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ruolo psichiatria nella prima guerra mondiale, Guide, Progetti e Ricerche di Storia Contemporanea

seminario di credito sul ruolo della psichiatria nella prima guerra mondiale

Tipologia: Guide, Progetti e Ricerche

2018/2019

Caricato il 18/09/2019

alessandra-ciccarelli
alessandra-ciccarelli 🇮🇹

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Scarica ruolo psichiatria nella prima guerra mondiale e più Guide, Progetti e Ricerche in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! MATTI DI GUERRA E LA PSICHIATRIA NELLA GRANDE GUERRA La “psichiatria di guerra” entra nel dibattito della storiografia a metà degli anni Settanta con le opere No man's land1 e The Great War and Modern Memory2. In entrambi i libri viene sottolineata la modernità della Prima Guerra Mondiale dovuta all’industrializzazione. Caratteristiche della Grande Guerra erano i bombardamenti e mitragliatrici che creavano uno squilibrio tra mezzi di attacco e di difesa. La Prima Guerra Mondiale è vista da alcuni come un’evoluzione dello scontro russo - giapponese del 1914-1915 perché già in questo conflitto si presentarono le caratteristiche che poi si ritrovano in forma più estesa ed intensa nella Grande Guerra. Un elemento che si aggiunge a quelli sopra elencati che rendono la guerra diversa dalle precedenti è il modo in cui si è presentato il conflitto. Questa guerra fu infatti paragonata ad una bomba e per questo si parla infatti di “schock da esplosione”3 Le testimonianze ci aiutano a immaginare la portata di questo evento in cui ”Si moltiplicarono e intensificarono tutti i fattori perturbanti delle guerre passate, dalla fatica fisica al patema della guerra, dalle insidie mortifere innumerevoli ed inaspettate della terra e del cielo al rabbioso tuonare delle artiglierie di ogni calibro, nell’ansia continua e nella aspettazione sinanco angoscia dell’agguato o dell’assalto improvviso.”4 Diversi psichiatri hanno paragonato la guerra alle catastrofi naturali e la tecnologia viene impersonificata da una Natura incontrollabile, violenta e maligna. Su questo concetto scrive l'alienista Regis "le guerre moderne (...) agiscono sempre più a somiglianza delle catastrofi cosmiche. (...) si vedono soldati smarriti, disorientati”5 Per tutta la durata anche della Prima Guerra Mondiale ci si è chiesti se le patologie che si sviluppavano fossero causate dal conflitto o erano semplicemente dovute ai caratteri genetici individuali e che dunque si sarebbero sviluppate anche in un contesto di pace. Un osservatore occidentale che partecipò alla guerra russo- giapponese, Barzini riconosce al conflitto un forte ruolo di incidenza sulla psiche umana "la guerra è un gran male (...) come si preparano le armi si dovrebbero anche preparare gli animi". 6 La maggioranza dei medici però concordava sul fatto che non poteva essere la guerra la causa delle malattie che avevano davanti. Questo perché erano tutte patologie che non erano nuove ma già prima del conflitto si erano presentate. Ciò che però era diverso è che mentre prima della Grande Guerra quella che prima era chiamata “schizzofrenia” colpiva principalmente le donne, durante il conflitto erano gli uomini i principali ammalati. Successivamente gli storici, medici e psichiatri collaborarono per cercare di svelare questo mistero rispondendo a coloro che si chiedevano se era la guerra la causa delle malattie in trincea e perché si svilupparono. Tutti gli specialisti ed esperti sono concordi, il conflitto è il motivo delle malattie psichiche in quel periodo. Gli storici però si dividono: alcuni come Gibelli e Bianchi affermano che il motivo è che la mente cercava di proteggersi e dunque evadere dalla realtà, altri come Isnenghi o Rochat pensano che è colpa dell’idea militare per cui l’uomo perde la propria identità e diventa un soldato uguale agli altri. Per capire appieno le condizioni mentali e fisiche dei soldati durante la Prima guerra mondiale è opportuno guardare alle fonti originarie dirette, oltre che naturalmente alle testimonianze scritte successivamente da coloro che l’avevano vissuta in prima persona e col tempo rielaborata mentalmente. Le fotografie, novità di questo conflitto, permettevano di immortalare e separare vari momenti ma come affermava il critico Gariazzo nel 1919, queste non danno la possibilità di vivere le ore interminabili in trincea, sentire l'odore dei cadaveri dei propri compagni, provare il freddo che paralizzava i soldati. E’ attraverso la scrittura che i soldati si esprimevano. Durante il conflitto Seminario di credito, “Oltre la grande guerra…” | Alessandra Ciccarelli 2019 1 1 Eric J. Leed, No man's land, 1979 2 Paul Fussell, The Great War and Modern Memory 1975 3 Espressione utilizzata per la prima volta nel 1915 in un articolo della rivista Lance 4 Consiglio, Le anomalie del carattere 5 E. Régis, L'expertise psychiatrique dans l'armée, in "Cad", 1905 6 Balzini, La battaglia di Mukden, Treves, Milano 1906. persone che non si erano mai affacciate al mondo della letteratura iniziano a scrivere. Le loro frasi sono al limite della comprensione, si parla anche della difficoltà materiale che riscontravano anche solo tenendo la penna in mano e nelle lettere si giustificano dando la colpa al freddo, ad esempio, per la calligrafia poco leggibile. La scrittura però aveva un ruolo terapeutico, aiutava ad evadere dalla trincea e non dimenticare le immagini atroci. E' dunque comprensibile il richiamo di Robert Musil alla "Tirolen Soldaten Zeitung" nl 1916 nel quale invitava i combattenti a testimoniare per non "inabissarsi fino a scomparire dalla memoria appunto per la sua incommensurabilità, per il suo carattere di esperienza ai limiti dell'impossibile." 7. Le lettere sono poco affidabili dal punto di vista del contenuto, i soldati si autocensuravano per non creare preoccupazioni ai familiari quindi, quasi in modo standardizzato, si affermava che tutto procedeva bene e chiedevano notizie da casa. Come osserva Gibelli 8 era un modo per autoconservarsi: sentirsi momentaneamente lontani dalla trincea e vicini invece alla famiglia. I diari invece sono molto più preziosi perché permettono di entrare nella mente del soldato ma purtroppo ne sono stati scritte poche decine. Una fonte che ci interessa direttamente al fine di questa relazione sono gli scritti dei medici. Non siamo in possesso, purtroppo, di numerose cartelle cliniche delle persone rinchiuse nei manicomi e quelle che abbiamo sono poco precise e spesso ripetitive perché riferite alla stessa persona che veniva ricoverata più volte. Durante la Prima Guerra mondiale il ruolo che hanno i malati mentali varia. Inizialmente vengono esclusi dalla leva, ritenuti inferiori e non all'altezza di andare in guerra. Vi era quasi una caccia ai malati mentali. I controlli della polizia, sorveglianza e presenza forte dello stato erano quotidiani e tutti finalizzati a selezionare gli inadatti. Quando poi il conflitto ha attraversato la fase più buia allora ci fu una “chiamata generale” perché tutte le persone servivano in quella carneficina quale è stata la guerra. I soldati con le migliori doti fisiche e psichiche erano stati portati via dal conflitto quindi l’unica soluzione era utilizzare gli uomini malati come “riserva”. Questo concetto è molto chiaro nelle frasi di Celine9: "attualmente non vi sono più soldati indegni di portare le armi e soprattutto di morire sotto le armi, uccisi dalle armi". Il soldato a cui si mirava è quello chiamato da Agostino Gemelli "soldato senza qualità" che doveva aver perso ogni carattere di personalità tranne l'adattamento per riuscire a resistere psicologicamente e fisicamente in quella carneficina.Significativo di quanto detto è l'illustrazione della rivista “Die Pleite” del 1919 dove viene illustrato un medico che dichiara abile alla guerra uno scheletro. Nel momento in cui tutti vengono chiamati a combattere, chi si trovava nei manicomi era visto come un disertore e così nacque l’idea che tutti i malati mentali fingevano per non stare in trincea. Le condanne per diserzione arrivano a 100 mila, quando solo 6 mila lo furono effettivamente. Un'immagine descrittiva di questo periodo è il soldato di Mauzan che sembra richiamare all'ordine individualmente ogni persona che sfugge al massacro puntandole il dito. Era una diserzione inconsapevole, automatica, involontaria come uno scudo che la psiche adottava per allontanarsi dalla morte. Un manicomio che ebbe un ruolo importante nella Grande Guerra è quello di San Servolo, situato su un’isola di Venezia. Inizialmente sede conventuale, divenne già nella fine del 1700 luogo di reclusione dei “pazzi” proprio per la posizione geografica strategica che permetteva di isolare i malati dalla società veneziana. L’attuale museo sull’isola possiede oltre cartelle cliniche, fotografie d’epoca e stampe anche materiali originali utilizzati non per curare il malato ma per calmarlo e tenerlo sotto controllo. A questo fine utilizzavano manette, blocca caviglie, manicotti e tanti altri strumenti di vera tortura. Con questo possiamo intuire come lavorassero i manicomi nei confronti dei malati. Ciò che più provocava dolore ai matti era il fatto di non conoscere la propria diagnosi, dell'essere all'oscuro del proprio futuro. In manicomio erano presenti soprattutto ufficiali, in quanto loro, se malati, non erano più adatti a ricoprire il ruolo in guerra. Vi è una differenza sostanziale di diagnosi tra i soldati e gli ufficiali in Seminario di credito, “Oltre la grande guerra…” | Alessandra Ciccarelli 2019 2 7 A. Gibelli, L’officina della guerra. La Grande Guerra e le sue trasformazioni del mondo mentale edizione 2007 8 Ibid. 9 Celine, Viaggio al centro della notte, 1932
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