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ruolo dell'intellettuale nella storia, Dispense di Esecuzione e interpretazione

percorso interdisciplinare di come il ruolo dell'intellettuale cambia nel corso della storia

Tipologia: Dispense

2019/2020

Caricato il 07/02/2023

elisabetta-vaccaro
elisabetta-vaccaro 🇮🇹

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Scarica ruolo dell'intellettuale nella storia e più Dispense in PDF di Esecuzione e interpretazione solo su Docsity! Il genere della retorica nasce in Grecia come principale e importantissimo mezzo sia di diffusione di idee, ma ancor più come strumento di persuasione. Essa è figlia di una particolare situazione politica che concede ad ogni cittadino la possibilità di parteciparvi attivamente, permettendogli di esprimere le proprie opinioni e motivazioni, di argomentare e di discutere. Se chiunque, quindi, aveva la possibilità di parlare davanti al popolo riunito in assemblea, che fosse la bulè o l’ekklesìa greca o il Senato romano, era di primaria importanza riuscire a convincere gli altri della validità delle proprie idee e delle proprie proposte politiche. L’arte oratoria nasce essenzialmente a questo scopo e ad esso resterà per sempre indissolubilmente legata. Di conseguenza, l’importanza dell’eloquenza nella vita politica non può che crescere col tempo in maniera esponenziale, tanto che spesso il successo politico dipende quasi esclusivamente dalla propria capacità di parlare bene e convincere i presenti. Inevitabilmente, molto presto la tecnica oratoria va a costituire parte integrante della formazione del giovane cittadino, nelle scuole più rinomate; esistono scuole di famosi oratori e proprio questi ultimi sono spesso gli uomini più in vista della società. È per la stessa ragione che molto successo riscuotono a Roma i trattati dedicati unicamente alla retorica. È il caso del De oratore di Cicerone, il più illustre e famoso retore di tutta la storia romana. È innanzitutto lui a tratteggiare la figura del perfetto oratore, che non è solo colui che padroneggia perfettamente la tecnica retorica, ma anche un modello di cittadino e di uomo, un esempio per l’intera comunità. Difatti l’intento principale, nelle sue opere filosofiche, fu quello di prodesse civibus (giovare allo Stato e ai suoi cittadini). È una ripresa del tema catoniano del vir bonus dicendi peritus, dove il vir bonus è il cittadino onesto, impegnato politicamente, che mira al bene della patria. Cicerone svolge in modo più approfondito il concetto, descrivendo l’oratore come un uomo colto grazie ad una vasta istruzione, dalla perfetta integrità morale, dedito più di ogni altra cosa alla vita politica. Così, se incorre in un solo difetto, questo copre anche i pregi. Non sostengo ciò allo scopo di distrarre giovani privi di qualche dote naturale dallo studio dell'eloquenza. [...] Però noi stiamo cercando quale deve essere l’oratore, e quindi dal nostro discorso deve uscire un oratore privo di ogni difetto e ricco di ogni pregio. Se il gran numero delle liti, se la varietà delle cause, se la solita, barbara folla del foro ammette anche gli oratori più difettosi, non per questo abbandoneremo la nostra ricerca. Ora, nelle arti, in cui non si cerca necessariamente un vantaggio, ma qualche diletto disinteressato dell'animo, come siamo solerti e difficili nel giudicare! Ebbene, non vi sono liti né dispute, che possano costringere la gente a sopportare nel foro oratori non buoni, come nel teatro attori cattivi. Perciò bisogna fare in modo che l'oratore non basti soltanto a quanto è necessario, ma riesca ammirevole nelle cose che si possono liberamente giudicare. [...] L’oratore, in grado di parlare coscientemente su ogni tema, argomenta dinanzi al pubblico e adempie alle richieste del docere, delectare e del movere. Nel De Oratore sono esposte le cinque fasi in cui può essere diviso ogni atto comunicativo: l’inventio (la ricerca degli argomenti da svolgere), la dispositio (l’ordine in cui disporli), la memoria (le tecniche di memorizzazione), l’elocutio (l’elaborazione stilistica nella quale vengono inserite le figure retoriche) e l’actio (le “istruzioni” che l’oratore deve seguire per impostare il proprio discorso). Cicerone delinea i principali doveri che spettano a chi si occupa di politica. Traendo spunto dalla Repubblica di Platone, egli pone in primo piano l’esigenza di rinunciare agli interessi egoistici, per ricercare il bene comune all’interno del corpo civico. Tutti coloro che si accingono a governare uno Stato dovrebbero osservare i due precetti di Platone: il primo, di mirare così al vantaggio dei cittadini […] dimenticandosi dei propri interessi; secondariamente, di curare l’intero complesso dello Stato, per non trascurare le restanti parti mentre ne tutelano una sola. Pag 402 t10 In questo ritratto del governante ideale è facile scorgere il riflesso del programma politico ciceroniano, imperniato sulla concordia, ordinum. La vita politica in età repubblicana è dinamica, viva, fatta di idee contrastanti in continuo scontro fra loro. È un clima, quindi, in cui è facile che nascano nuovi pensieri, nuovi modi di leggere la realtà e persino, volendo parlare di letteratura, nuovi modi di esprimersi. È un mondo in cui le nuove idee non vanno ancora incontro a censura, possono sì essere incensate o denigrate, ma non vengono comunque mai fatte sparire dalla circolazione o condannate. Quest’ultimo modo di agire sarà invece caratteristico dell’età imperiale. Se, infatti, tralasciamo l’età di Augusto, che fu il momento di massimo splendore per la classicità con autori quali Virgilio, Orazio, Ovidio e Livio, grazie anche al famoso circolo di Mecenate –il collaboratore di Augusto che offriva “protezione” a molti intellettuali– l’età imperiale si caratterizza per l’invadenza dell’autorità del princeps nell’attività intellettuale. L’“invadenza” si trasforma spesso in aperta censura, con la messa al bando delle opere che potevano avere carattere “sovversive”, e la condanna, sia all’esilio sia alla morte dei relativi autori. Ciò perché adesso il solo volere che conta è quello dell’imperatore e di conseguenza il ruolo dell’intellettuale viene declassato da quello di eminente uomo dedito alla politica, a semplice “voce” della propaganda imperiale. Tutti gli autori di questo periodo, infatti, esalteranno questo nuovo modello, da Plinio il Giovane a Tacito. Per quest’ultimo, in particolare, è inutile cercare di andare contro dell’oratore nella società e quello delle nuove tendenze stilistiche. Quintiliano, infatti, afferma che c’è stata una degenerazione dello stile. Anche Tacito affronta il tema della decadenza dell’oratoria, a cui dedica un’intera opera: il “Dialogus de oratoribus”. Il dialogus testimonia l’importanza dell’oratoria per Tacito: sia come oggetto di studio, sia come strumento della pratica forense e politica. Allievo della più prestigiosa scuola di retorica del tempo, diretta da Quintiliano, Tacito unisce la conoscenza teorica alla pratica diretta, possedendo quindi tutti gli elementi necessari per immettersi nel dibattito del tempo riguardo alla corruzione dell’eloquenza in età imperiale e nella ricerca delle sue cause. A differenza di Quintiliano, Tacito supera l’impostazione moralistica nel determinare le cause della decadenza del genere e si sposta maggiormente sul piano politico. La principale causa della decadenza dell’oratoria è individuata nel passaggio dalla repubblica romana all’impero, che aveva eliminato gran parte delle opportunità per la nascita di idee realmente innovative e soffocato la vita politica. Sotto il principato non può più esistere la grande eloquenza caratteristica dell’età repubblicana perché è venuto meno lo scontro politico che alimentava la grande oratoria. Il declino dell’eloquenza rappresenta anche il declino di molti antichi valori, che vengono inevitabilmente sostituiti da altri più “consoni” alla nuova epoca, che vede l’imperatore stagliarsi come unico governante dell’intera romanità. “La grande eloquenza, come la fiamma, ha bisogno di materia che la alimenti e di movimento che la ravvivi, e nell’ardere acquista splendore.” La forza della parola ha ceduto al potere. Intrappolata in questa situazione, l’arte oratoria non può che finire presto schiava di sé stessa: non è più un mezzo di espressione, ma un semplice sfoggio di cultura. Lo scopo non è più esporre un’idea e convincere l’uditorio, solo il raggiungimento di una forma perfetta, dal linguaggio aulico e prezioso. La parola smette di essere un mezzo, per diventare il fine stesso dell’oratoria. Nel dialogus Tacito dimostra tuttavia di non rimpiangere le violente lotte intestine dell’età repubblicana e sembra esaltare la pace interna raggiunta con l’instaurazione del principato, anche se il prezzo da pagare è stato la decadenza dell’eloquenza. “…quella grande e tanto rivelante eloquenza è figlia della licenza, che gli stolti chiamano libertà, e non può nascere negli stati ben regolati”. Il controllo dell’opera degli intellettuali è ricorrente in tutti i regimi: essa è tollerata solo se messa al servizio del potere, sin dall’epoca romana, come testimonia Tacito. Il controllo delle informazioni e la propaganda politica sono strumenti di fondamentale importanza nel mantenimento del potere: per tale ragione la censura si conferma comune a tutti gli autoritarismi. Il rapporto tra intellettuali e totalitarismi ammette due sole vie: l’adesione all’ideologia del regime o il silenzio. La terza via, quella non ammessa dall’autorità politica autoritaria, è il dissenso. Per di più, l’adesione alle iniziative culturali del regime può comportare prestigio e l’affidamento di ruoli di rilievo, la sicurezza del successo (sia esso accompagnato da genuino pubblico apprezzamento o meno). L’opposizione al potere costituisce un pericolo per l’intellettuale. Ciò perché l’intellettuale stesso costituisce un pericolo per il regime: coloro che vi si conformano, infatti, contribuiscono con la loro speculazione a giustificarne i caratteri e le ideologie, spiegandoli alla gente comune in un’ottica didascalica; al contrario, i dissidenti smontano le teorie dei primi, mettono a nudo i macabri retroscena del controllo politico. Tra le figure storicamente al servizio di un partito unico, troviamo Lev Trockij. Lev Trockij Lev Davidovič Bronštejn nacque il 7 novembre 1879 a Janovka, in una benestante famiglia di contadini ebrei. Fu infervorato sostenitore della dottrina marxista ed entrò a far parte della fazione bolscevica nel 1917. L’impegno politico di Trockij si tradusse in un’appassionata opera di conversione, in cui egli mise a servizio della sua causa rivoluzionaria le sue doti da oratore. Le folle di operai dovevano essere mosse alla rivoluzione, la quale avrebbe beneficiato gli stessi lavoratori. Una volta fatta la rivoluzione in Russia, le masse andavano mosse alla sua estensione oltreconfine, in disaccordo con la tesi del rivale Stalin, dipinto come un criminale inaffidabile. La posizione di Trockij rispetto all’autorità politica russa muta col passaggio di potere da Lenin a Stalin: da sostenitore del partito diviene oppositore. La sua propaganda antistalinista non è ovviamente tollerata ed egli è espulso dal partito nel 1927. Esiliato, la morte lo raggiungerà in Messico per mano di sicari stalinisti. Di lui, Anatolij Vasil'evič Lunačarskij, politico, scrittore e rivoluzionario bolscevico, scrive, nelle “Silhouettes Rivoluzionarie” (1923): «A causa della sua giovane età nessuno lo prendeva troppo seriamente [riferendosi all’anno 1903, quando Trockij era appena ventenne], ma tutti ammisero ch’egli possedeva un rimarcabile talento come oratore, avvertendo anche, certamente, che non di un pulcino si trattava, ma di una giovane aquila.» Thomas Seltzer (traduttore ed editore), in “Mirrors of Moscow” (1923), scrive: «Trotsky è un allievo della Rivoluzione Francese. Ha vissuto a lungo in Francia ed ama questo paese, malgrado la sua ostilità verso la Russia sovietica. Come oratore egli ricorda molto i rivoluzionari francesi. I russi parlano molto più lentamente, con più attenzione alla logica e meno fervore. Trotsky agita il suo pubblico con la sua forza e con frasi battenti.» Lunačarskij descrive così il suo portamento e il suo stile oratorio: «Il suo aspetto solenne, il suo bell'aspetto, il suo ampio gesticolare, la potenza ritmica dei suoi discorsi, la sua sonora ma mai affaticata voce, la rimarcabile coerenza e la sua abilità letteraria, la ricchezza del suo frasario, la scottante ironia, il suo vibrante patos, la sua rigida logica chiara come acciaio lucente - queste sono le virtù di Trotsky come oratore. Egli può parlare con frasi lapidarie e colpire il bersaglio come con una lancia, ed è capace di magnifici discorsi politici del tipo che precedentemente avevo sentito solo da Jaures [politico francese]. Ho visto Trotsky parlare per due ore e mezza - tre di fronte ad un pubblico perfettamente immobile e silenzioso, incantato nell'ascoltare il suo monumentale trattato politico. Molte delle cose che Trotsky aveva da dire le conoscevo già, e naturalmente ogni politico deve ripetere le stesse idee ancora e ancora di fronte a nuove folle, eppure ogni volta Trotsky era capace di rivestire gli stessi pensieri con forme differenti […] le sue doti come uomo politico sono pari alla sua abilità retorica […] Solo un grande politico può essere un grande oratore, ed essendo Trotsky principalmente un oratore politico, i suoi discorsi sono la naturale espressione del suo pensiero politico.» I caratteri individuati da Cicerone non vengono meno nell’oratoria moderna: nei suoi discorsi, Trockij mette bene in chiaro qual è il suo obiettivo, qual è l’argomento che intende sviscerare (docere), e nel parlare sfrutta termini aggressivi e spietati nei confronti dei suoi avversari, o al contrario dolci e invitanti quando si tratta di sostenere la sua tesi (movere), tenendo in pugno il suo pubblico con efficacia (delectare). Esempi: «There are no crimes in history more terrible […] than the Moscow trials […]. These trials develop not from communism, not from socialism, but from Stalinism: that is from the irresponsible despotism of the bureaucracy over the people. It is now my principal task to reveal the truth, to show and to demonstrate that the true criminals hide under the cloak of the accusers. » Traduzione: «Non esistono crimini più terribili nella storia […] dei processi di Mosca […]. Questi processi sono la conseguenza non del comunismo, non del socialismo, bensì dello stalinismo: ossia, dell’irresponsabile dispotismo della burocrazia sulle persone. È ora mio compito rivelare la verità, mostrare e dimostrare che i veri criminali si nascondono sotto il mantello dell’accusatore.»
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