esprimere precise nozioni antropologiche. Il fine del mito è di mostrare qual è l’origine en la natura dell’uomo: egli è il prodotto di una vicenda drammatica svoltasi a livello divino, la quale ha condizionato alle radici l’esistenza dell’umanità attuale, che risulta contaminata nel nascere da una “colpa” che però non è umana ma piuttosto divina. I Titani appartengono a una stirpe primordiale di dèi, quindi la colpa che grava sull’umanità può essere definita antecedente; un’azione colpevole di personaggi divini i cui effetti si riflettono nella costituzione dell’uomo. Ne risulta nettamente il tema dualistico che sta a fondamento dell’antropologia orfica, una volta che l’attuale condizione dell’uomo è il risultato di una causa antecedente considerata come delitto. A questo evento negativo, tuttavia, si coniuga l’idea di un’origine e di una componente divina dell’uomo. L’antropologia dualistica degli Orfici si traduceva in una particolare forma di prassi rituale e in un particolare comportamento, implicando in pari tempo specifiche nozioni escatologiche, cioè una dottrina relativa al destino ultraterreno dell’uomo. Essenziale nella prospettiva orfica è, infatti, la definizione dei mezzi attraverso i quali l’uomo può salvarsi, cioè ritornare a quella condizione divina dalla quale è caduto. Di fatto presso gli orfici si praticavano quelle che con termine greco vengono chiamate telai. Tale termine indicava contesti rituali con connotazioni catartiche molto accentuate, ossia con peculiari finalità di “purificazione”, e toni entusiastico-orgiastici. In ciò convergono i due elementi, quello speculativo-antropologico e quello cultuale. La prassi rituale mirava infatti a purificare l’uomo, cioè a operare la separazione dei due elementi, divino e titanico, da cui l’uomo attuale risulta costituito. Tali riti catartici erano finalizzati a purificare l’uomo da quel delitto primordiale compiuto dai Titani, a ottenere una buona sorte nell’aldilà. Tale buona sorte consisteva nel recupero dell’originaria dimensione divina dell’uomo. Nell’orfismo tuttavia il raggiungimento di questo fine non era affidato soltanto alle teletai, ma si affermava la necessità di una particolare condotta di vita a carattere astensionistico, implicante il rifiuto delle carni: per ottenere la purità bisognava evitare di mangiare cibo animale, ossia di una creatura in cui aveva albergato un’anima vivente. Questa prescrizione astensionistica ci riconduce alla sfera de sacrificio cruento, una volta che in Grecia non si mangiavano carni se non quelle di animali sacrificati; il mangiare carne è un atto legato in maniera imprescindibile al rito sacrificale, sicché rifiutare le carni significa rifiutare il sacrificio cruento. Si spiega pertanto perché il delitto dei Titani viene presentato nelle forme di un sacrificio. Per gli Orfici l’uccisione degli animali è un delitto (phonos), come chiaramente risulta dal secondo, complementare aspetto dell’antropologia dualistica orfica, ossia la dottrina della metensomatosi. Si afferma cioè che l’anima divina passa attraverso varie forme di vita, per cui se non si è purificata nel corso di un’esistenza passa attraverso tutti gli esseri viventi, non soltanto uomini ma anche animali. Se ne deduce allora che il sacrificio cruento è un phonos perché uccide una creatura vivente in cui alberga un’anima di natura divina. L’antropologia dualistica appare un connotato essenziale delle diverse espressioni che furono proprie dell’orfismo e che si trovarono voci in fonti di genere diverso. Se nel mito di Dioniso smembrato dai Titani, come sopra evocato e attestato presso un tardo neoplatonico (Olimpiodoro), ma già probabilmente echeggiato in Platone, vi è all’interno dell’uomo la contrapposizione tra dionisiaco e titanico ma non l’esplicita assimilazione del corpo al titanico e dell’anima al dionisiaco (anzi Olimpiodoro afferma che il corpo è dionisiaco perché i Titani avevano gustato le sarkes (carni) di Dioniso), altre fonti orfiche si esprimono in termini diversi eppur con parziali analogie. In una di quelle fondamentali, seppur problematiche, testimonianze della religiosità orfica che furono le laminette auree, il defunto afferma di essere nato dalla Terra e dal Cielo stellato, e dunque di essere di razza titanica. Altrove sarà esplicita l’assimilazione del corpo (soma) a una tomba (sema) per l’anima di natura divina. Queste suggestioni antropologiche si collocano all’interno di un quadro di più ampio respiro che riguarda il cosmo e il suo farsi; vi è una deprecata caduta nella distinzione, nella separazione e nella molteplicità del reale a partire da un primordiale concepito come intatto e unitario. Lo stretto legame tra le vicende dell’anima divina e la vicenda del Tutto è poi ben attestato nella visuale di Empedocle, circa la perenne attività dell’Amore e della Discordia, rispettivamente tali da aggregare e da disgregare gli elementi di cui si compone lo Sfero. Si tratta di un complesso di idee, quelle orfiche sull’anima divina, probabilmente originarie del mondo trace; Orfeo era detto provenire dalla Tracia e Platone parla di medici traci che curavano anche l’anima. Un’area, quella trace che come tutta l’Eurasia settentrionale doveva conoscere esperienze di tipo sciamanico, ovvero fondate sulla nozione della separabilità dell’anima. Se tali poterono essere le radici storiche dell’orfismo, sul suolo greco esso dovette esprimere l’insoddisfazione di intellettuali nei confronti delle idee religiose e nello specifico delle idee intorno al divino, all’umano e al cosmico La nozione di colpa antecedente, una colpa causatrice di esistenza, spesso si caratterizza, nelle fonti che la esprimono, per un’allusività, ottenuta con l’impiego di aggettivi indefiniti, che bene esprime la lontananza prospettica nella quale essa si colloca rispetto a questa vita fenomenica nella quale l’uomo, o talora più precisamente la sua anima divina, si trovano caduti o “gettati”. Tornando alle regole della “vita orfica”, esse comprendevano essenzialmente il rifiuto di ogni uccisione, l’astensione dai cibi carnei (e dalle uova), l’orrore per il sangue che macchia gli altari degli dei, la rinuncia ai piaceri sessuali, speciali regole relative alla sepoltura, oltre a pratiche purificatorie, sulle quali già sopra si richiamava l’attenzione, tese a separare l’esistenza degli orifici da tutto ciò che è soggetto alla morte e alla corruzione. Con ciò si venivano a rifiutare i valori dello Stato e del suo sistema religioso, e condannava il sacrificio. Culti mistici e misterici di origine orientale: E veniamo a una disamina dei principali complessi mitico-rituali di origine orientale, cosmopolitici, che si diffusero nelle terre dell’Occidente circum-mediterraneo in età ellenistica e poi in età imperiale. Quanto all’età ellenistica, è noto come con il termine ellenismo si designi una periodizzazione della storia antica, che principia con la morte di Alessandro Magno (356- 323 a.C) e termina con la conquista romana dell’Egitto dopo la battaglia di Azio (31 a.C). La complessa fisionomia culturale, e conseguentemente anche religiosa, di tale arco temporale è segnata dall’incontro e dall’amalgama tra l’elemento greco e le diverse tradizioni dei popoli, orientali soprattutto ma anche occidentali, che con esso vennero a più diretto contatto. La cultura ellenistica, pur nelle ineliminabili differenze che caratterizzano le diverse aree da essa interessate, appare segnata dalle caratterizzazioni del cosmopolitismo e dell’individualismo: in un periodo storico caratterizzato dalla costituzione dell’impero di Alessandro Magno e poi dei regni ellenistici, si assiste a un ampio travaso di individui dall’una all’altra regione del Mediterraneo orientale, e con essi di numerosi culti. L’assenza di forme di ortodossia nei contesti religiosi interessati, ossia le religioni etnico-nazionali a struttura politeistica, rese possibile il fenomeno del cosmopolitismo a livello religioso, ossia la diffusione di tali culti. Per un verso gli orientali che per varie motivazioni si trasferirono in Grecia, in Italia e in altre regioni occidentali, portarono con sé le loro pratiche tradizionali, mentre, per l’altro verso, il cittadino greco (come più tardi quello romano), riconoscendo la legittimità di tali culti stranieri, senza abbandonare le credenze e le pratiche tradizionali del suo ambiente, poté decidere di aderire all’uno o all’altro di tali culti, quando ritenne di trovarvi garanzie e soddisfacimento di personali esigenze anche e soprattutto spirituali. Tuttavia occorre distinguere tra le vicende d’età ellenistica e quelle d’età imperiale; infatti, se nella prima età la Grecia continentale e insulare nonché le grandi poleis ellenizzate d’Asia e d’Africa risultarono protagoniste indiscusse di quella mobilità di individui, pratiche e idee religiose, in età imperiale si assistette a un mutamento di prospettiva, in quanto esse rivestirono un ruolo decisamente marginale, mentre Roma divenne il centro di attrazione dei culti di origine orientale e il centro di propulsione per la loro diffusione nelle terre dell’Impero. Due tra questi complessi mitico rituali espressero una maggiore capacità di diffusione e di penetrazione dapprima nel tessuto religioso greco, e successivamente nel quadro religioso del mondo imperiale romano. Si tratta dei complessi mitico rituali relativi a Cibele e Attis, nonché a Iside e Osiride. La dea Cibele, già nel VI secolo a.C inserita nelle strutture religiose greche, venne introdotta a Roma nel 204 a.C. Protettrice e garante delle fortune dello stato, Cibele vide accanto a sé, a partire dall’età ellenistica, la presenza di un personaggio giovanile, Attis, che appare oggetto di culto. Questo si caratterizza per connotazioni tipicamente mistiche, ovvero in relazioni a complessi mitico-rituali centrati su una figura divina “in vicenda”. A Roma, la dea Cibele era oggetto di culto pubblico a base aristocratica, espresso negli annuali giochi Megalesia e nella mitico-rituali di cui è stata fino a ora parola. Innanzitutto le coppie che compaiono al centro di tali complessi mitico rituali, con l’esclusione della coppia costituita da Demetra e Persephone, sono costituite già nella loro terra d’origine da una divinità femminile associata ai temi della vita e della fecondità, e da un’entità divina o sovrumana maschile, spesso concepita come inferiore alla prima, e anch’essa legata al mondo della fecondità, ma piuttosto nel suo aspetto ciclico. Gli studi, oggi, di fatto, sono più attenti a una distinzione tra il livello del mito e il livello del rito inerenti a tali figure. A livello del mito che li riguarda, vanno fatte delle adeguate distinzioni: infatti, il mito o non parla di morte ma di trasferimento, come nel caso di Persephone, o assegna a tali figure divine “in vicenda” una fine portandole a morire miseramente e non parla di un ritorno alla vita, anche se contiene indizi in favore di un loro non essere annientati dalla morte; Adonis, per esempio, pur nella morte vede la sua bellezza intatta, Adis vede i capelli crescere e il dito mignolo continuare a muoversi, … . Proprio perché il mito li presenta, come visto, morti (tranne Persephone), ma non completamente annientati, il rito ammette una loro capacità ritornante, celebrata periodicamente, ma non una definitiva resurrezione; capacità ritornante che è però quanto basta ad assicurare il rinnovamento della vita, nei culti mistici, e le buone sorti dell’iniziato, ove tali riti abbiano conosciuto un’evoluzione in senso misterico. Adonis, Tammuz e gli altri personaggi maschili evocati, se è vero che per un verso subiscono un destino tipicamente umano, per altro verso questo loro destino è anche tipicamente sovrumano, dal momento che essi sono capaci di promuovere annualmente la vita, con i loro rituali nuziali e orgiastici. Tuttavia la tonalità generale di questi culti rimane sempre tipicamente funebre. Ove i culti mistici, incentrati su un “dio in vicenda”, conoscono un’evoluzione in senso misterico, il rito assicura all’iniziato (e non più alla collettività) anche una buona sorte nell’al di là; buona sorte diversamente configurantesi, ma comunque modulata in analogia con la vicenda del dio. Il tipo di “dio in vicenda”, come sopra delineato, non è un tipo “univoco”, ma piuttosto “analogo”: un’analogia che riconosce le affinità ma anche le profonde differenze, ovvero le specificità a livello mitico e a livello rituale che caratterizzano le diverse figure in questione ove siano comparate tra di loro; ma anche caratterizzano, affinità e differenze, le diverse attestano documentarie relative alle diverse fasi della “storia” di una singola figura divina “in vicenda”, nel suo migrare lungo le strade del mondo circum-mediterraneo e vicino-orientale in età antica e tardoantica. Le osservazioni che abbiamo svolto in merito al tipo del “dio in vicenda” vorrebbero anche servire per rendere ragione, per il tramite dell’esempio addotto, delle differenze che intercorrono tra la prospettiva storico-comparativa propria della storia delle religioni, e una tipica prospettiva fenomenologica. Prendiamo una figura di estremo interesse nel campo della storia delle religioni: Tammuz. Nelle vicende e nel destino di un personaggio di tale genere si possono studiare il pathos e la caratteriologia che lo identificano. Sorge però un problema: andiamo noi, in sede di storia delle religioni, a indagare questa figura, a “scoprirla”, come se essa avesse una sua presupposta consistenza a parte rei, o nella mente umana, solo da scoprire? Indulgeremo noi a una posizione di tipo fenomenologico quasi che esistesse nella mente umana un archetipo del “dio morente”? Evidentemente no. La ricerca storico-comparativa, infatti, deve ricostruire tale personaggio, anzi lo deve “costruire”; cioè gli deve dare un senso storico-religioso, quello che risulta dall’indagine storico-comparativa; quindi lo deve indagare senza ammettere che esso sia un a priori al di qua o al di là di tutte le varianti storiche che lo concernono. Un caso particolare: Mithra e il mitraismo in età imperiale: Il mitraismo si diffuse nei domini romani tra la fine del I sec. d.C. e il IV sec. d.C.. In primo luogo, il culto mitraico è il solo a non avere dietro di sé una fase in cui si connoti come culto mistico; ovvero è il solo a offrire nelle terre dell’Impero solo una facies misterica. Il culto del dio iranico Mithra, dopo un periodo oscuro di “incubazione” durato secoli nei quali elementi di antica tradizione iranica andavano fondendosi con apporti anatolici e greci, esplose verso la fine del I secolo d.C in una forma misterica, ossia iniziatica ed esoterica. Aperto ai soli uomini, privo di una dimensione pubblica e tutto conchiuso nella cerchia degli iniziati, celebrato all’interno degli oscuri spélea (“grotte”), il mitraismo propose una complessa ideologia di ispirazione cosmosofica e insieme un’etica severa, di impegno attivo nella vita sociale sull’esempio del “dio invitto”, Mithra. Il mitraismo seppe così coagulare larga parte delle istanze religiose ed etiche delle classi militari e degli alti funzionari dell’apparato statale, al punto da poter offrire in momenti di profonda crisi supporto all’identità politico-religiosa della Roma pagana. In secondo luogo, il mitraismo è il solo a non offrire la figura di un dio patetico come quelli degli “dei in vicenda”, ovvero quegli dei che conoscevano nel mito o una definitiva sorte nell’Ade o un alternante presenza nel mondo infero e nel mondo divino, e nel rito una annuale rinnovata capacità di tornare. Infatti Mithra, spesso definito nelle fonti come “invitto”, è protagonista di una vicenda mitica che non conosce sparizioni, sconfitte o “morti”, ma che tuttavia matura attraverso prove, fatiche e difficoltà. In particolare, la ricerca, la cattura e poi l’uccisione del toro (tauroctonia), viene a essere l’atto fondamentale della vicenda mitica di Mithra; atto fondatore e promotore di vita capace di contrastare le forze mortificatrici e corruttrici. Alla tauroctonia si riferisce una nota iscrizione (III d.C) presente nel mitreo di S. Prisca a Roma: “et nos servasti aeternali sanguine fuso” (e, versato il sangue eterno, ci hai salvato). Si tratta di una salute collettiva e cosmica, ove il sangue eterno è il sangue del toro ucciso nei primordi da Mithra per promuovere la vita del cosmo. Il perfetto “servasti”, da “servare” (salvare) è importante. È una salvezza bio-cosmica; ad essa si univa, nelle attese dei fedeli, una salvezza intesa come salvaguardia della vita ma in riferimento al singolo individuo. Tuttavia, a tale prospettiva costituita da una salvezza intramondana, nelle sue diverse forme, si unisce un’altra prospettiva, espressa da rilievi e decorazioni che mostrano Mithra ascendere al cielo in unione con il Sole, verso quell’alto a cui gli iniziati sperano di poter giungere dopo la morte. Tale è la prospettiva testimoniata da Celso, che ci mette dunque di fronte a una tematica di ascesa delle anime, all’interno di un cosmo concepito come scala che l’anima deve salire per poter accedere a un livello di aternitas, al cielo delle stelle fisse. Utile è il riferimento al Documento finale del Colloquio Internazionale sul mitraismo tenutosi a Roma nel 1978. Tale Documento così si esprime: “il mitraismo è una religione di tipo mistico, a struttura misterica, fondata su un dio “in vicenda”, sebbene non concepito come “morente” ma come invictus, che fonda per l’uomo una prospettiva soteriologica intra ed extra mondana, espressa con una simbologia non priva di connessioni con la tematica della fertilità, all’interno di una struttura iniziatica celebrantesi in santuari appositi sulla base del principio esoterico. Ma questa struttura misterica si effonde in una prospettiva “misteriosofica” fondata sull’idea di una vicenda dell’anima, all’interno di un cosmo non concepito come “carcere” ma come “scala” che l’anima deve percorrere per raggiungere il livello di aternitas (stelle fisse). Si tratta quindi di una tutta speciale misteriosofia, non anticosmica, ma al contrario “cosmosofica”, cioè implicante una visione misteriosofica positiva del cosmo stesso, sebbene nel contesto di una vicenda o storia dell’anima. Misteri e salvezza. Studio di un caso: il “dio salvato”: Dopo F. Cumont e le sue opere Les religions orientales dans le paganisme romain e Lux perpetua, è invalsa l’abitudine di considerare i culti di origine orientale come “religioni di salvezza”, ma si è venuta intendendo tale salvezza in maniera non adeguata, e cioè o in senso cristiano o in senso orfico-platonico, e più generalmente misteriosofico, come liberazione dal mondo e dal corpo. In sostanza, variano nei diversi culti di origine orientale, le concezioni di salus, nonché i modi per conseguirla, e questo avviene non solo tra i diversi culti ma anche all’interno dello stesso culto, quando questo presenta un livello essoterico o pubblico e un livello esoterico-iniziatico o misterico. Facciamo brevemente riferimento alla testimonianza di Firmico Materno contenuta nell’opera de orrore profanarum religionum, in merito a un rituale notturno celebrato intorno a un “dio anonimo”. L’opera dell’apologista cristiano è indirizzata agli imperatori Costante e Costanzo II, affinché prendano provvedimenti per il definitivo abbandono dei culti pagani. I culti orientali occupano nell’opera di Materno una parte considerevole e l’opera risulta uno strumento utilissimo per tante informazioni su di essi. La testimonianza che consideriamo descrive un rituale notturno in cui vengono operate certe manipolazioni sulla statua di un dio innominato: la statua giacente e forse divisa in parti viene ricomposta e innalzata. Gli studiosi sono stati a lungo divisi sull’attribuzione del culto in questione ad Attis (sogno di Damascio: autore neoplatonico del VI secolo che riferendo un sogno in cui si vide diventato Attis e onorato da Cibele nella festa degli Hilaria, afferma “questo sogno mostrava che noi eravamo salvati dall’Ade”. Tuttavia tra Damascio e Firmico non vi è analogia dimostrativa salvo il verbo “salvare”. Inoltre nel testo di Damascio non vi è una liturgia notturna) Osiride (ricomporre la statua: ricomporre il corpo di Osiride, che, secondo il mito, era stato sembrato) o Adonis. Il testo di Firmico descrive una liturgia notturna compiuta su una statua di un dio innominato, giacente su una lettiga; una statua forse divisa in parti e ricomposta, per poi essere innalzata. Le diverse fasi del rituale sono descritte per esteso. Quando i fedeli sono sazi dei pianti e delle lamentazioni notturne compiute sopra la statua, viene introdotto un lume e successivamente il celebrante unge a tutti la gola, e mormora la formula rituale, in greco “abbiate fiducia, o iniziati del dio salvato/essendo stato salvato il dio: ci sarà infatti per noi salvezza dai dolori”. La conclusione del rito, poi, era festosa e piena di gioia. Le manipolazioni operate sulla statua alludono in qualche modo a un passaggio da morte a vita. Per determinare il tipo di salvezza offerto dal culto è importante studiare il carattere del dio a cui quel culto è dedicato, e il carattere del dio lo si evince, per questa età e per questi contesti, dai miti e dai riti che al dio si riferiscono. Certamente si deve subito dire che, stante la probabile identificazione del dio anonimo con Osiride (ma anche nel caso di altre identificazioni), si tratta di una figura divina, quella cui il rituale si riferisce, che non conosce a livello mitico-rituale il motivo di una definitiva resurrezione; pertanto, anche le prospettive che si aprono ai devoti non sono da immaginare nei termini di una resurrezione, ed essi non sono stati salvati dalla morte, bensì nella morte. A lungo la critica si è esercitata nell’interpretazione della formula in greco, sia per il tramite della comparazione con altre formule liturgiche, sia inserendola nel più ampio contesto rituale che la ospita. Illuminante appare la comparazione con un’altra testimonianza sicuramente riferibile ai rituali osirici come noti a Plutarco agli inizi del II d.C. Si tratta del capitolo 27 del de Iside et Osiride. Il testo plutarcheo narra come, dopo le drammatiche vicende connesse con la scomparsa e il ritrovamento dello sposo, e dopo aver sconfitto l’opposizione di Seth, Iside istituisse specifici riti, affinché non fossero dimenticate le fatiche e le lotte che aveva dovuto superare alla ricerca di Osiride. Iside “consacrò, inserendoli in rituali santissimi, figure, simboli e imitazioni dei dolori di allora, affinché fossero di insegnamento e insieme di consolazione (…)”. Si tratta dunque di un rituale dove si rappresentano le drammatiche vicende sofferte dalla coppia divina che corrispondono ad altrettante prove di coraggio e di saggezza da parte di Iside. Questo testo rivela quali fossero, nell’idea di Plutarco e dei suoi contemporanei, le finalità del culto misterico di Iside e Osiride: il rituale drammatico rappresenta e rievoca le vicende occorse ai due dei per essere di insegnamento e di consolazione per tutti coloro che vi si accostassero all’interno dei rituali, ma non ancora, esplicitamente, come invece nel testo di Firmico, che è del IV secolo, di salvezza. La tipica interferenza tra i piani del divino e umano propria dei rituali mistici e misterici si realizza qui sul piano dei fatti (i dolori attraversati da dei “in vicenda”, e da uomini), sul piano dei sentimenti e degli atteggiamenti (la dea intende far partecipare gli uomini dei sentimenti e degli atteggiamenti sperimentati da lei) e sul piano degli effetti (lieta soluzione della vicenda di Iside e Osiride, e, sperata, lieta soluzione dei casi dolorosi degli uomini). Quale soluzione per gli uomini? All’individuo la dea garantisce una salvezza che si può ritenere configurarsi nei seguenti termini: non salva, la dea, dal grande Destino, come poteva accadere per l’Iside pubblica, e neppure dai singoli e frammentari casi dell’esistenza (naufragi, malattie, …) come i tanti dèi “salvatori” del pantheon greco e poi romano; ma salva da un destino doloroso che è insieme universale e personale: il destino di morte. L’iniziato può sperare di oltrepassare indenne la soglia della morte per raggiungere un Elisio infero. Ne avremmo conferma in un altro testo riferibile sicuramente a rituali isiaci ormai sicuramente misterici, vale a dire le Metamorfosi di Apuleio. Innanzitutto i ponoi (dolori, prove) ivi menzionati possono essere visti in parallelo ai pathemata sopportati da Iside e Osiride nel testo di Plutarco e alle symphorai (casi dolorosi) sopportati dagli uomini nello stesso testo plutarcheo. Se la salvezza è liberazione dai ponoi, il problema è come interpretare questi ponoi. Riteniamo l’interpretazione di Bianchi la più pertinente e articolata: “l’uso assoluto, generico sia di ponoi che di soteria assicura che non si tratta di qualunque dolore, male o incidente che possa capitare a questo o a quell’uomo, ma del dolore per eccellenza, del male intrinseco all’esistenza umana; di una salvezza da quell’universale dolore che si celebra nell’intimo di ogni individuo nell’ora in cui la morte lo identifica in maniera incancellabile. Ebbene, questa salvezza concerne l’iniziato così come, prima, concerne il dio, alla cui vicenda si riferisce il rito nelle diverse fasi del suo svolgimento. D’altra parte, dato il contesto in cui figura l’espressione “soteria dai ponoi”, contesto che riguarda la sepoltura d’un dio, che viene pianto e poi tratto fuori dalla sepoltura, ci si può chiedere quanto il tema della morte concerna, oltre che il dio, anche i fedeli, gli iniziati; quanto, più in generale, sia coinvolto il tema dell’umana mortalità. Se in questo senso si deve pensare, si potrà allora ritenere che i ponoi in questione, i dolori dell’umana esistenza, concernano anche e forse anzitutto il destino di morte. In questo caso, la “soteria dai ponoi” sarebbe prospettiva di buona sorte oltre la morte, salvezza relativa al fatto della morte. Mentre il non iniziato, attraversando la soglia della morte, verrà spogliato di tutto e resterà pura e misera ombra, l’iniziato passerà per così dire sotto la soglia della morte, non subirà alcun danno dal passaggio, non dovrà nulla a quei terribili portinai o doganieri, anzi si avvierà verso la sede della regina degli Inferi, che gli sarà benevola, e verso una specie di Elisio sotterraneo riservato agli iniziati. Nel caso degli iniziati di cui parla il testo di Firmico, apparirebbe che l’iniziazione non è solo “garanzia di”, ma anche “salvezza da”, da un destino umano doloroso e ineluttabile come i ponoi. Se le cose stanno così, il testo di Firmico sarebbe buona testimonianza di una situazione abbastanza tipica nell’età tardo-antica, quando si fa sentire il bisogno di salvezza, salvezza dal destino umano nelle sue forme più caratteristiche, quindi anche salvezza dalla morte. Se dunque la forma riferita da Firmico offre il tema di una salvezza da un dolore individuale e universale quale la morte, e quindi una prospettiva di buona sorte dopo la morte, nulla del testo autorizza un’interpretazione in senso misteriosofico, dunque con allusione a una vita che è morte e a una morte che sola dà l’accesso alla vera vita. Lo scarto con la prospettiva cristiana di salvezza appare evidente se si considera che il dio al centro del rituale descritto da Firmico non è definito salvatore, ma salvato, il che ne esprime la fondamentale intransitività, passività. Tale caratteristica del dio appare in continuità con la tradizione egizia antica, ove Osiride non è un salvatore ma un salvato. Ritornando al testo di Firmico, dopo la formula il polemista si rivolge a una seconda persona che può essere interpretata come il celebrante ma anche come il demonio (ispiratore per Firmico del rito in questione). Poi, il polemista si rivolge al fedele con una serie di “tu” che sottolineano come Firmico veda nel rituale un fatto meramente umano dovuto all’iniziativa umana, e non un fatto che si impone all’uomo. In particolare si considerino le seguenti espressioni: “Tu deum tuum liberas”, efficace apostrofe di Firmico che vuole sottolineare come siano degli uomini a salvare l’idolo piuttosto che il contrario; e “tibi agat gratias deus tuus”, che vuole esprimere, nell’intenzione di Firmico, un paradosso: un dio che deve essere grato all’uomo. L’espressione tuu deus, da un lato suona ironica, come nell’intenzione di Firmico, dall’altra però viene a suggerire quel legame di vicinanza che il fedele percepiva legare a sé il dio: siamo nel clima che gli studi hanno definito come “religiosità personale”. Il dio pagano resta morto, sottolinea Firmico dopo aver descritto la celebrazione del rituale notturno di cui sopra, a differenza di Cristo, la cui resurrezione, sottolinea Firmico, è storica e definitiva, annunciata prima che avvenisse e comprovata dopo essere avvenuta; il ritorno rituale del dio animo è invece ciclico, cioè caratterizzante un rito periodicamente riproposto. Va ricordato che, come i culti misterici antichi e d’età imperiale non costituirono un fenomeno unitario quanto a credenze e stili rituali, anche l’atteggiamento dei polemisti cristiani non fu univoco nei loro confronti, ma caratterizzato da alcuni fondamentali tendenze. La prima è quella di un rifiuto che si manifesta come ripugnanza. Tale sentimento era suscitato in particolare dal culto isiaco, condannato per la sua ostentata effemminatezza e, per ragioni opposte, dal culto metroaco o della Magna Mater Cibele, con le pratiche cruente dei suoi sacerdoti e il suo cruento rito del taurobolio, nel quale il fedele veniva bagnato dai fiotti del sangue del toro ucciso. L’altra tendenza, è quella della condanna di tali riti in quanto ritenuti contraffazioni diaboliche di riti cristiani e denunciati nella loro inutilità come strumenti per raggiungere i fini salvifici che i unico dietro o al di sopra dei molti dèi cui si rivolgeva il culto, affermano come la distinzione più profonda tra monoteismo e politeismo consista “nell’accettazione oppure nel rifiuto della possibilità di entrare nella relazione immediata con l’unico Assoluto, paragonabile analogicamente al dialogo interpersonale. Il monoteismo, riconoscendo l’unicità dell’Assoluto, ne riconosce il carattere personale grazie al quale egli può parlare e si può parlare con lui. Si conferma la necessità di sottoporre a un’analisi di storia e di tipologia religiosa quella tendenza all’unità, all’unicità del divino; tendenza che, fattasi pervasiva nel paganesimo dei primi secoli d.C., aveva conosciuto nella cultura greca in età arcaica, classica ed ellenistica, molteplici anticipazioni. Una tendenza che da più parti è stata definita, impropriamente, come “monoteismo pagano”, e talora, più propriamente, come “enoteismo”. Già nei testi omerici si può presentare l’uso di o theos (il dio) al singolare, oppure dal neutro, pure dal singolare, to theion (la divinità), ma in senso collettivo e in riferimento alla potenza divina generica. Un modo, questo per esprimere una qualche percezione di una forma di unità del mondo divino che pur resta “plurale”. Le antiche teogonie greche, come l’esiodea e le orfiche, ammettevano la derivazione delle entità cosmiche e degli dei da principii o archai di carattere impersonale o abissale, come il Chaos in Esiodo o la Notte in ambito orfico. Ma, mentre la teogonia e cosmogonia esiodea aveva un carattere ascendente, per il quale l’ordine non è agli inizi ma alla fine del processo teocosmogonico, tipica dell’impostazione orfica era l’idea monistica, non monoteistica, dell’unità e totalità primordiali del divino, assoggettato a lacerazioni e frammentazioni a causa di un principio agente sulla totalità intatta del primordiale. Una cosmogonia orfica, attestata nel III a.C da Apollonio Rodio, parla di una discordia che all’origine separò l’uno dall’altro i tre elementi cosmici (terra, mare, cielo), separazione cui sarebbe poi succeduta tutta la storia cosmica e le varie generazioni di dei fino a Zeus. Vicino al pensiero orfico è Empedocle, che parla dell’Uno primordiale in forma sferica ove stanno compattati i quattro elementi cosmici (acqua, aria, terra e fuoco) ai quali egli dà nomi di dei. L’Uno soggetto all’alternante azione di Neikos (Discordia) e Philia (Amore). È stato riconosciuto il riconosciuto il ruolo importante svolto dalle antiche cosmogonie nell’investigazione più propriamente filosofica da parte dei presocratici dell’arché, il principio primo, il primordiale fondamento e inizio delle cose (con Talete, VII-VI a.C, l’acqua; con Anassimandro, l’apeiron; … e così via). Tali posizioni, secondo studi recenti, attesterebbero una tendenza monoteistica. Per M. West, per esempio, Anassimandro non era solo monista ma anche monoteista perché “derivava ogni cosa da un singolo divino principio”. A simile interpretazione si può obiettare che anche il caricare sul principio primo attributi divini non lo assimila ai diversi theoi di un pantheon politeistico né tanto meno allo theos unico di un orizzonte monoteisticoindebito allargamento della categoria. È vero invece che già nell’ambito delle antiche teogonie, come quella esiodea, si esprime, non a livello speculativo ma poetico e immaginifico, un’esigenza di unità ricorrendo ad artifici diversificati. Basti pensare all’attribuzione alla volontà di Zeus, quella provvidenziale volontà che regge il mondo attuale, di alcuni degli avvenimenti che concernono momenti della teogonia in cui Zeus non era ancora stato generato (l’evirazione di Cronos per esempio). Un controsenso logico, ma funzionale a un’unificazione o “compattazione” della pluralità di quelle figure divine che la teogonia offre secondo un’impostazione di tipo genealogico-dinastico. Anche il tema tipico dell’epica greca arcaica costituito dall’assemblea degli dèi presieduta da Zeus è motivo in qualche modo unificante, ma non certo tale da costituire un passo verso il monoteismo. Senofane di Colofone lega la speculazione sull’arché e sull’Uno alla speculazione relativa alla divinità (il suo pensiero ci è arrivato nella forma di frammenti). All’interno della sua polemica contro l’antropomorfismo e le modalità di descrizione omerico-esiodee degli dei, che a questi attribuiscono ogni sorta di vizi, egli parla di una divinità rigenerata, immobile, una, che esalta in contraddittorio con il crasso politeismo dei miti eroici, ma della quale è difficile dare un preciso concetto, e che comunque non esclude l’esistenza di altri dei: “un solo dio, tra gli dei e gli uomini grandissimo (o: il più grande), né nel corpo ai mortali simili né nell’intelletto. Nel suo tutto egli vede, nel suo tutto pensa, nel suo tutto ascolta”. Altri frammenti, tuttavia, fanno riferimento all’acqua e alla terra, o alla sola terra, come elementi cosmogonici, e confermano la difficoltà a fare del dio Senofane un principio della realtà e tanto più un dio creatore: “tutti dalla terra e dall’acqua siamo nati”. Come afferma Bianchi: “siamo lontani da una posizione monoteistica nel solo senso pienamente e storicamente legittimo, cioè nel senso creazionistico”. Infatti, tra il Dio dei cristiani e il Dio di Senofane non c’è commensurabilità; il primo ha delle caratteristiche di trascendenza e di creatività, oltreché di personalità, che non sono tutte proprie del secondo, il quale, del resto, non esclude l’esistenza di altri dei. Del resto tra il Dio di Senofane e lo Zeus di Esiodo non c’è commensurabilità, perché il primo è metafisicamente uno e primordiale, e l’altro è solo l’ultimo epigono di una dinastia e il gerarca di una corte di parenti e sudditi. Ma tutti e due convengono nella possibilità di non monopolizzare la qualifica di “Dio”, perché ammettono la coesistenza di altri dei. Bianchi conclude ricordando come, in ambito “pagano”, un’essenziale distinzione dovrà operarsi tra una concezione personalistica del dio e una concezione monistica, anche se le due non sempre sono nettamente distinguibili. Brelich, storicizzando il pensiero di Senofane, osserva che “non bisogna neppure isolare il personaggio di Senofane da tutta la sua epoca. Egli non è fuori del suo tempo. Per effetto della rapida trasformazione sociale del VI secolo, che vede dovunque il crollo del regime aristocratico, l’ascesa della tirannide e l’inizio della democrazia, tutte le antiche forme tradizionali dell’esistenza greca appaiono, quasi all’improvviso, messe in questione: così anche quelle della religione. Veniamo ad altre testimonianze della grecità antica che esprimono una tendenza all’unità e, sotto gli specifici profili considerati, all’unicità del divino. Già noti a Platone dovevano essere i versi orfici riferitici da fonti diverse tra cui il de mundo pseudo- aristotelico: “Zeus nacque per primo, per ultimo Zeus dalla vivida folgore;/ Zeus è la testa, Zeus è il mezzo; tutto si è prodotto da Zeus;/Zeus fu maschio, Zeus immortale fu fanciulla pronta alle nozze. Zeus è il soffio di tutte le cose; …”. Zeus ha, qui, un ruolo primordiale e insieme riassume e conclude l’intero processo delle cose. Nell’affermazione che Zeus è il primo e l’ultimo, echeggia il concetto di una compiutezza, una totalità in senso temporale cui si collega una totalità in senso spaziale. Nel verso successivo, infatti, si dice che Zeus è l’inizio, il mezzo e il compimento. E poi che la terra e il cielo, cioè il tutto, hanno Zeus come sostanza o fondamento. Anche la menzione del maschio e della fanciulla esprimono una prospettiva totalizzante. Siamo lontani dall’idea di un dio personale, totalmente trascendente. Il dio è per larga parte il cosmo, o meglio è la sostanza di cui è fatto il cosmo. Una posizione, questa, definibile panteistica. Nel panteismo tutto è dio, o tutto è divino; il mondo è divino ed esaurisce il divino. Ma più propriamente, per questa specifica testimonianza si può parlare di dottrina “teopantistica”, per la quale la divinità è il tutto che pur essa sopravanza e di cui costituisce la trascendente base e sostanza. Nel teopantismo il mondo ha una sostanza divina, ma la divinità in un certo modo lo trascende. Il corpo di Zeus non è puramente identico all’universo visibile, ma ne è la sostanza divina. Rimane cioè una qualche distinzione tra il corpo di Zeus è il cosmo. Un’altra posizione teopantistica esemplare è nel noto frammento eschileo: “Zeus è l’etere, Zeus è la terra, Zeus il cielo, Zeus il tutto.” Il dio è il tutto, e dunque è un dio cosmico, che pure in un certo modo trascende il cosmo. E si osservi come il dio cosmico, in una mentalità come quella greca che ignora il concetto di creazione, è “uno” perché tutto abbraccia e tutto si risolve e si identifica in lui, principio unificante dell’universo; ed è anche, per conseguenza un dio “unico”, in quanto appunto “dio cosmico”. Per alcuni aspetti analogo a quello orfico, seppure in trascrizione stoica, è il sentire di Cleante (334-232 a.C), il secondo scolarca della Stoa. Lo stoicismo, dal suo sorgere alle più tarde declinazioni, si caratterizza per la tendenza a una legittimazione delle pratiche tradizionali di tipo politeistico unita a una tendenza alla reinterpretazione degli dei, quali espressioni di un’unica potenza divina. Nell’inno a Zeus di Cleante, il dio ha tuttavia una personalità molto etica molto caratterizzata e si pone anche al di sopra e al di là della Ragione (Logos) che tutto pervade. Importante segnalare come le testimonianze orfiche che abbiamo sopra riportato, nel momento in cui descrivono un grane dio cosmico che in sé riassorbe il tutto ma al contempo lo trascende, offrano una sistematica del divino caratterizzata da una tendenza all’unità e all’unicità, ormai lontana da una logica di teogonia, ma pure lontana da una logica di verticalità divina. E se sotto il profilo dell’antropologia la visione orfica ha molto in comune con quella platonica, sotto il profilo della teologia e ne distanzia: le visioni teologiche greche fin qui considerate manifestano una tendenza all’unità del divino, un’unità che talora, e sotto i profili considerati, si fa anche unicità, rimanendo comunque lontane, tali visioni, da posizioni monoteistiche. Le modalità di rappresentazione della pluralità divina subirono delle profonde trasformazioni col trascorrere dei secoli, dal periodo arcaico al periodo ellenistico e poi ai primi secoli dell’era cristiana. L’antico politeismo si vede sovvertito nella sua orizzontalità stratificata e sostituito da una verticalità senza compromessi. Per orizzontalità stratificata si intende la tipica modalità di presentazione delle diverse collettività divine o sovrumane come offerta fin dai testi omerici, legati a strati diversi della grande geografia sacrale. A tale orizzontalità stratificata si venne a sostituire come dimensione prevalente la verticalità, e con essa vi fu l’abbandono di quella logica teogonica che comandava la teologia esiodea. È la logica teogonica a comandare in Esiodo, e nella teologia che a lui attinge, le disparità all’interno del mondo divino, ovvero tra gli dei di un tempo, violenti e immani e i nuovi dei garanti dell’ordine ed espressione di razionalità. In relaziona al mondo divino, come sistematizzato in Esiodo, si manifestano già delle innovazioni quando alle vecchie teogonie si sostituiscono nuove gerarchie divine: al di sopra gli dei, se non addirittura il dio, sotto i daimones e infine gli eroi. In sostanza, il divino tende a normalizzare le sue disparità interne sul piano di una graduazione verticale. In questa particolare rilevanza assume la categoria dei daimones. Nel mito esiodeo delle cinque razze, contenuto nella Theogonia, il termine daimones designa gli uomini della prima e della seconda razza, dopo la loro morte, e dunque delle entità non umane ma distinte dai grandi dei del pantheon olimpico. A livello popolare doveva essere diffusa la convinzione che i daimones fossero la sopravvivenza di uomini morti. Platone nel Convito afferma che i daimones sono esseri intermedi e intermediari, anche spazialmente, tra gli dei e gli uomini. Dopo la “razza divina degli astri” l’autore pone i demoni eterei e aerei e i “semidei”, costruendo una scala di potenze, la quale ci si offre, dunque, come una teologia che, mentre addita la necessità di un discorso “veritiero” sul dio, si viene a caratterizzare in senso “gerarchico”. Per il discepolo di Platone, Senocrate, gli dèi della mitologia tradizionale e quelli al centro di culti mistici eventualmente evoluti in senso misterico, sono interpretati come daimones. Si va affermando la tripartizione greca degli esseri sovrumani in theoi- daimones-heroes. Nei primi secoli dell’era cristiana, la riflessione demonologica verrà accolta e ulteriormente articolata da Plutarco. Nella sua opera de Iside et Osiride, egli verrà a interpretare Iside e Osiride e gli altri personaggi del mito egizio, come daimones negativi o positivi. Le indicazioni circa l’unità e verticalità del divino o del sovrumano, che andiamo illustrando, appartengono piuttosto al versante della riflessione dotta; versante diverso rispetto a quello costituito dalle credenze e dalle pratiche diffuse nei diversi strati popolari. “Monoteismo pagano” nella Antichità tardiva?: Iniziamo la nostra riflessione partendo da un seminario svoltosi a Oxford nel 1996 sul tema “Pagan forms of monotheism in late antiquity”, i cui Atti sono stati pubblicati con il titolo di Pagan Monotheism in Late Antiquity. Questo “monoteismo pagano” sarebbe attestato da un’ampia base documentaria, che dal VII-VI a.C giunge fino al V d.C. Per converso e contemporaneamente si tende a valorizzare come espressioni di una sorta di politeismo, manifestatosi in ambito giudaico e cristiano, prassi e concezioni quali, per esempio, il culto dei martiri o degli angeli. Tutte assunzioni, queste, che suscitano molte perplessità in sede di una corretta analisi storico-religiosa. Infatti, l’opera è priva di solidi fondamenti metodologici, e a essa si deve imputare un uso troppo generico della categoria di “monoteismo”, che verrebbe a identificare qualsiasi posizioni filosofico-religiosa che chiami in causa un principio unico della realtà. È opportuno offrire di seguito una rassegna delle principali fonti coinvolte nel dibattito scientifico sul “monoteismo pagano” nella Tarda antichità. Considereremo pertanto, per l’ambito ellenico, fonti letterarie di interesse religioso che fanno riferimento al tardo platonismo, nelle sue forme denominate “medioplatonismo” e “neoplatonismo”. Il medioplatonismo nasce verso la seconda metà del I d.C e dura fini alla fase neoplatonica. Si tratta di un indirizzo di pensiero che si propone il compito di offrire un’interpretazione corretta degli scritti di Platone, senza ignorare l’apporto delle cosiddette “dottrine non scritte” e senza tralasciare di instaurare un rapporto con il pitagorismo e l’aristotelismo. Tema fondamentale della riflessione medioplatonica non è l’etica, ma la teologia. Per il medioplatonismo, miti e riti della religione tradizionale esprimono in maniera più o meno oscura e inconsapevole verità che solo il filosofo sa riconoscere compiutamente. Oltre alla gerarchia divina, viene teorizzata da autori d’ambito medioplatonico un’altra gerarchia, maturata da una riflessione sui dati offerti dalle tradizioni religiose a struttura politeistica. In tal modo vengono formulati sistemi teologici caratterizzati da una visione graduata o gerarchica del divino, di tipo piramidale, intesa a coniugare la trascendenza di un dio sommo inconoscibile e innominabile e la moltitudine delle presenze divine dai profondi legami cosmici. Nel medioplatonismo la divinità suprema è al di là del mondo sottoposto alla genesis, al divenire, ma anche al di sopra della sfera divina cui si rivolge il culto, la sfera degli dèi, distinta al suo interno in dèi visibili e invisibili, al di sotto della quale è quella dei demoni, anch’essi al loro interno diversificati. Il dio sommo è indicibile-innominabile. Si ammette tuttavia la possibilità per via analogica di approssimarsi alla sua natura, e dunque si viene ad ammettere come caratteristica del dio sommo anche la polinomia. Numeno, medioplatonico, istituisce una gerarchia tra il primo dio, che metaforicamente è detto “padre” del secondo dio; il secondo dio, detto demiurgo della genesis, laddove il primo è detto demiurgo della ousia; il terzo dio, identificato ora con l’Anima del mondo ora con il cosmo stesso. Dal canto suo, la materia è presentata come ingenerata, quale fiume che scorre impetuoso. Pur subendo l’azione del secondo dio, essa riesce a scinderlo in due, e ad attrarlo a sé introducendo in lui il desiderio per il mondo sensibile. La materia è vista come principio e causa del male. Uno scritto “pseudepigrafo” pitagorico, “Sul dio e sul divino”, situabile verosimilmente fra I e II d.C, dopo aver illustrato le prerogative del “dio” che sovrasta tutti i viventi, inconoscibile, insieme intelletto, anima e principio razionale direttivo di tutto il cosmo, percepibile soltanto attraverso la ragione e l’intelletto, dichiara: “mi sembra che non ci sia un solo Dio, ma Uno il più grande, il quale domina il tutto, e gli altri molti sono differenti per potenza. Questo è il dio che abbraccia tutto intero il cosmo”, mentre gli altri dèi si muovono nel cielo sottoposti al primo dio intellettuale. “Coloro che non ammettono altro che un dio – prosegue – si ingannano poiché non comprendono che ciò che eleva di più la trascendenza divina è il fatto di regnare e di avere il comando sui suoi pari”. Anche in altre fonti si sarebbe espressa un’analoga polemica da parte pagana contro l’esclusivismo giudaico e cristiani, che fa vivere il dio unico in solitudine e desolazione. All’ambito medioplatonico fa riferimento anche Apuleio con la sua opera De Plaone et eius dogmate, e con il De deo Socratis. Egli illustra uno schema teologico che contempla la distinzione tra un dio supremo trascendente e una schiera di dei inferiori, distinti invisibili (i divini corpi celesti: sole, luna, stelle e pianeti) e invisibili (le divinità dei culti tradizionali e protagoniste dei miti). Gli dèi del secondo rango sottostanno al dio supremo e non hanno un rapporto diretto con gli uomini, di cui si prendono cura per mezzo dei demoni. Al di sotto del livello divino e al di sopra del livello umano sono collocati i demoni, che operano come tramiti tra i due livelli. Ai demoni vengono riferiti i fenomeni della divinazione e della magia, come pure i sogni. Ricevono sacrifici e sono oggetti di atti cultuali; sono anche responsabili del male e possono agire come strumenti della divina provvidenza e giustizia nella punizione dei malvagi. Tale teologia graduata apuleiana si rivela allora particolarmente funzionale a una specifica impostazione e soluzione del problema dell’unde malum, ovvero alla soluzione di questioni concernenti la responsabilità di dio in ordine al male. È a livello del divino inferiore e specificatamente del demoniaco che viene collocata la radice del male. Il livello demoniaco si caratterizza per una tensione interna tra demoniaco “buono” e demoniaco “cattivo”. Si tratta di una concezione di male non meramente etico, ma anche e soprattutto ontologico: vale a dire un male che si radica e si origina in una natura data, quella demoniaca. In Apuleio il dio supremo è parens degli dei; dopo Platone, l’applicazione di pater e poietes al dio quali quella che recita: “uno (heis) (è) Zeus, Serapide, Helios, signore del cosmo invincibile”. Chiamare Serapide “Zeus” significa attribuirgli caratteri di sommità e sovranità tradizionalmente legati in ambito greco a Zeus, e chiamarlo “Helios” significa attribuirgli quei caratteri che il Sole andava assumendo in età ellenistica ed ellenistico-romana, come figura in cui, per eccellenza, si poteva identificare la divinità. Gli altri attributi lo qualificano come potente signore del cosmo, non certamente creatore, ma tale da promuovere l’esistenza del cosmo stesso. La definizione che ne dà Plutarco di dio “comuna a tutti gli uomini”, ne esprime il carattere universale tipicamente ellenistico. Strettamente legata all’universalità è la cosmicità del dio, riconosciuto come colui che promuove il movimento dell’universo; non più dio settoriale, come il tipico dio politeistico, non dio “in vicenda” come Osiride, ma fondamentalmente stabile e privo di genealogia e di miti. Caratterizzazioni solo in parte analoghe a quelle di Serapide viene ad assumere Iside. Man mano che si diffonde il culto di Iside, la dea vede arricchire le proprie prerogative, oltre a quelle originarie di nume tutelare della fecondità. Detta anche Tyche o Fortuna, è riconosciuta come reggitrice del Destino astrale. Quella isiaca, come venutasi a configurare nel secondo ellenismo, esprime una forma di “religione personale”, ovvero di devozione particolare per una divinità specifica all’interno di un quadro politeistico. In ambiti mitico-rituali come quello isiaco d’età ellenistico-romana, era contemplata la possibilità di un rapporto particolare, percepito come intenso e coinvolgente, e tale da travalicare i confini dell’esistenza terrena, con una figura divina, Iside, che in un quadro non monoteistico ma enoteistico, ovvero tale da non escludere programmaticamente le altre figure divine, aveva assunto una fisionomia totalizzante. Le posizioni cultuali quali quelle qui riferite, negli studi definite di tipo enoteistico, esprimono la tendenza all’unità e all’unicità del divino. Tali espressioni cultuali sono da distinguere tipologicamente rispetto a quelle posizioni teoriche che pure tendevano ad affermare l’unità e l’unicità del divino, ma ricorrevano a una verticalizzazione della gerarchia. Le testimonianze su Serapide (e quelle analoghe su Iside) sono attestazioni di un movimento che si potrebbe definire centripeto, un movimento che porta a far convergere volta per volta su una figura divina, a preferenza che su altre, figura al centro di una vera e propria prassi rituale, attributi, nomi e competenze diversi, originariamente distribuiti fra più entità divine. Le posizioni più sistematiche da noi sopra esaminate esprimevano piuttosto un movimento “centrifugo”, che separa le espressioni del divino o del sovrumano lungo una scala gerarchica, e non carica sull’Uno i molti, ma li distingue dall’uno e li distingue al loro interno, sia in senso orizzontale (p. es. visibili-invisibili) sia in senso verticale (p. es. sommo dio-dei). Una distinzione, questa che proponiamo tra visioni gerarchiche del divino che estraggono l’Uno dai molti e lo separano dai molti e visioni che caricano sull’Uno i molti, la quale ha una ricaduta nel modo di considerare il culto. Nelle posizioni che estraggono l’Uno dai tanti, si ammette che il culto tradizionale debba essere riservato ai tanti, e si ritiene che quell’Uno degno solamente di un culto interiore; nelle posizioni più propriamente cultuali, l’Uno, che assomma in sé i molti, è oggetto di specifici complessi rituali. Tuttavia, le diverse posizioni evocate offrono caratteristiche che non consentono di assimilarle a posizioni monoteistiche. Si tratta di quadri teologici, infatti, che includono le numerose divinità dei pantheon tradizionali dell’intera oikoumene mediterranea. Alle tante potenze divine continuano a essere demandati compiti necessari al funzionamento della vita umana e cosmica, e come tali sono oggetto di culto. Tali posizioni si distinguono da posizioni come quelli giudaiche e cristiane, in cui il Dio “uno” è anche “unico” - e non solo unico al suo livello - e non è incluso in uno scenario di entità a lui omologhe sotto il profilo della natura. Ribadiamo dunque la necessità di distinguere il “dio unico” di uno scenario monoteistico dal “dio uno”, “sopra tutti”, ossia esercitante un potere monarchico su esseri cui si riconosce una, sia pur graduata, natura divina, degli scenari “pagani” sopra discussi. L’idea monoteistica si declina in maniera specifica rispetto al giudaismo, nel cristianesimo. In particolare, il dato centrale nell’evento cristiano dell’incarnazione del Figlio di Dio, risultava incompatibile così come con la prospettiva degli “Elleni” anche con quella giudaica. L’indagine storico-religiosa pertanto rinuncia a un suo onnicomprensivo e dunque generico della categoria classificatoria di “monoteismo” per definire quei contesti di cifra ellenica nei quali pur intervenga, con le differenze sopra evidenziate, la tematica dell’unità e dell’unicità del divino. Enoteismo: Il termine “enoteismo” è stato coniato dall’indianista F. Max Müller e designa il culto indirizzato volta per volta verso un solo dio, senza escludere la realtà degli altri dei. Negli studi vengono per lo più definite enoteistiche quelle espressioni cultuali, non prive di profonde implicanze teoriche, quali quelle in ambito isiaco o in relazione alla figura di Serapide per le quali in un dio o in una dea, a preferenza che in altri, si concentrano le prerogative, gli attributi e i nomi di diverse figure divine, che peraltro non vengono negate come tali. Occorre distinguere queste posizioni enoteistiche nelle quali una divinità assomma in una certa misura le altre, senza che si arrivi a negare l’esistenza di queste, dalle posizioni più propriamente speculative che estraggono l’uno dai tanti, i quali vengono collocati a un livello inferiore o a livelli inferiori. Tali erano le visioni teologiche espresse da taluni medioplatonici e neoplatonici, quali Apuleio. Gli studi distinguono nettamente tra enoteismo e monoteismo. Se l’enoteismo si può esprimere come la riduzione dei tanti ai pochi o al limite all’Uno, qualificato con i nomi e le attribuzioni dei tanti, il monoteismo, come affermò Pettazzoni, è piuttosto l’affermazione dell’Uno attraverso la negazione dei molti. Lo stesso Pettazzoni affermò: “le pretese tendenze monoteistiche che si sono volute trovare in seno a varie religioni politeistiche – egizia, babilonese, assira, greca, … - rappresentano tutt’al più uno pseudo- monoteismo, in quanto accanto alla divinità suprema ne sussistono altre (inferiori), e con ciò il politeismo non può dirsi superato”. Si è potuto anche, talora, considerare l’enoteismo un monoteismo fallito, che, se giunse molto vicino, nelle sue attese salvifiche, nelle sue aperture universalistiche e nella idea di una natura divina unitaria, alle posizioni monoteistiche giudaica e cristiana, peraltro non conseguì mai, diversamente da queste, l’idea di un dio che crea e neppure di un dio che redime. Una categoria storico-religiosa: il mito: Tale categoria indica un fenomeno centrale nel mondo delle religioni, tale da conoscere un’estensione vastissima, senza essere peraltro universale, data l’esistenza di religioni non mitiche come il giudaismo, il cristianesimo e l’islamismo. Il termine mito viene a essere usato quale sinonimo di “idea forza”, “termine ideale”. Solitamente, poi, la nozione di mito viene opposta a quella di verità obiettiva e accertata e il termine viene volentieri a designare un “racconto fantastico”. Il termine e la nozione di mito vanno adeguatamente storicizzati. È innanzitutto opportuno fare riferimento all’etimologia del termine. “Mito” deriva dal termine greco mythos, che significa originariamente “cosa detta”, “parola”, successivamente “cosa detta in forma di racconto”, dunque “racconto”, “narrazione”. In quanto tale, originariamente è sinonimo di logos. Il termine logos verrà a specializzati come “argomento” e verrà a contrapporsi a mythos. Questo, con gli storici, verrà a contrapporsi a historia, ovvero a una ricerca e auna conseguente narrazione di eventi con pretese di attendibilità. Il termine mythos ricompare negli studi del XVIII secolo a partire dal filologo classico e archeologo Christian Gottlob Heine (1729-1812), che può essere considerato l’iniziatore dello studio scientifico del mito in età moderna. La nozione di “mito” nasce in relazione alle narrazioni di dèi ed eroi dell’antica Grecia, ma l’antropologia moderna ha esteso la nozione di mito fino a comprendere le narrazioni diffuse nelle società arcaiche contemporanee. Pertanto nella storia delle religioni il termine mito designa narrazioni analoghe in uso sia presso culture illetterate attuali come presso le antiche culture letterate. Caratteristica comune di narrazioni così eterogenee, come quelle greche e quelle d’ambito etnologico, è quella di essere “narrazioni tradizionali”. “Narrazioni” perché dotate di una struttura drammatica, nel senso che i veri protagonisti formali del mito sono le azioni degli esseri primordiali, degli dèi, degli eroi che davano forma al mondo e stabilivano le coordinate politiche, culturali, ideologiche dell’universo umano. Il mito fa degli dèi i protagonisti di un’azione drammatica. “Tradizionali” perché tramandate originariamente per via orale di generazione in generazione. L’aggettivo “tradizionale” implica che i miti siano racconti narrati in prevalenza in tipi di società fondati sulla tradizione, ovvero in società o illetterate o in cui largo spazio ha ancora l’oralità; ma implica anche che siano racconti che sono riusciti a diventare tradizionali. Diverse dai miti sono le narrazioni tradizionali che identificano generi pure limitrofi per forma e argomenti ai miti, come le saghe, le leggende, le fiabe, … anche se la distinzione tra questi generi e i miti non è sempre agevole. Utile al riguardo appare allora la distinzione proposta da Pettazzoni: ciò che rende riconoscibile un mito dalle altre forme della narrativa orale è l’atteggiamento che nei suoi confronti viene tenuto dalla collettività fabulatrice. Il mito è considerato una storia vera, ed è sentito come qualcosa di fondamentale importanza per il gruppo sociale. Si possono dunque definire “miti” quelle narrazioni tradizionali che nell’ambito delle relative culture sono accettate dal gruppo umano come “vere”. La “verità” del mito non è puramente razionale, ma è piuttosto una verità esistenziale per il gruppo umano, che, per il tramite di narrazioni che illustrano la complessa trama dei rapporti dell’uomo con il livello del supra e del prius, esprime nel racconto la propria “visione del mondo”. Si può affermare che nel suo valore di “racconto sacro”, ritenuto veritiero e valido dalla società in cui è sorto e che lo trasmette, il mito si distingue dalla “favola”, dalla “fiaba”, dalla “saga”, … . Sia nelle alte culture del mondo antico, sia presso le popolazioni cosiddette primitive attuali, un dato importante dei rispettivi orizzonti religiosi è costituito dalla tendenza a elaborare delle narrazioni che riguardano le potenze sovrumane o a diverso titolo non umane che hanno agito alle origini. Si hanno così presso le alte culture del mondo antico a struttura politeistica miti cosmogonici, ovvero miti interessati specificatamente alla formazione del cosmo, nonché alla prima manifestazione degli dèi (miti teogonici) e degli uomini (miti antropogonici). In relazione ai contesti religiosi “primitivi” che conoscono esseri sovrumani di tipo diverso rispetto agli dèi dei contesti politeistici, si parla piuttosto di “miti di origine” in rapporto a narrazioni relative alla nascita o al primo manifestarsi di queste figure, nonché alle loro varie imprese, le quali pongono i fondamenti dell’esistenza umana. Legato al carattere tradizionale della narrazione mitica è il suo non presentare una forma fissa e rigida. Non esiste il mito in quanto tale. Nelle società illetterate, i particolari mutano col mutare del narratore e della sua personalità, col mutare delle caratteristiche dell’uditorio, … . J. P. Vernant lega i racconti mitici all’oralità affermando: “memoria, oralità, tradizione: sono proprio queste le condizioni di esistenza e sopravvivenza del mito”. Invece, i miti greci sono racconti tradizionali di tipo diverso, in quanto la maggior parte di essi è stata fissata in forme letterarie, e le varianti dei miti sono dettate dai diversi generi letterari e da finalità diverse, in particolare estetiche. Nelle culture etnologiche come nelle culture letterate, la narrazione è fatta da personale qualificato e riconosciuto come particolarmente autorevole dalla comunità; si hanno individui o categorie, come per esempio, caste familiari, addetti a tali narrazioni. Presso le alte culture sono solitamente i membri delle classi sacerdotali ad assumere tale compito. Tuttavia, in Grecia autori delle narrazioni mitiche non sono caste sacerdotale, ma autori non specializzati sotto il profilo sacrale, ovvero poeti, mitografi, … . I testi non sono di origine sacerdotale né provengono da una determinata classe sociale o da un’élite dominante. Sono scritti di poeti, drammaturghi che si rivolgono a pubblici differenti. La mitologia greca è affidata quasi esclusivamente a testi e in misura minore a raffigurazioni che non “raccontano” miti ma fissano singoli momenti di vicende mitiche. Raramente le fonti offrono narrazioni complete, più spesso presentano allusioni e accenni, talora contraddittori tra di loro. Si definiscono “varianti” mitiche le “contraddizioni” esistenti tra le narrazioni del medesimo mito. La situazione cambia in età ellenistica quando autori come Callimaco narrano miti per esteso. In taluni casi, un mito può rispondere a, o correggere, un altro mito richiamandolo esplicitamente. Anche in Grecia, come presso gli ambiti etnologici, sono presenti delle distinzioni fra miti e miti. Già Platone distingue tra miti minori (raccontati da balie, nonne e mamme) e miti maggiori (raccontati dai poeti). A differenza dei primi, i secondi si recitavano in occasioni pubbliche e solenni. I miti maggiori debbono obbedire a precise regole, ovvero occorre che “il dio” sia rappresentato “così come egli è realmente”. In Grecia fino a un certo periodo nelle altre culture politeistiche e nelle popolazioni a livello etnologico, significato e significante del mito coincidono. Le due cose successivamente si scindono e nel mondo greco matura la convinzione che dietro le cose narrate debba celarsi un significato più vero e profondo. Già nel VI a.C, in Grecia, inizia il dibattito filosofico sul mito, circa la veridicità delle rappresentazioni sugli dei e sugli eroi. Così l’opera omerica cominciò a diventare oggetto di critica a causa delle rappresentazioni ora ritenute inverosimili, assurde e immorali che essa offriva della divinità. Pitagora, Senofane ed Eraclito furono tra i primi ad attaccare Omero. In concomitanza con questo avvento e affermazione della filosofia, il termine mythos assunse il significato di “discorso falso”, in opposizione al “discorso vero” formulato, sugli dèi, dalla filosofia. Proprio le critiche mosse ai miti antichi favorirono la nascita e lo sviluppo del metodo allegorico, per salvaguardare l’autorità dei poemi antichi. Si riteneva che dietro il velo costruito dalla narrazione presa alla lettera si celasse un nucleo di verità nascosta. Si viene così a ricercare la verità profonda dietro la lettera attraverso l’interpretazione allegorica dei personaggi mitici e delle vicende mitiche, e a distinguere tra significato letterale e senso profondo. L’interpretazione allegorica può essere di tipo fisico, morale o mistico. La prima forma di allegoria fu quella fisica, per la quale si riteneva che dietro i miti omerici ed esiodei si nascondessero delle nozioni relative alla natura, per cui i personaggi del mito erano figura degli elementi dell’universo. L’esegesi morale, applicata ai testi omerici ed esiodei, interpretava vicende e personaggi mitici come figure di valori e disvalori. L’esegesi definita mistico-teologica, da ultimo, è quella che, con i neoplatonici a partire dal III d.C, vedeva nei miti l’anticipazione delle dottrine sul divino e sull’anima proprie del neoplatonismo. La messa in discussione della validità del mito continuò con i sofisti del V d.C. Tra IV e III d.C, l’evemerismo, da Evemero di Messene, si afferma come un particolare modello interpretativo, per il quale gli dèi dei miti sarebbero stati antichi re o uomini segnalatisi per azioni insigni, che sarebbero stati divinizzati dopo al loro morte. Nei grandi centri dell’ellenismo comincia poi quell’insieme di ricerche erudite e filologiche, aventi per oggetto i miti, che costituisce la mitografia. L’atteggiamento verso la mitologia classica da parte dei cristiani si avvale di tecniche esegetiche già utilizzate dai greci stessi e in particolare di interpretazioni allegoriche ed evemeristiche. A partire dal Nuovo Testamento il termine mythos è impiegato in contrapposizione polemica all’aletheia della Sacra Scrittura per designare qualcosa di falso. Tale falsità significa mancanza di verità storica (eventi mai successi) e disparità tra i valori che essi propongono e i valori che caratterizzano la vita cristiana. Dunque anche il mito è rifiutato, in quanto veicola i contenuti della teologia pagana; i miti sono inaccettabili sul piano letterale perché immorali e dannosi per chi vi si accosta e anche se interpretati allegoricamente, come avevano fatto i pagani stessi, non sono portatori di alcun messaggio religiosamente o eticamente utile. Generalmente, tuttavia, si ammise come legittimo accogliere da parte di un autore cristiano elementi della tradizione letteraria e dunque anche mitica pagana purché si scindesse nel mito l’aspetto religioso da quello letterario. Così si giustifica presso i cristiani l’uso di exempla mitici. Una riflessione a parte meriterebbe quella categoria di miti che è costituita dai miti elaborati in ambito gnostico e manicheo. Di fatto i protagonisti dei miti gnostici e del mito manicheo sono personaggi sovrumani delle origini, i quali sono soggetto, ma anche oggetto, di azioni e vicende che risultano fondative della realtà attuale e forniscono moduli e criteri perché l’uomo possa orientarsi e agire in questa stessa realtà. Tuttavia i miti gnostici e quello manicheo non risultano “tradizionali”, ma sono piuttosto creati ex novo; creazioni originali dovute a singoli autori e il cui focus argomentativo risulta diversamente orientato rispetto ai miti della classicità e a quelli delle popolazioni etnologiche. Dietro le varianti del mito gnostico ci sono tradizioni teologiche diverse, controversie che si esprimevano anche attraverso la creazione di particolari mitici diversi o una diversificata interpretazione di questo o di quel particolare di un comune patrimonio mitico. Per taluni aspetti, vicina alla categoria dei miti gnostici e manicheo è quella dei miti platonici e plutarchei, creati ex novo e aventi al proprio centro l’interesse per la natura e il destino dell’anima. Tra le religioni politeistiche un sia quello razionale. Il mito, sottolinea Bianchi, è frutto di un’attività umana totale, comprendente atteggiamenti emozionali ed elementi razionali; al contempo, comprende una forte componente immaginativa e riferimenti esistenziali, fondati sulla comune natura umana e sulle specifiche circostanze in cui esso nasce e vive. In sede storico-religiosa, dunque, si userà il termine mito per indicare una narrazione in cui i personaggi sono esseri sovrumani o pre-umani, o comunque appartenenti a un’epoca primordiale o molto lontana, qualitativamente diversa dall’attualità ma significativa nei confronti di quest’ultima. Tali personaggi sono rappresentati con caratteri fortemente antropomorfici (talora, anzi, vi è “iperorfismo”) e sono inseriti in una cornice adeguata a tali caratteri, ovvero in un milieu, in un ambiente che in vari sensi li trascende e li condiziona ed è più vasto di loro, e nel quasi essi sono non solo soggetto ma anche oggetto di vicende e di eventi che riguardano per lo più le origini degli dèi, dell’umanità, della civiltà o cultura e delle istituzioni o caratteristiche relative. Le entità protagoniste dei miti si trovano inserite in una trama di rapporti con altre figure o loro tipologicamente affini o di tipo diverso, per esempio di rango inferiore. Si tratta di rapporti genealogici; di rapporti teomachici (nel senso che si trovano, alle origini, a dovere confrontarsi con un oppositore o rivale, ove l’opposizione risulta efficace ai fini della fondazione di determinati aspetti della realtà attuale, e a dovere, con la forza, affermare il loro potere che di solito perdura nell’attualità) o di rapporti naturalistico-stagionali. La descrizione di “mito” sopra offerta permette di distinguere e di chiarire la posizione di religioni “non mitiche”, in cui non hanno posto “racconti sacri” del tipo sopra descritto, e in cui la divinità non è protagonista di vicende mitiche ma si pone come fondamento unico della realtà e di questa stessa realtà fonte in quanto potenza creatrice; tali sono le religioni bibliche. Anche la categoria di mito è stata in tempi recenti oggetto di una critica decostruttiva. Se ne contesta la legittimità non solo per ambiti estranei al mondo occidentale, ma anche per questo e nello specifico per il mondo greco, in relazione al quale si nega che la nozione di “mito” possa identificare un genere letterario specifico come pure uno specifico contenuto o una serie di contenuti. Essa risulterebbe piuttosto un vuoto involucro. In sostanza, la categoria di mito sarebbe solamente una categoria moderna, e non una categoria indigena al mondo greco, né tantomeno una categoria di validità universale. Di contro a tale critica decostruttiva si sono levate voci che mostrano come il corpus di narrazioni tradizionalmente designato negli studi come “miti greci” fosse riconosciuto come una categoria a sé. In particolare, il racconto mitico conserverebbe un proprium che interviene comunque a caratterizzarlo e che trascende le differenze di generi letterari e di circostanze narrative in cui esso si esprime: si tratterebbe di una diversa “qualità del tempo” del narrato (tempo mitico) rispetto al tempo del narratore (tempo storico), e tale diversità sarebbe ben presente allo stesso narratore greco. Monoteismo: L’alternativa tra monoteismo e politeismo non risulta esaustiva del mondo delle religioni, non solo perché si danno delle forme specifiche e ulteriori quali l’enoteismo, la monolatria, il diteismo, ma anche perché si danno formazioni religiose che non sono dei teismi, ovvero non conoscono un concetto di divinità personale distinta dal mondo, un’entità in cui convenga l’appellativo di dio, in senso politeistico o monoteistico. Si tratta dei sistemi monistici, quali quelle forme dell’induismo che conoscono la nozione di Brahman, o il taoismo; tradizioni o movimenti religiosi che fanno riferimento non a un dio ma a un’entità semipersonale o sostanzialmente impersonale, ovvero a un principio primo o a una arché o a una “legge”. Anche altre entità sovrumane o preumane o extraumane, nel mondo delle religioni, risultano estranee alla definizione di “dio”. Si pensi ai dema, o agli spiriti di un contesto animistico. La categoria di monoteismo è anch’essa una categoria analogica, ovvero tale da ricoprire contenuti in parti affini e in parte diversi. Anche tale categoria è stata coinvolta in quella tendenza decostruzionista già accennata. Tali tentativi decostruzionisti fanno leva sul fatto che termini di conio moderno, quali appunto politeismo e monoteismo, sono stati al centro di interpretazioni sistematiche dei fatti religiosi le quali caricavano tali termini di precise connotazioni valoriali. Tuttavia, un uso metodologicamente avvertito dei termini in questione, e nello specifico del termine “monoteismo”, si pone come necessario correttivo delle posizioni decostruzioniste. Lo storico delle religioni, infatti, non considera il “monoteismo” come un “tipo ideale” o come un modello normativo. Né tale categoria sarà da lui intesa in senso univoco: non intende indicare un fenomeno unitario e monolitico, ma piuttosto una categoria classificatoria di certi fenomeni che presentano profonde e strutturali analogie; correttamente si dovrà dunque parlare di “monoteismi”. Il termine “monoteismo” è stato coniato dal filosofo e teologo Henry More (1614-1687). L’autore, nel distinguere diverse formulazioni della nozione del divino, elabora di fatto una sorta di “scala evolutiva”. Un primo tipo di concezione religiosa è indicata nel politeismo/idolatria, ed è giudicata come una forma di ateismo. Quindi l’autore considera le posizioni intese a identificare il mondo con dio, quelle che, saranno definite “panteistiche”. È significativo notare che a proposito di siffatte posizioni il filosofo usa la definizione di “falso monoteismo”. Al di là del netto giudizio di valore, ne risulta la percezione egualmente netta che il motivo dell’unitarietà del divino non è criterio sufficiente per omologare posizioni del tipo in questione a quelle che a parere dello studioso realizzano la corretta nozione monoteistica. Queste sono le due tradizioni di matrice biblica, l’ebraismo-giudaismo e il cristianesimo, sebbene la prima sia giudicata forma di “monoteismo imperfetto” in quanto caratterizzata da forme materiali di culto. Il termine “monoteismo” è stato poi accolto nel linguaggio filosofico, teologico e successivamente anche storico religioso, venendo a designare ebraismo-giudaismo, cristianesimo e islam, oltre che lo zoroastrismo; tratta di formazioni storiche con caratteristiche comuni: in primo luogo la nozione di un dio personale, creatore di tutta la realtà e trascendente rispetto a essa, attivo nella storia umana, la cui unicità implica l’esclusione di qualsiasi altro essere divino e che si propone alla scelta di ogni uomo e di tutti gli uomini. Esclusivismo, individualismo e universalismo appaiono pertanto corollari della nozione del dio unico nei tre contesti religiosi in questione. Va poi considerato un elemento ulteriore, ovvero la qualità specificatamente religiosa dei fenomeni storici “monoteistici”. La tipologia del “monoteismo” definisce, dunque, fenomeni religiosi, ossia fenomeni che coniugano il duplice referente della credenza e del culto, ove entrambi gli elementi risultano radicati in un contesto comunitario e tradizionale; fenomeni religiosi – si diceva – e non teorie o postulati ideologico-speculativi pertinenti a particolari correnti filosofiche. Il monoteismo si qualifica come credenza, e relativo culto, in una figura divina caratterizzata da valenze peculiari, che verremo ora a esaminare. Innanzitutto i contesti monoteistici affermano l’unità e l’unicità di Dio. Il dio nei contesti monoteistici è una entità sovrumana “una”. Dire che Dio è uno può significare che è “unificato”; che è uno solo e unico; che è lo stesso per tutti gli uomini. La Trinità, per il Cristianesimo, non è un modo per attenuare il rigore del monoteismo; è, al contrario, un modo per pensarlo sino in fondo dicendo in quale modo Dio è unico. Il Dio uno e unico dei monoteismi è anche personale. Tale caratteristica identifica come distinto dalla realtà cosmica, come dotato di coscienza e volontà e come termine di una relazione con l’uomo. Il dio dei contesti monoteistici è creatore; Dio fa apparire qualcosa come distinto da sé, senza trarlo né dalla propria sostanza, né da un elemento preesistente, ma ponendo in assoluto il reale esistente al posto del nulla: creatio ex nihilo (“creazione dal nulla”). Nell’ambito della riflessione cristiana, in particolare quella trinitaria, si è venuta formulando la nozione della creazione non solo come ex nihilo, ma anche come ex amore Creatoris. E, contestualmente, anche la nozione della finalità della creazione, che non solo dunque conosce una fine (escatologia), ma anche un fine. La prospettiva creazionistica propria dei monoteismi comporta la totale distinzione tra creatore e realtà creata, ossia la trascendenza del primo rispetto alla seconda. Nella visuale creazionistica biblica, l’uomo non è necessario, come invece lo è in diverse formulazioni degli antichi politeismi ove l’uomo serve a “sostentare” gli dèi; neppure il mondo, al pari dell’uomo, è emanazione necessaria del divino; e nemmeno la creazione del mondo e dell’uomo risultano offrire quella necessarietà che esse invece mostrano all’interno di orizzonti religiosi dualistici. Dunque, in una prospettiva creazionistica, Dio potrebbe darsi senza il mondo ma non viceversa; Non così in una prospettiva monistica. Va segnalato come nell’ambito della filosofia e della teologia cristiane si sia sviluppata la riflessione su un ulteriore aspetto della nozione di creazione: la creazione può essere intesa come una relazione, una dipendenza continua e fondante di ciò che è creato dal suo creatore. Si deve tale approfondimento in particolare alla “filosofia dell’atto di essere” sviluppata da Tommaso d’Aquino. La nozione di “atto di essere” implica l’atto continuo e trascendente con cui Dio chiama all’essere una creatura, dal quale dipendono l’esistenza attuale della creatura e la sua specifica essenza. Mediante tale atto, che è ciò che fa essere la creatura sé stessa, il Creatore può essere presente nella creatura in modo intimo e costitutivo, non rimuovendo bensì fondando la sua autonomia. Si può pertanto dire che in tale prospettiva il Dio uno e unico è, in relaziona al mondo, origine prima e unica, fine ultimo e costante fondamento. In opere di autori cristiani dei primi secoli la nozione di creazione dal nulla viene anche a fondare e a dimostrare la plausibilità di altre nozioni basilari della dottrina cristiana, quale, per esempio, quella della resurrezione dei corpi. Nelle prospettive non teistico-creazionistiche proprie dei monoteismi, ma monistico-evolutive, proprie delle teo-cosmogonie elaborate in ambiti politeistici, si ha uno sviluppo teogonico e insieme cosmogonico per il quale a partire da archai o principi iniziali di carattere semi-personale, abissale e caotico, emergono gli dèi delle successive generazioni e le diverse entità cosmiche. Tali teogonie sono al contempo cosmogonie, ovvero il mondo nasce in concomitanza con gli dèi. Le divinità, anche quelle più collegate con le entità cosmiche, mantengono più o meno la loro individua personalità. Spesso, inoltre, le archai primordiali, sconfitte o superate dagli dèi più giovani, vengono ridotte a elementi dello scenario cosmico. Talora le teo-cosmogoni sono piuttosto di tipo devolutivo: a partire da principi iniziali, concepiti come realtà intatte e perfette, narrano l’emergere della pluralità e la differenziazione delle realtà cosmiche, destinate a loro volta a essere riassorbite nella unità originaria indifferenziata, secondo una dialettica senza fine. Si tratta di sistemi anch’essi monistici, intendendo per monismo la dottrina relativa all’unicità del principio divino della realtà. La menzione di queste teologie pagane gerarchiche ci consente di fare un’ulteriore affermazione, e cioè che la trascendenza del divino nelle specifiche modalità in cui si dà nei contesti monoteistici, si pone in una posizione di equilibrio tra due tendenze opposte, entrambe espresse da quelle teologie pagane. Da un lato, la tendenza che porta alla sottolineatura dell’abissale trascendenza del divino sommo rispetto alla realtà umana e cosmica; dall’altro lato, la tendenza che porta a immergere totalmente o parzialmente il divino nella realtà cosmica e umana, all’interno di posizioni immanentistiche, siano esse panteistiche siano esse teo-panteistiche. Le due tendenze estreme qui illustrate possono coesistere e legarsi profondamente all’interno di una medesima visuale, quale, ad esempio, quella propria di talune concezioni gnostiche, come la valentiniana. Questa, infatti, coniuga l’abissale trascendenza del divino sommo con lo sfondo monistico di tutta la visione teologica e antropologica valentiniana, per la quale il divino e il sé umano, ovvero il vero uomo, l’uomo interiore, vengono a essere della stessa sostanza, ossia si pongono in continuità ontologica. Torniamo alla riflessione sulla nozione di creazione; la cosmogonia e antropogonia biblica, dunque, è di tipo creazionistico. Siffatta prospettiva non vede il dio inserito in una linea teogonica a partire da entità caotiche originarie, e non lo vede dover faticosamente e violentemente imporsi su di esse ai fini di poter esistere e creare, facendo violenza a queste entità primordiali che lo hanno prodotto. Il dio dei monoteismi, oltre a essere attivo alle origini, è percepito anche come efficace e attivo lungo tutta la storia cosmica e umana, storia che, nelle impostazioni monoteistiche, è orientata in senso escatologico. Nei monoteismi si realizza compiutamente una coincidenza tra il livello del supra e quello del prius. Altri attributi tipici del dio dei contesti monoteistici sono l’onniscienza e l’onnipotenza, la quale ultima viene fortemente compromessa nei monoteismi dualistici. Il dio di un contesto monoteistico è un dio “morale”, ovvero è fonte e garante delle norme etiche. Egli richiede alle sue creature una scelta esclusiva. Oltre a cristianesimo, islamismo ed ebraismo-giudaismo e zoroastrismo, ricevono la qualifica di monoteistiche, in misura più o meno legittima anche le formazioni storiche minori, come la riforma operata dal faraone Akhenaton nel XIV a.C (“monoteismo solare”), e il Sikhismo. Politeismo e monoteismo. Cenni di storia degli studi: Per le scuole evoluzionistiche, come visto, il politeismo tipico delle grandi civiltà del mondo antico costituiva una fase ulteriore rispetto a fasi originarie della storia religiosa dell’umanità, e da esso si faceva evolvere il monoteismo. La scoperta da parte dell’etnologo scozzese Lang, della credenza presso i “primitivi” dell’”Essere Supremo” introdusse un elemento inaspettato, e consentì di superare le teorie animistiche e più in generale evoluzionistiche. Sulla scorta delle scoperte di Lang, W. Schmidt, fondatore della storia “storico-culturale”, venne a individuare la presenza di credenze nell’Essere Supremo in un più ampio numero di culture “primitive” e, ipotizzando una sostanziale conformità tra le civiltà più arcaiche a lui contemporanee e le prime fasi di uno sviluppo dell’umanità, venne a definire queste come espressive di un “monoteismo originario”, o “monoteismo primordiale”. Pettazzoni viene a delineare le fondamentali caratteristiche di quell’entità suprema che, denominata Essere Supremo dalla letteratura antropologica precedente, egli preferisce chiamare Essere Celeste. Per Pettazzoni l’Essere Supremo è una personificazione prodotta da quella forma di intuizione che è espressa dal mito. Più precisamente, l’Essere Supremo è una personificazione di un elemento naturale, il cielo. L’Essere Supremo ha innanzitutto una dimora celeste e le varietà cromatiche del cielo al pari delle diverse manifestazioni meteoriche ne esprimono le diverse declinazioni del carattere, dell’umore. In particolare, poi, esso conosce un aspetto statico e uno dinamico. Il primo aspetto consente di definirlo come deus otiosus, ovvero come entità sovrumana che dopo gli atti creativi si allontana e si ritira nella sua dimora celeste. In tal caso egli non è più oggetto di culto. L’aspetto suo dinamico si esprime nelle perturbazioni meteoriche e atmosferiche come pioggia, … nonché in fenomeni concomitanti come l’arcobaleno, il tuono, … . Le caratteristiche peculiari del cielo, come spazio cosmico che sovrasta tutte le cose e che non ha confini, sono per Pettazzoni all’origine delle prerogative specifiche dell’Essere Celeste quali l’onniveggenza e l’onnipresenza. Dalla natura uranica di questo Essere discende anche il suo carattere morale, la sua caratteristica di giudice e i suoi interventi puntivi, che si esprimono mediante i diversi fenomeni meteorici e atmosferici. Lo studioso distinse poi diversi tipi di Essere Supremo, e individuò Esseri Supremi non di natura uranica, come la figura diella Madre Terra. Quanto al problema delle origini del monoteismo, Pettazzoni pur riconoscendo parziali continuità storiche e tipologiche fra gli Esseri supremi dei primitivi, i sommi dèi di formazioni politeistiche e il dio unico dei monoteismi, affermò, tuttavia, doversi riconoscere quest’ultimo – il monoteismo – solo nelle grandi religioni dell’Antico Testamento, del cristianesimo, dell’islamismo e del mazdeismo. Da qui l’opportunità di rinunciare per le credenze primitive a un termine e a un concetto di “monoteismo”. Esso, infatti, implica un complesso solidale di nozioni intorno a Dio, complesso che si ritrova soltanto in grandi religioni come l’ebraismo, il cristianesimo, l’islamismo e lo zoroastrismo. Inoltre, il monoteismo, per Pettazzoni, implicando la credenza in un solo Dio e la negazione di tutti gli altri, presuppone una rivoluzione nei confronti di un precedente politeismo. Per Pettazzoni, allora, il monoteismo non nasce per evoluzione da un precedente politeismo, ma per “rivoluzione”, allorché un fondatore religioso, un profeta, neghi tutti gli dèi per affermarne uno solo. Infatti, la storia mostra come i politeismi non siano evoluti verso i monoteismi; ma come, invece, sia intervenuta la creatività di una persona che afferma l’unicità del dio e al contempo nega tutti gli altri dèi. Bianchi ha affermato come per il monoteismo, il politeismo rimarrebbe comunque presupposto, quasi tesi e antitesi. Anche la formulazione di Pettazzoni, in base alla quale il monoteismo presupporrebbe sempre una rivoluzione antipoliteistica, risulta, per Bianchi, troppo rigida. Nel caso del monoteismo ebraico, ricorda Bianchi, esso si forma nel seno di un popolo, vegetazione, ovvero con il ciclo della vita al pari del Baal del pantheon dei Cananei (la popolazione indigena dell’area siro- palestinese). Per quanto concerne la sua caratteristica primaria, vale a dire quella della sua viva ed efficace “personalità”, va detto che nell’Antico Testamento non vi è un riferimento esplicito a Dio come persona, ma in questa direzione si pongono diversi temi e in particolare la nozione per la quale Jahvé ha un nome. Il nome è testo a rendere possibile una relazione; il “nome”, in Es. 3, 14, vale a dire “io sono colui che sono”, mentre ne afferma l’identità personale per altro verso si pone come un “non nome”, ovvero non è sullo stesso piano dei nomi degli dèi dei popoli circonvicini. Infatti, esso sottolinea la trascendenza di Dio e la possibilità di accostarsi alle profondità del mistero divino solo per rivelazione. Dal testo biblico emerge un’ulteriore caratteristica del dio “personale”, ovvero quella di un dio morale, giusto e misericordioso. Rimane da ricordare, come tratto ulteriore della “persona” divina, il carattere “non mitico” della rappresentazione divina nei primi capitoli della Genesi. Nel caso del Dio d’Israele, il suo fondamentale carattere non mitico è motivato dal fatto che esso non è oggetto di una vicenda (teogonica, teogamica, naturistico-stagionale), né trasceso da essa. Ma torniamo allo sviluppo del monoteismo ebraico. Qui basti dire che “sussiste ormai un largo consenso tra gli studiosi nel riconoscere che il monoteismo ebraico è il frutto di un lungo e complesso processo storico in cui, più che un’unica figura di “fondatore” quale la tradizione biblica identifica con Mosè, hanno agito varie personalità e gruppi a forte tinta profetica. In un contesto di comunità tribali accomunate dal culto per un dio “nazionale” (Yahweh), le quali vivevano nel territorio palestinese, si sarebbero gradualmente sviluppate tendenze intese ad affermare non solo la necessità di seguire fedelmente solo il dio protettore di Israele e di riservare a lui ogni forma di culto, ma anche di esaltarlo sopra tutti gli altri. L’evento decisivo in questo quadro sembra essere stato la distruzione di Gerusalemme da parte del sovrano Babilonese nel 587/586 a.C e la deportazione a Babilonia di gruppi di israeliti, appartenenti in prevalenza alla classe dirigente. Nel periodo dell’esilio babilonese (587/586-520 a.C), all’interno di tali gruppi costituiti in larga parte da rappresentanti delle classi alte e colte di Israele con il concorso di figure profetiche di grande spessore religioso, come Ezechiele, Geremia, si sarebbe costituito un forte movimento di ispirazione monoteistica, con l’affermazione sempre più decisa dell’unicità di Yahweh e della sua potenza assoluta nella creazione e nella storia. Con il ritorno in patria e la ricostruzione del tempio di Gerusalemme, la nuova visione religiosa si sarebbe imposta sempre più nettamente al popolo. Si conviene pertanto in sede di studi indicare nel periodo del Secondo Tempio il momento decisivo per la formulazione di un credo religioso fondato sulla nozione di un dio “solo e unico” a esclusione di ogni altro (VI secolo). Dunque, un’affermazione compiutamente esclusivista, ovvero relativa all’unicità di YHWH (con esclusione di ogni altra figura divina), e alla universalità del suo potere, compare in testi post-esilici. Ivi, il culto delle statue degli dèi rivestiva un ruolo importante (quella degli dèi babilonesi che i profeti, come Ezechiele, avrebbero affermato essere idoli fatti da mano d’uomo). L’esperienza della sconfitta del popolo ebraico da parte dei babilonesi e di quella che poteva apparire una sconfitta del dio d’Israele di fronti agli dèi dei vincitori, dovette favorire una profonda riflessione religiosa, che condusse all’affermazione sempre più chiara ed esplicita della divinità unica di YHWH e del suo potere universale. Normalmente un Dio che perde la sua terra lascia il suo popolo sconfitto, e non è stato in grado di difendere il suo santuario, è un Dio detronizzato. Nell’esilio di Israele sorprendentemente avviene il contrario. Emerge la grandezza di questo Dio, che può permettersi di lasciare ad altri la sua terra, perché non è legato a nessuna terra. Può lasciare che il suo popolo sia vinto, per risvegliarlo proprio così dai suoi falsi sogni religiosi. Non dipende (dio) da questo popolo, dal tempo o dal culto ivi celebrato, secondo quella che è la concezione comune: gli uomini nutrono gli dèi, i quali sostengono il mondo. Così, insieme a un’approfondita immagine di Dio si fa luce anche una nuova idea di culto. Israele non ha un Dio particolare, ma adora semplicemente l’unico Dio esistente. Questo Dio ha parlato ad Abramo e ha scelto Israele, ma in realtà egli è il Dio di tutti i popoli. Dio non ha bisogno di nessun sacrificio, egli non deve essere mantenuto dagli uomini perché tutto gli appartiene. I tesi del Deutero-Isaia, o Secondo Isaia (capitolo 40-55 del libro di Isaia), un profeta che parla al termine dell’esilio babilonese, sono espliciti al riguardo. In essi la formula: “io (Jahvé) sono il primo e io l’ultimo. Fuori di me non vi sono dei”. L’universalità del Dio unico, creatore, comporta nei testi in questione che non solo Israele ma anche tutti gli altri popoli lo riconoscano come l’unico vero Dio. Progressivamente si sviluppa dunque l’idea che il Dio di Israele, Dio di un popolo specifico, unico Dio al quale quel popolo presta culto, è un Dio creatore che, avendo stipulato un Patto di alleanza con Israele e avendo consegnato la Legge a quello mediante il suo “servo” Mosè, si propone all’adorazione da parte di tutti gli uomini e in prospettiva escatologica tutti chiamerà a riconoscerlo. Tuttavia, l’universalismo insito nell’idea stessa di monoteismo, e nello specifico nel monoteismo ebraico, nel caso di questo non ne cancella la fondamentale dimensione etnica. Di fatto, nella vicenda storica dell’ebraismo-giudaismo opera costantemente una dialettica fra tendenze universalistiche e connotazioni nazionali. Tale dialettica conosce, a seconda dei diversi momenti storici, accentuazioni o nella direzione delle peculiarità etnico-nazionali della fede ebraica, a fronte della necessità di proteggere la propria identità da aggressioni esterne, o nella direzione di un’apertura verso l’esterno, con il fenomeno del proselitismo. Sul problema dell’origine del monoteismo ebraico la critica si è divisa tra i sostenitori di un’ipotesi endogena, che vede nascere e svilupparsi l’idea monoteistica all’interno della storia dell’ebraismo stesso, e ipotesi esogene, che vedono l’idea monoteistica importata dall’esterno del mondo ebraico. In particolare due sono le direzioni verso le quali hanno guardato gli studi “esogeni”. La prima direzione è quella che guarda ad ambienti di cultura iranica, e in essi allo zoroastrismo. Soprattutto in una passata stagione di studi si era portati a riconoscere le affermazioni esclusiviste giudaiche come retaggi del contatto tra la religione d’Israele e quella mazdaico-zoroastriana al tempo dell’esilio degli ebrei in Babilonia, e più in generale una dipendenza di temi qualificanti la teologia giudaica dalla teologia mazdaico-zoroastriana. Così, oltre alla nozione dell’unicità di Dio, altre nozione, come per esempio la dottrina dei due spiriti, la quale risentirebbe della nozione dei due spiriti “gemelli” nelle Gatha zoroastriane. In realtà, indagini più accurate hanno illuminato le profonde diversità tra la religione d’Israele e lo zoroastrismo. Le caratteristiche del monoteismo zoroastriano che lo differenziano dagli altri monoteismi storici, oltre che le difficoltà di datazione dei testi fondanti dello zoroastrismo, vale a dire le Gatha attribuibili a Zarathustra, come pure le difficoltà di datare la figura stessa di Zarathustra, sono da tenere in adeguata considerazione quando troppo genericamente si ipotizzi una dipendenza di tratti che sarebbero diventati propri del monoteismo giudaico dal monoteismo zoroastriano, a opera della classe sacerdotale d’Israele a seguito dell’esperienza della cattività babilonese. La seconda direzione è quella che guarda all’Egitto e specificatamente al supposto “monoteismo” solare sviluppato dal faraone Akhenaton nel XIV a.C. Tale “germe” monoteistico sarebbe stato accolto dal costituendo popolo d’Israele, e avrebbe prodotto il monoteismo che afferma l’unicità di Jahvé e la non esistenza degli altri dèi. Cristianesimo: Qui ci limitiamo a delineare gli aspetti salienti della specificità del monoteismo cristiano, in rapporto alle caratteristiche peculiari degli altri monoteismi storici. Iniziamo a rimarcare la complessità interna al giudaismo del tempo (giudaismo del “Secondo tempio”), il quale si vede diviso in quattro filoni fondamentali: dei sadducei, dei farisei, degli zeloti e degli esseni. Nel quadro articolato offerto dal giudaismo coevo, si inserisce il nuovo gruppo dei discepoli di Gesù e dei discepoli di questi, il cui annuncio della vita, delle opere e degli insegnamenti di Gesù delinea un progressivo distanziamento dal giudaismo. Nel solco dell’affermazione monoteistica ed esclusivista impostasi nel giudaismo post-esilico, il cristianesimo realizzò quell’apertura universalistica che caratterizzava già il monoteismo giudaico, ma che in esso non era pervenuta a compimento storico. Al contempo, principiò un cammino di riflessione teologica che, sulla base dei testi neotestamentari, rielaborando dato già propri del giudaismo come quelli degli attributi divini o della parola divina creatrice (logos), portò alla fissazione dogmatica dello specifico volto “cristiano” del monoteismo, ossia il volto trinitario. Questo verrà a costituire il discrimine fondamentale con il monoteismo giudaico nel momento in cui, tale è la prospettiva trinitaria, verrà a proporre un’articolazione intra-divina pur mantenendosi il fondamento monoteistico. La formulazione trinitaria, è la specifica modalità con cui Dio, l’”unico” Dio della tradizione già giudaica, è percepito come “uno”. L’unità stessa di Dio è compresa come unità di una comunione d’amore così totale che il Padre e il Figlio sono una cosa sola. Quindi, Jahvé è uno ma non è solo, perché è Padre e ha il Figlio. La dottrina trinitaria si sviluppa progressivamente attraverso i dibattiti teologici e le controversie dogmatiche die primi secoli, e riceve una sua formulazione teorica puntuale nel corso del IV d.C grazie in particolare allo sforzo di chiarificazione dottrinale realizzatosi per far fronte alla crisi ariana. Con Ario (256- 336) trovò voce quel subordinazionismo (affermazione dell’inferiorità ontologica del Figlio rispetto al Padre) che caratterizzava la teologia alessandrina nelle sue diverse formulazioni. Per Ario il Figlio non è coeterno al Padre ma è creato dal Padre nel tempo ed è pertanto essenzialmente inferiore a lui. Se il Figlio non è eterno per natura, nemmeno il Padre è Padre dall’eternità, ma è Dio prima di essere Padre. Il Concilio di Nicea (325) dichiara il Figlio immagine perfetta del Padre, cioè uguale e consustanziale a Lui. Viene così condannata la posizione ariana. A Nicea risale la formula usata ancor oggi nel Credo o Simbolo apostolico niceno-costantinopolitano. Nel frattempo emerse il problema di come concepire il rapporto tra lo Spirito e le altre due Persone divine. Il I Concilio di Costantinopoli (381) pervenne alla definizione dogmatica della divinità dello Spirito Santo, e introdusse la definizione dello Spirito Santo come “Signore” e “Vivificatore” (“che dà la Vita”), che “procede dal Padre”; settanta anni dopo, il Concilio di Calcedonia (451) inserì la formula “e dal Figlio”, che non sarebbe stata accettata dalle chiese orientali. Anche il dibattito teologico sulle due nature di Cristo e sulle modalità della loro unione nella persona del Figlio trovò una chiarificazione con il Concilio di Calcedonia, con la formulazione che, in Lui, l’unica Persona del Figlio di Dio abbraccia e porta le due nature, quella umana e quella divina, in modo “inconfuso e indiviso”. La recezione della formula di Calcedonia – due nature, un’unica Persona – fu faticosa e si delinearono nette divisioni: mentre le Chiese di Roma e di Bisanzio accettarono la formulazione conciliare, Alessandria (Egitto) preferì mantenere la formula “una natura divinizzata” dando luogo in tal modo alla eresia monofisita. Di fatto il monofisismo riconosce a Cristo un’unica natura (physis). In Siria, l’eresia nestoriana rifiutò il concetto di “un’unica Persona”. Il nestorianesimo, condannato dal Concilio di Efeso (431), si diffuse molto in Asia. Ancora nel VII secolo si esprimono delle persistenze del monofisismo con le due grandi eresie cristologiche, costitute dal monoenergismo e dal monotelismo, con i quali se si venne a mantenere la nozione dell’unità della Persona di Cristo se ne dedusse tuttavia anche l’esistenza in Cristo di un’unica azione e di un’unica volontà. Tali dottrine furono condannate dal Terzo Concilio di Costantinopoli (680). Appartiene alla storia dei rapporti tra i tre monoteismi storici, l’accusa - da parte ebraica e, successivamente, islamica – rivolta al cristianesimo di non essere una fede monoteista, accusa a cui la riflessione teologica cristiana ha risposta mostrando come la nozione della Trinità non contraddica il monoteismo ma ne rappresenti la specifica declinazione in ambito cristiano. Islamismo: L’Islam è il più recente tra i grandi monoteismi storici. La concezione monoteistica e, con essa, la figura del “profeta” o, meglio, dell’”inviato” costituiscono i due aspetti fondamentali dell’Islam, già presenti all’interno dell’annuncio che costituisce la “formula di fede” basilare dell’Islam, ovvero che Allah è Dio e che Maometto è il suo profeta. Da un lato l’Islam esprime un ribaltamento di posizione rispetto alla situazione religiosa preesistente, quella dell’Arabia tribale del VI-VII d.C, operato da una specifica personalità, quella di Maometto; dall’altro lato, l’Islam conserva e rielabora elementi di credenza e di culto propri del mondo arabo preesistente a Maometto. L’assetto comunitario dell’Arabia al tempo del profeta si fonda sull’elemento costituito dalla tribù. All’elemento della tribù si sostituirà, con l’avvento della nuova religione, quello della comunità dei credenti (ummah). L’Arabia preislamica conosceva una tradizione religiosa di tipo etnico; caratterizzante il panorama religioso dell’Arabia preislamica era la presenza di culti tribali locali rivolti a una molteplicità di esseri sovrumani, dei vari gruppi tribali che solo impropriamente possono essere definiti di tipo politeistico. Il panorama religioso dell’Arabia preislamica non contemplava una struttura siffatta ma una frammentazione di culti locali e triali, relativi a entità sovrumane spesso organizzate per triadi o per copie. Posizione preminente all’interno del panorama sovrumano era occupata da Allah (“il dio”), in posizione subordinata. La località che godeva di maggior peso economico, politico e religioso era La Mecca, la quale si trovava sotto il controllo della tribù dei Coreisciti, cui apparteneva, in un ramo secondario, Maometto stesso. A La Mecca la situazione di nomadismo tipica delle tribù arabe si era da tempo trasformata in una condizione di stanziamenti fissi. Il principale santuario de La Mecca era la Ka’aba, la quale ospitava una serie di culti prestati a divinità locali tra i quali quello di Hubal, che riceve anche il nome di Allah. Dunque Maometto recepisce il nome di Allah dalla tradizione araba preislamica, la quale, in questo, si ricollega alla tradizione semitica più comune che ha come proprio il nome comune el, traducibile con “dio”, che è anche nome della grande divinità, El, collegata con le altezze celesti. I diversi atti rituali, prescritti al fedele musulmano in occasione del pellegrinaggio alla Mecca, che costituisce uno dei “cinque pilastri dell’Islam”, sono buon esempio della permanenza nella nuova religione fondata da Maometto di usi e tradizioni proprie dell’Arabia preislamica, reinterpretati e caricati di nuove valenze. Al folklore arabo preislamico apparteneva anche la credenza nei ginn, sorta di spiriti particolarmente imprevedibili e temibili. L’Arabia preislamica conosceva soprattutto a Yathrib-Medina e a La Mecca una forte presenza di comunità di giudei. Dovettero esercitare su Maometto una forte suggestione le caratteristiche principali della loro tradizione religiosa. Essi possedevano libri sacri (“gente del libro”), recitati in appositi luoghi di riunione, le sinagoghe, e questo fatto contrastava con l’analfabetismo e il tradizionalismo orale dei beduini e degli arabi “pagani” in genere. Ma soprattutto il loro rigido monoteismo contrastava con l’orizzonte “politeistico” tipico del mondo arabo. Peculiari della tradizione giudaica e tali da essere fatti propri da Maometto, erano poi l’idea che Dio si rivelasse nella storia attraverso dei profeti, la nozione di un giudizio finale e di una connessa retribuzione per i buoni e i cattivi, la presenza di una Legge che comporta prescrizioni sia di carattere giuridico e sociale, sia di carattere religioso, e infine quelle concezioni di carattere scientifico seppure embrionale possedute dai rabbini. Risalente ad apocrifi giudaici (Vita di Adamo ed Eva e Apocalisse di Mosè) è poi la figura di Iblis, il “lapidato”, ovvero Satana, come pure lo sono le specifiche motivazioni che lo indussero a ribellarsi a Dio. L’Arabia preislamica conosceva anche una più sporadica presenza di comunità cristiane, per la maggior parte di ispirazione nestoriana. Del cristianesimo dovette Maometto conoscere dottrine teologiche e in particolare la dottrina trinitaria, seppure in maniera ritenuta comunemente dagli studiosi approssimativa, dal momento che presso Maometto essa risulta composta dal Padre, da Maria e da Gesù. Questi, nel Corano, è presentato come un inviato di Dio, sua “parola”, nato miracolosamente da Maria. Sulla nuova creazione religiosa operata da Maometto dovettero esercitare un influsso anche concezioni gnostiche, e, in particolare, la nozione, propria di quella forma radicale di gnosticismo, il manicheismo, di una catena di rivelatori che culmina nel “sigillo dei profeti”, quale si era proclamato Mani e quale si sarebbe appunto proclamato Maometto stesso. Di verosimile ascendenza gnostica dovette essere pure l’idea offerta dal Corano che non Cristo avesse patito e fosse morto in croce, ma un’altra persona al suo posto. Il panorama religioso dell’Arabia all’epoca di Maometto comprendeva anche la presenza dei cosiddetti hanif, ovvero di arabi, non giudei e non cristiani, che professavano credenze di tipo monoteistico relative al sommo dio denominato Allah, creatore dell’universo. Essi parvero a Maometto attestare la presenza di una tradizione araba monoteistica risalente ad Abramo. Abramo diventa, nella prospettiva di Maometto, il primo hanif, ovvero il primo adoratore del Dio unico, Allah. La tradizione monoteistica sarebbe così passata, sempre secondo Maometto, agli hanif, che l’avrebbero conservata al pari degli ebrei. Si può ben affermare che Maometto, nel loro a livello di implicazioni teoretiche e spirituali. Infatti, la prima fase rimanderebbe alla enunciazione e alla conferma della “Rivelazione”; la seconda concluderebbe con la nozione per la quale Dio è indivisibile in sé e solo rispetto ad altro; la terza rimanderebbe all’esperienza spirituale dell’unicità di Dio mediante l’unificazione con lui. Zoroastrismo: È la tradizione religiosa che in maniera diretta o indiretta si rifà alla predicazione di Zarathustra. Motivo fondamentale, ma non unico, della specificità del monoteismo zoroastriano, è costituito dal fatto che essa si coniuga con un dualismo di tipo ontologico. Il monoteismo zoroastriano è un monoteismo dualistico. Il nome di Zarathustra nell’Occidente moderno è legato all’opera “Così parlò Zarathustra” di Nietzsche. Il filo più evidente che lega lo Zarathustra di Nietzsche allo Zarathustra storico appare essere quello costituito dalla tematica della lotta tra il bene e il male. Parlando dello zoroastrismo ci riferiamo a una regione, l’attuale Iran, che vide nell’antichità lo stanziarsi di una popolazione d’origine indoeuropea imparentata con il gruppo che si stanziò invece in India e con esso costituente la famiglia deli “indoiranici”, o “arii”. In epoca preistorica le stirpi iraniche formavano con quelle indiane una profonda unità. L’originario contatto di tali popoli si deduce dalle profonde affinità linguistiche e storico-culturali tra essi, oltre che dalle strette affinità religiose. Dell’antico patrimonio religioso indoiranico diverse nozioni intervengono nella predicazione di Zarathustra e nella sua costruzione religiosa. Innanzitutto la nozione di rta (“ordine”, “giustizia”, “verità”), un ordine che regge il cosmo, la vita sociale e umana, nonché la corretta esecuzione del rito religioso. E comunque collocabile a partire da tale orizzonte è la nozione della corretta esecuzione del rito come strumento necessario al mantenimento dell’ordine cosmico. Tornando a Zarathustra (lett. “colui che possiede vecchi cammelli” o “il vecchio dai cammelli”), discusa è la cronologia, da quella tradizionale che lo colloca nel VI a.C alle ipotesi di alcuni iranisti che la vogliono piuttosto alzare alla fine del II-inizi I millennio a.C; discussi sono pure la regione che vide la sua attività e la prima diffusione del suo messaggio, nonché il rapporto di Zarathustra con la categoria dei magi, che dovettero essere dei sacrificatori verisimilmente antecedenti rispetto a Zarathustra. Discussa è altresì la portata storica della predicazione di Zarathustra; tradizionalmente si riteneva che Zarathustra avesse operato un ribaltamento rivoluzionario della tradizione religiosa iranica e della sua struttura politeistica, affermando l’unicità di Ahura Mazda (l’essere supremo celeste). Tale rivoluzione monoteista sarebbe alla base di quel ribaltamento semantico conosciuto dal termine daiva, il quale avrebbe significato positivo (“dio”) in tutta la fase indoiranica, e assumerebbe significato negativo (“demone”) nei testi zoroastriani e achemenidi. La riforma religiosa atuata da Zarathustra avrebbe valutato positivamente la categoria divina espressa dalla tradizione indoiranica con i termini ahura/asura (“signore), al punto da chiamare il sommo dio del pantheon iranico appunto Ahura Mazda, e al contempo avrebbe condannato i deva/daiva della tradizione indoiranica, caratterizzati da tratti come la violenza e l’aggressività. Alcuni studi hanno tentato di mostrare, invece, come l’attività di Zarathustra si sia inserita in una tendenza verso posizioni monoteistiche già espressasi prima. Tali tendenze avrebbero caratterizzato il mazdeismo, come tradizione religiosa che proclamava, appunto, l’unicità di Ahura Mazda, quale creatore, e sarebbero state sistematizzate da Zarathustra in un sistema religioso coerente. Questione dibattuta dagli iranisti e dagli storici delle religioni è stata altresì quella dell’identità religiosa della dinastia achemenide, principiata con Ciro I (seconda metà del VIII a.C) e che vide con Ciro II il Grande (550-530 a.C) la fondazione di un grande impero di respiro universalistico. La dinastia achemenide terminò con l’assassinio di Dario III nel 330 a.C. Se taluni ritengono che gli Achemenidi siano stati zoroastriani, altri li vedono piuttosto espressivi di una tradizione religiosa più antica, ovvero la mazdaica. Rimane la questione se, nelle fonti achemenidi, il riferimento ad Ahura Mazda sia peculiare della riforma zoroastriana o se non appartenga al patrimonio religioso dell’Iran anche prima. A ogni modo nei documenti achemenidi il potere regale, il potere del sovrano di un impero di respiro universale, appare fondato e legittimato dalla specifica personalità di Ahura Mazda. Particolarmente significativa ai fini dell’identificazione dell’ethos religioso achemenide come tale da aver risentito della predicazione zoroastriana è apparsa la valenza che nei testi riferibili alla predicazione di Zarathustra stesso offre il termine daiva. Tale termine nel pantheon indoiranico designava una categoria di dèi diversa dall’altra categoria divina costituita dagli asura, mentre nella predicazione di Zarathustra conosce un netto capovolgimento dell’accezione antica, venendo tale termine a designare i “falsi dei”, dèi da non venerare. Orbene, una forte assonanza zoroastriana presenta, in fonti achemenidi come la nota iscrizione di Serse a Persepoli, un analogo uso assoluto del termine daiva per indicare entità sovrumane di segno negativo. Zarathustra si presenta come il profeta di un dio personale, Ahura Mazda, con cui si sente in contatto per il tramite del “Buon Pensiero”, Vohu Manah, una delle entità emanate da Ahura Mazda (“Signore Saggio”). A distinguere il Dio di Zarathustra dal Dio dell’Antico Testamento sta in particolare il costante inserimento del primo in un orizzonte di pensiero che è dualistico. Zarathustra ribaltò dunque la prospettiva dell’antica religione propria del suo ambiente definendo daiva alcuni fra i grandi dèi del politeismo indo-iranico. Egli dunque accomuna allo Spirito Distruttore alcuni dei grandi dèi della tradizione indoiranica, soprattutto quelli caratterizzati da comportamenti violenti e battaglieri. In questo caso si realizza una netta “rivoluzione” monoteistica nei confronti di un precedente politeismo. Alcune di queste personalità furono in qualche modo riassorbite nella riforma zoroastriana, la quale evidentemente dovette fare i conti con le tradizioni popolari. Le antiche divinità come per esempio Mithra o Anahita, che per le loro connotazioni positive e benefiche si prestavano a essere adattate al nuovo quadro teologico, furono reintrodotte e compaiono poste a un livello inferiore rispetto a Ahura Mazda, come “yazata”, “venerabili”. Fonti principali dello zoroastrismo sono l’Avesta e i trattati pahlavici medievali, scritti appunto nella lingua pahlavica, tesi a spiegare e commentare l’Avesta. La letteratura teologica pahvalica, insieme alla formazione del canone avestico, risale per larga parte a quel periodo della storia religiosa dell’Iran che vide, con la dinastia sassanide (III-VII d.C), la proclamazione del mazdeismo quale religione di stato. I più tardi testi pahvalici rispondono all’esigenza di difendere la tradizione mazdaica di fronte all’Islam trionfante. Nelle Gatha, o “Canti”, testi poetici che costituiscono le parti più antiche dell’Avesta (il libro sacro degli zoroastriani), e che risalgono verosimilmente alla predicazione di Zarathustra stesso, vi è un inno (Yasna 44) in onore di Ahura Mazda che offre assonanze formali con un testo dell’induismo, ovvero l’inno dedicato al primo principio, al “Chi?”. Nell’inno gathico, così si esprime Zarathustra: “io mi sforzo di riconoscere in te, o Sagio, in quanto Spirito Benefattore, il creatore di ogni cosa”. Diversamente da quanto accade nell’inno del mondo indiano a “Chi?”, quest’ino è dedicato a un dio che ha un nome, ovvero Ahura Mazda. I passaggi riportati tendono a esprimere l’universale creatività e signoria di Ahura Mazda e in questo offrono delle analogie con testi veterotestamentari, e in particolare con un passaggio del Deutero-Isaia (Is 45, 7), ove è l’affermazione di Jahvé: “io sono colui che forma la luce e crea la tenera; colui che fa il bene e crea il male”. Tale passaggio intende anch’esso affermare l’universale creatività e signoria di Dio. L’unicità, almeno al suo livello, di Ahura Mazda si compone nello zoroastrismo con uno scenario di presenze sovrumane. Infatti, Ahura Mazda è indissolubilmente legato, già nei testi più antichi, ai sei Amesha Spenta, “Immortali benefici”, sue manifestazioni agenti e mediatrici del suo potere benefico, entità a carattere mentale-spirituale che incarnano i valor più importanti della prospettiva religiosa ed etica gathica. Si tratta di Buon Pensiero, Ordine/Rettitudine, Benefica Devozione, Dominio, Integrità/Salute, Immortalità. Tuttavia rimane confermata l’unicità di Ahura Mazda. Nelle Gatha, pertanto, la posizione unica di Ahura Mazda integra una posizione monoteistica. In età posteriore, tale “scenario di presenze” si allarga e viene a comprendere, a livelli inferiori, altre figure sovrumane quali Mithra, o Anahita. Tali figure sono dette yazata, o “venerabili”, funzionalmente e ontologicamente subordinate ad Ahura Mazda e collaboratrici nel suo progetto di creazione, di mantenimento della vita e di salvezza delle creature. La possibilità di inserire il mazdeismo, nella sua forma zoroastriana, nel novero dei monoteismi è stata dibattuta negli studi. Qui basti menzionare la posizione di Pettazzoni, che identificava quali religioni storiche monoteistiche il Jahvismo, il Mazdeismo, il Cristianesimo e l’Islam; e quella, diversa, di Bausani, per il quale troppe sarebbero quelle che lui chiama rimanenze mitico-naturalistiche premonoteistiche nello zoroastrismo. Lo zoroastrismo ha potuto essere definito, in sede di studi storico-religiosi, come un monoteismo “funzionale”, in quanto l’unicità di Ahura Mazda si fonda sulla sua qualifica di creatore della realtà tutta. Quello zoroastrismo è stato definito, inoltre, come un monoteismo ad intra, cioè relativo al mondo ideologico dei Persiani, che possono riconoscere l’esistenza anche di altri dèi, quali quelli dei popoli sottomessi. Ancora: lo zoroastrismo offre degli aspetti, quali il culto degli elementi e in particolare del fuoco, che gli conferiscono un aspetto paganeggiante e che comunque sono molto lontani da una mentalità biblica, come lontani da una mentalità biblica sono anche quegli accenni monistici in relazione alla dottrina della creazione. Da ultimo, il monoteismo zoroastriano è dualistico. Infatti, l’unicità di Ahura Mazda va compresa all’interno di un quadro che è dualistico, ovvero tale da ammettere due diversi e opposti principi della realtà. Di fatto, monoteismo non si oppone a dualismo. Piuttosto si oppone a monismo, ossia a un’impostazione non esclusivamente religiosa ma piuttosto sistematico-speculativa, in cui si affermi la derivazione della realtà da un unico principio, con la conseguente ammissione della unicità della sostanza: il tutto è Dio, Dio è tutto. Le terre di cultura e dominazione iraniche sono state terre di elezione del dualismo, dapprima del dualismo zoroastriano, e successivamente di quello manicheo. Quest’ultimo, pur offrendo aspetti di continuità con il primo, quali l’opposizione originaria di due principii contrapposti, ne è tuttavia profondamente diverso: il dualismo manicheo contrappone come due principi originari il divino e la materia, mentre quello zoroastriano contrappone l’attività creatrice di Ahura Mazda a quella distruttrice dello “Spirito Distruttore” della Gatha, divenuto l’Ahriman dei testi post-gathici, a sua volta ritenuto autore di una parte della realtà. Venendo al dualismo come espresso nel quadro gathico, questo contempla la presenza, seppure a un livello inferiore rispetto a quello del dio unico, di due spiriti radicalmente contrapposti, ovvero lo Spirito Benefattore (Spenta Manyu) e lo Spirito Distruttore (Angra Manyu). In un testo gathico (Yasna 30) il profeta canta: “all’origine, i due spiriti che sono conosciuti come gemelli, sono l’uno il meglio, l’altro il male. E tra questi due gli intelligenti scelgono il bene, non gli sciocchi. E quando questi due spiriti s’incontrarono, stabilirono all’origine la vita e la non vita. Di questi due spiriti, il cattivo scelse di fare le cose peggiori, ma lo Spirito Benefattore s’è unito alla Giustizia”. La critica ha particolarmente discusso in merito all’immagine della gemellarietà dei due spiriti e a quella della scelta loro attribuita. Il fatto che i due spiriti siano conosciuti come “gemelli”, per taluni interpreti, tra i quali Bianchi, va inteso nel senso che i due spiriti sono uguali e contrari, e non nel senso che i due spiriti hanno un padre in comune. Quanto all’elemento della scelta, occorre distinguere la scelta operata dai due spiriti da quella che sono chiamati a operare gli uomini. La scelta che il testo afferma essere stata fatta all’origine dai due spiriti sarebbe da intendere come una dichiarazione o manifestazione della loro rispettiva natura. Quanto a quella degli uomini, invece, si tratta di una vera e propria scelta di valenza etica: ogni uomo è chiamato a scegliere tra i due principi, e tale scelta condizione la sorte ultima degli esseri umani stessi; beato (ashavan) dopo la morte è il giusto, colui che è fedele ad asha (arta), la giustizia, l’ordine cosmico. A essa si oppone la forza demoniaca tesa a distruggere la buona creazione di Ahura Mazda. Pertanto lo zoroastrismo è dualistico in quanto contempla l’esistenza di un secondo principio della realtà, l’Angra Manyu delle Gatha, diventato, per abbreviazione, l’Ahriman dell’Avesta recente (Avesta non gathico) e dei tardi trattati medioevali. Questi ultimi vengono a contrapporre direttamente Ahura Mazda, ora chiamato Ohrmazd (creatore di tutta la realtà), e Angra Manyiu, sempre per contrazione denominato Ahriman (potenza demoniaca e distruttrice). Il primo, Ohrmazd, risiede da sempre nelle luci, in alto, e il secondo nel basso, nelle tenebre. Fra i due vi è il vuto. Questo, per iniziativa di Ohrmazd verrà riempito dalla creazione, quale campo di battaglia sul quale attirare Ahriman per combatterlo e vincerlo, alla fine dei duemila anni che segnano la durata della lotta tra i due antagonisti. In tal modo, l’Avesta “recente” e i tardi trattati medioevali vengono a sistematizzare e non a eliminare l’originario impianto dualistico. In particolare, il secondo principio, se nei testi più antichi è identificato, quale Spirito Distruttore, come il principio distruttore della creazione “buona” operata da Ahura Mazda, e dunque tale da incidere su di essa non solo in senso etico ma anche in senso ontologico, nei testi posteriori, il secondo principio, da identificare con Ahriman, si vede attribuita anche una capacità creativa in ordine a realtà negative come piante o animali nocivi. In sostanza, si attribuisce all’anti-dio, Ahriman, una contro-creazione. Sia nel primo che nel secondo caso, ovvero sia lo “Spirito distruttore” sia Ahriman, si presentano come un vero e proprio secondo principio di una visuale dualistica, e in questo si differenziano dalla figura del Maligno (Satana) della tradizione tardogiudaica e poi cristiana. E questo perché il Maligno esplica un’attività a livello “etico” e non a livello ontologico. Se dualismo è dottrina dei due principi, allora lo zoroastrismo è dualistico in tutte le sue fasi, mentre l’ebraismo e il cristianesimo non lo sono, se non all’interno di specifiche loro correnti, giudicate devianti dall’ortodossia. Rimane da ricordare la tematica zoroastriana della distinzione tra due modalità ontologiche, quella invisibile e spirituale, detta menog, e quella visibile e corporea, detta getig. La “buona creazione” di Ahura Mazda, dapprima concepita allo stato menog, viene successivamente trasferita allo stato getig, livello necessario quale campo di battaglia ove si svolge la lotta tra Ahura Mazda e Ahriman, lotta che termina con l’evizione di quest’ultimo. Mentre le entità “divine” come gli Immortali Benefici conoscono sia lo stato menog sia lo stato getig, Ahriman e i demoni conoscono solo l’esistenza a livello menog. I demoni, insomma, possono partecipare dello stato ontologico visibile/materuake (getig) solo da parassiti. Anche se non esistono allo stato ontologico visibile/corporeo, Ahreman e i demoni sono senz’altro reali, e i fedeli devono sempre badare a non farli avvicinare o mandarli via, agendo sia sul piano morale che sul piano spirituale. Pseudo-monoteismi: Rimane da accennare a due formazioni “monoteistiche”; iniziamo dal “monoteismo egizio” o “monoteismo di Akhénaton”. Il sovrano Akhénaton (Amenhotep IV) regnò attorno alla metà del XIV a.C; egli operò una riforma religiosa, proclamando quella che è stata talora definita come la prima forma di “monoteismo” della storia dell’umanità, ovvero il culto del disco solare, dell’”unico” dio Aton. A causa della sua opzione per “un dio solo”, Aton, il sovrano mutò il proprio nome in Akhénaton, “colui che è utile ad Aton”. Tale riforma, ossia la negazione di qualunque altro referente divino, insieme alla sua antichità, ha suggerito teorie secondo le quali la religione di Aton avrebbe influenzato la predicazione monoteistica mosaica. Sigmund Freud, nella sua opera “L’uomo Mosè e la religione monoteista” vedeva in Akhénaton l’ispiratore di Mosè, e in Aton il prototipo del Dio d’Israele Yahweh. La cronologia incoraggiava questa ipotesi interpretativa nel momento in cui tendeva a porre la giovinezza di Mosè nella terra d’Egitto nel XIII a.C, un secolo circa dopo Akhénaton. In realtà, le ricerche più avvertite hanno mostrato come l’attribuzione della categoria di monoteismo alla religione di Aton faccia difficoltà: mentre in ambito monoteistico, infatti, si ha una forte accentuazione del dio come unico essere personale, la predicazione di Aton comporta una spersonalizzazione del “dio”. Muto e impersonale, Aton è piuttosto un principio, una arché. Lungi dal trascendere il cosmo, esso fa parte del mondo materiale; si è potuto pertanto parlare della “religione di Aton” come prima forma di ateismo. Nell’opera intrapresa da Amenophi IV, le motivazioni religiose si legarono strettamente a quelle politiche, e nello specifico al tentativo di esautorare la potente classe sacerdotale tebana. Fu creata presso la località oggi conosciuta come el-Amarna una città sacra al dio Akhenaton, e i tempi tradizionali lasciarono il posto a un nuovo tipo di tempio, ove l’unica immagine dell’unico dio rendeva superflua la presenza di statue rappresentanti figure divine. L’interpretazione “monoteistica” della religione di Aton per altri, più prudentemente può definirsi come “monolatria”. Mentre i faraoni precedente potevano presentarsi come “figli di Ra”, e in quanto tali svolgere sulla terra una funzione analoga a quella divina, Akhénaton si proclama “gradito ad Aton”, in quanto è il solo che può parlare in suo nome. La sua riforma ebbe breve durata intendono liberare il dio dalla responsabilità del male, attraverso l’ammissione di un principio o un’entità a lui da sempre avversa e da lui indipendente, ontologicamente negativa. Ma la presenza da sempre di un secondo principio, indipendente da Dio, viene a finalizzare l’azione di Dio stesso, e dunque a condizionarlo dall’esterno, facendo venir meno quella caratteristica di gratuità della creazione, e della salvezza, che caratterizza l’azione di Dio nei contesi monoteistici non dualistici. Quando invece si ammette, nei dualismi monarchiani, una derivazione del secondo principio dal primo, come accade sia in contesti monoteistici sia in contesti tendenzialmente monistici, si offrono specifiche soluzioni volta per volta diverse a rendere ragione di tale derivazione. Per quanto concerne le tematiche dualistiche in contesti monistici, si potranno ricordare i seguenti esempi. Nel fascio di credenze e prassi che si usa denominare orfismo, si ha una contrapposizione dualistica tra un’anima di natura divina e un corpo inteso come prigione o addirittura come tomba nell’anima. Osserviamo poi, come nella definizione sopra data di dualismo, come dottrina dei due principii che, coeterni o meno, fondano l’esistenza, reale o apparente, di ciò che esiste e si manifesta nel mondo, l’espressione “esistenza apparente” e il riferimento a ciò che “si manifesta” nel mondo, evidentemente senza esistere realmente, facciano riferimento al mondo indiano. Nei sistemi gnostici di tipo siro-egizio, come il valentinianesimo, si danno importanti connotazioni dualistiche offerte dalla presenza di un secondo principio, da identificare con Sophia o piuttosto con la sua colpa, causa della sostanza psichica e della sostanza materiale, come pure della successiva dispersione e imprigionamento dei semi divini nella realtà materiale. Per quanto concerne i contesti politeistici, gli studi hanno messo in luce le connotazioni di “secondo principio” offerte da figure come Promoteo, causatore di specifiche modalità di esistenza dell’uomo, nell’ambito di una contrapposizione con Zeus. Il dualismo religioso non interessa solamente il campo della speculazione teologica, ma anche quello della morale, ossia ispira particolari modalità del vivere e del morire. Un’ascetica di timbro dualistico, dev’essere nettamente distinta da un’ascetica di tipo cristiano (non gnostico). Basti pensare alla povertà come praticata e predicata in un ambito dualistico quale è quello cataro, ove essa è concepita in funzione di una diabolicità intrinseca della materia, creata dal maligno, rispetto alla povertà in ambito francescano. Unde malum?: Si è detto come il dualismo nelle sue diverse forme offra una soluzione specifica al problema dell’origine e della natura del male; un male che, in ambito dualistico, si connota sempre per essere fondamentalmente e primariamente un male di tipo ontologico, e dunque non per identificarsi con un male etico o di origine etica, come per esempio nelle posizioni cristiane non dualistiche. Tenendo ferma questa caratteristica, possiamo qui allora proporre una classificazione di possibili soluzioni del problema dell’origine del male in rapporto al divino. Secondo una prima soluzione, l’origine del male è in un’entità, ovvero in una realtà dotata di un’ontologica concretezza, al di fuori del divino e indipendente quanto a origine da esso, che tuttavia viene a condizionare, con la sua presenza, il divino e la sua attività. È la soluzione offerta dallo zoroastrismo, ove tale entità è Ahriman, e dal manicheismo (ove tale entità è la materia, hyle). In una seconda soluzione, l’origine del male è all’interno del divino, precisamente nelle fasce inferiori e più deboli dello stesso. È la tipica soluzione offerta dallo gnosticismo valentiniano. Anche in questo caso il male ha una natura ontologica, perché la sua radice è in una natura divina inferiore, la Sophia, protagonista di una drammatica vicenda di crisi. Secondo una terza soluzione, il male s’origina al di sotto del divino, a livello delle creature, siano esse angeliche, siano esse umane, e consiste in una privatio boni, ovvero nella mancanza di un bene dovuto e non esercitato da parte della creatura, e nelle conseguenze di tale mancanza. Tale soluzione dell’origine e della natura del male non offre una dimensione ontologica, ma etica. Quivi (in un contesto caratterizzato dall’idea di un divino “compatto” e non graduato al suo interno), l’origine del male non è collocata a livello di una delle face inferiori del divino, e neppure in una sorta di antidivino, da sempre al divino contrapposto, ma a livello della creatura umana o anche della creatura angelica. Quest’ultimo è tema particolarmente sviluppato dall’apocalittica giudaica. Il Siracide è il primo fra i libri biblici fuor dalla Gensi a menzionare la trasgressione, e sottolinea la responsabilità della donna. La prevalente responsabilità della donna è tema sviluppato anche dalla giudaica letteratura apocrifa su Adamo. La Sapienza, invece, enfatizza la responsabilità del diavolo, identificato con il serpente della Genesi. Religioni e correnti dualistiche: Principiamo dallo zoroastrismo. Nel contesto zoroastriano ci troviamo di fronte a un quadro di tipo monoteistico, che afferma la capacità creativa e la sovranità di Ahura Mazda, e in pari tempo dualistico, giacché si attribuisce un’attività negativa con rilevanza ontologica a un personaggio inferiore ad Ahura Mazda, che nelle Gatha viene chiamato Angra Manyu, e che nella tradizione post-gathica sarà chiamato Ahriman. Questo vede accentuarsi le proprie caratteristiche di secondo principio in senso ontologico, in quanto conosce una specifica attività creativa pertinente, per esempio, ad animali nocivi e mortiferi. Valenze di secondo principio sono peraltro già offerte da Angra Manyu, seppur in forma diversa. Questo, infatti, nelle Gatha è visto non solo come un principio negativo sotto il profilo etico, ma anche sotto il profilo ontologico e dunque come secondo principio di una visione dualistica. Dunque, il pensiero zoroastriano conosce, nella sua impostazione dualistica, un’evoluzione che porta ad accentuare l’efficacia ontologica dell’avversario di Ahura Mazda, attribuendogli delle specifiche attività creative di segno negativo. Veniamo ora allo gnosticismo e al manicheismo. Il cuore del sentire gnostico può essere individuato in una serie coerente di caratteristiche che si possono riassumere nella concezione della presenza nell’uomo di una scintilla divina (pneuma), la quale, proveniente dal mondo divino e caduta in questo mondo e in questo corpo a seguito di una crisi occorsa nel divino stesso, deve essere quaggiù risvegliata tramite un salvatore-rivelatore, portatore di conoscenza (gnosis), ed essere così reintegrata al suo mondo d’origine. La Sfameni Gasparro dice che all’inizio dell’era cristiana, fiorirono numerosi movimenti religiosi, che, per il loro costante riferimento alla gnosis, vengono accomunati nell’unica denominazione di gnosticismo. Per la gnosi dello gnosticismo, l’uomo percepisce la presenza in sé stesso di un elemento divino (pneuma o nous) che è la sua stessa sostanza (ousia) e che, incarcerato nel corpo materiale, deve ritornare al mondo superiore cui appartiene. Così, a una natura somatica, hylica (materiale), destinata alla distruzione, si contrappone nello gnostico una sostanza pneumatica, la scintilla luminosa (pneuma o psyche), l’anima “animale”. Questa concezione ha un preciso carattere dualistico, poiché il corpo e lo pneuma nell’uomo non solo sono distinti, ma nettamente contrapposti. Al dualismo antropologico, corrisponde un dualismo cosmologico, per il quale risultano contrapposti il mondo superiore divino, detto anche pleroma, e il cosmo materiale. Poiché lo gnosticismo, prima che un complesso di dottrine è una visione del mondo, bisogna ricordare che il suo tipico dualismo si esprime in una serie di immagini e di simboli pienamente significativi. La condizione tipica dell’uomo in questo mondo, prima che intervenga la chiamata dall’alto a conferirgli la gnosi, è quella dell’oblio, del sonno, dell’ebbrezza. Quando poi un’interiore illuminazione abbia destato l’Io interiore dello gnostico, tosto si rivela a lui l’infelicità profonda della propria situazione. Egli, infatti, sente di essere straniero al mondo in cui vive. Comprende di essere stato strappato dalla sua radice divina e gettato nella tenebra. Questa vita gli appare ormai come una morte dalla quale non potrà evadere che quando, liberato dal carcere corporeo, ritornerà nella sua dimora celeste. Quest’ultima si configura spesso come una camera nuziale nella quale si celebreranno le mistiche nozze con la controparte divina dell’anima. A questa polarità fra i due mondi corrisponde la contrapposizione fra i due dèi che a essi presiedono. La divinità somma è, infatti, invisibile, perfetta, incomprensibile, innominabile. Il Demiurgo, invece, che in quanto creatore è spesso identificato al Dio della Bibbia, vorrebbe imporre il proprio dominio sull’uomo e possederlo interamente, ma in ciò fallisce perché l’elemento pneumatico sfugge alla sua presa. Egli è “materiale” come il cosmo su cui regna, e “animale”; è ignorante oltre che blasfemo nel suo proclamarsi unico Dio. È poi tipica dello gnosticismo l’idea di un inviato celeste, un messaggero proveniente dal mondo divino per ridestare nell’uomo la scintilla pneumatica ottenebrata dal corpo materiale. Questo personaggio tutto spirituale è il Salvatore; egli è in pari tempo il rivelatore della gnosi. Nonostante le differenze notevoli presenti nelle speculazioni elaborate dai diversi gruppi gnostici, è possibile procedere a una distinzione di due tipi fondamentali. Si tratta del tipo cosiddetto della gnosi siro-egizia, nel quale il secondo principio (la materia e il Demiurgo che a essa presiede) è derivato, in seguito a un incidente originario (per lo più la caduta di un personaggio del mondo divino), dal primo principio (la divinità somma e il mondo pleromatico). In questa impostazione pertanto, si realizza la formula del dualismo “mitigato”. La seconda categoria è quella della gnosi cosiddetta di “tipo iranico”, la quale ammette un’originaria e simmetrica contrapposizione di due principi: da una parte il superiore mondo luminoso e la Divinità, e dall’altra la materia con gli esseri tenebrosi e malvagi che vi abitano. Una caratteristica di questo secondo tipo di speculazione gnostica, in cui si realizza la formula del dualismo assoluto, è l’aggressività e la violenza del principio inferiore. Dopo un periodo in cui lo gnosticismo fu giudicato una sorta di “filosofia orientale”, si affermò un’interpretazione eresiologica secondo la quale il movimento gnostico si spiega in funzione della storia del cristianesimo; esso nasce dall’incontro di questo con le idee filosofiche, mistiche e religiose diffuse nel II secolo. A questo indirizzo si oppose l’interpretazione storico- religiosa, attenta a ricercare le origini pagane dello gnosticismo Tuttavia il metodo religionsgeschichtlich, troppo proclive a ridurre l’intero fenomeno gnostico a una serie di prestiti dei diversi contesti religiosi, fu superato da ulteriori studi. Così H. Jonas ha messo in luce l’interna coerenza di esso in quanto espressione di una precisa visione del mondo. Altri studiosi, poi, hanno sottolineato l’importanza delle concezioni giudaiche nel processo di formazione dello gnosticismo. Gli attuali indirizzi interpretativi prestano una privilegiata attenzione al mondo del tardo-giudaismo e del cristianesimo come importanti parametri di riferimento per alcuni aspetti essenziali del fenomeno gnostico, soprattutto per la sua soteriologia. Consideriamo ora il manicheismo. Nel 216/217 d.C nella Mesopotamia nasce Mani, fondatore di un movimento religioso di tipo gnostico, il quale avrà una notevole diffusione in Occidente e in Oriente, presentandosi come una religione universale. Le principali religioni con le quali il Manicheismo ebbe dei rapporti, e dalle quali mutuò degli elementi, furono lo zoroastrismo, il buddhismo e il cristianesimo. La volontà cosciente di utilizzare tali tradizioni religiose ai fini della costruzione del proprio sistema ideologico e insieme in vista della propaganda missionaria presso i seguaci di esse, è manifesta nell’affermazione, da parte di Mani, di essere l’ultimo di una serie di inviati divini, il “sigillo” di una serie di profeti i cui maggiori esponenti erano stati Zoroastro, Buddha e Gesù. Mentre gli imprestiti dal buddhismo sono piuttosto da vedere nell’adozione di figure divine o di terminologia, le connessioni con la tradizione iranica sono più strette e decisive. Le influenze iraniche sul manicheismo sono da vedere soprattutto nella stessa formulazione dualistica di tipo assoluto. Tra zoroastrismo e manicheismo rimane tuttavia la differenza pregiudiziale sussistente tra un’impostazione dualistica che vede nel mondo e nell’uomo l’opera di Do, e quindi valuta positivamente tali realtà, e la concezione gnostica che identifica il male alla materia. I rapporti di Mani con la tradizione giudeo-cristiana risultano oggi più evidenti dopo la scoperta del Codice di Colonia, relativo all’esperienza religiosa del personaggio maturata all’interno di una comunità “battista” di tipo elchasaita. Mani fu educato in una cerchia battista alla quale era aderente il padre. In seguito a due visioni (228/229 e 240/241) egli si ritenne investito dalla missione di predicare e diffondere fra gli uomini la rivelazione divina. A questo scopo compì un viaggio in India, dove la sua predicazione incontrò un certo successo. L’attività missionaria di Mani ottenne un risultato decisivo in seguito alla conversione del fratello del re e quindi l’incontro con quest’ultimo, il quale, colpito favorevolmente dall’insegnamento del Maestro gli diede la sua protezione. Sotto il regno di Sapore (242-273), pertanto, il manicheismo si diffuse ampiamente in tutto l’impero persiano. Anche il figlio di Sapore fu favorevole alla nuova religione, ma con l’avvento di Bahram I (274-277), l’atteggiamento della corte mutò radicalmente, per l’influsso esercitato dalla potente casta dei sacerdoti zoroastriani, avversi al manicheismo. Mani venne imprigionato e morì nel febbraio del 276/277. La dottrina manichea conobbe una larga diffusione in Occidente, la Siria, la Palestina, la Dalmazia e l’Italia, la Gallia e la Spagna, … . In Oriente il Manicheismo si espanse largamente nell’Asia entrale, e trovò ampio eco in Cina. La dottrina predicata da Mani si fonda sulla contrapposizione radicale di due principi, coeterni e ontologicamente estranei: Dio e la Materia. La divinità regna in un mondo luminoso, a lei consustanziale; tale regno di luce si estende senza limiti a Nord, Est e Ovest, mentre a Sud confina con l’oscuro regno della Materia. Quest’ultimo, è agitato da forze demoniache in lotta continua, le quali hanno un capo nella persona del Principe delle tenebre. In conseguenza di questo continuo e violento movimento che scuote la materia, i personaggi che in essa risiedono emergono alla superficie e, avendo contemplato il mondo luminoso, meditano di scagliarsi contro di esso. Il Padre sommo, sapendo che il suo regno non possiede i mezzi adeguati di difesa, “chiama” (evoca) un’entità femminile, la Madre di Vita, la quale a sua volta “chiama” l’Uomo primordiale destinato a contrastare il piano aggressivo della Materia. Egli riveste cinque elementi luminosi (etere, vento, luce, acqua, fuoco), i quali sono anche detti suoi figli e, in quanto a lui consustanziali, costituiscono il suo “IO”, la sua anima. Disceso nel tenebroso caos della Materia, l’Uomo primordiale subisce una sconfitta e diventa preda delle forze demoniache. Il Dio della Luce evoca altri personaggi, fra i quali lo Spirito Vivente che avrà la funzione di recuperare l’Uomo primordiale. Mediante l’Appello dall’alto e la Risposta da parte dell’Uomo, quest’ultimo viene risvegliato e sottratto alla presa delle tenebre, facendo ritorno alla sua patria celeste. Ma i cinque elementi luminosi che avevano accompagnato l’Uomo nella sua discesa, rimangono prigionieri delle potenze demoniache. Per recuperare i cinque elementi di Luce, lo Spirito Vivente dà inizio alla creazione, utilizzando le carcasse dei demoni (Arconti): con la loro pelle forma il cielo, con le loro ossa i monti e con la carne la terra. Il cosmo visibile, pertanto, è negativo nella sua intima essenza, che è di natura demoniaca. Veicolo della liberazione della sostanza divina sono soprattutto il sole e la luna, formati con porzioni di luce non contaminate, mentre gli altri astri sono fatti con quelle parti di luce che hanno subito una sia pur lieve contaminazione. Per recuperare la luce che si è mescolata con la tenebra viene mandato un ulteriore personaggio divino, il Terzo Inviato. Egli, infatti, mostrandosi in tutto il suo splendore, induce le potenze demoniache a emettere le parti di luce inghiottite; da quest’emissione avranno luogo i vegetali, gli animali e infine la prima coppia umana, nata dalle nozze tra due demoni. Il corpo umano, e la concupiscenza che a esso è intrinseca, sono dunque di natura e di origine demoniaca. In Adamo, tuttavia, è presente anche la sostanza luminosa che deve essere recuperata. A tal fine viene mandato dal regno della Luce un Salvatore, il quale riceve nomi diversi nei testi manichei: Figlio di Dio, Ohrmizd o Gesù Splendore. L’incontro fra il Salvatore e Adamo rievoca la situazione originaria dell’Uomo primordiale risvegliato dal sonno a opera dello Spirito Vivente. Ha inizio così il processo salvifico che interessa la sostanza divina disseminata nel cosmo e presente, in maggiore misura, nei corpi umani e nei vegetali. Attraverso l’astinenza dalle nozze e dai cibi carnei, l’uomo purifica il proprio pneuma, e in pari tempo, cibandosi di vegetali, facilita la liberazione della luce in essi incarcerata. La vicenda si concluderà con un cataclisma universale, allorché la sostanza divina sarà stata superata interamente o nella maggior parte. Dopo una lotta finale tra le forze del bene e quelle del male, il cosmo verrà distrutto e la materia, con i demoni e i dannati, costituirà una sorta di ammasso informe (bolos) che sprofonderà in un baratro enorme. Questo è lo schema generale della visione manichea della visione divina e cosmica, che contempla tre momenti: la situazione originaria di separazione fra Luce e Tenebre, il periodo dell’assalto delle potenze demoniache e della conseguente mescolanza delle due sostanze e infine la soluzione definitiva. Questa implica la separazione di luce e tenebre, indebitamente commiste, ma in una condizione radicalmente diversa dalle origini poiché le forze demoniache, ormai svuotate dalla loro carica aggressiva, non sono più capaci di nuocere. Dio l’invio di un angelo buono. Questo però sarà poi introdotto con la violenza nel corpo del primo uomo. Eva, contaminata dal serpente, si coniuga con Adamo e da queste nozze avrà origine l’umanità, discendendo tutti gli spiriti dall’unico angelo incarcerato in Adamo. Per quanto concerne, invece, le formulazioni dualistiche di tipo radicale, le fonti sono concordi nell’attribuire ai Catari Albanens la credenza in due dèi, buono e cattivo, principii senza inizio né fine, creatori entrambi, l’uno del mondo celeste e degli angeli buoni, l’altro degli angeli cattivi e del mondo materiale. Lucifero è ritenuto figlio del dio malvagio e protagonista di una singolare impresa di seduzione: egli infatti si trasfigura in angelo di luce e, per intercessione degli angeli ammirati dalla sua bellezza, viene accolto nel mondo divino e qui nominato amministratore della corte angelica. Ma tosto Lucifero seduce parte degli angeli e ingaggia una terribile lotta con gli altri guidati da Michele. A questa versione del mito riferita nel De heresi catharorum, alternano in altre fonti narrazioni relative a una violenta incursione di Lucifero e dei suoi angeli malvagi nel cielo, da cui sono scacciato a opera dell’arcangelo Michele e degli angeli buoni. Nell’una e nell’altra traduzione, comunque, è essenziale il motivo della cattura di una terza parte degli angeli celesti; questi infatti sono ritenuti formati da tre elementi: corpo, anima, spirito. I corpi angelici rimangono inerti nel cielo, mentre le anime sono catturate da Lucifero, incarcerate nei corpi umani e sottoposte a un inarrestabile ciclo di mentensomatosi che potrà avere fine solo quando esse prenderanno coscienza della propria natura e dignità. In questo processo salvifico essenziale è il ruolo dello spirito, non toccato dal contagio demoniaco, “custode dell’anima”. Dopo la caduta dell’anima, infatti, vaga alla sua ricerca e quando l’ha trovata le parla e l’anima risponde. E tosto l’anima riconosce lo spirito col quale fu nel cielo, allora si ricorda che in cielo ha peccato e comincia a fare il bene in luogo del peccato commesso. E veniamo da ultimo all’organizzazione delle comunità catare e nello specifico alle loro prassi etiche e liturgiche; un’esperienza religiosa sostanzialmente omogenea. Alla base di tale compattezza stanno i precetti di un’etica rigorista che impone l’astensionismo dall’unione fisica, dalla generazione e dall’uso dei cibi di origine animale. Se in linea di principio tali astensioni si impongono a tutti i fedeli e comunque sono condizione imprescindibile per la salvezza, in pratica l’osservanza di questi divieti è imposta solo ai “perfetti”, ossia a quanti hanno ricevuto, con il consolamentum, il dono celeste dello Spirito pervenendo nella condizione di “salvati”. Si costituiscono così due classi, quella dei “consolati” e dei semplici “credenti”. Costoro sono tenuti a fare atto di venerazione nei confronti dei perfetti e talora stabiliscono con essi un patto secondo cui, in punto di morte, riceveranno il “battesimo dello Spirito”. Monoteismo e dualismo: Vi sono delle realtà storiche che sono al contempo monoteistiche e dualistiche. Per quanto concerne il campo delle religioni, fondamentalmente lo zoroastrismo, mentre per quanto concerne il campo delle tendenze o dei movimenti all’interno di una specifica tradizione religiosa, le correnti dualistiche medievali. In un monoteismo dualistico, la presenza di un secondo principio negativo e fonte di realtà ontologicamente negative, sembra liberare il dio unico dalla responsabilità del male. Ma se il dio è liberato dalla responsabilità del male, esso è al contempo fortemente condizionato e compromesso dalla presenza del male come secondo principio. Si ha una riduzione e una mortificazione della potenza del dio unico. Gli studi hanno illustrato il tema, squisitamente dualistico, dell’insufficienza del dio creatore, della sua incapacità a far fronte a eventi causati dall’avversario. Un monoteismo dualistico comporta una “diminuzione” dell’idea monoteistica in quanto viene a compromettere fortemente il dio unico, per quanto concerne la sua potenza e afferma di lui la non universale creatività o almeno la non universale signoria. Il male condiziona il primo principio nei suoi atti, e finalizza l’azione del bene, inteso come primo principio. In tale prospettiva si colloca il tema della creazione in ambito zoroastriano. Essa è intrinsecamente positiva, in quanto frutto dell’attività del dio “buono”. Ma ove è esplicitato, come nel trattato teologico medioevale Bundahishn, il motivo della creazione quale necessario campo di battaglia su cui attirare e sconfiggere l’avversario, ecco che la creazione stessa non appare più il frutto di un atto di libera volontà, ma appare come un evento a cui il narratore è mosso da un condizionamento a lui esterno, appunto la presenza minacciosa dell’antidio. Monismo: ll monismo afferma la derivazione della realtà da un unico principio secondo modalità che vengono a comportare la sostanziale unità della realtà e pertanto un’immanenza del divino nel mondo. Il Tutto è divino e il divino permea il tutto (panteismo). Monismo e panteismo esprimono sostanzialmente modi diversi di guardare la medesima realtà, monistiche se si guarda al principio, panteistiche se si guarda al rapporto tra questo e il mondo. Si definisce panteistica ogni posizione filosofico-religiosa che consideri l’assoluto come impersonale o semipersonale e come non distinto dal mondo, ovvero che identifichi in vario modo il divino e il mondo. Si danno del panteismo due forme diverse: panteismo “cosmico” o “immanentistico”, che accentua la presenza dell’assoluto in tutte le realtà “finite”, e panteismo “acosmico”, che viene ad annullare nel loro essere proprio e distinto le realtà “finite”. Reale è solo l’Assoluto o il divino, e il resto è illusione, senza propria sostanza. Una distinzione essenziale è quella tra sistemi teistico-creazionistici e sistemi monistici. Nei primi si dà l’idea di un essere divino concepito come personale e come creatore trascendente la realtà creata. Nei secondi si dà la nozione di un essere impersonale o semipersonale, concepito come la fonte dell’essere e del divenire cosmici. Qui un’ampia tipologia religiosa potrebbe venire evocata: il Tao, lo Yin e lo Yang, l’Uno di testimonianze orfiche. Si pensi poi all’Uno della speculazione indiana del Veda tardo e delle Upanishad; si tratta di un sistema monistico caratterizzato dall’idea dell’Uno, il Brahman, entità sostanzialmente impersonale che non può essere messa sullo stesso piano di un dio vigorosamente personale quale Jahvé. Una differenza che si traduce in un’altra e corrispondente differenza, quella tra l’attività creatrice di Jahvé e il rapporto esistente tra il Brahman e il cosmo, che del Brahman è la manifestazione ed estrinsecazione, in un quadro che è appunto monistico. Si comprende dunque come monoteismo e monismo si escludano a vicenda: il primo è teistico, cioè si basa sul concetto di divinità personale distinta dal mondo, ed è creazionistico; il secondo implica una posizione panteistica. Ma più in generale si potrà dire che i sistemi di tipo monistico e panteistico si distinguono dai sistemi teistici, nei quali cioè la personalità degli dèi è distinta dal cosmo, sia che la divinità trascende il cosmo, sia che questa in qualche modo ne faccia parte. Il mondo religioso indiano non conobbe da sempre queste formulazioni monistiche. La letteratura veica, pur conoscendo tendenze monistiche vede predominante un quadro di natura politeistico-naturistica. Invece, delle quattordici più importanti Upanishad sopravvissute, mentre alcune sono orientate in senso teistico, altre esprimono posizioni monistiche (es. “In verità questo mondo intero è il Brahman da cui proviene, senza il quale si dissolverebbe e nel quale respira”). Torniamo alle caratteristiche più generali dei sistemi monistici. Essi generalmente si pongono anche come evolutivi, contrapposti ai sistemi teistico-creazionistici. Infatti, a differenza di quelli teistico- creazionistici, i sistemi monistici conoscono dei quadri teogonici, ossia narrazioni mitiche concernenti la nascita degli dèi all’interno di un’impostazione genealogica, quadri che spesso sono anche cosmogonici, realizzandosi in essi anche la nascita delle entità naturali. Tuttavia, mentre nelle teo-cosmogonie dei politeismi le entità cosmiche e le persone divine non si offrono come provvisorie manifestazioni o frammenti rispetto ai principi o al principio primordiale, o comunque non sono chiamati a risolversi in essi o in esso, queste ultime caratteristiche si danno invece nelle teo-cosmogonie proprie dei sistemi monistici. Le narrazioni teo-cosmogoniche tipiche dei sistemi monistici pongono alla base del tutto un Uno, il quale viene volentieri presentato come l’Indistinto, il Dormiente. Talora questo Uno primordiale rappresenta l’indistinzione caotica e notturna da cui emerge l’essere come espressione di razionalità. Le concezioni monistiche tendono così a svalorizzare il distinto e il molteplice, sia che al molteplice venga riconosciuta solo un’esistenza illusoria, sia che a esso venga riconosciuta un’esistenza reale, seppur di cifra negativa, in base alla quale il nascere, piuttosto che illusione, è male. Ne consegue, in entrambi i casi, la tendenza ad annientare il tempo riassorbendolo in una concezione “ciclica” che contempla, appunto, il periodico o ciclico ritorno all’origine una e indistinta. Torniamo alla contrapposizione tra sistemi monistici e sistemi teistici. In una religione teistica, l’apice del divino è “persona”. L’essere personale, divino, è un valore ultimo e non superabile. Eccezioni a questa caratteristica sono tuttavia le interpretazioni e legittimazioni “filosofiche” del politeismo, che intravedono dietro alla pluralità un’unità trascendente e inconoscibile nella sua essenza ultima. Per larga parte dell’induismo e per il buddhismo, invece, l’assoluto sta al di là del personale, e, specificatamente nel buddhismo, rimanere sul piano del “personale” vorrebbe dire rendere eterna quella sete di esistere che è la fonte della sofferenza. Anche per le religioni dell’Asia, l’assoluto divino è sovrapersonale e perciò non destinatario di atti religiosi positivi, che non ha la possibilità di percepire e che dunque sarebbe insensato dedicargli. Tali atti si possono indirizzare solo alle immagini riflesse dell’Assoluto, gli dèi. E pertanto questi non sono l’ultimo, ma il penultimo. Veniamo ora ad approfondire le nozioni di “distinzione” e “indistinzione” nei sistemi monoteistico-creazionistici e nei sistemi monistico-evolutivi. Una differenza essenziale, infatti, interviene tra questi ultimi, che pongono alla base del tutto un Uno impersonale o semipersonale, e i primi, che pongono alla base della realtà un Uno che è “persona”. In una concezione monistica si ha una consustanzialità degli esseri molteplici rispetto all’Uno, per cui il singolo non può esistere che spezzando e impoverendo l’Uno. Nella visione creazionistica, invece, si ha una concezione “creaturale”, con degli esseri finiti e molteplici: i quali hanno anch’essi una vocazione di ritorno all’Uno, che però lascia intatto il carattere creaturale dell’essere finito. Qui l’Uno è insieme il supremamente distinto e le sorgenti degli esseri creaturali, anch’essi distinti. La distinzione degli esseri finiti coincide con la loro venuta all’esistenza, e questa distinzione si realizza come una partecipazione alla suprema distinzione di un primordiale che è Persona. Rimangono qui, solamente, da ricordare due tematiche legate al monismo. La prima, è la compatibilità nella storia delle religioni tra monismo e dualismo. Essa si realizza, per esempio, in sistemi gnostici quali il valentinianesimo, ove l’aspetto monistico è attestato dalla nozione della consustanzialità dello pneuma (elemento divino) con il pleroma divino (“pienezza” del mondo divino), come pure dalla nozione della derivazione della sostanza divina e della sostanza non divina dal principio primo divino. L’aspetto dualistico è presente nel momento in cui si identifica nella crisi che occorre al divino periferico, la Sophia del sistema valentininano, il secondo principio, fonte e scaturigine immediata delle realtà non divine, ovvero la psichica e la materiale. Tematiche monistiche sono presenti anche in sistemi gnostici che esprimono un dualismo radicale, come il manicheismo, ove la componente monistica è data ancora una volta dalla consustanzialità tra luce o il divino “alto” e la sostanza luminosa e divina frammentata e dispersa nella materia. Anche il sistema di Empedocle è un buon esempio di dottrina dualistica e monistica. La seconda tematica concerne la presenza di aspetti monistici e panteistici in larga parte della cosiddetta “nuova religiosità”. Nella “nuova religiosità”, infatti, una religiosità “senza Dio e senza Chiesa”, domina una concezione monistico-panteistica del divino. Questo, si è trasformato nell’Energia cosmica che costituisce il fondamento del Tutto. Induismo: Il termine induismo indica un insieme di credenze e relative narrazioni mitiche, pratiche cultuali e sistemi speculativi, che si sviluppano e si moltiplicano a partire dall’iniziale vedismo. Il termine induismo è stato introdotto dagli europei con evidente riferimento etnico-geografico al sub-continente indiano, laddove l’induismo designa sé stesso come dharma, o “legge”, nel senso ampio di un fascio di norme di vita fondate su una particolare visione del mondo. Induismo deriva da hindu, che originariamente designava semplicemente gli Indiani, ovvero coloro che abitavano sulle sponde dell’Indo. Successivamente è venuto a indicare, da parte degli invasori islamici che a partire dal VIII d.C hanno cominciato a mettere radici nella parte settentrionale del subcontinente indiano, coloro che non aderivano a nessuna delle religioni del libro. Il termine induismo poi comincia a essere applicato dai colonizzatori inglesi, nel XIX, per designare coloro (hindu) che non seguono né una religione del libro né alcuna delle religioni indiane fondate, vale a dire lo jainismo, il buddhismo e il sikhismo. La storia dell’induismo si suole dividere in periodi, fondamentalmente in quello precristiano e in quello postcristiano. La fase precristiana a sua volta viene distinta in vedismo, di carattere popolare e di contenuto fondamentalmente politeistico; brahmanesimo, ovvero la religione dei sacerdoti centrata sui rituali sacrificali, e infine la terza fase denominata vedantismo. I Veda sono una raccolta di testi in sanscrito (detto vedico); sono una raccolta di testi, di età divrersa, di carattere prevalentemente rituale, suddivisi in quattro gruppi: il Rigveda (o “Veda degli Inni”, diviso in dieci cicli, il primo e ultimo dei quali sono i più recenti e sono tesi a indagare i principi dell’universo; i rimanenti, più antichi, si riferiscono ai culti propri delle singole divinità del pantheon politeistico ario; la loro recitazione è funzionale alla tutela e all’incremento della fertilità e della fecondità); il Samaveda; lo Yarjuveda, contenente formulari rituali (mantra) e parti descrittive ed esplicative dei riti, tali da annunciare un genere di letteratura religiosa, ovvero quello dei brahmana, nei quali alla nozione dell’efficacia salvifica del rito viene via via a sostituirsi quella dell’efficacia salvifica della conoscenza; infine, l’Atharvaveda (insieme di testi e formule rituali). La seconda fase, o brahmanesimo, è caratterizzata dalla composizione di testi detti brahmana, che vengono ad aggiungersi ai testi componenti i Veda e che sono opera di coloro ai quali sono affidati l’insegnamento e la tradizione dei Veda, i brahmani, la casta sacerdotale dell’India classica. I brahmana contengono riflessioni e interpretazioni relative al culto, di carattere esplicativo o anche narrativo: narrativo di eventi o episodi mitici che hanno un carattere di fondazione e garanzia della realtà attuale. Questa dunque poggia sull’appropriata conoscenza dei miti e sull’esatta interpretazione dei riti. Il brahmanesimo vede così lo svilupparsi di una complessa speculazione sopra il valore assoluto del rito, quando sia correttamente eseguito e conseguentemente sopra una sorta di subordinazione degli dèi al rito stesso. In sostanza, il ruolo dei singoli dèi si fa sempre più sfuocato o quantomeno subordinato a quello del sacrificio stesso. Il sacrificio viene a porsi più come l’atto per eccellenza che fa funzionare la grande macchina del cosmo, fondata sul brahman come forza divina “gestita” dai brahmani. Trattasi di una forza impersonale, denominata con nomi diversi, come tapas (calore), che pervade dèi, uomini e realtà naturali, e fa funzionare l’universo. Il termine brahman sarebbe diventato primo Principio, sostengo e Io profondo dell’universo. Peculiari della terza fase, o vedantismo, sono le Upanishad, chiamate anche Vedanta, cioè “la fine dei Veda”, o “il componimento dei Veda”, segnate dall’aspirazione a una liberazione oltremondana definitiva e orientate in senso decisamente monistico. Nei secoli attorno all’inizio dell’era cristiana si assiste a una profonda trasformazione delle antiche credenze soprattutto per effetto della predicazione buddhista e si ha il cosiddetto induismo classico. Infine, l’impatto con l’islamismo e con il cristianesimo determinò quella che è considerata la terza fase della storia dell’induismo, ovvero il neoinduismo. Torniamo ai Veda. Nei testi più antichi del Rigveda, espressivi della religiosità dell’India più antica, i cantori narrano le gesta degli dèi potenti di un pantheon politeistico dai toni fortemente mitologici. In esso spiccano le figure di Veruna e di Indra. Varuna è descritto come creatore della realtà anche se non propriamente secondo le modalità di una creatio ex nihilo, quanto piuttosto secondo quelle di un’azione demiurgica. È il dio potente che tutto vede e che con la sua forza invincibile tutela l’ordine universale del cosmo (rta: concetto che si ritrova anche in Iran, ove lo rta è manifestazione di Ahura Mazda) e ne punisce i violatori. Egli regge l’universo attraverso il suo potere misterioso ed efficace, detto maya. Indra è il demiurgo le cui azioni si caratterizzano per la violenza, come l’atto demiurgico per eccellenza che gli che ha rapporti con la nozione di yoga. Tale termine significa “unione” e indica anche i mezzi per realizzarla. Secondo la distinzione già offerta dalla Bhagavad-gita, e poi accettata dall’induismo più in generale, si dà una triplice via di liberazione, ovvero tre modalità di yoga: karma-yoga (“via dell’azione”, ma di quella priva di attaccamento ai frutti di essa), jnana-yoga (“via della conoscenza”) e bhakti-yoga (“via della devozione”) . Etica: Tradizionali dell’induismo fin dal tempo dei Veda sono i quattro ideali di vita, ovvero il piacere (kama), il benessere (artha), la rettitudine (dharma) e la liberazione (moksha); quest’ultimo assorbe e relativizza gli altri tre. Tradizionale è pure il sistema castale. Le caste originarie sono quattro: la casta sacerdotale, costituita dai Brahamani; la casta dei guerrieri, poi divenuta classe del potere politico e amministrativo; la classe dei Vaishya, o detentori del potere economico; e infine la classe dei Shudra, ovvero i semplici lavoratori manuali. L’appartenenza a una casta è per nascita ed è pertanto legata alla dottrina della trasmigrazione. La divisione in caste trova il suo fondamento “ontologico” nel tema mitico dello smembramento del corpo di Purusha. Fuori dal sistema castale sono diverse categorie di persone: gli omosessuali, gli zingari, i lebbrosi, i malati mentali, … . Si tratta dei dalit, “gli oppressi”. Per quanto concerne l’etica, secondo la concezione indiana, la vita dell’uomo è soggetta alla grande “trama” delle leggi cosmiche. Ogni uomo, sulla base delle sue esistenze precedenti, deve seguire la propria legge o dovere personale. Il “dovere” etico, quindi, non è tanto una questione relativa a una scelta di valori, della quale si è responsabili e alle decisioni che ne derivano. Il singolo è chiamato a realizzare ciò a cui è destinato per nascita. L’induismo moderno ha tentato, per il tramite di una particolare e nuova esegesi degli antichi testi sacri, di fare spazio a un’etica della responsabilità personale. L’esperienza di identità delle Upanishad, non è in grado di dare fondamento alla validità permanente e alla dignità dell’unicità individuale di ogni singolo uomo. Se questa via resta una delle molte altre esistenze possibili, l’essere persona irripetibile perde il contesto che le dà fondamento. Le riforme dell’induismo in epoca moderna hanno tentato correzioni dottrinali nella direzione dell’affermazione di una dignità dell’uomo, non più soggetto alle costringenti leggi del dharma, al fine di addivenire a un’abolizione di usanze induiste come il rogo delle vedove (sati), le leggi delle caste e il matrimonio tra bambini. A tale scopo le regole e i precetti un tempo validi vengono spesso trasformati nel loro contrario. Si afferma che l’uomo può determinare il corso della propria vita; questo vale a tutti i livelli di esistenza. Nella direzione dell’eliminazione dei processi di fissazione dell’uomo per mezzo delle leggi del dharma, si pongono gli sforzi di Sarvepalli Radhakrishnan, filosofo e uomo politico indiano (1888-1975). Trimurti e Trinità: Merita almeno un accenno la nozione di Trimurti, spesso erroneamente accostata alla nozione cristiana di Trinità. Il concetto induistico di Trimurti, a differenza della dottrina cristiana in merito alla Trinità, non costituisce un elemento costante e univoco all’interno dell’induismo. La tripartizione del cosmo indiano (cielo, atmosfera, terra) dà occasione a una sistemazione tripartita del mondo divino: si danno cioè dèi celesti, dèi atmosferici e dèi terrestri, in tutto trentatré; la tripartizione appare legata a una tripartizione sociologica funzionale tra sacerdoti o brahmani, nobiltà guerriera e produttori. La nozione di Trimurti va inquadrata più specificatamente in quella tendenza a partire dalla speculazione brahmanica a una riduzione monistica all’Uno, ove i tre membri della triade costituente la Trimurti, ovvero brahma, Vishnu e Shiva, sono visti come “forme” o manifestazioni dell’Uno, che li unifica o li concilia. Tale Uno, nei testi relativi alla Trimurti, si identifica ora con l’uno ora con l’altro dei tre membri. Quando si identifica, per esempio, con Vishnu o con Shiva, la figura divina in questione viene “estratta” dalla Trimurti e sostituita da una figura che le sia in qualche modo legata, come, nel caso di Vishnu, da una delle sue manifestazioni, il dio Krishna; in tal caso la Trimurti sarà costituita da Brahma, Krishna e Shiva, mentre Vishnu ne sarà il principio unificatore. Venendo a una comparazione tra Trinità e Trimurti, sarà da segnalare innanzitutto la differenza tra una concezione come quella trinitaria, nella quale le Persone divine hanno la medesima dignità e una concezione, quale quella della Trimurti, nella quale si dà una figura divina superiore alle altre o sintetizzante le altre. E soprattutto, la Trinità cristiana riposa sul concetto monoteistico di un Dio persona, creatore personale del cielo e della terra e dell’uomo, con il quale l’uomo realizza un rapporto fatto di concretezza e di calore personalistico; la speculazione indiana sull’Uno è altra cosa: essa è un cammino faticoso che parte dalla terra, alla ricerca del principio e dell’Uno, ma che ruota per così dire all’infinito senza un punto d’appoggio: una speculazione che solo sporadicamente costruisce sul concetto di persona. Una speculazione che solo sporadicamente esce dalle secche del politeismo e del monismo per acquietarsi nel personalismo sereni della concezione monoteistica. È dunque la Trimurti una Trinità? No, perché nella Trinità sono appunto essenziali l’idea monoteista e il concetto di persona; inoltre l’impostazione triadica non serve all’induismo solo per unificare, ma anche per conciliare i termini di una dualità: in un famoso testo, Brahma, che qui è il principio supremo, riconcilia Vishnu e Shiva, gli altri due membri della triade, tra i quali è scoppiata una lotta. Infine, i componenti della Trimurti classica hanno ognuno la loro preistoria religiosa propria, e in parte la loro area geografica di elezione: sono cioè delle figure storicamente autonome. Induismo e inclusivismo: L’induismo appare tipicamente legato a una categoria definita come “inclusivismo”. L’inclusivismo è quella teoria secondo la quale una particolare tradizione religiosa presenta la verità finale mentre le altre tradizioni riflettono aspetti di quella verità ultima o costituiscono approcci a essa tali da esprimere una verità solo parziale. E in tale specifico senso questa religione viene a includere le altre. Poiché l’induismo conosce come una delle sue dottrine basilari l’idea che la divinità possa manifestarsi in modi diversi e tutti in qualche modo validi nel corso dei tempi e nelle diverse regioni della terra, esso è venuto esprimendo lungo la sua storia una tipica capacità di assimilare al suo interno diverse correnti e formazioni religiose. In sostanza, l’inclusivismo come modalità secondo la quale l’induismo struttura il rapporto tra religione e religioni, ovvero il rapporto tra sé e l’altro, appare come il prolungamento dell’inclusivismo come modalità che caratterizza, lungo il corso della plurimillenaria storia dell’induismo, il rapporto tra le diverse e diversificate componenti dottrinarie e cultuali che vennero a costituire l’induismo stesso. Bianchi osserva che l’induismo presenta sé stesso tutt’altro che come una religione tra le religioni; esso si pone in realtà come la religione, eterna e quindi universale, cui appartengono già tutti gli uomini, ne siano consci o meno. Una particolare difficoltà all’inclusione nel sistema di pensiero induista si è manifestata in rapporto a religioni che ammettono la rivelazione storica di Dio, e in particolare, tra queste, l’Islam. A seguito dell’espansione armata dell’Islam, l’incontro-scontro tra le due tradizioni religiose ha portato da un lato a una scissione, tra India musulmana e India induista, e dall’altro lato alla formazione di movimenti religiosi che hanno operato una sorta di fusione tra elementi delle due tradizioni religiose, come nel caso del Sikhismo e della sua nozione dell’unico principio divino, la quale risente a un tempo della nozione dell’unico Dio del monoteismo islamico e di quella dell’unico Principio dell’orizzonte di pensiero induista. Un tentativo di fusione tra elementi islamici ed elementi indiani, anche se, pure in questo caso, con il prevalere dei secondi sui primi, si è avuto nell’ambito della nozione di unione mistica con Dio. Tale tentativo è stato operato, per esempio, dal sovrano Akbar detto “il Grande”, che ha voluto creare una sorta di religione fondata sulle nozioni dell’unione mistica con Dio e dell’unità del reale. Tornando alla categoria dell’inclusivismo come tipica del pensiero indiano, si dovrà qui osservare come, nel momento in cui il pensiero indiano afferma che il divino si possa raggiungere attraverso varie vie, di fatto lo stesso pensiero indiano viene a operare una sorta di fagocitazione delle altre vie. L’induismo da una parte si pone come uno dei cammini per la salvezza e per giungere a Dio, dall’altra parte tende a essere onnicomprensivo, capace di ricomprendere in sé ogni altra espressione religiosa; nell’atto di ricomprendere in sé le altre religioni, l’induismo tende a relativizzare queste religioni. Perciò, adottando anche verso le altre religioni il suo schema, l’induismo non cessa di atteggiarsi come una religione a sé, anche laddove voglia atteggiarsi a modello interpretativo universale e, quasi, “riassunto” della religione e delle religioni. Per l’induismo è inimmaginabile che Dio si manifesti in un unico modo. Per esso l’Uno si esprime nel gran numero di divinità che popolano l’induismo stesso, ma anche al di fuori di questo. Riconosce, infatti, il “divino” nella persona di Gesù Cristo, che l’induismo colloca, tuttavia, nella molteplicità di forme delle manifestazioni del divino. Colpiti dall’etica di Gesù e dal suo influsso nella storia dell’umanità, i pensatori induisti dell’ultima generazione si adoperano per integrare la figura di Gesù nel mondo ideale indiano. Egli viene così interpretato come avatara. In sostanza la via cristiana basata sull’evento dell’Incarnazione è ritenuta una delle strade per “salire sulla vetta” dell’illuminazione interiore, alla quale, peraltro, anche altre “vie” possono condurre, ovvero altre esperienze religiose, rimanendo tuttavia ferma la concezione, in ambito induista, che la vetta sia toccata solamente da colui che, in grazia della perfetta meditazione interiore, si identifica con il divino che comunque gli è proprio. Induismo e mistica: Il monismo indiano, con la correlata “mistica dell’indistinzione”, formulata in maniera esemplare da Radhakrishnan, considera sé stesso come “la via” che comprende e supera le altre vie, che pur vengono lasciate sussistere, ma nella loro relatività. Il filosofo indiano Sarvepalli Radhakrishnan, Presidente dell’Unione Indiana dal 1962 al 1967, nei suoi scritti insegna la relatività di tutti i messaggi religiosi storicamente espressisi e la validità della sola, e a suo parere unica e medesima, esperienza religiosa spirituale, o “religione dello spirito”, l’unica cosa davvero reale in tutte le religioni. In sostanza, egli viene a predicare una sorta di religione dello spirito, che coniugherà in sé l’unità di fondo offerta dalle religioni e la molteplice differenziazione che esse pur esprimono. In sede di studi è stato osservato come l’opzione di Radhakrishnan poggi su un cortocircuito; infatti, solo in apparenza Radhakrishnan oppone al punto di vista “partigiano” di chi è cristiano un’apertura super partes verso tutto ciò che è religioso; in verità, come chi è cristiano, egli parte da una dottrina della assolutezza che corrisponde alla sua struttura religiosa. Per “mistica” si intende una disposizione che non tollera nessuna realtà sovraordinata a sé, considerando le esperienze ineffabili e misteriose del mistico come l’unica realtà vincolante nell’ambito religioso. Radhakrishnan vede nella religiosità mistica una sorta di “metareligione”, in cui le religioni storiche trovano la loro superiore unità. Facendo questo, tuttavia, egli assimila le esperienze mistiche delle altre religioni a quella propria della mistica indiana advaita, fondata sul principio dell’unità tra atman e Brahman. I mistici delle varie religioni vengono così a costruire una sorta di unica comunità dello spirito al di là di tutte le differenze tra le religioni. Le differenti esperienze mistiche all’interno di diverse religioni sono elevate al rango di una sorta di “religione trasversale”. In realtà, si assume a criterio interpretativo delle diverse forme di mistica, l’esperienza di identità propria della mistica indiana. Difatti, per quanto le forme di religiosità mistica delle diverse religioni siano confrontabili, non se ne può tuttavia trarre una base comune. Più in generale si può dunque affermare che la tipica impostazione teologica monistica, e l’altrettanto tipica visione antropologica, sono a fondamento della “teologia delle religioni” induista (e più in generale asiatica). Una “teologia delle religioni” per la quale tutte le diverse religioni, proprio perché sono diverse, pertengono al mondo del provvisorio. È sulla base del suo monismo di fondo che l’induismo, come detto, considera sé stesso la via che comprende e supera le altre. Esso relativizza tutto il resto, ma lo lascia sussistere nella sua relatività. Bürkle osserva che in fondo tutti i tentativi di eliminare la correlazione religione-religioni in favore di un’”unità superiore” sono sguardi e imitazioni, pieni di nostalgia, rivolti a quelle forme, proprie delle religioni asiatiche, di un’esperienza di identità. Per questo si sceglie di dare loro la denominazione generalizzante di “mistica”. Pensatori appartenenti alla religione indù, come Radhakrishnan e Gandhi, sono stati pionieri in questi tentativi. Anche ai loro successori, che annunciano un’”unità in tutte le religioni”, interessa valorizzare in generale l’esperienza d’identità propria dell’India primitiva. Tutte le religioni sarebbero allora soltanto approcci e percorsi che, lungo le vie dei propri condizionamenti culturali, tendono allo scioglimento dell’identità personale nell’ancestrale, ed eternamente uguale a sé stesso, Sé divino. L’unità delle religioni dovrebbe radicarsi in questa profondità mistica che esclude la molteplicità. In tale prospettiva tutte le religioni dell’uomo esistenti nella storia reale hanno valore soltanto in quanto stadi preliminari. Espressive di una teologia delle religioni tipicamente asiatica e nello specifico induistica sono le pur diverse posizioni di Gandhi e Pannikar. Ghandi nasce da una famiglia di stretta osservanza induista e aperta all’influsso della religione giaina, caratterizzata da un rigido astensionismo e dal rispetto estremamente rigoroso per ogni forma di vita. Nella sua patria si dedicherà alla causa dell’indipendenza dell’India attraverso la pratica della non violenza. Ghandi esprime nelle sue idee sulla pluralità delle religioni un solido radicamento nella tradizione religiosa indiana. Infatti, fa propria la concezione di Dio peculiare della tradizione mistica indiana che lo vuole Realtà ineffabile e insondabile, “senza qualità”. Ghandi afferma che l’esperienza assidua lo ha persuaso che nessun altro Dio esiste all’infuori della Verità; Dio ha tanti nomi, continua, quante sono le creature, e perciò bisogna concludere che egli non ha nome; poiché in molte forme appare, forma egli non ha; siccome per mille linguaggi a noi parla, lo possiamo chiamare il silenzioso. Per Ghandi, dunque, la Verità è Dio. Ghandi trova nella tradizione induista quella che gli appare come una conferma della legittimità dell’identità tra i due termini; infatti, la parola nella lingua sanscrita che si rende con l’italiano “verità”, ovvero satya, significa letteralmente “ciò che esiste”, esattamente come Dio stesso, che solo è e nient’altro esiste all’infuori di Lui. Un cenno ora a Pannikar; teologo, egli ritiene che alla base di ogni esperienza religiosa vi sia un “principio trascendente” o “mistero”, che costituisce il “fatto religioso fondamentale” e che è sempre più grande di quanto ogni esperienza religiosa possa affermare. Pertanto, nessuna religione può entrare in dialogo con altre religione se pretende di possedere la normatività definitiva e assoluta valida per tutti. Il Cristianesimo, nello specifico, se vuole dialogare con le altre religioni, deve sottoporre la nozione tradizionale dell’unicità e universalità di Cristo a una reinterpretazione basata sulla distinzione tra “Cristo universale” e “Gesù particolare”. Per Pannikar, il Cristo salvatore non può essere ristretto alla figura meramente storica di Gesù di Nazareth. Gesù sarebbe una delle molteplici forme storiche in cui si sarebbe realizzato il principio cosmoteandrico, il Cristo “universale”. Pertanto, il dialogo può avvenire solo con l’abbandono del “cristocentrismo” in favore del “teocentrismo”, per Pannikar, ovvero dell’ammissione di un Assoluto al fondo di tutte le religioni. Esse sarebbero, infatti, manifestazioni storiche, tutte parziali e relative di un unico Mistero divino. Posizioni di questo genere vengono ad additare un cristianesimo che non è più tale ma che è una nuova interpretazione del cristianesimo, la quale comporta la negazione radicale di ciò che qualifica la specificità del cristianesimo, ovvero l’unicità, “assoluta” e non soltanto “relativa” di Gesù di Nazareth. Inoltre non è dato individuare, sulla base di un’indagine storico- comparativa, un punto d’incontro tra le diverse religioni nella modalità di concepire la “Realtà ultima”, ma modalità diverse e spesso reciprocamente escludentisi di concepirla, nonché esperienze religiose con contenuti e forme diversi, se non opposti, di viverla. Buddhismo: secondo il messaggio originario del Buddha, addirittura un ostacolo per la liberazione stessa. Gli studiosi non escludono la possibilità che nel corso del tempo si siano esercitati sul Mahayana influssi cristiani oltre che manichei. Infatti non si cerca più la liberazione, come nel buddhismo del Piccolo Veicolo, esclusivamente nel compimento da parte del singolo della graduale esperienza di illuminazione. All’aiuto esterno da parte del bodihisattva corrisponde anche il traguardo universale, extraindividuale, in un “paese del Buddha” ultraterreno. Tuttavia, a segnalare una radicale differenza tra quest’attesa e quella propria dell’escatologia cristiana, rimane il fatto che il “paese del Buddha” è pur sempre caratterizzato dall’ideale per il quale l’esistenza e la persona dei singoli uomini, come pure dei soccorrevoli bodhisattva, sono chiamate a estinguersi, laddove nell’escatologia cristiana la fine non è affatto l’estinzione definitiva dell’identità personale. Vi è un’ulteriore differenza tra l’attesa buddhista del paradiso del “paese puro” e l’escatologia cristiana. Quest’ultima, infatti, inserisce la speranza personale nella speranza escatologica di compimento del mondo intero. Ovvero: cosmologia e antropologia sono strettamente correlate ed entrambe oggetto dell’opera redentrice di Gesù Cristo. Nel buddhismo, invece, le leggi cosmiche non sono toccate dall’illuminazione liberatrice, la quale si compie nell’uomo e non invalida le leggi del ritorno cosmico delle ere. Sradicato dall’India, dov’era nato, dall’invasione islamica nel 1197, il buddhismo si diffuse ampiamente in altre regioni dell’oriente antico e moderno: in Indocina, in Thailandia, in Cina, in Giappone, nel Tibet, in Corea e Vietnam. Nella sua diffusione in siffatte regioni, il buddhismo mahayanico venne a contestare le pretese dei seguaci dell’Hinayana di essere gli autentici eredi del Buddha e l’insieme l’idea che soltanto gli scritti del canone pali contengano l’autentica predicazione del Buddha. A loro volta, i buddhisti hinayanici di Ceylon accusano i mahayanici di essere dei continuatori dell’induismo in quanto disposti ad accogliere e integrare credenze diverse. Di particolare interesse, infine, è la corrente dell’amidismo, particolarmente diffusa in Giappone, con la sua venerazione dell’Amida Buddha, entità divina, personale e salvatrice, la cui invocazione da parte del fedele ottiene a questo la salvezza intesa come immortalità nel nirvana. Infatti, l’amidismo professa la dottrina del Buddha primordiale ed eterno (Adibuddha), manifestatosi in cinque Buddha, di cui uno è il Buddha Amitabha. Attorno a lui venne a configurarsi quasi una religione a sé stante, basata sulla pratica rituale della ripetuta invocazione del nome del Buddha, la quale era ritenuta capace di creare un vincolo particolare tra il Buddha e l’orante. Bisogna ancora rispondere alla questione se il buddhismo, anche quello originario, sia da intendersi come una religione o non piuttosto come una filosofia. Nella misura in cui il buddhismo ha alcuni aspetti tipologicamente affini alle forme che senza difficoltà chiamiamo religiose (es. il trascendimento dal mondano), essa va chiamato religione. Ma soprattutto si dovrà tener conto del dato storico, il quale è la connessione del buddismo con la speculazione religiosa di tipo upanishadico, che esso sviluppa anche se in maniera tutta propria. Confucianesimo e taoismo: Questi, sono due tradizioni religiose che possono essere percepite se non esplicitamente almeno come tendenzialmente moniste, per il loro far riferimento a una speculazione sull’Uno come vera, unica e stabile realtà. Si tratta, con il taoismo e il confucianesimo, di due formazioni religiose che, insieme al buddhismo, nato però in terra indiana, appartengono all’orizzonte religioso tradizionale della Cina. Si tratta di esperienze che si collocano anch’esse, con il buddhismo e il jainisimo, o in occidente l’orfismo e il pitagorismo – tutti fenomeni che nascono nel VI a.C – nel cuore di quella che Japers definì “epoca assiale”. Confucio è un personaggio storico nato da famiglia di nobili origini ma caduta in disgrazia nel piccolo stato feudale di Lu, nel 551 a.C. Confucio si accostò all’insegnamento di Lao Dan, fondatore del daoismo, movimento di pensiero che ha al suo centro il concetto di dao quale principio ineffabile preesistente all’universo e origine di tutti gli esseri. Raccolse attorno a sé numerosi discepoli, cui volle trasmettere i valori della cultura antica cinese, e in particolare le norme rituali, la musica e la poesia. Morì nel 479 a.C. Furono i discepoli di Confucio dapprima e poi i discepoli delle generazioni successive ad annotare su listelli di bambù gli insegnamenti del maestro, i quali, con l’introduzione della carta, assunsero la forma di un’opera che venne denominata Dialoghi. Alla base del confucianesimo era il culto degli antenati che Confucio assunse rielaborandolo alla luce del cosiddetto sistema Tsung, che regolava i rapporti parentali presso l’aristocrazia cinese e che Confucio considerava espressione del Tao, l’ordine perfetto del mondo, attivo a livello cosmico, politico e morale. La via (dao) che l’individuo deve intraprendere, e che ha come capisaldi il principio dell’agire con la massima lealtà e quello del non imporre agli altri quello che non si desidera per sé, culmina con il conseguimento dell’umana “benevolenza”. Il conseguimento della “felicità” (tale il significato di base del termine “fu”) appare l’aspirazione dominante della spiritualità confuciana e la nozione di “fu” contempla beni mondani come la ricchezza, la lunga vita, la pace, l’armonia con il mondo e con il cosmo, … . Essa è assicurata dal corretto espletamento dei riti (“li”) per la maggior parte legati al culto degli antenati e dall’osservanza di precetti morali. L’insegnamento di Confucio fu approfondito e articolato in direzioni parzialmente diverse dai suoi tre più importanti discepoli: Mencio, Gaozi e Xunzi. Per quanto concerne la presenza nel pensiero confuciano di una dimensione specificatamente “religiosa”, ovvero di quella dimensione che abbiamo detto essere quella del rapporto con un supra e un prius, Confucio non nega l’esistenza delle entità sovrumane che facevano parte del patrimonio tradizionale di credenze dell’antica Cina, quali in particolare Shangdi (“l’Antenato”) e Tian (“il Cielo”), il cui Figlio (di Tian) per la dinastia dei Chou regnante al tempo di Confucio era il re, e che Confucio vedeva come il supremo garante dell’ordine morale. Ma indirizza il suo pensiero e il suo insegnamento sulla formazione dell’uomo e non sulla speculazione in merito a quelle entità che egli afferma essere al di là dell’umana comprensione. Esemplare di tale posizione l’apostrofe che indirizza a un discepolo che gli chiedeva come onorare i numi: “se non sai onorare gli uomini, come puoi pensare di onorare divinità e spiriti?”. A Lao-Tzu è tradizionalmente attribuito il Tao-Te Ching, nel quale sono i principi del suo pensiero, basato sulla nozione del Tao, il principio dell’essere e del non essere. In Cina il taoismo offre temi analoghi a quelli orfici circa la separazione del cielo dalla terra a partire da un’unità indistinta che si manifesta nel molteplice e illusorio, per poi riassorbirlo in sé. La morale taoista è basata su cinque proibizioni (uccisione degli esseri viventi, alcolismo, ipocrisia, furto, dissolutezza) e dieci consigli: obbedire ai genitori, servire l’imperatore e il proprio maestro, essere buono verso tutte le creature, sopportare con magnanimità il male ricevuto, risolvere le vertenze e togliere l’odio aiutare i poveri, liberare gli animali catturati e nutrire gli esseri viventi, scavare pozzi, piantare alberi e costruire ponti, prendersi cura dei propri simili e istruirli, recitare i libri taoisti e bruciare l’incenso per onorarli.
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