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RUOLO DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE NELLO SVILUPPO LOCALE, Tesi di laurea di Diritto Amministrativo

SI DESCRIVE COME LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE PUò INTERVENIRE PER LO SVILUPPO DEGLI ENTI LOCALI

Tipologia: Tesi di laurea

2018/2019

In vendita dal 03/07/2019

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vincenzo-iavazzo 🇮🇹

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Scarica RUOLO DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE NELLO SVILUPPO LOCALE e più Tesi di laurea in PDF di Diritto Amministrativo solo su Docsity! Università degli Studi di Napoli Facoltà Economia Ruolo della pubblica amministrazione nello sviluppo locale di Vincenzo Iavazzo Relatori: Silvio Tirelli Amedeo Lepore A.A. 2012-13 INDICE RUOLO DELL’AMMINISTRAZIONE PUBBLICA ITALIANA NELLO SVILUPPO LOCALE i. 1.1 Amministrazione pubblica ii. 1.2 Mutamenti normativi iii. 1.2.1 New public managment nella p.a. iv. 1.2.2 nuovi modelli organizzativi v. 1.3 Amministrazione di risultato AMMINISTRAZIONE E SVILUPPO vi. 2.1 Pubblica amministrazione e sviluppo locale vii. 2.2 I nuovi termini per lo sviluppo viii. 2.3 Governance territoriale ix. 2.4 Semplificazione amministrativa x. 2.5 Pianificazione, programmazione e controlli nella pubblica amministrazione 1 Nella seconda parte analizzeremo il ruolo della pubblica amministrazione nello sviluppo locale, che negli ultimi anni è stato caratterizzato da una sempre più sentita esigenza di effettuare una serie di interventi volti non solo a riequilibrare situazioni di ritardo nello sviluppo di alcune aree, ma anche ad attuare politiche di competitività per alcuni territori costretti a confrontarsi con scenari in rapida evoluzione. Definiremo i nuovi termini di sviluppo territoriali attuabili dalla pubblica amministrazione, in una dimensione locale non più associabile ad orientamenti culturali tradizionali, ma come insieme di caratteristiche specifiche necessarie per lo sviluppo della stessa. Definiremo il concetto di governance territoriale necessario in quanto le pubbliche amministrazioni hanno negli ultimi anni optato per soluzioni sempre più basate sul più ampio coinvolgimento degli attori locali(istituzionali e non), tenuto conto dei cambiamenti dovuti dal necessario passaggio dal governament alla governance, e dal metodo della concertazione di cui si avvale la governance. Infine si analizzeranno i principi di trasparenza e semplificazione amministrativa, considerati fondamentali in un’ottica evolutiva della pubblica amministrazione, in relazione alla maggior trasparenza dell’operato amministrativo e miglior gestione della complessità organizzativa interna ed esterna, ma soprattutto per quanto concerne lo sviluppo locale di riferimento. Nella terza parte andremo ad analizzare quelli che sono i possibili strumenti utilizzabili dalla pubblica amministrazione per un efficace ed efficiente sviluppo locale. In particolare partiremo analizzando il ruolo e la gestione del personale pubblico, tenuto conto della relativa evoluzione avutasi negli anni in merito ai rapporti lavorativi e al concepire la stessa attività. Cercheremo di valutare l’intervento amministrativo in tale ambito, volto ad una ridefinizione a causa di quella che sono state le inefficienze prodotte negli anni, di quello che è il sistema di gestione delle risorse umane. Entreremo poi più nello specifico,descrivendo quelli che sono gli strumenti concreti utilizzabili dalla pubblica amministrazione per lo sviluppo locale. Partendo da una analisi di quella che è la programmazione negoziata, definita come la regolamentazione concordata tra soggetti pubblici, o tra questi e le parti private, per attuare interventi diversi, individueremo poi, i livelli di governo più vicini al territorio , Provincie e Comuni, quali referenti primari della programmazione negoziata e della redazione dei relativi strumenti. Definiremo quindi dapprima l’intesa istituzionale di programma, accordo preliminare tra soggetti pubblici, 4 successivamente ,il contratto di programma stipulato tra lo Stato competente, grandi aziende, consorzi di piccole e medie imprese e rappresentanze dei distretti industriali per realizzare interventi in un’area territoriale ristretta. Analizzeremo il contratto d’area, inteso come un accordo tra Stato e amministrazioni pubbliche locali, parti sociali, datori di lavoro per realizzare iniziative imprenditoriali, infine definiremo l’istituto del patto territoriale, insieme di accordi volti a realizzare un programma di interventi, finalizzato ad uno sviluppo eco-compatibile, spesso in un ambito sub-regionale. Cercheremo poi di definire un altro strumento utile alla pubblica amministrazione per lo sviluppo locale, e cioè il project financing, logica originale attraverso la quale si procede alla valutazione e realizzazione di progetti d’investimento, sia in ambito strettamente privatistico che in ambito misto pubblico/privato. Attenzione la dedicheremo al caso in cui il project financing viene applicato alla realizzazione di opere di pubblica utilità, si parlerà quindi di partenariato pubblico privato, strumento utilizzato quando per un’opera pubblica, la progettazione, la realizzazione, la gestione ed il finanziamento vengono affidati al settore privato. Infine termineremo il lavoro rifacendoci ad un caso concreto di attuazione degli strumenti amministrativi per lo sviluppo locale, prendendo in esame l’attuazione dei patti territoriali nella zona Nord- Est di Napoli, in particolare nel comune di Acerra. Partiremo dall’analisi delle condizioni che hanno portato all’attuazione di tale strumento, quelli che sono gli attori coinvolti e gli aspetti economico- sociali che li riguardano. Cercheremo di capire il ruolo della pubblica amministrazione a tutela degli interessi pubblici e privati coinvolti, ed in riferimento alla gestione del piano di azione e dell’attuazione degli interventi, mettendo in evidenza la differenza tra il prima e dopo il patto 5 CAP 1: EVOLUZIONE DELL’AMMINISTRAZIONE PUBBLICA ITALIANA Amministrazione pubblica Le amministrazioni pubbliche, al pari di ogni altro soggetto che abbia rilevanza sociale, incidono sul processo di riproduzione della vita sociale, in particolare esse sono chiamate a soddisfare specifiche esigenze quali: garantire servizi efficienti ai cittadini, gestire efficacemente i propri apparati amministrativi, essere registi dello sviluppo dei rispettivi territori. La pubblica amministrazione, in particolare, detiene una posizione centrale nell’ambito del sistema sociale ed economico in quanto governa:  La disciplina in materia di pianificazione e sviluppo del territorio;  La disciplina della qualificazione delle risorse umane (attraverso il sistema scolastico e della formazione professionale);  Le risorse finanziarie destinate ai diversi ambiti locali. Tuttavia, negli ultimi anni, tale ruolo è divenuto sempre più rilevante in conseguenza dei maggiori problemi di sviluppo economico che hanno caratterizzato il nostro Paese, della mutata qualità dell’intervento amministrativo, ma anche e soprattutto delle difficoltà che il modello burocratico (tipico delle pubbliche amministrazioni) incontra nel definirsi governo razionale, ossia che utilizza procedure di tipo universalistico, consentendo così un rapporto di equità tra cittadino e potere. Nell’attuale ordinamento italiano, non a caso, non è più possibile utilizzare procedure universalistiche e al tempo stesso garantire efficienza ed efficacia degli interventi, che dovranno invece essere sempre più mirati rispetto alle esigenze dei singoli territori e dei diversi gruppi sociali. Da qui la necessità di diversificare gli interventi, continuando ad 6 Al di là dei limiti insiti in una prospettiva così circoscritta(2), ad essa viene attribuito il merito di aver sostenuto la necessità di coniugare esigenze di consenso politico, vitali per l’ente pubblico, con quelle di razionalizzazione economica dei costi, altrettanto importanti per la sopravvivenza delle istituzioni. Tutto ciò in un’epoca in cui sono aumentate le funzioni di produzioni in capo all’amministrazione pubblica, tanto da portare il legislatore ad inserire nelle leggi di riforma, l’efficienza, l’efficacia, l’economicità quali criteri ispiratori dell’azione. (2) limiti evidenziati dagli stessi esponenti della Public Choice e richiamati d D’Amico, 2004, pp. 205-206 9 Mutamenti normativi Dagli anni Novanta la pubblica amministrazione è stata interessata da notevoli mutamenti che l’hanno obbligata ad un profondo ripensamento dei propri apparati amministrativi, delle logiche che li hanno governati per decenni, del rapporto con l’ambiente esterno, in particolare con l’utenza e, in generale, con il territorio nel quale essa agisce. Tale ripensamento è originato da motivazioni cosiddette strutturali ( disavanzo pubblico divenuto insostenibile, numerosità e complessità di funzioni e attività da gestire) e di contesto ( internazionalizzazione dei sistemi socio- economici, aumento delle aspettative della collettività, ritardi e inefficienze nello sviluppo dei rispettivi territori). E’ stato quindi avviato un percorso di cambiamento, accompagnato da riforme amministrative, sul quale hanno inciso tre aspetti che concorrono nella stessa direzione:  L’affermazione del principio di sussidiarietà, coerente con un modello organizzativo che si sta affermando, basato sulla delega verso i livelli organizzativi inferiori e la relativa responsabilizzazione. Ciò implica che il livello superiore mantiene compiti prevalentemente di guida e indirizzo, per cui definisce regole generali e valuta i risultati, ma non svolge più attività operativa e non decide su questioni specifiche. Contemporaneamente tale sistema stimola la creazione di alleanze orizzontali anche tra istituzioni diverse, generando un sistema di relazione reticolari sul territorio. Tutto ciò comporta capacità di analisi e valutazione, nonché di governo di sistemi non gerarchici assai differenti rispetto al passato ( caratterizzato da relazioni in prevalenza verticali);  La sempre più estesa e pressante richiesta di qualità dell’azione pubblica, da parte della collettività. L’estensione concerne due dimensioni: da un lato i gruppi sociali, ciascuno con le proprie esigenze e priorità, dall’altro i settori dell’intervento pubblico, dalla sicurezza all’ambiente, dal traffico alla sanità, dalla regolazione economica alla cultura. Definire i confini dei diversi problemi,valutare le interdipendenze, proporre linee di intervento, verificare i risultati, sono compiti che richiedono consolidate capacità di analisi e programmazione; 10  La crescente esigenza di competitività territoriale, da sostenere con opportune politiche di sviluppo. Un territorio può essere definito a geometria variabile1, ossia ha diverse valenze di attrattività per l’insediamento e il mantenimento di attività produttive, le quali, a loro volta, incidono sulla crescita economica, sociale e demografica dello stesso. La competitività è funzione di molti fattori, coincidenti con quelli relativi ai vari settori di interevento pubblico prima accennati; ad essi se ne aggiungono altri che vanno dalla presenza di infrastrutture all’efficienza delle aziende pubbliche; dalle forme di sostegno diretto e indiretto alla presenza di personale qualificato; dall’esistenza di centri di ricerca e formazione a quella di imprese che rendano efficace la filiera fornitore- cliente. I tre aspetti concorrono a disegnare il ruolo complessivo della pubblica amministrazione, sempre meno coinvolta nelle attività di carattere operativo e più responsabilizzata nella prefigurazione di scenari, nell’identificazione e proposta di alternative, nel controllo degli effetti di politiche diverse, nella traduzione pratica degli indirizzi politici. Parallelamente è stato così avviato un processo di cambiamento anche nelle regole interne di funzionamento delle amministrazioni, caratterizzato da due principali tendenze: precisare e distinguere le responsabilità politiche da quelle amministrative (chiarezza delle competenze e dei ruoli); responsabilizzare la dirigenza sui risultati delle decisioni e delle azioni intraprese, con una conseguente revisione dei meccanismi di gestione del personale e una particolare attenzione alla formazione. Da quanto detto infatti discende che il cambiamento richiede prioritariamente un adeguamento delle competenze e delle professionalità che operano negli enti pubblici, che li rendano capaci di attuare i nuovi modelli organizzativi ed avere un ruolo attivo, propulsivo nello sviluppo territoriale. Si è giunti così ad un risultato di rinnovamento sostanziale del quadro di riferimento per l’azione pubblica, sia all’interno degli enti, sia nel loro rapporto con l’ambiente esterno. La stagione delle innovazioni normative, che si è progressivamente autoalimentata nel corso del decennio sino ad oggi, si è aperta con la legge n. 142/1990 di riordino delle autonomie locali, che detta i principi dell’ordinamento di Comuni e Provincie, individuandone le funzioni. Tale provvedimento introduce un cambiamento di paradigma nella concezione dell’ente locale, divenuto erogatore di servizi, nonché promotore e coordinatore di azioni di sviluppo economico a salvaguardia del territorio. Del 1990 è anche la legge n. 241 sulla 11 regola, al riconoscimento del cittadino come cliente di un servizio fornito da un’amministrazione imprenditoriale, alla responsabilizzazione dei manager attraverso la creazione dei centri di profitto, al potenziamento di capacità di anticipazione dei problemi, di delega verso il basso dei compiti e di modernizzazione dell’amministrazione attraverso il ricorso al mercato. Secondo questi autori infatti: “Il tipo di governo che si è sviluppato durante l’era industriale, con le sue burocrazie centralizzate e lente, la loro attenzione a regole e a regolamenti e le loro strutture gerarchiche, non funziona più molto bene. Ai loro tempi hanno conseguito molti risultati, ma si sono nel tempo allontanati da noi. Sono diventati sovrabbondanti, pieni di sprechi e inefficaci. E quando il mondo ha cominciato a cambiare non sono riusciti a cambiare con esso. Le burocrazie gerarchiche, centralizzate progettate negli anni trenta e quaranta semplicemente non funzionano bene nella società e nell’economia in rapido cambiamento, ricca di informazioni e ad alta intensità di conoscenze degli anni novanta” (Osborne e Gabler 1992, p. 112). Per supplire alle carenze di tale modello il new public management si proporrebbe, sempre secondo gli autori, come un’unica visione comune a tutti i paesi, al di là delle singole applicazioni e delle singole culture amministrative, per superare la crisi corrente. Come si può ben notare le forme di legittimità dell’azione pubblica conoscono qui una cesura rispetto al passato variando profondamente: il loro fondamento non è più la veste autoritativa, ma si passa ad una legittimazione fondata sul mercato con le sue capacità di sviluppo dell’economia e di regolazione preferibile a quella dello Stato. Il new public management nasce, infatti, come risposta al modello burocratico diventato secondo i critici troppo lento, inefficiente, lontano dai bisogni dei cittadini, scarsamente dotato di servizi di qualità e dunque un ostacolo per lo sviluppo generale. Si diffonde l’idea che per aumentare la produttività della pubblica amministrazione occorra seguire la stessa strada intrapresa dalle aziende, sperimentando strumenti tipici del privato come metodi della contabilità analitica, indicatori di spesa che monitorizzino le risorse investite per poter correggere disfunzioni ed errori in itinere e strategie di direzione per obiettivi accompagnati da valutazioni che attribuiscano a ciascuno la responsabilità di un budget (Girotti, 2007). 14 Così la managerializzazione viene intesa come insieme di misure e tecniche organizzative che si diffondono dall’impresa per investire il campo della pubblica amministrazione, considerata strumento arretrato rispetto al mondo imprenditoriale all’avanguardia e avanzato: da questo ultimo punto di vista il new pubblic management si presenta come un set coordinato di concetti e tecniche che è possibile trasferire alla p.a. La managerializzazione della pubblica amministrazione si impone, inoltre, come ideologia, come mito razionale che concretamente si traduce in processi di privatizzazione, liberalizzazione, esternalizzazione, creazione di relazioni di quasi mercato. Nel discorso pubblico prevalgono pratiche discorsive basate sui concetti di efficienza, produttività, competitività, responsabilità che contribuiscono da un lato a indebolire la fiducia nei confronti di un intervento equo ed efficace da parte della pubblica amministrazione tradizionale e dall’altro a sottrarre spazio per alternative dissimili poiché queste idee diventano di senso comune, condivise da tutti al di là delle questioni tecniche (Battistelli, 2002). Vocaboli come empowerment e decentramento prevalgono nelle riforme che si rifanno al new public management, mentre assumono una connotazione negativa quelli come gerarchia e gerarchico (Pollit, Bouckaert, 2002). E infine la managerializzazione si attesta anche a livello di contesto generale come politica pubblica. A fronte della crisi fiscale ed economica si afferma la convinzione, sostenuta in primo luogo all’interno delle comunità di professionisti, che il contenimento dei costi e la riduzione della spesa possano essere raggiunti soltanto attraverso un nuovo stile di management pubblico basato sulla valutazione continua dei processi e il monitoraggio delle prestazioni (Girotti, 2007). Così dalla sfera dei tecnici si passa all’arena politica(3) e paesi come Inghilterra, ma anche Nuova Zelanda, Australia e Stati Uniti adottano queste formule nel disegno riorganizzativo della pubblica amministrazione (Barzelay, 2001; Pollit, Bouckaert, 2002). (3) con riferimento ad un concetto di confine non inteso dal punto di vista esclusivamente amministrativo, quindi stabile e rigido, ma definibile in base alla comunanza di interessi e alla condivisione di progetti da parte delle comunità che lo vivono 15 Ovviamente tale strategia ha in alcuni paesi anche un diverso risvolto che è quello di ridurre e ridimensionare fortemente, secondo una prospettiva neoliberale o conservatrice, il settore pubblico. Non è solo questo orientamento, però, che spinge verso una nuova configurazione e gestione della pubblica amministrazione. L’attenzione di alcuni governi è, infatti, quella sì di ridurre i costi e tagliare le spese e la tassazione, ma soprattutto quella legata allo spreco e alle inefficienze, mentre l’obiettivo finale è quello di garantire standard adeguati di welfare. Naturalmente la situazione si differenzia a seconda dei contesti nazionali ed é facile constatare che a dispetto di quanto andavano affermando i rappresentanti di quella critica anglo-americana-oceanica alla burocrazia tradizionale(4), a fronte di uno zoccolo duro di provvedimenti, principi e azioni qualificanti comuni, ogni paese adotta in maniera differente il paradigma del new public management. Il mondo anglossassone, ad esempio, da più spazio al mercato attraverso una estesa manovra di privatizzazioni e di esternalizzazioni finalizzata ad un cospicuo risparmio di risorse pubbliche. Secondo questa visione economicistica il principio della concorrenza introdotto nel settore pubblico non solo incrementerebbe l’efficienza, ma salvaguarderebbe anche la libertà del cittadino nelle sue spoglie di consumatore(5). Nell’Europa continentale, invece, si accentuano i connotati relativi all’apertura dell’amministrazione a istanze di partecipazione della società civile, al decentramento organizzativo che coinvolge tutti i livelli istituzionali dallo Stato, alle regioni, agli enti locali e all’avvicinamento dei centri decisionali ai destinatari degli interventi, in un’ottica di sussidiarietà promossa a livello di Unione Europea. (4) In realtà l’interesse degli Stati verso queste strategie amministrative, considerata la situazione economica e sociale di crisi, è di molto precedente gli sforzi dell’accademia di razionalizzare il disegno e portarlo a unitarietà. (5) Osborne e Gabler in testa. 16 Non solo dunque l’attenzione rivolta all’utente come consumatore o cliente ma come cittadino, che si configura per avere una sua capacità critica e di partecipazione alla progettazione delle risoluzioni poste dai problemi e non solo un’abilità di scelta tra diverse opzioni pre-configurate. Il ricorso ad una visione prettamente organizzativistica e manageriale, che si adopera per il funzionamento di una pubblica amministrazione attraverso meccanismi di tipo ingegneristico per risolvere problemi, appare dunque insufficiente. Inoltre se le riforme che si rifanno al new public management sembrano accrescere parsimonia e efficienza non bisogna dimenticare che tali vantaggi potrebbero essere raggiunti “a spese della garanzia di onestà, di una gestione equa e della stabilità ed elasticità” (Hood, 1991, p. 16). Non bisogna poi dimenticare che la modernizzazione implica sia guadagni che perdite e che dunque il nuovo modello che si sta imponendo non sarà in grado di risolvere tutti i problemi che hanno caratterizzato il passato. Senza contare che ogni paese per le proprie differenze interne e per le diverse culture amministrative attinenti ai singoli settori pubblici assume e applica, secondo proprie caratteristiche e esigenze, il new public management che in questo modo non si rivela quella ricetta globale che si era ipotizzato dovesse essere (Pollit, Bouckaert, 2002). Dal punto di vista invece del modello di regolazione delle politiche pubbliche il new public management si caratterizza, come abbiamo visto, per essere bottom-up, rispetto ai modelli gerarchici fondati sul government. Tuttavia per ricalcare e fondarsi sui valori del mercato e sull’interesse privato, al contrario del modello comunitario di governance che, come abbiamo detto, si fonda invece sui valori di tipo fiduciario e comunitario. Se dunque il coordinamento gerarchico è stato sostituito dal mercato o da meccanismi di quasi mercato e dalla contrattualizzazione, si sottolinea che anche nei paesi che più hanno applicato i principi del new public management si è ricorsi a meccanismi gerarchici di coordinamento o in alternativa a forme di pianificazione strategica vista la crescente specializzazione e frammentazione del panorama di riferimento e il bisogno di un maggiore sforzo di coordinamento per mantenere lo stesso livello di coerenza complessiva delle politiche e dei servizi (Pollit, Bouckaert, 2002). Anche di fronte a forme di decentramento, tanto declamate dalla retorica corrente, il new public management da una parte ha dato 19 l’avvio a tali processi, dall’altra però ha rafforzato il potere delle autorità centrali inserendo, come abbiamo visto, meccanismi di controllo e valutazione, indicatori delle prestazioni e standard, in sostanza attribuendo alle strutture periferiche una responsabilità piuttosto annacquata. 20 Nuovi modelli organizzativi Rispetto all’organizzazione delle strutture amministrative, i provvedimenti di riforma(8) contengono alcuni elementi innovativi rispetto al passato, ritenuti significativi ai fini del presente lavoro. Innanzitutto, essi prevedono che ogni ente si doti di un apparato organizzativo improntato ai criteri della funzionalità, flessibilità, interconnessione funzionale degli uffici, imparzialità e trasparenza dei sistemi decisionali, con particolare enfasi sull’adeguamento degli orari di lavoro alle esigenze dell’utenza(9) e a quelli degli altri Paesi membri dell’Unione europea (indicazione ancora poco seguita). Le due leggi 142 e 241, si prefiggono un sostanziale mutamento del modello organizzativo burocratico che ha prevalso per lungo tempo. Un modello ispirato a quello weberiano nel quale l’azione amministrativa è governata dal solo criterio della “razionalità formale legale” e il cui superamento è auspicato con l’introduzione di una “razionalità di tipo produttivo, incentrata sull’efficienza, efficacia e responsabilità. Il modello organizzativo viene ufficializzato nello statuto di ogni ente e l’autonomia statutaria, che prevede la possibilità di personalizzare le soluzioni organizzative, costituisce un’altra rilevante innovazione nell’ordinamento italiano, in passato informato a principi di uniformità e tipicità degli schemi organizzativi. La scelta dell’assetto organizzativo dipende dall’ambiente nel quale ogni ente si trova ad operare, ambiente che riflette un dato livello di complessità da gestire e che è legata a fattori di natura operativa e strategica. I primi attengono alla numerosità dei processi e dei destinatari degli interventi, alle professionalità e alle tecnologie richieste, alle norme da rispettare e relative responsabilità. I secondi concernono la numerosità dei servizi che l’ente deve erogare, l’interdipendenza tra le diverse aree organizzative e il grado di incertezza che occorre fronteggiare nello svolgimento delle attività. (8) Per approfondire la tematica relativa alla contrattualizzazione della pubblica amministrazione e i suoi risvolti critici si veda Vitale T. e Bifulco L., (2005). (9) il principale è la L. 421/1992 con i decreti delegati ( il più importante è il d.lgs.29/1993) poi potenziati dalle deleghe contenute nella L. 55/1997 e successivi decreti. 21 Infatti, gli obiettivi sono derivati da indirizzi e programmi formulati dagli organi politici, che non sempre sono di facile traduzione operativa, perché espressi in forma generica. Il compito spetta all’alta dirigenza nel suo ruolo di collegamento tra vertice politico e dirigenti preposti all’attuazione dei programmi. Essa è poi incaricata di verificare il raggiungimento degli obiettivi attraverso il sistema di controllo di gestione, individuare eventuali scostamenti e comunicarli alla Direzione generale. (10)Alcune leggi regionali hanno previsto l’istituzione dell’Ufficio Tempi e orari della città nelle amministrazioni comunali;come si vedrà gli enti locali italiani hanno adottato prevalentemente un modello “misto”, con caratteristiche in parte del modello divisionale ed in parte del modello per progetto (11) inteso quale aspetto di primaria attenzione per gli amministratori; infatti, gli enti pubblici legittimano la loro presenza quando producono valore per la società, cioè dimostrano di ottenere risultati che, nella percezione dei cittadini, valgono almeno quanto le risorse che impiegano e le restrizioni alla libertà individuale che implicano. 24 Amministrazione di risultato Il sistema amministrativo italiano è stato investito da forti spinte al cambiamento negli ultimi anni, come risultato dell’evoluzione del rapporto tra le P.A. e un contesto socio- economico e politico-istituzionale a sua volta in profonda trasformazione. Un primo ordine di cambiamenti attiene ai contenuti delle attività delle P.A. Il decentramento amministrativo, culminato nella riforma del Titolo V della Costituzione che ha sancito il principio di sussidiarietà verticale e orizzontale, ha attribuito alle amministrazioni regionali e locali un gran numero di nuove funzioni, cruciali per la qualità della vita dei cittadini e per la solidità e la competitività dei sistemi produttivi. A un livello più operativo, diversi provvedimenti hanno istituzionalizzato compiti innovativi, come la realizzazione di sistemi di gestione ambientale, la gestione dello Sportello Unico per le Attività Produttive e i servizi per l’impiego. Il ventaglio delle attività in carico alle P.A. è stato ampliato anche dagli impegni assunti dall’Italia in campo internazionale. Ma questa ridefinizione del ventaglio delle funzioni amministrative esprime e insieme contribuisce a delineare maggiori attese della società riguardo al ruolo delle P.A.: l’amministrazione è chiamata a promuovere e orientare lo sviluppo socioeconomico, migliorando la solidità e la competitività dei sistemi territoriali, creando le condizioni per il libero dispiegamento delle attività dei soggetti individuali e collettivi e assicurando alti livelli di qualità della vita. In particolare, negli ultimi anni la definizione del paradigma dello “sviluppo locale”, ormai affermata nel campo delle scienze socioeconomiche, ha rilanciato con forza la centralità degli enti locali nella promozione dello sviluppo. Questo nuovo approccio è nato dalla constatazione dell’esistenza di molteplici percorsi possibili per l’innesco di processi di crescita e dell’importanza a questo scopo di risorse utilizzabili soltanto sul territorio: il capitale sociale incorporato nel tessuto relazionale, le istituzioni, la cultura, l’ambiente, il patrimonio di esperienze e capacità accumulato nella storia. In estrema sintesi, la principale implicazione pratica si può riassumere nella tesi 25 secondo cui lo sviluppo, per essere sostenibile e per alimentarsi autonomamente nel lungo periodo, deve essere locale, nel duplice senso di processo modellato sulle specificità e sulle risorse locali e sostenuto dalla partecipazione attiva degli attori locali, in una logica di collaborazione continuativa per il governo integrato del sistema e per la gestione dinamica delle sue risorse. In quest’ottica, a ciascun ente locale nella propria sfera di competenza spetta un ruolo decisivo di catalizzazione e guida del processo di sviluppo, che si può declinare in molteplici forme: lettura del territorio; stimolo e valorizzazione delle risorse socioeconomiche locali; individuazione degli attori sociali ed economici, raccordo e mediazione tra di essi; animazione territoriale; mobilitazione della partecipazione; partnership con imprese, cooperative e associazioni per progetti di interesse pubblico; incoraggiamento alla creazione di istituzioni intermedie che eroghino alle imprese i servizi indispensabili allo sviluppo (impossibili da fornire in modo efficiente attraverso assetti di mercato), come consorzi di imprese, centri di sviluppo, centri servizi, centri tecnologici, agenzie di sviluppo; introduzione di procedure amministrative snelle, semplici, certe per le attività economiche. Questa impegnativa responsabilità va esercitata in un contesto ambientale sempre più complesso, che a partire dagli anni ’70 del secolo scorso ha ridimensionato significativamente la capacità di governo del sistema sociale da parte delle istituzioni statuali. In molti casi e in materie di primaria rilevanza, le politiche pubbliche eccedono la capacità di azione delle singole amministrazioni, e richiedono invece la collaborazione dei molteplici attori pubblici e privati tra i quali sono disperse le risorse necessarie per darvi corso dalle informazioni alle competenze, dai fondi alle relazioni, dall’influenza al potere di fatto, dalla subordinazione delle iniziative al consenso di determinati soggetti stabilita dalla legge in un numero crescente di casi a tutela dei loro interessi. Il decentramento amministrativo – a sua volta derivato anche dal tentativo di far fronte alla complessità sociale, differenziando l’azione pubblica a seconda delle specificità della singola situazione ha ulteriormente potenziato questa tendenza, frammentando le competenze giuridiche su un intervento tra livelli diversi di governo e tra vari enti pubblici operanti sul territorio. Inoltre, la complessità del sistema sociale moltiplica le interdipendenze tra le sue componenti, facendo sì che le politiche pubbliche si ripercuotano l’una sull’altra e quindi 26 Complessivamente, le trasformazioni dall’alto e dal basso delineano un modello di amministrazione in netto contrasto con la tradizionale logica burocratica, che identificava sostanzialmente l’ordinaria attività amministrativa con l’esecuzione di sequenze procedurali rigidamente predeterminate e l’erogazione di prestazioni standardizzate. Alle amministrazioni si richiede, da un lato, di fare propria la cultura del servizio, massimizzando l’utilità della prestazione e la sua facilità di fruizione in relazione agli specifici bisogni dell’utente e, dall’altro, di adottare un orientamento al risultato, eleggendo a criterio guida della sua azione la generazione di output e outcome. Questo significa che la P.A. non può più limitarsi ad applicare norme standardizzate, ma deve essere in grado di modificare nel senso desiderato situazioni concrete della realtà sociale, elaborando obiettivi e strategie per conseguirli, e controllando le conseguenze dell’azione per apportare le opportune correzioni di rotta. In altri termini, l’attività amministrativa si sostanzia sempre più nella formulazione e soluzione di problemi, e si alimenta dunque della messa in campo di “saperi” di ordine concettuale e pratico, che consentano di comprendere il funzionamento dei fenomeni sociali, nell’accezione più ampia del termine , e di modellare corsi di azione in grado di orientarli produttivamente. Il cambiamento che la P.A. sta attraversando comporta, dunque, un radicale ripensamento del suo ruolo, della sua missione e della sua logica operativa, che ha nelle persone la principale determinante del successo e, di conseguenza, trova nella formazione una leva privilegiata di stimolo e sostegno. In primo luogo, il sistema amministrativo si sta aprendo a forme nuove di interazione con il suo ambiente, che possono essere presidiate solo per mezzo di competenze specialistiche e profili professionali originariamente assenti al suo interno, quando non del tutto nuovi: basti pensare al city manager, all’energy manager, al comunicatore pubblico, al knowledge manager, al mobility manager e all’esperto di fondi comunitari. Anche sul versante interno sono state introdotte nuove funzioni volte a potenziare la finalizzazione dell’azione amministrativa ai risultati previsti dal piano strategico, legate alla programmazione, alla gestione, alla valutazione (intesa in senso lato come valutazione della formazione, del personale, dei risultati e degli impatti conseguiti) ed al controllo nelle sue varie forme (in particolare controllo di gestione e controllo strategico). 29 Inoltre, la complessità dell’ambiente e delle funzioni amministrative impone il ricorso a modalità decisionali ben più complesse di quelle tipiche della razionalità legale o tecnica. Laddove problemi e soluzioni sono caratterizzati da ambiguità e incertezza, non è più sufficiente l’esecuzione meccanica di routine procedurali prefissate, ma occorre esaminare volta per volta la situazione concreta, per poi ideare risposte su misura. La padronanza delle tecniche proprie di specifici campi professionali resta una necessaria base di partenza, ma a fare la differenza sono le competenze personali, ovvero il mix di attitudini, conoscenze e capacità di ordine analitico, ideativo e pratico, a cui l’individuo attinge con una rielaborazione creativa quando non può fare affidamento su risposte predeterminate. Si tratta di risorse di tipo cognitivo, affettivo e psicosociale accumulate con l’esperienza di vita e di lavoro, non interamente codificabili, incorporate per così dire nella personalità dell’individuo e strettamente legate alla sua motivazione, e proprio per questo la formazione costituisce la via privilegiata per svilupparle e attivarle. In particolare, sempre più spesso occorre mettere in campo competenze di natura personale e trasversale, raramente considerate nei curriculum educativi canonici, e comunque non trasmissibili attraverso i tradizionali metodi didattici. Tra queste competenze spiccano quelle connesse alla gestione delle relazioni, alla comunicazione, alla leadership, al trattamento delle informazioni, alla programmazione e al coordinamento delle attività. Un adeguato accompagnamento formativo è indispensabile anche per evitare che il cambiamento rimanga sulla carta: l’effettiva traduzione in pratica dei fermenti innovativi e il loro consolidamento passano infatti attraverso il loro radicamento negli habitus di pensiero e nelle prassi impiegate dagli operatori per dare forma alle loro attività quotidiane. La formazione è il canale più facilmente manovrabile per promuovere l’apprendimento e l’interiorizzazione dei nuovi comportamenti attesi, in mancanza dei quali l’innovazione si blocca di fronte all’incapacità delle persone di comprenderla o di attuarla, o al senso di insicurezza o inadeguatezza che spinge a rifugiarsi su posizioni difensive. La formazione può alleviare le tensioni che inevitabilmente accompagnano ogni processo di cambiamento, sia consentendo di comprendere meglio le dinamiche in atto, sia aiutando le persone a sviluppare con meno fatica le nuove competenze necessarie (comprese quelle di tipo emotivo, come la gestione dell’incertezza e dello stress), sia fornendo il sostegno emotivo e pratico derivante dal fare parte di un gruppo impegnato in un’impresa comune. 30 Infine, la formazione può influenzare sensibilmente la direzione che prenderanno i processi di modernizzazione avviati nelle amministrazioni, in quanto gli sbocchi di ogni cambiamento dipendono in prima istanza dalla visione che se ne formano le persone coinvolte, e il contesto formativo è un luogo primario di esame esplicito e collettivo degli assetti esistenti e di prefigurazione di quelli futuri. 31 I NUOVI TERMINI PER LO SVILUPPO La recente letteratura sullo sviluppo locale, rifacendosi alla contrapposizione presente nell’ambito delle teorie della modernizzazione tra ordinamento comunitario e ordinamento societario (13), tende a rivalutare il primo rispetto al secondo(14), in particolare, l’ambiente comunitario, al quale venivano attribuiti elementi di resistenza allo sviluppo perche tendenzialmente opposto agli orientamenti, culturali e comportamentali, che sottostanno ai processi di modernizzazione, viene successivamente inteso come ambiente ideale per l’affermarsi di elementi quali la fiducia e il capitale sociale, funzionali al proliferare di relazioni economiche in ambito locale. L’accentuazione della dimensione territoriale nei processi di sviluppo viene chiamata in causa soprattutto a partire dagli anni Settanta, in coincidenza con la crisi economica che, avendo investito soprattutto le grandi imprese (simbolo del modello di produzione fordista) inevitabilmente si è riflessa sulle comunità locali con le quali, per anni, avevano vissuto in simbiosi. Per fronteggiare la crisi le comunità locali dimostrano, soprattutto in alcuni contesti (dell’Italia settentrionale centrale e nord-orientale), una particolare capacità di reazione, unendo risorse economiche, ma anche sociali e culturali e trasformandole in punti di forza nella ridefinizione di un contesto oramai inadeguato ai mutamenti intervenuti nel più ampio ambito nazionale. La dimensione locale, prima associata ad orientamenti culturali tradizionali, resistenti al nuovo, diventa invece evocativa di realtà da considerare nelle proprie specificità in quanto potenzialmente determinanti il loro stesso sviluppo. (13) si ricorda che la comunità è definita un’aggregazione di soggetti che agiscono reciprocamente e nei confronti di altri non membri della stessa comunità, anteponendo i valori, le norme, i costumi, gli interessi della collettività a quelli personali; nella società, al contrario, domina la volontà personale, i membri sono fortemente individualizzati, le relazioni impersonali sono mediate dal mercato e fondate sul contratto (14) In realtà, più che ragionare contrapponendo società e comunità, si cerca di cogliere il nesso tra fattori societari e comunitari, in termini di interazione piuttosto che di semplice evoluzione 34 Alla grande impresa si oppongono sistemi di piccole e medie imprese che, partendo da produzioni di tipo artigianale, arrivano a processi altamente specializzati, grazie anche a tecnologie avanzate. Il concetto di economia-arcipelago di Veltz (1996) è evocativo di questo cambiamento di prospettiva. A fenomeni di concentrazione urbana e regionale si è sovrapposto un numero crescente di collegamenti orizzontali tra le aree stesse, verso una clusterizzazione spinta dei fenomeni produttivi (Porter,2001,p.21). Alcune linee di riflessione che accompagnano la centralità del territorio( e delle società locali) sono:  L’importanza del “Fondo per lo sviluppo e coesione”: con la legge 27 dicembre 2002, n.289 (legge finanziaria 2003), le risorse destinate agli interventi nelle aree sottoutilizzate del Paese sono state concentrate in un Fondo di carattere generale, il “Fondo per le aree sottoutilizzate” (FAS), attualmente iscritto nello stato di previsione del Ministero dello sviluppo economico( cui sono state trasferite, ai sensi del decreto-legge 18 maggio 2006, n.281,convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2006, n. 233, le funzioni in materia di politiche di sviluppo e di coesione prima di competenza del Ministero dell’economia e delle finanze). Nel fondo sono iscritte tutte le risorse finanziarie aggiuntive nazionali, destinate a finalità di riequilibrio economico e sociale, nonché a incentivi e investimenti pubblici. Sino al 2008, la gestione delle risorse è stata rimessa al CIPE, attraverso la ripartizione dell’intera dotazione del FAS. Successivamente, in considerazione della crisi economica internazionale, il decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge n.29 gennaio 2009, n.2, ha disposto la riprogrammazione e la concentrazione delle risorse nazionali disponibili, destinate allo sviluppo delle aree sottoutilizzate nel periodo 2007-2013 e iscritte nel FAS, su obiettivi considerati prioritari per l’economia italiana. Tal fine sono stati istituiti tre fondi settoriali: il “Fondo sociale per occupazione e formazione”, istituito nello stati di previsione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, in esso confluiscono anche le risorse del “Fondo per l’occupazione” nonché ogni altra risorsa comunque destinata al finanziamento degli ammortizzatori sociali e alla formazione; il “Fondo infrastrutturale”, istituito ai sensi del decreto legge n. 112/2008- convertito, con modificazioni, dalla legge n. 113/2008, nello stato di previsione del Ministero dello sviluppo economico, ed è destinato al finanziamento, in via prioritaria, di interventi 35 finalizzati al potenziamento della rete infrastrutturale di livello nazionale, comprese le reti di telecomunicazione e le reti energetiche, alla messa in sicurezza delle scuole, alla realizzazione di opere di risanamento ambientale, all’edilizia carceraria, alle infrastrutture museali ed archeologiche, all’innovazione tecnologica e alle infrastrutture strategiche per la mobilità. Il Fondo viene ripartito dal CIPE, su proposta del Ministero dello sviluppo economico, d’intesa con il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, sentita la Conferenza unificata Stato-Città e autonomie locali;  Il “Fondo strategico per il Paese a sostegno dell’economia reale” è stato istituito, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, dall’ art. 7-quinquies, commi 10 e 11, del decreto-legge n.5/2009 convertito con modificazioni, dalla legge n.33/2009. Tale fondo,quindi, è finalizzato a dare unità programmatica e finanziaria all’insieme degli interventi aggiuntivi a finanziamento nazionale, rivolti al riequilibrio economico e sociale tra le diverse aree del Paese;  Il ruolo cruciale delle conoscenze tacite nei processi di apprendimento e di innovazione. All’interno dei territori, infatti, si producono e scambiano continuamente conoscenze; in particolare, essi giocano una funzione determinante nell’aumento e diffusione delle conoscenze definite tacite, tipiche dell’imparare facendo e che nelle comunità di mestiere come nei mercati del lavoro locale trovano condizioni favorevoli per il loro sviluppo;  Gli effetti dell’incertezza nelle relazioni tra soggetti e organizzazioni. Nel senso che l’insieme di relazioni tra attori locali viene in aiuto nel ridurre l’elevata incertezza che caratterizza un contesto in rapida evoluzione. Si afferma il concetto di milieu (15), visto quale luogo privilegiato di riduzione dell’incertezza, proprio per la notevole mobilitazione di risorse meta-economiche (sociali, rapporti di fiducia, consuetudini, valori), che avviene al suo interno. (15) A tale proposito si è costituito il GREMI ( Groupe de Recherche Europeen sur les Milieux Innovateurs), un’associazione di ricercatori europei e nord- americani impegnati a studiare innovazione tecnologica e politiche regionali e locali. L’analisi è centrata sulle relazioni in un dato contesto territoriale: il milieu innovateur. 36 la sua efficacia come centro di controllo politico lasciando spazio a forme alternative di “governo della società” quali i principi del mercato e l’auto-organizzazione orizzontale. E’ da qui che nasce la seconda accezione del termine, senza ricorrere a definizioni di modelli ideal-tipici ma guardando alle applicazioni concrete, il concetto di governance può essere utilizzato per descrivere diverse situazioni a partire dai nuovi processi di “governing” fino ai nuovi metodi attraverso i quali la società è governata. Il problema di definire cosa si intende per governance diventa problematico quando ci si riferisce soprattutto a questi nuovi processi, alle condizioni in base ai quali vengono adottati o ai metodi utilizzati. Nel caso della pubblica amministrazione ad esempio lo studioso riconosce almeno sette approcci al tema della governance: si va dalla corporate governance, al new public management, alla “buona governance”, alla interdipendenza internazionale, ai sistemi socio- cibernetici, alla nuova economia politica (più ampia e meno specifica rispetto alla prima e che comprende diverse modalità di coordinamento delle azioni individuali considerate forme primarie di costruzione dell’ordine sociale) per finire con i networks. La globalizzazione infine apre lo scenario a molti regimi di governance che coesistono insieme alle loro strutture, ai processi. Mentre sul piano nazionale gli studi sulla governance hanno puntato l’attenzione sui soggetti e le loro interazioni all’interno di cornice costituite, quello che viene definito “istituzionalismo incentrato sugli attori”, a livello internazionale la teoria della governance dovrebbe prevedere e includere tutti i differenti modelli di costruzione dell’ordine sociale che non si configurano solo attraverso la via gerarchica o i modelli di mercato e dunque si comprende come ciò diventerebbe un arduo, se non impossibile, compito da compiere. E mentre la teoria della governance si sviluppa fino a prospettare uno sconfinamento di paradigma, lo Stato moderno subisce, in effetti, una virata verso uno stile maggiormente cooperativo: come abbiamo già rilevato sbocciano reti un po’ ovunque e si moltiplicano le esperienze e le sperimentazioni di pratiche deliberative. La logica sottostante alle considerazioni ora riportate prevede il governo delle regole e dei risultati, da parte dell’amministrazione. Questo richiede organizzazioni leggere, per non compromettere l’interazione tra attori e territori, ma al tempo stesso forti, cioè in grado di controllare le regole dell’interazione, così che è “ l’accentramento delle regole che consente il decentramento delle scelte”. 39 Tutto ciò risulta più chiaro analizzando il metodo della concertazione, definita come un accordo formalizzato su obiettivi concordati da attori i cui interessi sono tradizionalmente o potenzialmente diversi. Dal punto di vista organizzativo, nella definizione degli obiettivi e della loro implementazione , la rete organizzativa costituita (anziché i singoli attori) diventa lo strumento caratteristico dell’azione collettiva strutturata. La concertazione locale presenta significative differenze rispetto a quella nazionale. Innanzitutto l’ambito di riferimento è circoscritto e può riguardare regioni, città, distretti, o reti provvisorie di alcuni attori. Inoltre, la materia degli accordi è più ampia, riguarda non solo politiche pubbliche, ma anche singoli problemi o progetti e i risultati attesi spesso consistono in trasferimenti di tecnologia, supporto alla creazione d’impresa e all’innovazione, formazione professionale. Si tratta di un approccio di tipo bottom-up, che parte dalla ricognizione dei bisogni a livello locale e formula un piano di sviluppo tramite la partecipazione attiva di attori pubblici e privati, responsabili della realizzazione di programmi. Il processo si sviluppa così in modo sperimentale, fissando soluzioni temporanee che possano essere continuamente riviste Se lo stesso concetto di governance, come abbiamo visto, non comporta di per sé un contributo alla soluzione dei problemi di coordinamento e di frammentazione degli assetti sociali e istituzionali , come le retoriche utilizzate potrebbero far pensare, allo stesso tempo la governance può diventare uno strumento di innovazione delle interazioni sociali e dei giochi tra gli attori, severo, ma allo stesso tempo più leggero del vecchio governo per atti autoritativi, a patto che non la si legga o la si utilizzi come strumento per depotenziare la funzione pubblica (Donolo, 2006). Ciò che va incidere sulla buona riuscita sono, infatti, elementi come la cornice istituzionale regolativa nella quale va a implementarsi, il ruolo giocato dalle istituzioni pubbliche presenti ,dalla pubblica amministrazione, dal governo locale, e la presenza o meno di dispositivi orientati alla crescita e allo sviluppo delle risorse. 40 SEMPLIFICAZIONE AMMINISTRATIVA La politica di semplificazione amministrativa è chiamata ad inseguire la dislocazione della produzione normativa, adeguandosi al mutamento istituzionale. Fin dagli inizi degli anni Novanta, essa si è affermata stabilmente al livello dello Stato, ma ora, deve assolutamente conquistare il livello regionale e locale. Di più, essa dovrebbe muovere da quel livello, ricevendo dalla periferia, e in particolare dai governi regionali, il proprio impulso. Questo rovesciamento di prospettiva pone alle regioni numerosi problemi, e richiede uno sforzo significativo. In primo luogo, uno sforzo d’ordine conoscitivo. Le regioni dovrebbero, anzitutto, avviare una riflessione sull’esperienza da ciascuna di esse compiuta, sin qui, in tema di semplificazione amministrativa. Importante è considerare le tre leggi che hanno segnato la politica statale di semplificazione, ossia le leggi 7 agosto 1990, n. 241, 24 dicembre 1993, n. 537 e 15 marzo 1997, n. 59, e successive modificazioni. La prima, come è noto, ha disciplinato direttamente importanti istituti di semplificazione, quali la conferenza di servizi(16), l’accordo tra amministrazioni, il regime dei pareri e delle valutazioni tecniche, l’autocertificazione, la denuncia d’inizi attività e il silenzio assenso. Essa, inoltre, ha inciso indirettamente sulla semplificazione, imponendo a ciascuna amministrazione l’obbligo di non aggravare i procedimenti e di fissare i tempi di conclusione degli stessi. Quanto al suo ambito di applicazione, la L. n. 241/1990, in base all’art. 29, ha operato come legge di principio nei confronti delle regioni a statuto ordinario, mentre le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e Bolzano erano tenute, entro un anno, ad adeguare il proprio ordinamento alle norme fondamentali della legge stessa. Nei confronti delle sole regioni a statuto ordinario, poi, la legge ha stabilito la propria diretta applicabilità in via suppletiva fino all’emanazione di specifiche disposizioni di legge regionale al riguardo; ma, scaduto inutilmente il termine di un anno, si è ritenuto che una simile operatività riguardasse anche le regioni a statuto speciale(17). La L. n. 537/1993 costituisce il primo esempio di legge di semplificazione di procedimenti amministrativi(18). In questa prospettiva, essa ha agito con due previsioni. Innanzitutto, ha modificato la L. n. 241/1990: da un lato, per la conferenza di servizi, ha previsto un potere sostitutivo dello Stato in caso di mancato raggiungimento di un accordo 41 Dall’altro, non si è esclusa l’emanazione di regolamenti governativi di semplificazione di procedimenti di competenza regionale con effetti suppletivi. Una riflessione sul riparto di competenze in materia di semplificazione non può trascurare il fatto che le norme sono interpretate, sviluppate e applicate da chi svolge la funzione amministrativa. È impensabile, infatti, che le fonti normative indicate disciplinino in modo così puntuale e dettagliato il procedimento da non lasciare margini di manovra alle amministrazioni nella definizione del concreto svolgersi della loro attività. Proprio per questo è necessario soffermarsi sul nuovo riparto della funzione amministrativa(22). Al riguardo, rilevano due aspetti: quello dell’allocazione delle funzioni e quello del grado di autonomia di cui dispongono gli enti interessati. Per quanto riguarda il primo, i comuni sono titolari, in via generale, della potestà amministrativa. Le funzioni amministrative, infatti, sono di spettanza dei comuni, salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a province, città metropolitane, regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza (art. 118, comma 1, cost.). In questo modo, da un lato, si fa venir meno il principio del parallelismo tra funzione legislativa e funzione amministrativa e, dall’altro, si esprime una chiara preferenza per la gestione locale dei compiti amministrativi. A tali maggiori responsabilità, la riforma fa corrispondere – e di qui il secondo aspetto – il rafforzamento, attraverso il riconoscimento diretto in Costituzione, del potere regolamentare dei comuni e degli altri enti locali in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite (art. 117, comma 6, cost.)(23). (22) In generale sul nuovo assetto delle funzioni amministrative, si veda G. Berti e G. C. De Martin (a cura di), Il sistema amministrativo dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, Roma, Luiss edizioni, 2002; R. Bin, La funzione amministrativa nel nuovo titolo V della Costituzione, in Le regioni, 2002, p. 365 ss.; G. Falcon, Funzioni amministrative ed enti locali nei nuovi art. 118 e 117 della Costituzione, in Le regioni, 2002, p. 383 ss.; G. D’Auria, Funzioni amministrative e autonomia finanziaria, cit., c. 212 ss. Per una sintesi degli elementi innovativi e delle principali criticità, S. Cassese, L’amministrazione nel nuovo titolo quinto della Costituzione, in Giorn. dir. amm., 2001, p. 1193 ss. (23) Al riguardo, cfr. Carretti, Fonti statali e fonti locali dopo la riforma del titolo V della Costituzione, in Le Regioni, 2002, p. 951 ss.; R. Tosi, Sui rapporti tra fonti regionali e fonti locali, ivi, p. 963 ss. 44 Gli enti locali, quindi, devono godere di spazi di autonoma normazione, anche in relazione alla regolazione dei procedimenti, giacché il dettato costituzionale fa espresso riferimento allo “svolgimento” delle funzioni. Ciò detto, resta, però, da stabilire l’effettiva ampiezza di questo potere. Al riguardo, La L. n. 131/2003 fornisce due utili indicazioni. Per un verso, dispone che la disciplina dello svolgimento delle funzioni “è riservata alla potestà dell’ente locale, nell’ambito della legislazione dello Stato o della regione, che ne assicura i requisiti minimi di uniformità” (art. 4, comma 4). Per un altro verso, la L. n. 131/2003 stabilisce che “fino all’adozione dei regolamenti degli enti locali, si applicano le norme statali e regionali” (art. 4, comma 6). Ciò implica che negli ambiti assegnati alla potestà normativa degli enti locali, le norme in vigore restano efficaci fino al momento del concreto esercizio del potere regolamentare da parte degli enti stessi; esse, pertanto, si configurano come norme suppletive e cedevoli. Il processo di attuazione della L. n. 241/1990 è stato così lento e difficile da risultare ancora oggi incompleto: alcune regioni, infatti, hanno provveduto ad emanare un’apposita legge solo tra la fine degli anni Novanta e gli inizi del nuovo secolo(24); altre hanno trascurato importanti istituti di semplificazione(25); altre ancora, addirittura, non hanno ancora una disciplina generale sul procedimento42; poche regioni, infine, hanno adeguato le proprie normative alle modifiche successivamente apportate alla legge statale (si pensi, ad esempio, all’inversione del criterio per l’individuazione delle ipotesi di denuncia di inizio attività e alla previsione del ricorso obbligatorio alla conferenza di servizi)43. (24) Così la L.rg. Lombardia 30 dicembre 1999, n. 30, recante “Norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto d’accesso ai documenti amministrativi”, e la L.rg. Calabria 4 settembre 2001, n. 19, recante “Norme sul procedimento amministrativo, la pubblicità degli atti ed il diritto di accesso. Disciplina della pubblicazione del Bollettino Ufficiale della Regione Calabria”. (25) Cfr. la L.rg. Emilia-Romagna 6 settembre 1993, n. 32, recante “Norme per la disciplina del procedimento amministrativo e del diritto di accesso”, che non considera la conferenza di servizi, e la L.rg. Umbria 9 agosto 1991, n. 21, “Recante prime norme sul procedimento amministrativo”, che non prevede la denuncia di inizio attività e il silenzio assenso. Entrambe le regioni, peraltro, hanno modificato, nei primi anni Novanta, i propri statuti, prevedendo espressamente i principi di semplificazione amministrativa. Al riguardo, si veda l’art. 85 della L.rg. Emilia-Romagna 23 gennaio 1992 n. 44, recante “Approvazione, ai sensi dell’art. 123, secondo comma, della Costituzione, dello statuto della Regione Umbria” e l’art. 43 della L.rg. Umbria 9 novembre 1990, n. 336, recante “Approvazione, ai sensi dell’art. 123, secondo comma, della Costituzione, dello Statuto della Regione Emilia-Romagna”, testo che ha sostituito quello approvato con L. 22 maggio 1971, n. 342. 45 Tutto ciò ha prodotto conseguenze negative sul piano della semplificazione, soprattutto in relazione agli istituti della denuncia di inizio attività e del silenzio assenso, per la cui applicazione, secondo l’orientamento della giurisprudenza costituzionale, si rendeva necessario l’intervento del legislatore regionale. L’individuazione dei risultati della semplificazione amministrativa è resa difficile dalla mancata correlazione della semplificazione ad obiettivi quantitativi, nonché dall’embrionale coordinamento tra i diversi settori dell’amministrazione regionale e tra questa e le amministrazioni locali. Sulla base delle informazioni raccolte si può comunque provare a distinguere casi di attuazione “sostanziale”, con riguardo alla conferenza dei servizi o all’individuazione del termine di conclusione dei procedimenti e del responsabile, e casi di “attuazione formale”(26), in particolare rispetto allo sportello per l’internazionalizzazione delle imprese(27). Una valutazione più accurata dello stato di attuazione della semplificazione regionale potrà essere svolta man mano che ciascuna regione attiverà iniziative di monitoraggio e di misurazione dei risultati. Ciò richiederà inevitabilmente nuove risorse e nuove professionalità capaci di operare misurazioni per ciascuna tipologia di procedimento relativamente ai tempi di conclusione, alle risorse assorbite e all’utenza servita(28). Esiste, inoltre, da anni, in alcune regioni, un sistema di valutazione ex ante delle leggi regionali. 26 Si precisa che per attuazione sostanziale si intende la concreta applicazione degli istituti di semplificazione amministrativa, quindi l’effettiva convocazione delle conferenze dei servizi, la determinazione dei termini e dei responsabili per i singoli procedimenti; per attuazione formale, invece, la mera previsione normativa dell’istituto, quindi la non operatività dell’istituto. 27 Tale sportello, infatti, dall’indagine conclusa, a febbraio 2003, dal Formez e dal Consorzio per lo sviluppo delle metodologie e delle innovazioni nelle pubbliche amministrazioni risulta pienamente operativo solo in otto regioni (Piemonte, Emilia-Romagna, Toscana, Marche, Campania, Sardegna, Friuli-Venezia Giulia). 28 Si veda Formez, Rilevazione sullo stato di attuazione degli sportelli unici, 2002. 46 Al contrario, l’analisi dell’esperienza da esse compiuta segnala, soprattutto in tempi più recenti, non pochi elementi che inducono a correggere un quadro altrimenti troppo oscuro. 49 PIANIFICAZIONE,PROGRAMMAZIONE E CONTROLLI NELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE Nella Pubblica Amministrazione italiana, specie a partire dall’ultimo decennio, si è assistito ad una progressiva diffusione dei concetti di pianificazione, programmazione e controllo strategico, fino a pochi anni fa totalmente alieni al mondo pubblico. Il ricorso a strumenti organizzativo- gestionali mutuati dall’esperienza aziendalistica, è stato il frutto di un lungo e complesso processo riformatore che, a partire dagli anni ’90, ha investito, complessivamente, il “mondo pubblico”, coinvolgendo tanto la sua organizzazione che il suo modus operandi. In realtà, tentativi di riforma si erano avuti anche in passato. A ben vedere, tali tentativi hanno spesso coinciso con i grandi mutamenti politici e sociali. In questo senso, anche gli anni Novanta, con la pluralità di eventi che ha investito, contemporaneamente, la politica, la società, lo stesso costume sociale, hanno rappresentato una tappa fondamentale in questo processo riformatore. Con il presente lavoro si è voluto puntare lo sguardo soprattutto su quelli che sono stati, comunemente, individuati come possibili moventi di queste “stagioni riformatrici”, da alcuni salutate con favore, in parte ostacolate, per lo più avvertite come necessaria. Volgendo lo sguardo ad esperienze del passato, il denominatore comune di molti esperimenti di riforma, è stato costituito, per lo più, dall’esigenza di rendere l’amministrazione all’altezza dei bisogni, in continuo mutamento, della collettività. Tuttavia, se in passato, l’urgenza era stata soprattutto quella di intervenire sugli aspetti organizzativi e sulla distribuzione delle funzioni, legati ad un modello tradizionale di amministrazione di matrice napoleonica, che aveva nella gerarchia e nel mansionismo i propri elementi caratterizzanti, nell’ultimo quindicennio, a tutto ciò, si è aggiunto un elemento di novità, che ha contribuito a rendere imminente la necessità di ammodernamento dell’amministrazione pubblica. In questo senso, il nuovo ruolo assunto dal cittadino nei confronti della burocrazia ha rappresentato, secondo molti, il punto di svolta nel tradizionale assetto dei rapporti tra soggetti privati e pubblici poteri: un aspetto su cui si è inteso richiamare l’attenzione. Il tema è quello, più ampio, dell’”orientamento” della funzione pubblica. 50 Si è osservato come, la struttura amministrativa tradizionale, di tipo funzionale, fosse adeguata alle esigenze di un’amministrazione preposta ad attività di tipo prevalentemente regolativo, dove, la natura rigida delle procedure, la previsione di un numero consistente di livelli gerarchici, il ricorso alle circolari interpretative ed al precedente, erano considerati essenziali, ai fini della ponderazione attenta delle decisioni, sotto l’unico profilo della correttezza formale e dell’uniforme applicazione ai casi concreti. L’evoluzione delle società post-industriali e l’affermarsi di un sistema di democrazia partecipativa hanno indotto, anche nel nostro Paese, la graduale affermazione di più avanzate concezioni dell’agire pubblico, caratterizzate da un diverso orientamento al cittadino-utente, titolare non solo di diritti formali (in quanto cittadino), ma anche di “diritti ai servizi” (in quanto utente). Nel momento in cui il cittadino non è stato più visto solo come destinatario dell’azione pubblica ma piuttosto come colui il quale possiede “la proprietà delle istituzioni pubbliche” (ownership), si è imposta l’esigenza di procedere alla comunicazione delle informazioni possedute ed utilizzate dai pubblici poteri, di favorirne la partecipazione ai procedimenti pubblici, di procedere ad una puntuale “rendicontazione” delle attività intraprese dall’esecutivo, in attuazione di un piano programmatico di interventi. L’esigenza di far fronte a tali istanze ha posto l’amministrazione di fronte alla necessità di dotarsi di strutture e tecniche organizzative, in grado di garantire una risposta adeguata in termini di efficacia, efficienza ed economicità ai bisogni, propri di una società complessa, provenienti da un cittadino, ormai consapevole del proprio ruolo. L’attenzione è stata, allora, spostata dalla logica della legalità formale a quella della cosiddetta legalità sostanziale, in cui il concetto di buona amministrazione è divenuto il canone di riferimento dell’azione pubblica. Gli interventi normativi che si sono succeduti negli anni ’90, , hanno costituito le singole tappe di un complessivo disegno riformatore, volto ad incidere sulla struttura organizzativa pubblica, sul suo funzionamento, sul sistema dei controlli, fino ad arrivare, con la riforma costituzionale del 2001, a riscrivere i rapporti tra i diversi livelli di governo centrale, regionale, locale, all’interno della teorizzazione di un nuovo modello statuale di matrice federale. Il ricorso agli strumenti della pianificazione, programmazione e controllo strategico è divenuto necessario, anche nel mondo pubblico, nel momento in cui l’attenzione della 51 degli obiettivi e dei programmi delle amministrazioni, rimasti, per così dire autonomi e separati rispetto alle decisioni di bilancio, con la conseguente riduzione dell’impatto strategico delle direttive stesse. Per ovviare a ciò, è stata avviata un’attività di stimolo e supporto da parte del Comitato Tecnico Scientifico per il coordinamento sulla valutazione ed il controllo strategico nelle amministrazioni dello Stato, istituito, ai sensi del d.lgs. n. 286/1999, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, che ha portato alla ridefinizione, dal punto di vista temporale, della scansione delle fasi concernenti il procedimento di adozione delle direttive ministeriali. Un esame complessivo della attività gestionale pubblica, non poteva non coinvolgere anche il sistema dei controlli, intesi quale tappa fondamentale nel complessivo processo di programmazione strategica, soprattutto alla luce dell’intervento riformatore in materia di controlli gestionali. In questo senso, dopo aver evidenziato l’avvenuto passaggio da un sistema di controlli di tipo interdittivo- repressivo ad uno di tipo collaborativo, ci si è soffermati sull’analisi dei controlli di competenza della Corte dei Conti, alla luce della legge n. 20 del 1994, richiamando l’attenzione sul nuovo ruolo assunto dalla Corte, che come evidenziato dalla Corte Costituzionale in una importante sentenza del 1995, si presenta quale “organo posto al servizio dello Statocomunità e non già soltanto dello Stato-governo”, “garante imparziale dell’equilibrio economico-finanziario del settore pubblico ed, in particolare, della corretta gestione delle risorse collettive sotto il profilo dell’efficacia, efficienza e dell’economicità”. Proprio in questo nuovo ruolo della Corte dei conti, è stata ravvisata la ratio giustificatrice di un sistema di controlli che coinvolge non solo le amministrazioni dello Stato, ma anche la gestione delle Regioni e degli enti locali, che, in quanto centri decisionali, sono chiamati a garantire il rispetto dei limiti di bilancio derivanti dagli impegni assunti in sede europea dal Governo con il Patto di stabilità e crescita. Quanto al sistema dei controlli interni, come definito dal d.lgs. 286/99, si è proceduto all’esame delle singole tipologie di controllo (controllo di regolarità amministrativa, controllo di gestione, valutazione dei dirigenti controllo strategico), mettendone in luce gli aspetti maggiormente rilevanti ai fini della realizzazione del circuito gestionale programmazione- attuazione- controllo- riprogrammazione, ponendo un accento particolare sulla attività di autocorrezione della amministrazione controllata, indotta dall’attività di 54 controllo. A chiusura del lavoro, ci si è soffermati sull’esperienza concreta del Ministero dell’Interno che, a partire dal 2004, ha avviato, con il supporto del Comitato Tecnico Scientifico (CTS) , un progetto di sperimentazione per la realizzazione di un modello di controllo di gestione da applicare alle strutture dipartimentali e presso le Prefetture- UTG. Volendo fare una riflessione conclusiva sul livello di applicazione pratica di questi strumenti gestionali nelle amministrazioni pubbliche, anche alla luce delle osservazioni contenute nel Rapporto di Legislatura, del marzo 2006, redatto dal Comitato Tecnico Scientifico per il coordinamento in materia di valutazione e controllo strategico, si può osservare come il processo sia ancora lontano dal raggiungere i risultati sperati. Come evidenziato anche dal CTS, ad oggi soltanto il sistema del controllo strategico può dirsi a regime in molte amministrazioni; per quanto attiene al controllo di gestione, nonostante l’accresciuta consapevolezza circa la rilevanza di questa tipologia di controllo, anche ai fini della valutazione dei dirigenti, si è ancora lontani dalla definizione di un sistema compiuto e funzionante. La situazione più critica si riscontra tuttavia, in materia di valutazione dei dirigenti, dove il sistema è ancora in fase sperimentale, nonostante le amministrazioni corrispondano, in modo normalmente generalizzato, l’indennità di risultato alla dirigenza. A parere del CTS, “questo modo di procedere rischia non solo di apparire iniquo e di comportare un incremento ingiustificato della spesa pubblica, ma di vanificare la stessa possibilità di una trasformazione delle amministrazioni secondo i principi della responsabilizzazione, della programmazione e della gestione per obiettivi”. E’ evidente, che il cammino per giungere ad un’amministrazione veramente rinnovata è ancora lungo. Peraltro, le resistenze al recepimento di sistemi gestionali innovativi provenienti, soprattutto, dall’interno della macchina burocratica, dimostrano come il problema sia soprattutto di tipo culturale. Il vero salto in avanti, potrà dirsi realizzato soltanto quando nella mentalità degli operatori pubblici diventerà familiare ragionare in termini di sana gestione. Tutto ciò implica, necessariamente, un consistente investimento in termini di formazione ed addestramento, affinché, una volta recepiti i modelli aziendali suddetti, il personale amministrativo, sia messo nelle condizioni di attuarli. 55 Non si tratta, allora, soltanto di introdurre nuove procedure ed adempimenti formali, che porterebbero, inevitabilmente, ad un ulteriore appesantimento dell’attività amministrativa, quanto, piuttosto, di favorire l’acquisizione della consapevolezza dell’aspetto teleologico della funzione pubblica: una funzione che non è e non può essere caratterizzata dall’autoreferenzialità, ma che ha come destinatari ultimi quei cittadini che sono chiamati ad esercitare un giudizio di adeguatezza sulle risposte fornite dall’amministrazione alle proprie istanze, e che, sulla base di quel giudizio, dirigono il proprio consenso politico. Posta in questi termini, la questione assume, inevitabilmente, una valenza politica. Una riforma radicale dell’agere pubblico potrà essere realizzata soltanto a patto che trovi il necessario supporto nelle forze politiche. Un supporto che, diverrà inevitabile, nel momento in cui i vertici politici assumeranno la consapevolezza che il mantenimento del consenso politico, in una società sempre meno basata sull’ideologia, deve passare necessariamente sul livello di soddisfacimento delle aspettative dei propri referenti. E’ questa la logica del cosiddetto consensus for value, secondo la quale, nella determinazione del consenso, l’aspetto ideologico diviene secondario rispetto all’esito del giudizio sul “valore prodotto dall’amministrazione.” Di qui la necessità di munire la macchina burocratica di adeguati strumenti di analisi, programmazione, misurazione e verifica che supportino il vertice politico nella fase di individuazione strategica delle priorità politiche da presentare al proprio elettorato. 56 l’accompagnamento formativo sul campo (training on the job); il tutoring; il coaching- supporto; l’empowerment delle competenze; la realizzazione di veri e propri laboratori di ricerca; lo sviluppo di strumenti di back-office partecipato, ecc.(30). La predisposizione di tali strumenti consente infatti di giungere ad una corretta valutazione delle risorse umane e delle loro potenzialità attraverso un’analisi quali-quantitativa del personale esistente e delle mansioni eseguite, consentendo, in un secondo momento, di individuare le linee guida per la modifica dell’assetto organizzativo interno. Una corretta diagnosi dei fabbisogni di formazione passa prima di tutto attraverso una valutazione attenta dei ruoli, delle potenzialità e delle competenze presenti all’interno dell’organizzazione stessa. Un’indagine condotta nel 2003 dal Dipartimento della funzione pubblica(31) a due anni di distanza dalla direttiva sopra citata, ha cercato di tracciare lo stato della formazione nel settore pubblico, indagando sulla programmazione e sull’offerta formativa erogata, nonché sull’apprendimento continuo e sui sistemi di valutazione. Tra i risultati, un dato interessante è rappresentato dagli 88.406 corsi di formazione realizzati dalle amministrazioni nel corso del 2003: il 77% dei quali si è svolto all’interno di amministrazioni locali e il 22,8% all’interno di amministrazioni centrali. Ancora poco diffuse le modalità formative alternative alla classica lezione d’aula e modesto ancora l’utilizzo di sistemi di valutazione delle attività formative e del feedback creato da queste in termini di nuove capacità e competenze del personale. (29) Si veda DFP - Ufficio per il Personale delle P.A. (a cura di), Laboratorio di assistenza tecnica per le pubbliche amministrazioni del Mezzogiorno nell’ambito della Programmazione Triennale dei Fabbisogni, Collana “Analisi e ricerche per la gestione delle risorse umane”, 2005. (30) Ibidem (31) Cfr. AA.VV., Formazione e sviluppo del personale. Indagine sulla formazione del personale nelle amministrazioni pubbliche, Cantieri - Collana “I Rapporti”, Edizioni Scientifiche Italiane, 2005. 59 Sebbene, dunque, la strada per l’affermazione di una formazione come principale leva strategica e competitiva sia ancora lunga, l’indagine dimostra come si sia avviato un trend positivo di adeguamento ai cambiamenti istituzionali e culturali in corso. In questa prospettiva, se la direttiva Frattini ha avuto il merito di affermare il diritto dei dipendenti pubblici alla formazione permanente fornendo un importante quadro di riferimento per la programmazione e la gestione degli interventi formativi, il legislatore, con l’art. 4 della L. n. 3/03 (Modifiche al D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, in materia di formazione del personale delle pubbliche amministrazioni), ha voluto fornire successivamente una specifica indicazione per la pianificazione delle attività formative. La norma, che stabilisce per tutte le amministrazioni dello Stato (esclusi università ed enti di ricerca) l’obbligo di predisporre un piano annuale di formazione del personale, pone tra gli obiettivi della pianificazione quello di: • assicurare il diritto individuale alla formazione; • soddisfare i fabbisogni che vengono rilevati; • migliorare le competenze professionali del personale considerato come risorsa per il cambiamento organizzativo; • gestire al meglio il personale in organico programmandone la sua riqualificazione; • ottenere risparmi attraverso la gestione coordinata della formazione dell’Ente e ottemperare alle norme e a quanto previsto nei CCNL(32). Quello che qui si intende sottolineare è che in un contesto lavorativo che si muove verso la realizzazione di un assetto knowledge centered, i temi della gestione delle risorse umane, dell’incentivazione all’apprendimento e della realizzazione di percorsi formativi per il personale in servizio, acquistano per le amministrazioni pubbliche un’importanza prioritaria e strategica. La formazione, soprattutto quella rivolta agli adulti, è finalizzata strategicamente a distribuire competenze e saper fare nell’organizzazione(33) attivando, a sua volta, un circolo virtuoso tale per cui la conoscenza si produce ed auto-produce. 32 Cfr. DFP, Laboratorio di assistenza, cit. 33 In qualità di esperto di gestione delle risorse umane, Enrico Auteri dedica un intero capitolo del suo manuale alla formazione del personale intesa, prima di tutto, come un bisogno organizzativo 60 Alla luce poi delle esigenze di razionalizzazione del costo del lavoro pubblico e dei vincoli di finanza pubblica, la spesa per il personale potrebbe essere investita in formazione e apprendimento on the job. Formare un dipendente pubblico (o riqualificarlo in qualche modo) consente al lavoratore di spostarsi eventualmente da un impiego ad un altro (mobilità esterna) o tra posti di lavoro interni (mobilità interna); acquisire competenze relative al nuovo ruolo lavorativo (mobilità orizzontale); contribuire al rinnovamento organizzativo dell’ente di appartenenza. Il percorso non è comunque del tutto lineare, ma il fortunato connubio tra opportunità di apprendere (per il lavoratore) ed esigenze d’innovazione (per l’ente), dipenderà da quanto tali processi riusciranno a cambiare la mentalità e la cultura delle amministrazioni pubbliche, soprattutto in materia di organizzazione e politiche del personale. La gestione delle risorse umane, la programmazione dei fabbisogni formativi e di personale, associati al nuovo ruolo che gli organi di indirizzo politico e i vertici dell’apparato burocratico- amministrativo dovranno svolgere, rappresentano il terreno sul quale si misurerà il grado di innovazione raggiunto dalle amministrazioni, in particolare quelle locali che, più di tutte, sono chiamate a potenziare le loro funzioni programmatorie e strategiche(34). La gestione del personale può, a ragione, considerarsi l’area elettiva del processo di riforma della pubblica amministrazione. La strategia riformatrice ha sin dall’inizio avvertito la necessità di promuovere una gestione modernizzante delle risorse umane nel più generale quadro di innovazioni afferenti al lavoro pubblico, dal ruolo dei dirigenti a cui sono richieste maggiori responsabilità e competenze manageriali, all’introduzione di una gestione legata ai risultati, a nuove regole e discipline di bilancio, all’implementazione di strutture organizzative centrate sui processi. L’efficacia di tali riforme risulta, altresì, correlata all’appropriatezza delle competenze necessarie a perseguire gli obiettivi attesi e, quindi, alla capacità dell’amministrazione di reclutare nuove risorse(35) o di trattenere personale qualificato. (34) Per approfondimenti sulle attività di organizzazione e gestione delle risorse umane. si rimanda al volume, DFP - Ufficio per il Personale delle P.A. (a cura di), Pianificare l’organizzazione, i fabbisogni, le culture, Collana “Analisi e ricerche per la gestione delle risorse umane”, 2004. (35) In tale senso si veda l’art. 89 del testo unico enti locali. 61 Successivamente il Dipartimento della funzione pubblica, con lettera circolare dell’Ufficio per il Personale delle P.A. n. 2125-15 dell’11 aprile 2003, ha stabilito che le relazioni che accompagnano i provvedimenti per la rideterminazione delle dotazioni organiche devono: • dimostrare il rispetto dei vincoli economico-finanziari; • contenere un’analisi delle missioni/obiettivo e dei procedimenti concernenti l’attività amministrativa a cui far riferimento per la verifica dei fabbisogni di risorse umane ai fini dell’adeguamento delle dotazioni organiche; • illustrare l’insieme delle competenze richieste, distinte per profili professionali, ed un organigramma contenente le necessarie posizioni con la loro descrizione. Ciò al fine di favorire un collegamento tra i compiti istituzionali dell’amministrazione, le relative strutture organizzative gestionali e la conseguente dotazione organica suddivisa tra dirigenti e aree funzionali. Il quadro normativo finora presentato si pone dunque come finalità l’attuazione di una programmazione delle assunzioni di breve e medio periodo che, garantendo il contenimento della spesa pubblica, consenta il riordino del personale ed una corretta ed efficiente gestione delle risorse umane dell’ente; finalità che è stata assolutamente ribadita nelle ultime leggi finanziarie, le quali affermano (e confermano) l’obbligo per tutti gli enti locali, con esclusione dei Comuni con popolazione inferiore ai tremila abitanti, di provvedere alla rideterminazione degli organici, in base ai principi contenuti nel D.Lgs. n. 165/01. Nell’adempiere a tale obbligo, oltre che uniformarsi al principio di invarianza della spesa, le pubbliche amministrazioni non dovevano superare il numero di posti in organico complessivi alla data del 29 settembre 2002. Tali impostazioni sono state riprese con le leggi finanziarie per il 2004 e per il 2005(40) con cui si stabiliva il divieto quasi generalizzato di assumere nuovo personale a tempo indeterminato. Allo stesso tempo, veniva previsto che, fino al momento della sua rideterminazione, le pubbliche amministrazioni dovevano mantenere l’organico in misura pari ai posti coperti al 31 dicembre 2002, tenuto conto dei posti per i quali alla stessa data risultavano in corso di espletamento procedure di reclutamento, di riqualificazione e di mobilità(41). (40) Rispettivamente L. n. 350/03 e L. n. 311/04. (41) Art. 34, comma 3, della L. n. 289/02 64 Tali normative devono tradursi in attività con forte valenza organizzativa e gestionale. La politica di gestione delle risorse umane trova nella programmazione triennale del fabbisogno di personale (PTFP), uno degli strumenti di pianificazione strategica a disposizione delle amministrazioni. Queste ultime sono tenute, inoltre, ad adottare un piano annuale di reclutamento del personale (PAFP), inteso come strumento integrativo ed attuativo della stessa programmazione triennale dei fabbisogni. Un passaggio importante è rappresentato dalla revisione delle dotazioni organiche, che dovrà essere realizzata a seguito ed in conformità del più ampio processo di pianificazione dei fabbisogni, considerato come un concreto sistema di impostazione organizzativa dell’ente, nel quale vengono utilizzati distintamente, ma in maniera integrata e complementare, i due differenti strumenti della programmazione triennale ed annuale(42). Trattandosi di un processo di natura “politica”, la programmazione triennale dei fabbisogni del personale riguarda soprattutto l’individuazione delle linee strategiche in materia di acquisizione delle professionalità necessarie all’ente in funzione degli obiettivi che nel periodo di riferimento si intendono raggiungere. La determinazione dei contenuti di tale programmazione, orientati più alle finalità da raggiungere che alle modalità di realizzazione, sono prerogativa degli organi di vertice e, nel caso specifico degli enti locali della Giunta comunale impegnata, al contempo, nella formulazione degli strumenti di programmazione economico-finanziaria. Con la programmazione triennale dei fabbisogni di personale, pertanto, si provvede all’organizzazione dei seguenti aspetti: • individuazione delle aree di professionalità da implementare; • definizione dei profili professionali e delle relative categorie contrattuali da acquisire in funzione delle posizioni professionali ricercate; • distribuzione delle posizioni professionali in ordine ai servizi da implementare o di nuova istituzione; • pianificazione degli strumenti di reclutamento nell’ambito delle diverse previsioni legislative, regolamentari e contrattuali; • pianificazione dei momenti temporali di acquisizione delle diverse professionalità in funzione delle priorità delineate nell’atto di programmazione (42) Nel D.Lgs. n. 165/01 viene chiaramente specificato che le variazioni delle dotazioni organiche sono approvate dall’organo di vertice dell’amministrazione, in coerenza con la programmazione 65 triennale; • indicazione dei mezzi finanziari di copertura e loro distribuzione in ragione della pianificazione temporale delle acquisizioni di cui sopra; • verifica della compatibilità con altri strumenti di pianificazione che interessano lo stesso esercizio, con particolare riguardo alle previsioni recate dal piano esecutivo di gestione. Si tratta in sostanza di programmare una buona politica delle assunzioni, che, adeguandosi ai principi di riduzione complessiva della spesa di personale, sappia coniugare obiettivi amministrativi da raggiungere e risorse professionali disponibili e/o vacanti. Naturalmente, soddisfare finalità così specifiche in un contesto di ristrettezza economica nel quale si trovano ad operare le amministrazioni pubbliche non è cosa facile, ma è la sfida a cui esse devono rispondere per avviare quel processo di rinnovamento (reinventing) auspicato(43). Le organizzazioni infatti cambiano e apprendono nel momento in cui i propri dipendenti acquisiscono nuove competenze che traducono in azioni e risultati concreti. La programmazione del fabbisogno di personale deve, dunque, essere orientata a logiche di risultato, realizzando la migliore utilizzazione delle risorse umane e del capitale umano. (43) Due studiosi americani, David Osborne e Ted Gaebler, discutono nel loro volume, intitolato Reinventing Government, sui cambiamenti istituzionali delle amministrazioni pubbliche ameri77 66 L’Accordo è, infatti, una modalità tecnica di condivisione e di definizione delle regole, oltre che delle decisioni programmatorie e di attuazione, tipiche delle forme di governo tendenzialmente federaliste o, comunque con livelli di governo locale fortemente autonomi dal punto di vista politico. Da qui si deve partire quando si parla degli strumenti della programmazione negoziata. In questo scenario storico e politico va considerata anche l’Unione Europea, con il suo peso nella politica del nostro Paese e soprattutto nelle Regioni meridionali e nelle aree in ritardo di sviluppo, visto che fornisce in questo momento storico la gran parte delle risorse di investimento per sviluppo programmabili ad opera degli Enti locali, ovvero i Fondi Strutturali. Nasce in questo scenario l’esigenza di dare una regola al principio di reale collaborazione negli investimenti. L’articolo 2, comma 203, della legge n. 662 del 23 dicembre 1996, costituisce la fonte giuridica della programmazione negoziata. Tale norma, al fine di regolare gli interventi che coinvolgono una molteplicità di soggetti pubblici e privati e che comportano attività decisionali complesse, nonché la gestione unitaria delle risorse finanziarie, istituisce i seguenti strumenti di “programmazione negoziata”: intesa istituzionale di programma; accordo di programma quadro; il contratto di programma; il contratto d’area; patti territoriali. 69 INTESA ISTITUZIONALE DI PROGRAMMA L'Intesa Istituzionale di Programma (IIP) è lo strumento di programmazione che consente a ogni Regione, o Provincia autonoma, di concordare con il governo centrale gli obiettivi, i settori e le aree dove effettuare gli interventi infrastrutturali di interesse comune per lo sviluppo del territorio regionale. Ogni intesa deve specificare: interventi, tempi e modalità della sottoscrizione. Si tratta così di uno strumento programmatico di natura politica, non immediatamente operativa, ma che consente di aggregare un elevato numero di soggetti. L'IIP è istituita con la legge n.662 del 23 dicembre 1996 che detta una nuova disciplina per la programmazione negoziata. La delibera CIPE n.29 del 21 marzo 1997 e successive delibere integrative o modificative specificano le finalità, le modalità attuative nonché gli impegni dei soggetti sottoscrittori dell'IIP. La gestione dell'Intesa è garantita dalla presenza del Comitato istituzionale di gestione (CIG), un organo composto dai rappresentanti del Governo e della Giunta della Regione o Provincia Autonoma. Il CIG ha il compito di verificare periodicamente il raggiungimento degli obiettivi previsti nei programmi, e si avvale, per gli aspetti tecnici, del Comitato paritetico di attuazione (CPA), composto dai rappresentanti delle amministrazioni di volta in volta coinvolte. Tutte le Regioni italiane e le due Province autonome hanno sottoscritto l'Intesa e, buona parte di esse, ha già provveduto a integrare il testo originario, individuando per lo più nuovi settori di intervento. La possibilità di intervenire in tutti i settori consente all'IIP di coprire l'intero orizzonte degli investimenti pubblici che rilevano per lo sviluppo del territorio regionale. L'IIP prevede, per ciascun settore d'intervento, la stipula di un Accordo di Programma Quadro, rimandando a quest'ultimo la definizione puntuale delle opere e dei finanziamenti, nonché le procedure per il monitoraggio dell'attuazione degli investimenti. 70 L’ACCORDO DI PROGRAMMA QUADRO Una particolare attenzione va posta all’Accordo di Programma Quadro che rappresenta lo strumento attuativo dell’Intesa Istituzionale di Programma. Come indicato all’articolo 2, comma 203, lettera c) della legge n. 662/1996, l’Accordo di Programma Quadro (APQ) definisce un programma esecutivo di interventi di interesse comune o funzionalmente collegati previsto nell’ambito di una Intesa Istituzionale di Programma (IIP). L’Accordo è stipulato tra Amministrazioni centrali, Regioni, Province Autonome ed Enti locali ed altri soggetti pubblici e privati interessati. La normativa citata prevede che l’APQ debba indicare:  . le attività e gli interventi da realizzare;  . i soggetti responsabili dell’attuazione delle singole attività ed interventi;  . gli eventuali Accordi di Programma ai sensi dell’articolo 34 del Decreto Legislativo n. 267/2000;  . le eventuali Conferenze di Servizi o Convenzioni necessarie per l’attuazione dell’Accordo;  . gli impegni di ciascun soggetto, nonché del soggetto cui competono poteri sostitutivi in caso di inerzie, ritardi, o inadempienze;  . i procedimenti di conciliazione o definizione di conflitti tra i soggetti partecipanti all’Accordo;  . le risorse finanziarie occorrenti per le diverse tipologie di intervento, a valere sugli stanziamenti pubblici o anche reperite tramite finanziamenti privati;  . le procedure ed i soggetti responsabili per il monitoraggio e la verifica dei risultati. Le disposizioni della norma sopra citata sono state recepite da uno schema tipo di APQ definito dal Ministero dell’Economia e delle Finanze in collaborazione con le Regioni. Al fine di fornire elementi utili all’approfondimento degli APQ, da una parte illustreremo i principali passaggi dell’istruttoria dell’Accordo e le caratteristiche delle diverse sezioni dell’atto, dall’altra i contenuti dell’attività di monitoraggio. Le principali fasi dell’istruttoria, tra loro temporalmente sovrapposte, concernono: 71 Vengono normalmente inseriti anche riferimenti alla coerenza del programma con la programmazione comunitaria e regionale di settore e ad eventuali successivi Accordi che si prevedono di stipulare tra Amministrazione regionale ed Enti pubblici e privati coinvolti nell’attuazione dell’Accordo. Nella seconda sezione vengono trattati gli aspetti finanziari. In corrispondenza con le analisi descritte precedentemente, vengono qui riportati i dati relativi alla copertura finanziaria (per fonte di finanziamento, importo ed anno di competenza) specificando, nel caso di contributi assentiti da parte di amministrazioni centrali, ma non riferiti a delibere CIPE, anche gli estremi dell’unità previsionale di base. Vengono inoltre trattati gli aspetti relativi al trasferimento delle somme dalle amministrazioni centrali a quella regionale e l’eventuale impegno della Regione a garantire i finanziamenti provenienti da amministrazioni locali non firmatarie dell’Accordo. Nella terza ed ultima sezione, che comprende i restanti articoli, vengono: • regolati gli impegni ed i rapporti tra i soggetti che stipulano l’Accordo; • individuati il Responsabile dell’Accordo ed i responsabili di interventi e definiti i loro compiti; • precisate le disposizioni generali, relative ad eventuali modifiche dell’atto, alla successiva adesione di altri soggetti ed agli altri atti da effettuare a conclusione dell’Accordo. Infine, tra i documenti normalmente allegati all’Accordo c’è una Relazione tecnica nella quale, come precedentemente illustrato, vengono rappresentate le caratteristiche del programma di interventi. In dettaglio, nella Relazione vengono descritte: • la finalità e la strategia del programma di interventi; • la sua coerenza con la programmazione comunitaria, nazionale e regionale di settore; • le caratteristiche dei singoli interventi, dal punto di vista tecnico e finanziario. L’ attività di monitoraggio, prevista con cadenza semestrale in tutte le IIP ed APQ sottoscritti, è parte integrante del processo di attuazione delle Intese e degli Accordi attuativi delle stesse. La centralità di questa attività emerge sotto due differenti profili: • la verifica in itinere del processo dello stato di attuazione degli interventi; • la definizione di eventuali azioni di rimodulazione e di integrazione finalizzate a superare ostacoli attuativi ed a garantire il perseguimento degli obiettivi generali dell’Intesa e dell’Accordo. 74 L’attività di monitoraggio si configura come un processo condiviso tra le parti sottoscrittici, coordinato e “gestito”: - a livello di singolo APQ, dal Soggetto Responsabile dell’attuazione dell’Accordo (comunemente un Dirigente Generale dell’Amministrazione Regionale o un comitato composto da rappresentanti dei soggetti sottoscrittori); - a livello complessivo di Intesa dai Comitati preposti al governo dell’Intesa: il Comitato Paritetico di Attuazione (CPA) e il Comitato Istituzionale di Gestione (CIG). 75 CONTRATTO DI PROGRAMMA E' uno strumento della programmazione negoziata che ha l'obiettivo di realizzare specifici piani progettuali volti a consentire il rapido avvio di nuove iniziative e la creazione di occupazione aggiuntiva. Si applica nelle aree depresse, vale a dire nelle zone interessate dagli obiettivi specifici, nonché in quelle previste dall'art. 92 3C del trattato di Roma. Il Contratto di programma può essere proposto da:  Imprese di grandi dimensioni o da gruppi nazionali o internazionali di rilevante dimensione industriale, in grado di generare significative ricadute sul territorio, mediante la prevalente attivazione di nuovi impianti e la creazione di occupazione aggiuntiva;  Consorzi di piccole e medie imprese operanti anche in settori diversi che realizzino nuove iniziative produttive o ampliamenti;  Rappresentanze dei distretti industriali per realizzare in aree definite piani di investimenti produttivi, anche in più settori, comprendendo attività di ricerca e di servizio a gestione consortile. I soggetti imprenditoriali presentano il piano progettuale, che deve essere caratterizzato da un alto grado di innovazione. Inoltre viene verificata la validità del progetto ed i requisiti imprenditoriali e finanziari del proponente. L'istruttoria è finalizzata all'accertamento della validità tecnica del progetto, della adeguatezza dei mezzi finanziari in relazione agli obiettivi dichiarati. Inoltre verranno esaminati i tempi di attuazione, i costi, le interconnessioni delle eventuali singole iniziative rispetto al contratto di programma, con particolare riguardo agli aspetti di mercato. Il Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica trasmette gli atti al Ministero dell'Industria e per la parte di competenza al Ministero della Ricerca. Il Ministero del Bilancio richiede al proponente il contratto l'elaborazione di una specifica programmazione finanziaria complessiva ed annuale, in cui dovranno essere indicati i mezzi propri che l'imprenditore metterà a disposizione. Il Ministero del Bilancio, sulla base dell'istruttoria compiuta, potrà concordare eventuali variazioni del piano presentato dall'imprenditore, informando il Ministero dell'Industria e, per le parti di competenza, il Ministero della Ricerca scientifica e tecnologica. 76 La relazione deve contenere i risultati ottenuti le azioni di verifica e monitoraggio svolte ad indicare i progetti non attivabili o non completabili, nonché la disponibilità delle somme non utilizzate derivanti da risorse destinate dal CIPE. Il contratto d'area deve indicare gli obiettivi per realizzare nuove iniziative imprenditoriali e gli interventi infrastrutturali connessi alla realizzazione e allo sviluppo delle iniziative imprenditoriali. Inoltre deve individuare gli interventi, indicare i soggetti attuatori i tempi e le modalità di attuazione, le risorse finanziarie specifiche a valere da quelle stanziate dal CIPE, nonché quelle ottenute attraverso finanziamenti privati. Il contratto d'area deve contenere un'intesa tra le parti sociali sulla base di quanto definito nell'accordo per il lavoro a settembre 1996 d un accordo tra le amministrazioni e gli enti pubblici. Il contratto d'area può essere attivato se esistono aree attrezzate per insediamenti produttivi e progetti di investimento per iniziative imprenditoriali che accrescano significativamente il patrimonio produttivo dell'area e dell'intera Regione, nonché un soggetto intermediario in grado di attivare sovvenzioni globali da parte della U.E. I progetti, che utilizzano risorse specifiche, indirizzate dal CIPE ai contratti d'area, devono essere istruiti secondo i criteri e le modalità stabilite dal Ministero dell'Industria da un soggetto convenzionato con il Ministero del Bilancio, selezionato mediante gara. Il Comitato di Coordinamento delle iniziative per l'occupazione coordina e coinvolge le amministrazioni statali interessate al Contratto d'area, nonché all'assistenza ai soggetti sottoscrittori nella preparazione degli elementi utili a documentare l'esistenza dei requisiti per il contratto d'area. Il Ministero del Bilancio accerta l'esistenza dei prodotti requisiti e delle risorse occorrenti a valere sulle somme destinate dal CIPE ai contratti d'area, che é stipulato entro 60 giorni una volta accertata l'esistenza dei requisiti. Per attuare il contratto d'area le amministrazioni e gli enti pubblici definiscono un accordo di programma quadro che stabilisce:  Gli adempimenti di reciproca competenza, ivi compresi quelli infrastrutturali;  Le deroghe alle norme ordinarie di contabilità e di amministrazione, al fine di accelerare e semplificare le procedure;  I casi in cui le amministrazioni decidono congiuntamente atti di variazione degli strumenti urbanistici e di sostituzione delle concessioni edilizie; 79  I termini entro cui devono essere espletati tutti gli adempimenti; Le Amministrazioni statali e regionali assicurano la coerenza del contratto d'area con gli strumenti di programmazione e le disponibilità di borse statali e regionali. Il responsabile unico trasmette alla Cassa Depositi e Prestiti l'elenco degli interventi previsti, indicando le somme specificatamente destinate dal CIPE. La Cassa Depositi e Prestiti dispone l'erogazione degli importi a favore dei soggetti titolari dei progetti di investimento entro 30 giorni. 80 PATTI TERRITORIALI ( FUNZIONE DELLE AGENZIE DI SVILUPPO LOCALE) Il Patto territoriali è lo strumento più innovativo tra quelli della programmazione negoziata dal punto di vista sia metodologico, sia degli obiettivi perseguibili. Esso si configura come un insieme di accordi volti a realizzare un programma di interventi, finalizzato ad uno sviluppo eco-compatibile, generalmente in ambito sub-regionale. I patti territoriali possono avere come riferimento tutto il territorio nazionale, nonostante le aree in ritardo di sviluppo, soprattutto meridionali, siano privilegiate; questo anche in ragione della maggiore destinazione di fondi comunitari in tali aree. A partire dal 1996, inoltre, sono stati istituiti i Patti europei(45) per l’occupazione, con l’obiettivo di intensificare gli sforzi nelle zone in difficoltà e con un potenziale in termini di creazione di posti di lavoro. Un requisito è la presenza di un ampio partenariato pubblico- privato, di operatori aventi un ruolo significativo nella creazione di occupazione nel territorio. Soggetti promotori sono gli enti locali, altre istituzioni pubbliche e rappresentanze delle categorie imprenditoriali e dei lavoratori, soggetti privati, mentre la possibilità di sottoscrivere il Patto è allargata anche ad istituti di credito, consorzi di garanzia fidi e di sviluppo industriale, Regioni o Province autonome. Per l’avvio del Patto è prevista l’istituzione di un tavolo di concertazione tra attori locali, per individuare l’idea- base del programma di sviluppo. Il passaggio successivo consiste nel definire progetti imprenditoriali nei diversi settori, da convogliare in un unico disegno predisposto a partire dai bisogni del territorio e dalle sue risorse, in modo tale che ogni progetto tragga e generi valore relazionandosi con gli altri, in un rapporto sinergico. Se ne deduce l’importanza di un ambiente socio- istituzionale, idoneo a favorire relazioni formali ed informali ( ovvero a mobilitare capitale sociale) per garantire il successo delle iniziative. (45)possono considerarsi un’evoluzione dei Patti territoriali 81 PROJECT FINANCING Il project finance (PF) non costituisce solo una tecnica finanziaria, ma piuttosto una logica originale attraverso la quale si procede alla valutazione ed alla realizzazione di progetti d’investimento, sia in ambito strettamente privatistico che in ambito misto pubblico/privato. La sua applicazione in un sistema fortemente relazionale, basato su accordi formali e non, è tale da generare una “economia di rete” particolarmente distintiva per la fattibilità dei progetti, dove la sinergia derivante dall’integrazione di competenze e risorse diverse, diventa fonte di valore che conferisce una peculiare identità a questo specifico approccio(46). In linea generale, il PF può essere considerato come una complessa operazione di finanziamento nella quale l’iniziativa economica viene realizzata dai promotori mediante la costituzione di una società veicolo, attuando una netta separazione economica e giuridica dell’investimento (ring fence) rispetto ai soggetti che promuovono l’iniziativa, la quale viene di norma sviluppata <<fuori bilancio>> (off- balance sheet financing). Nell’iniziativa confluiscono risorse finanziarie, capacità e competenze apportate da soggetti interni ed esterni al soggetto economico che promuove il progetto, la cui idoneità nel generare flussi di cassa viene valutata come la fonte primaria per il rimborso del debito e per la remunerazione del capitale di rischio. Inoltre, le principali garanzie connesse all’operazione sono di natura contrattuale piuttosto che di natura reale(47). (46) la logica delle resti d’impresa è una delle varie chiavi di lettura attraverso le quali è possibile analizzare i vantaggi derivanti dai modelli di project financing. In particolare, seguendo questa specifica linea interpretativa, in un’ottica di sostenibilità strategica dei progetti d’investimento, la motivazione di fondo che spinge le aziende a creare rapporti di collaborazione è la consapevolezza di non poter sviluppare al proprio interno tutte le competenze necessarie alla gestione della complessità ambientale. (47) in questa configurazione il progetto costituisce il principale oggetto di analisi, dalla cui validità scaturisce l’avvio di un circuito finanziario finalizzato al raggiungimento di un determinato obiettivo, ed alimentato da investitori che reputano credibile e conveniente l’operazione. 84 I progetti finanziati esclusivamente sulla base dei propri flussi di cassa, ossia operazioni totalmente fuori bilancio, si definiscono project non recourse. I limeted recourse prevedono, invece, la possibilità di rivalsa sugli azionisti, seppur limitata nel tempo, nell’ammontare e nella qualità. Il project financing, quindi implica una molteplicità di complessi rapporti contrattuali che devono essere opportunamente regolati oltre che dal punto di vista finanziario, anche da quello giuridico. Il PF si distingue sostanzialmente dal corporate finance per il diverso approccio con il quale vengono individuati e valutati i key items del progetto (flussi di finanziamento, rischi ed interessi, soggetti e prestazioni, responsabilità e remunerazioni.) Sul piano organizzativo, i principali soggetti coinvolti nel PF sono:  La società di progetto o special purpose vehicle o new venture, che rappresenta l’entità giuridicamente distinta da quella dei promotori, la cui costituzione permette di attuare una separazione dei flussi generati dal progetto da quelli relativi alle altre attività del promotore;  I promotori o sponsor, che assumono l’iniziativa di promuovere l’operazione di project financing identificando l’opera da realizzare, valutando l’opportunità di finanziarla e considerando anche un’ipotesi tecnica di struttura finanziaria e giuridica;  L’ente pubblico, che, ove presente, può svolgere l’attività di promotore dell’opera e di finanziatore nel momento in cui, ad esempio, inserisce l’intervento nell’ambito della propria programmazione pluriennale e , all’occorrenza, conferisce facilitazioni di natura finanziaria;  I finanziatori esterni, che apportano capitale di credito o di rischio, generalmente costituiti da banche e da altri investitori istituzionali specializzati;  Gli acquirenti o utenti del prodotto/servizio che generano il flusso di ricavi, rappresentando la prima fonte di valore che concorre al rimborso dei prestiti contratti dalla società di progetto ed alla remunerazione, in generale, del capitale investito;  I soggetti terzi che, dalla fase di progettazione e realizzazione fino a quella di gestione, apportano le loro competenze e conoscenze, ulteriori risorse finanziarie o garanzie integrative. 85 Il processo di analisi sottostante il project financing, pur costituendo un vero e proprio circuito di problem solving che funziona sulla base di ripetute interazioni e feed- back tra momenti valutativi diversi e su un progressivo affinamento delle soluzioni adottabili rispetto ai diversi problemi gestionali di volta in volta individuati, può essere idealmente suddiviso in tra fasi operative principali:  Identificazione dell’iniziativa, che consiste nello studio della proposta e della fattibilità tecnica del progetto;  Valutazione della sostenibilità del progetto, durante la quale si valuta l’opera dal punto di vista economico- finanziario, identificando la struttura delle fonti di finanziamento e la configurazione giuridica più idonea per la sostenibilità dell’investimento;  Realizzazione e gestione dell’opera, durante la quale hanno luogo i rientri economici ed il rimborso dei finanziamenti. Durante la fase di allocazione, pertanto, si cerca di identificare la struttura delle garanzie e degli impegni contrattuali idonei a minimizzare l’aleatorietà dei risultati, da qui la necessaria definizione del security package, definibile come quel complesso di accordi, contratti, impegni e garanzie, ripartiti tra tutti i soggetti interessati alla realizzazione dell’opera, e che rappresenta una delle caratteristiche distintive della logica project. Le principali forme di garanzia contrattuale che alimentano la governance delle operazioni di PF, sono classificabili secondo le seguenti macro- aree di rischio da coprire, ovvero:  Rischi di natura non progettuale, si fa generalmente ricorso a due forme contrattuali di copertura: garanzie reali sui beni oggetto d’investimento; contratto put- or –pay, che limita o annulla il rischio di approviggionamento o di fornitura, attraverso il quale il fornitore vende alla società di progetto volumi prefissati di input a prezzi prefissati;  Rischi progettuali dutante il periodo di costruzione, che possono essere coperti attraverso il contratto lump sum turn key ( impianti chiavi in mano a prezzo fisso), volto a coprire il rischio di completamento e in cui si stabiliscono delle penali a carico dei contractor di ammontare pari ai maggiori oneri derivanti da eventuali ritardi nella realizzazione dell’opera;  Rischi progettuali durante il periodo di gestione, sono generalmente maggiori e vengono coperti attraverso accordi come il contratto take or pay( carico del cliente o) 86 In particolare, la soluzione del ricorso al PF per realizzare opere di pubblica utilità è divenuta via via più stringente con l’inasprirsi dei vincoli di bilancio gravanti sia a livello nazionale che nell’ambito delle amministrazioni locali( v. Patto di Stabilità(49)). I progetti realizzati attraverso interventi di PPP possono essere classificati in tre principali tipologie:  Progetti che generano reddito attraverso ricavi da utenza( c.d. opere calde); dove i ricavi commerciali che si prevede di conseguire consentono al settore privato di recuperare integralmente i costi d’investimento. In tale tipologia di progetti, il coinvolgimento del settore pubblico si limita ad identificare le condizioni necessarie per consentire la realizzazione dell’opera;  Progetti in cui il concessionario privato fornisce direttamente servizi alla Pubblica Amministrazione ( c.d. opere fredde). In tal caso, il soggetto privato che realizza e gestisce l’opera trae la propria remunerazione principalmente dai pagamenti effettuati dal soggetto pubblico su base commerciale; (48) la gestione dei servizi di pubblica utilità richiede di contemperare le esigenze di efficienza, efficacia ed economicità con la connotazione sociale propria del servizio pubblico. Questo modello di creazione del valore richiede l’adozione di soluzioni che possano favorire l’ottimizzazione delle limitate risorse disponibili e l’opportunità di accesso a mezzi finanziari esterni. Pertanto, lo sviluppo di logiche di collaborazione tra pubblico e privato può consentire di valorizzare le sinergie derivanti dall’integrazione delle rispettive risorse e competenze. (49) nel corso degli anno anche in Italia le amministrazioni locali e centrali hanno manifestato il proprio interesse nel coinvolgimento di imprese e capitali privati per finanziarie e gestire infrastrutture e servizi di pubblica utilità, sia nell’ottica di dotare i progetti di maggiori mezzi finanziari, sia con il fine di realizzare un impiego più efficiente delle risorse pubbliche e private. Pertanto, mediante la finanza di progetto si cerca di ottimizzare le condizioni di realizzazione e gestione delle opere, mediante il coinvolgimento dei principali gruppi di interesse, o stakeholder, secondo un principio di collaborazione tra la Pubblica Amministrazione ed il sistema imprenditoriali. 89  Progetti che richiedono una componente di contribuzione pubblica( c.d. opere tiepide), in quanto, i ricavi commerciali da utenza sono di per sé insufficienti a generare adeguati ritorni economici, ma la cui realizzazione genera rilevanti esternalità positive in termini di benefici sociali indotti dall’infrastruttura. A fronte di tali sternalità, la Pubblica Amministrazione eroga una componente di contribuzione pubblica, che si concretizza nella corresponsione di sussidi o nell’applicazione di tariffe ombra (ricavi o costi figurati). Al fine di misurare la fattibilità e la convenienza del progetto e, quindi, la massimizzazione del value for money derivante dall’opera, espresso dal massimo valore possibile attribuito al denaro versato dai contribuenti, si può ricorrere al Public Sector Comparator. Tale strumento permette di comparare i costi di realizzazione e di gestione dell’opera sostenuti dalla Pubblica Amministrazione, nell’ipotesi in cui essa non faccia ricorso all’intervento dei privati, con i costi che invece si sosterrebbero nel caso di un loro coinvolgimento. La massima differenza di tali flussi di costo, opportunamente attualizzati, permette di definire l’alternativa più efficiente per la collettività. Generalmente, tale comparazione viene effettuata in due principali momenti: nella fase di definizione dell’operazione e, quindi, a monte del progetto; a fine progettazione, per valutare l’effettiva convenienza del ricorso a tale partnership. Per rendere massima tale differenza, bisogna individuare il livello ottimale di trasferimento del rischio che permetta la massimizzazione del value for money, al fine di evitare, da un parte, che l’ente pubblico conservi buona parte dei rischi connessi al progetto e, dall’altra, che vi sia un eccessivo trasferimento dei rischi nei confronti del soggetto privato. 90 CAP 4 PATTI TERRITORIALI PER IL MEZZOGIORNO NASCE IL PATTO TERRITORIALE DELLA PROVINCIA A NORD- EST DI NAPOLI ED è UN PATTO NAZINONALE In quest’ultimo capitolo andremo ad analizzare un caso concreto che ci permetterà di capire meglio quanto fin’ora affrontato. In particolare ci rifaremo al caso dei PT nella zona nord-est di Napoli, uno degli 89 Patti Territoriali per l’Occupazione sostenuti dall’Unione Europea, nato dalla volontà dell’allora sindaco di Acerra, una giovane donna che coglie al volo l’occasione di utilizzare alcune risorse finanziarie esistenti , rese disponibili dalla normativa sui patti territoriali, per dare avvio ad un piano di sviluppo territoriale. Da queste circostanze inizia la storia del patto per l’occupazione dell’area Nord-est della provincia di Napoli, per volontà di una amministrazione che, alle prese con tante emergenze e problemi del quotidiano, intuisce che questo strumento può essere una opportunità da non trascurare per la città. La prospettiva di sviluppo territoriale che si apre con il patto appare al sindaco interessante perché le condizioni di arretratezza del suo comune, per quanto ad esso peculiari, sono in parte analoghe a quelle che si riscontrano nei territori confinanti. Per di più la logica che anima lo strumento pattizio collima con quanto è intenzionata a fare nel suo mandato amministrativo: responsabilizzare i diversi segmenti che fanno parte della comunità locale, dall’imprenditoria alla politica sino alla società civile, a divenire protagonisti del proprio sviluppo. Con questi presupposti, il 18 gennaio 1996, promosso dall’amministrazione comunale di Acerra, nasce il patto territoriale della’area nord-est della provincia di Napoli. Durante un incontro che ha luogo in una delle sale del castello baronale di Acerra, al quel partecipano moltissimi soggetti, i sindaci dei comuni limitrofi, i rappresentanti dei sindacati confederali, le principali associazioni di categoria, alcuni istituti bancari, diversi parlamentari locali ed esponenti del CNEL, si comincia a ragionare sull’occasione offerta dagli strumenti della programmazione negoziata e sull’impatto che essi potrebbero avere su questa parte della provincia napoletana. 91 I TERRITORI DEL PATTO . ASPETTI ECONOMICI E SOCIALI Durante tutta la prima fase di preparazione del patto territoriale lo scopo principale è di animare il territorio, di “risvegliare le energie in esso presenti, di indirizzarle verso un percorso di sviluppo compatibile con quanto il territorio esprime in termini produttivi e sociali”. Si tratta del momento in cui si costruisce l’idea intorno a cui far ruotare lo sviluppo locale, e si iniziano a definire le sue linee guida. Dopo il primo incontro, infatti, e per circa quattro mesi, il coordinamento del patto si impegna in una intensa attività di ricognizione dei bisogni territoriali effettuata chiedendo a tutti i soggetti presenti sul territorio, dagli enti locali alle associazioni di categoria, ai sindacati, di indicare quali siano i maggiori problemi territoriali che si trovano ad affrontare e come pensano che si possa incidere su di essi. Per la prima volta, come testimoniano molti attori locali, non si decide a priori che cosa fare ne come farlo: il tentativo, molto più ambizioso, è invece di partire dall’esistente e su queste basi costruire un duraturo percorso di sviluppo. L’intenso dibattito che si sviluppa circa le prospettive dell’area avviene all’interno di una quadrante che ha due coordinate: la grande impresa ed i suoi sintomi di crisi e la piccola impresa ed il suo radicamento locale. Nella realtà territoriale in cui si appresta ad intervenire, l’incidenza di entrambe queste tipologie imprenditoriali risulta prevalente. Nei comuni che si compongono il patto, si registra infatti una forte presenza di piccole imprese, regolari ed irregolari, con una certa diversificazione produttiva ed, in alcuni casi, una spiccata vocazione territoriale alla produzione di determinati beni. Allo stesso tempo, il tessuto produttivo di Pomigliano, Cauvano ed Acerra, è caratterizzato dalla consistente presenza della media e grande industria (Montefibre, Aeritalia, Alfa Romeo), per quanto negli stessi comuni siano anche disseminate iniziative imprenditoriali di piccole dimensioni. In questa area della provincia napoletana, vi è un malessere sociale piuttosto diffuso, che è ben evidente nelle condizioni di degrado sociale ed ambientale da cui sono caratterizzati i comuni che vi rientrano. 94 Gli alti tassi di disoccupazione sono soltanto una delle espressioni attraverso cui questo malessere si manifesta; vi sono infatti altri fenomeni social da osservare per comprendere le condiziono di arretratezza diffusa delle società locali su cui il patto tenta di incidere. Perché si tratta più che di una operazione di sviluppo imprenditoriale e di miglioramento delle condizioni di contorno alle attività produttive: si tratta di un’opera di ricostruzione dalle fondamenta delle società locali, di una modernizzazione che investe contemporaneamente la dimensione economica, urbanistica e sociale. 95 COME INTERVENIRE SULLE SOCIETA’ LOCALI Quale direzione percorrere, su quel sentiero instradare lo sviluppo locale, finisce così per diventare una scelta tra due opposte alternative: la prima che si richiama ad istanze fordiste, in un momento in cui il fordismo si va indebolendo; la seconda che, invece, apre la strada allo sviluppo di una imprenditoria endogena, nel tentativo di rafforzarla e di cercare di limitare le difficoltà che presenta l’ambiente che la circonda e che ne intralcia il funzionamento. La ricostruzione del dibattito suscitato ai tempi dell’attivazione del patto, fa emergere che inizialmente gli attori locali sono intenzionati a coinvolgere piccola e grande impresa nel progetto di sviluppo, data la convivenza di entrambe nell’area. Tuttavia, la grande impresa in affanno ed i segni evidenti della sua crisi disincentiva gli attori locali dal perseguire questa idea. La piccola e media impresa locale mostra, al contrario, segnali di dinamicità economica, è maggiormente radicata nei territori, ha delle potenzialità di sviluppo. Sulla decisione circa la natura degli interventi da predisporre per incidere sullo sviluppo del contesto locale, ha inoltre un proprio peso il livello di disponibilità delle risorse finanziarie,il cui tetto non può essere superato. Se si fosse mirato ad incentivare la grande impresa, le risorse avrebbero finito per essere concentrate su un numero più limitato di iniziative. Infine, le stesse imprese di grande dimensione dell’area dimostrano verso l’iniziativa un interesse limitato, preferendo tipologie di incentivazione più adeguate ai loro bisogni aziendali. La delimitazione del campo degli interventi alle imprese di dimensioni minori è il primo risultato della negoziazione cui gli attori locali pervengono dopo una prima ricognizione ed analisi della struttura economica e produttiva dei territori su cui si intende realizzare il programma di sviluppo. Nel focalizzare l’asse intorno a cui progettare gli interventi, viene dedicata inoltre particolare attenzione alle condizioni esterne alle attività di produzione: è fin troppo evidente che i vincoli incontrati dagli imprenditori locali nelle loro attività discendono solo in parte da fattori economici. Alcune carenze di natura socio-istituzionale incidono molto di più sulle modalità di funzionamento delle imprese. Le attività produttive risentono, infatti, degli spazi ristretti in 96
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