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Saggi- Caterina Pagnini, Schemi e mappe concettuali di Storia del Teatro e dello Spettacolo

Riassunto dei saggi in programma all'esame

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2022/2023

Caricato il 29/06/2024

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Scarica Saggi- Caterina Pagnini e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Storia del Teatro e dello Spettacolo solo su Docsity! Ponteromoli da 51-98 Danza e ruoli sociali nelle corti di Antico regime Ippolita Maria Sforza e il potere obliquo della danza – L’educazione alla danza Quando nel 1455 l’umanista Antonio Cornazano, cortigiano di professione, dedica a Ippolita Maria Sforza la prima edizione del suo Libro dell’Arte del danzare in occasione del fidanzamento della giovane nobildonna con Alfonso d’Aragona, duca di Calabria, la celebre secondogenita del duca di Milano aveva dieci anni: Nonostante quella che a noi oggi pare una tenera età, Ippolita aveva già cominciato a ricevere, a quell’altezza cronologica, un’educazione intensa, pensata esplicitamente per il ruolo che la sua illustre famiglia aveva deciso che ella avrebbe ricoperto nel teatro della politica e della cultura italiana della società di corte del primo Rinascimento. Sposando dieci anni dopo (nel 1465) l’erede d’Aragona e raggiungendolo a Napoli dopo un avventuroso e mitico viaggio attraverso la penisola, avrebbe suggellato un patto duraturo, ma difficile e controverso, fra il ducato milanese e il regno di Napoli. Ippolita ebbe la possibilità di beneficiare, fino all’anno del suo matrimonio, della educazione modellata sulla nuova antropologia nata in seno al pensiero umanistico. Benché questo tipo di formazione, di matrice classica, non fosse stato progettato per le bambine ma unicamente per i rampolli maschili, destinati a governare gli Stati come signori giusti, garanti del bene comunitario capaci di provvedere al benessere dei sudditi. Ippolita e Galeazzo Maria se da un lato affiancavano la trascrizione dei testi latini alla composizione di orazioni, in base al processo di imitazione di modelli illustri; dall’altro praticavano i passatempi della caccia, della danza, della musica, che venivano loro trasmessi come bagaglio comportamentale indispensabile sia agli uomini di potere destinati al dominio, sia alle donne di palazzo, la cui funzione politica consisteva nell’esercizio di un potere obliquo, tanto efficace quanto indispensabile nel delicato sistema di relazioni degli Stati italiani del Quattrocento7. Questa ideologia di un potere complementare e condiviso fra i generi non è oggetto di trattazioni ufficiali, nelle quali il ruolo della donna appare sempre subalterno e circoscritto alle funzioni di conduzione do- mestica, ma traspare in filigrana nella letteratura delle buone maniere e della conversazione8, dove le donne campeggiano nell’arte dell’intrattenere con la facezia amena, il motto arguto o il ballo pantomimico, ed emerge con molta chiarezza nelle numerosissime missive pubbliche e private che le nobili donne scrivono per assolvere agli obblighi previsti dal loro rango. L’impresa pedagogica degli Sforza assurge a modello in uno scritto apparentemente distante dalle pratiche formative, quel famoso trattato di architettura del fiorentino Antonio Averlino, detto il Filarete, scritto fra il 1460 e il 1464 a Milano e dedicato dapprima a Francesco Sforza, in seguito, dopo il rientro in patria dell’autore, a Piero de’ Medici in una nuova redazione manoscritta9. Il testo, che vede la luce negli stessi anni in cui vengono prodotti alcuni dei volumi per l’educazione dei bimbi Sforza – le due trascrizioni del De senectute di Cicerone (1458) e della pseudociceroniana Rhetorica ad Herennium (1467) con le glosse del Filelfo, di pugno, rispettivamente, di Ippolita Sforza e di Ludovico il Moro; le due edizioni del trattato di danza di Antonio Cornazano (1455, 1465), la prima stesura del De pratica seu arte tripudii di Guglielmo Ebreo da Pesaro (1463) –, è scritto in forma di dialogo, con espliciti riferimenti a Vitruvio, senza tuttavia che il riconoscimento doveroso dell’auctoritas vada oltre il valore del modello storico. Il trattato del Filarete, come è stato dimostrato anche per le opere sulla danza del XV secolo, si può collocare all’interno di un gruppo di testi che in ambito europeo documentano il processo culturale della riduzione in arte delle pratiche e delle tecniche e hanno la finalità di legittimare attraverso una trattazione scritta sistematica i progressi delle arti applicate: nel nostro caso l’architettura, concepita «scienza di grande intelletto, e né senza grande studio si acquista», e la danza, definita, quasi con le stesse parole, «licita scienza»12, ovvero quel «bel danzar che con virtù s’acquista». In particolare, il Libro XVII è caratterizzato da un’attenzione sociologico-didattica che sembra addirittura prevalere sui contenuti più propriamente architettonici. Molteplici sono i temi trattati e diversificate le metodologie con cui vengono affrontati: dall’importanza della misura umana nell’organizzazione della città alla verifica dello stretto rapporto fra struttura urbana e struttura sociale; l’amore per la natura e la capacità dell’uomo di governarla. Filarete, non è tanto distante dalle molte città utopiche del Rinascimento, rette da un ideale di armonia e proporzione di rapporti fra microcosmo umano e macro- cosmo celeste, e come quelle può essere considerata un sistema di ars memorativa1. A questo proposito, è importante sottolineare che, pur nella novità dell’assunto e dell’atteggiamento, il carattere del testo del Filarete è sempre discriminatorio nei confronti del genere femminile. Il contesto sociale dell’epoca assegnava alla donna caratteristiche “naturali” negative: minore autonomia e di conseguenza maggiore necessità di protezione maschile, minore ingegno, inaffidabilità, predisposizione all’immoralità ecc. Ne consegue un inasprimento dei criteri di ammissione delle fanciulle alla Domus Honestatis (si noti il nome assegnato alla scuola femminile che tradisce l’ossessione del controllo sulla moralità delle ragazze), una vita quotidiana costantemente posta sotto osservazione e regolamentata persino nel vestiario, pensato per uniformare e rendere sempre socialmente riconoscibile il gruppo femminile. Il senso del possesso che la città di Sforzinda esercita nei confronti delle giovani si traduce addirittura nella ricerca per loro di un marito («sia trovato loro uno marito confacente») e nel dono di una dote unicamente a quelle che avrebbero scelto la via del matrimonio. Ippolita, educata secondo gli ideali e i modelli ipostatizzati dal Filarete nelle due scuole di Sforzinda, giunge nella corte di Napoli consapevole del proprio ruolo politico e dell’importanza strategica del suo matrimonio, suggello di uno storico patto fra ducato milanese e regno aragonese. La raffinata educazione ricevuta alla corte milanese, che contemperava gli studi classici con gli esercizi del corpo, aveva forgiato la personalità di Ippolita rendendola capace di ricoprire con sapienza ed efficacia politica il ruolo affidatole sia dal ducato d’origine, sia dal regno della sua definitiva destinazione, per garantire il mantenimento degli equilibri politici fra i due Stati. Nella terra che aveva fatto della conversazione un’opera d’arte – vale la pena ricordare che il De sermone di Giovanni Gioviano Pontano, terminato nel 1499 proprio presso la corte aragonese di Napoli e pubblicato postumo nel 150932, è l’archetipo dei testi che fra Quattro Cinquecento consolidano il canone del comportamento cortigiano – Ippolita è portatrice di un nuovo tipo di conversazione, quella della facezia danzata, attraverso la quale si trasmettono incorporazioni di vaori e si coreografa la storia e l’identità33. La duchessa di Calabria, nella nuova residenza, si serve da subito delle sue doti di provetta danzatrice per scopi diplomatici, soprattutto in contesti più ristretti e salottieri, come quelli che il Castiglione, nel Libro del Cortegiano, additerà come esemplari della vita della corte. In una missiva al duca Francesco da Napoli, il 29 settembre del 1465, l’oratore da Trezzo riferisce della volontà di Ippolita, appena partiti i suoi fratelli alla volta di Milano, di invitare la cerchia ristretta dei collaboratori del Re a una cena, seguita, come di consuetudine, da danze e, in questo specifico caso, dal cantare insieme: Evidentemente non tutti gli uomini di corte erano adusi al ballo nobile e di certo non a quello di cui erano esperti sia Ippolita, sia suo zio Alessandro Sforza. Entrambi, infatti, avevano avuto per maestro uno dei più richiesti ballerini dell’epoca, proprio quel Guglielmo Ebreo da Pesaro che lo stesso Alessandro aveva preso sotto la sua protezione e che aveva invitato a Napoli affinché istruisse nel ballare lombardo le cognate della giovane duchessa, Eleonora e Beatrice35. Saper ballare secondo una tradizione identitaria (alla lombarda, alla spagnola, alla francese) è un importante tratto distintivo del nobile, ma anche un elemento di pregnanza politica: Sforza e Aragonesi non solo secondo convenienza e virtù, dissimulazione e grazia, distinzione, sapienza civile e onesto piacere che, fra Quattro e Cinquecento diverranno l’etica distintiva e relativa della buona società della conversazione aristocratica. Nell’Europa di Antico regime, in particolare in un lasso di tempo che va all’incirca dalla metà del Quattrocento alla metà del Seicento, si assiste a un processo di cambiamento della concezione del potere e dell’immagi- ne del signore e del principe. Come abbiamo visto1, ciò si verifica come esito dell’assunzione da parte dei nobili di un nuovo paradigma di com- portamenti conformi a una natura seconda, frutto dei processi educativi ispirati alla temperie umanistica2. La pratica della danza, testimoniata, fra l’altro, dai trattati coreici italiani fra XV e XVII secolo, contribuisce, con altre pratiche sociali, a costruire, in termini relazionali, una nuova forma di mascolinità al potere. Fra Quattro e Seicento la trattatistica dedicata in modo specifico al ballo nobile contenente, tra l’altro, anche una precettistica orientata alla costruzione delle identità di genere – è uno strumento finalizza- to all’incorporazione di valori nel guidare la figura maschile attraverso almeno due cambiamenti antropologici: un primo, a cavallo fra Tre e Quattrocento, dall’idea romanza di condottiero e cavaliere a quella di principe umanista, che governa nell’esercizio della virtù, praticando, promuovendo e difendendo le arti; un secondo, nel corso del Cinquecento, che consiste nel recupero di un maggior numero di tratti di evi- dente e chiara distinzione nei confronti del femminile, in un periodo in cui una serie di fattori storici introducono nel sentire comune della penisola fattori di incertezza e di insicurezza. Fra fine Novecento e nuovo millennio si affaccia all’orizzonte degli Studi culturali un campo di ricerca variamente definito come men’s studies, masculinity studies o più semplicemente ricerche storiche sull’uomo. Tale approccio critico, che affonda le sue radici negli studi femministi e, con uno sviluppo metodologico più aperto, in quelli più recenti di genere, ha offerto negli ultimi vent’anni anni agli studi storici un utile approccio interdisciplinare. Limitati inizialmente alla critica letteraria, soprattutto in area anglofona, a causa delle resistenze della ricerca tradizionale, più di recente questo tipo di lavori si è rivolto a uno spettro maggiore di fonti grazie agli studi sul Rinascimento, venendo a includere l’area giuridica, il di- battito medico, la moda, la musica e la danza Oltre all’ampia produzione discorsiva rinascimentale di institutio7, in grado di delineare i paradigmi ideali entro i quali la coeva società italiana viveva la dimensione del maschile e del femminile nella vita quotidiana delle classi egemoni, alcune fonti, come i trattati di danza diffusi inizialmente solo all’interno delle corti8 e in seguito caratterizzati da una maggior divulgazione favorita dalla stampa9, sono depositi di memoria corporea della pratica fisica del danzare, in grado di contribuire all’incorporazione di valori e di comportamenti propri della civiltà delle buone maniere e del controllo. Marina Nordera, che ha avuto il merito di avviare in Italia questo tipo di approccio storiografico alla danza attraverso la mediazione di un’ampia letteratura di area anglofona e francofona, sposta il fuoco di attenzione dalla figura femminile alle relazioni di genere nella danza nell’Italia della prima età moderna. Il genere è un utile strumento epistemologico per la storiografia della danza, da un lato perché la costruzione storica, culturale e sociale delle caratteristiche del maschile e del femminile passa attraverso la dimensione performativa che si manifesta con maggior evidenza nel corpo danzante; dall’altro perché il genere è una categoria in grado di mettere in discussione i saperi storici consolidati e la loro trasmissione, relativizzando lo sguardo e smascherando le posizioni ideologiche. Partendo dalla convinzione che la problematica dell’identità di genere «opera come una categoria ordinatrice e organizzatrice delle relazioni sociali. La pratica della danza è il modo in cui donne e uomini delle classi egemoni16, nell’Italia fra XV e XVII secolo, interpretano il modo di essere maschile e femminile e quali caratteristiche vengono riferite all’una e all’altra condizione; come questi attributi cambiano in relazione al tempo, allo spazio e ai contesti; e come uomini e donne indifferentemente siano in grado di far proprie tali categorie per propositi differenti, anche in dipendenza da altri fattori quali l’età, il ceto e ulteriori caratteristiche sociali o biologiche. Non esiste una condizione maschile universale e limitando l’analisi unicamente all’agenda femminista si corre il rischio di trattare il genere maschile come un’esperienza omogenea e non problematizzata. Non studiare la mascolinità può provocare il perpetuarsi paradossale degli effetti culturali negativi dell’ordine patriarcale. Ci si domanda pertanto, a partire dallo sguardo del presente, in cui prevale una visione della danza come sostanzialmente legata al femminile, se nell’età di Antico regime la danza fosse compatibile o meno con la mascolinità, in che modo e secondo quali aspetti culturali. Fino al XIX secolo la danza non è considerata come un comportamento riferibile essenzialmente al femminile, e gli uomini che la frequentano non sono percepiti come effeminati. Nel corso del XV secolo danzare è la condizione normale del nobile, che apprende il ballo come una virtuosa pratica sociale per riempire il tempo, fuggire la noia e la melanconia e relazionarsi ai suoi simili in contesti pubblici (la festa) e nei momenti di intimità familiare («in camera privatamente»)20. Scrive al proposito il maestro di danza Domenico da Piacenza nel suo De arte saltandi et choreas ducendi. Diversamente dallo studio istituzionale, riservato ai figli maschi, que-ste attività ricreative non sembrano avere nel Quattrocento una spiccata connotazione di genere, così come non sembrano esserci, nella pratica stessa del ballo nobile, delle forti differenziazioni fra maschile e femmi- nile24, anche se certamente il ruolo di maestro di danza, come quello di tutti gli altri precettori coevi, è ricoperto unicamente da figure maschili. Nella Firenze del Quattrocento, i nuovi orientamenti educativi dell’umanesimo vanno nella direzione di una impronta sempre più mascolinizzante della vita familiare, per contrastare modelli indifferenziati e moralizzare la società25; nelle corti padane di Milano, Mantova e Modena il sistema dell’educazione classicista punta, come suggerisce Eugenio Garin «sulla vocazione mondana dell’uomo e sulla necessità di formarlo alla convivenza civile. Nella costruzione di questo nuovo uomo politico e di governo, in grado di realizzare l’ideale di un signore giusto, garante del bene comune e capace di provvedere al benessere dello Stato e dei sudditi, interviene fra fine Trecento e metà Quattrocento un cambio di paradigma ben sintetizzato da Amedeo Quondam: Un’attività all’apparenza secondaria come la danza è in realtà estremamente diffusa all’interno delle corti italiane. Come quest’ultima anche la danza intende raggiungere risultati di natura estetica. Ballare contribuisce così a costruire l’identità del gentiluomo e della gentildonna indicando con chiarezza il perimetro di ciò che appartiene loro, la virtù per onore e per utile, e nel contempo segnalando come prendere le distanze da ciò che è loro estraneo. Lo stile di danza del XV secolo appare unico per i due generi, senza particolari differenze tecniche ma solo «con un portamento della sua persona degno et signorile»( Guglielmo Ebreo da Pesaro nel Capitulum Regulare Mulierum del suo De pratica seu arte tripudii 1463). È evidente che in tal modo i tratti del rude cavaliere medievale dedito alla guerra vengono ingentiliti dall’esercizio di una danza no- bile che nel Quattrocento non presenta caratteristiche peculiari per i maschi. Sul piano dei rapporti fra gli uomini questa trasformazione è caratterizzata dall’adozione di pratiche simboliche per risolvere le controversie. Per intenderci: non più il duello, ma la sfida ritualizzata del torneo33; sul piano della politica, la nascita delle moderne relazioni diplomatiche e del loro linguaggio specifico34; sul piano degli equilibri interni al microcosmo della corte, la conversazione, la facezia e, appunto, la danza. Se una differenza nel modo di ballare viene ribadita e additata, nella trattatistica quattrocentesca di danza, questa non è fra uomo e donna, quanto piuttosto fra aristocratico e contadino. Fra le misure musicali del ballo nobile, oltre alla solenne bassadanza, che più si addice alle dame, e alla quaternaria, dal ritmo binario, alcuni balli di origine rurale come saltarello e piva portano all’interno della regolatissima prassi coreica di corte ritmi vivaci, nel caso della piva addirittura considerati scomposti. I balli del contado vengono ingentiliti e ricondotti a una precettistica che facilita il controllo e stabilisce, grazie alle ferree regole dell’etichetta cortigiana, i confini di appartenenza sociale. La distanza fra città e contado diviene nel Cinquecento contrapposizione fra civile – forma distintiva del vivere del gentiluomo e della gentildonna e villano, quel «forstiero campestre»36 di cui parla Domenico da Piacenza. Conferma questa costruzione del maschile “urbano”, in contrapposizione al maschile “rurale”, un altro fenomeno corporeo: la consuetudine quattrocentesca dei cives di radersi il volto38. La progressiva urbanizzazione, che interessa il territorio italiano fra Trecento e Quattrocento, è alla base della graduale scomparsa della barba dal viso degli uomini: l’abitante della città non la “indossa” più per non apparire un abitante del contado. La dialettica fra l’essere e l’apparire costituisce uno dei tratti distintivi della sociabilità cinquecentesca all’interno dei gruppi di potere. Il costrutto culturale, che in epoca classica accostava la virilità all’arte della guerra e condannava come effeminata ogni mollezza derivante dalle vanità dell’estetica, ricompare tuttavia all’inizio dell’età moderna all’interno della produzione discorsiva tanto della chiesa cattolica quanto di quella protestante, che bollano come un grave problema morale ogni eccessiva attenzione all’aspetto esteriore La disputa fra armi e lettere, fra guerra e arti, che sembrava essere stata ricomposta nei quarant’anni seguiti alla Pace di Lodi, si ripresenta in modo obliquo già nel Libro del Cortegiano46 – elaborato, nelle varie redazioni, fra la discesa di Carlo VIII in Italia nel 1494 e il Sacco di Roma nel 1527. La performatività ornamentale del cortigia- no, che si sostanzia nelle attività poco sopra elencate, non è oggetto di una critica autentica: danzare, far musica ed essere eleganti appaiono ora come elementi di una nuova mascolinità (esito del controllo degli impulsi e della violenza), ora in tensione con essa quando è messo a te- ma il modello dell’uomo d’armi, tuttavia senza un’esclusione reciproca. A seconda della convenienza retorica alcuni comportamenti potranno essere qualificati come effeminati nella presentazione dei diversi modi dell’apparire maschile, ma sempre tutti funzionali nel contesto delle corti cinquecentesche. All’interno di questa letteratura i tratti distintivi del danzare maschile cominciano a essere posti con maggiore evidenza, non tanto in contrasto e opposizione con una modalità femminile di ballare, quanto piuttosto come proposta positiva di un nuovo modello di virilità che, se non trascura eleganza, politezza e urbanità – conquiste ormai irreversibili della civiltà delle buone maniere, punta tuttavia su un’immagine di uomo forte, agile nei movimenti e gagliardico. La gagliarda è, nel corso del Cinquecento e del Seicento, il genere di danza nobile più in voga nella società di Antico regime. Nata in Italia, ha una diffusione capillare nell’Europa della corti grazie alle possibilità offerte dalla stampa e dal carattere itinerante della professione dei maestri di danza. I trattati coreici di Cesare Negri e Fabrizio Caroso son giusti da citare. La gagliarda è certamente nota agli interlocutori del Cortegiano, che, se ne deplorano i virtuosismi, ben evidenziati nelle «prestezze de’ piedi e duplicati rebattimenti» del «nostro Barletta»64, la annoverano tutta- via fra i tratti distintivi del maschile. È Vincenzo Calmeta, infatti, uno dei personaggi della conversazione del Castiglione, a nominarla per la prima volta nel suo De Ostentatione (1497-1550)65, in riferimento a una nobildonna milanese che in modo sconveniente assumeva comporta- menti ritenuti propri della mascolinità. Uno sguardo orientato alla costruzione dell’identità di genere è an- che quello della letteratura artistica rinascimentale. Ludovico Dolce in una lettera ad Alessandro Contarini della metà del Cinquecento commentando la figura di Adone nel quadro Venere e Adone di Tiziano, Per il Dolce, Adone appare ben proporzionato, gratioso. L’ambiguità della fisicità di Adone, che partecipa, nella sua azione fisica fissata sulla tela, contemporaneamente dei tratti del femminile e del maschile, se da un lato mostra una visione binaria dei generi, dall’al- tro li svincola con evidenza dall’appartenenza al sesso biologico e ne fa delle caratteristiche perfettamente compatibili fra loro all’interno di un continuum fisiognomico che rende visibili l’anima e il carattere. Ai due estremi di questo continuum stanno dunque la leggiadria e la gagliardezza. I due termini, precisi nel delineare le differenze di genere in relazione al movimento e alla postura del corpo, sono percepiti fin dall’Antichità come elementi primari nella definizione e nell’espressio- ne del sé dal punto di vista sociale, morale ed emotivo, e vengono regolamentati dalla letteratura sul comportamento e dalla trattatistica di danza del XVI secolo in modo dettagliato. Quando l’Italia come territorio culturalmente dominante viene messa in crisi dall’evidenza della sua debolezza sul piano militare e politico Tale disagio si traduce in quest’epoca nell’ansia, da parte degli uomini di potere, di sembrare eccessivamente effeminati. La gagliarda come danza di forza e di agilità corporea, che riporta il maschile verso una normatività altra rispetto al femminile, diviene una sorta di antidoto contro questo malessere, così come la nuova moda di farsi crescere la barba è il segno dell’adozione da parte del maschio di una sorta di ma- schera che occulta e dissimula, sotto tratti ostentatamente virili, la paura della perdita del potere e del controllo. La gagliardezza è caratterizzata da forza, velocità, potenza, doti richieste anche ai militari. La bellezza di un uomo è determinata dunque dalla sua virilità. Sul versante dell’a bigliamento dell’uomo, si pensi, ad esempio, all’uso di racchiudere i genitali in una conchiglia di tessuto detta brachetta, le cui dimensioni aumenteranno nell’encomiastica francese. In ciò non molti erano contenti per il processo di italianizzazione, quindi si contaminava con il giusto gusto francese: quel balletto ‘misurato’, nato dalle sperimentazioni umanistiche dell’Accademia di Baïf e arricchito dall’interesse coreografico di Caterina, che pare essere alla base del ballet de cour, Il Ballet de Polonais, Ballet comique de la Royne. Qui l’itineranza è minima e l’azione si svolge quasi unitariamente su di una sorta di palcoscenico, che separa nettamente il luogo dell’azione da quello della visione, con un assetto teatrale. L’Apparato dei saloni del Cinquecento descrivono luoghi nobili della Toscana, si anime nel défilé delle dame che nel 1573 a Parigi si dispongono attorno al muro della sala in abito suntuoso, descritti come Zefiro la musica Amore e Psiche.. con i danzatori e strumentisti che animavano il tutto. Ma il tutto sarà un concetto di continuità anche quando morì lo sposo di Maria ci fu una solenne celebrazione: quando nel 1610 Enrico morì, consentendo a Maria di entrare direttamente negli affari della storia, Firenze celebrò questa morte con un apparato funebre(con massimo splendore a Luxemburg) che rientrava nella sua tradizione cerimoniale, in cui la vita del defunto veniva immediatamente messa in scena attraverso una serie di quadri d’apparato che, esposti nella basilica medicea di San Lorenzo, ne illustravano le gesta, costruendone il romanzo biografico. Sarà qui che andranno cercati gli elementi proficui trasmessi alle civiltà su cui regneranno i suoi figli. Il procedimento avverrà in due fasi; la prima, sul suolo di Francia, vedrà l’assorbimento dei modelli fiorentini e la loro integrazione con il precedente sostrato; la seconda vedrà il trasferimento di questa sintesi dell’eredità della stirpe. Come ad esempio, l’ultima figlia, Henriette sposa di Carlo Stuart con l’instaurazione degli ideali inglesi, dunque l’età dell’oro. Questo ampliamento portò in Patria gli elementi più consoni della spettacolarità francese e italiana, trasformarono un genere spettacolare di antica derivazione, il masque, in una ben sostanziata e articolata struttura per l’esibizione regale. Ballet mascarade- ballet à entrees. Nel 1612 nel Grand ballet de la Reyne rapresentat le Solei aveva impersonato l’allegoria dell’Aurora che dopo la Notte annunciava l’arrivo del Sole. Nel 1623 nel balletto regale, henriette aveva sostenuto la parte di iris. Nel masque il protagonista divinizzato doveva recitare se steso. Il primo importante masque impersonato dal re nel 1631, Love’s Triumph through Callipolis, era una rappresentazione allegorica dell’azione di risanamento etico e politico. Ancora al neoplatonismo ficiniano di questo episodio fiorentino si richiamava l’ultima parte dello spettacolo inglese, sia nelle tematiche conclusive che nella struttura compositiva della scenografia, per il Giudizio di Paride allestito a Firenze per le nozze di Cosimo II nel 1608. (Le caratteristiche sono sopratutto le simbologia: nei casi precedenti i due fiori che rappresentano le famiglie reali di Francia e d’Inghilterra) La concezione della concezione neoplatonismo è di non giustificare l’intenzione di recuperare un modello di giardino, bensì acnhe il desiderio di ‘storicizzare’ la memoria della cultura classica, all’interno della quale i regnanti potevano vivere i migliori momenti di vita quotidiana. (modello filosofico neoplatonismo, e il concetto vitruviano- Marsilio Ficino) Il mito di Ercole (o Eracle) è spesso associato a Lorenzo de' Medici, noto anche come Lorenzo il Magnifico, per diversi motivi storici, culturali e simbolici. Lorenzo de' Medici fu una figura centrale del Rinascimento italiano e un grande mecenate delle arti. La sua associazione con Ercole può essere vista attraverso diverse prospettive: 1. Simbolo di Forza e Virtù: • Ercole era considerato un simbolo di forza, coraggio e virtù. Questi attributi erano molto apprezzati nel Rinascimento, un'epoca in cui le virtù classiche erano spesso celebrate. Lorenzo de' Medici cercò di rappresentare se stesso e la sua famiglia come eredi di queste virtù classiche. Attori Mercanti Corsari Capitolo I Verso la fine del Cinquecento, l’attività dei comici organizzati in compagnie appare intensa e regolare, ma ogni attore aveva una corrispondenza o formazione diversa. Si hanno poche fonti scritte di ciò perché superstiti solo alcuni canovacci e la funzione pratica dei manoscritti vennero quasi del tutto distrutti. In realtà il teatro di mestiere che viene rappresentato dalla documentazione in nostro possesso è solo la parte più tutelata e organizzata di un movimento più largo. Grazie alle cancellerie possiamo comunque raccogliere notizie preziose. Con le tournè i documenti proliferano, i documenti che possiamo esibire sono altrettanti segnali di un progredire del libero scambio teatrale: da una parte servono a tracciare sulla cartina geografica un profilo delle strade e della viabilità funzionanti in quei tempo; dall’altro canto fungono anche da termine ante quello se soltanto li utilizziamo per guardare indietro per realizzarne uno storico. I progressi brillanti degli studi hanno consentito di correggere, integrare e precisare fino al dettaglio l’informazione a suo tempo fornita dal padre Ottonelli, registrata dagli eruditi successivi e giunta poi fino ai giorni nostri, circa la fisionomia dei percorsi dei comici: si tratta di una testimonianza schematica e indicativa, raccolta in un periodo tardo rispetto alla storia del professionismo teatrale da noi trattato, circoscritta comunque a un’esperienza solo settentrionale, redatta con lo scopo di suggerire un’idea unitaria dello spettacolo comico. Invece si può aggiungere che lo spettacolo comico era frammentato. Completando lo schema, si può aggiungere che quello fu spesso del tutto separato dal sistema ‘lombardo’e che a differenza di questo, fu dominato dallo schiacciante primato di Napoli, mentre Roma ebbe una storia nettamente distinta, certe riprese avvenivano al di fuori della stagione recitativa, durante la quaresima o nelle fasi di riposo. La città di Napoli era talmente dotata di occasioni teatrali che non lasciava ai suoi attori lo spazio e il tempo per digressioni al nord, dall’altro fattore i settentrionali scendevano di rado. Eppure nel corso del Seicento Napoli apparve come Venezia, una terra promessa, dove si poteva lavorare; rispetto a Venezia Napoli aveva un clima favorevole da impedire connivenze organizzative, l’immigrazione non era sempre felice e doveva sottostare ai ricatti. Quando invece si verificava il trapianto contrario, dal sud al nord, il successo era molto più probabile, essendo la diversità tecnica, se non etnica, degli attori napoletani, molto marcata e connotata tanto da ingenerare contesti razziali. Ci fu il fenomeno del pendolarismo in cui si evince nello schema di Ottonelli. Lo spostamento Milano-Firenze era problematico, l’armatore era chiamato per anticipare le spese, quindi si organizzavano tournes nei più importanti centri urbani da cui appoggiarsi. Certo, Firenze Venezia e Mantova furono le città più vitali tra Cinque e Seicento; nel campo del teatro degli attori professionisti Firenze possedeva una corte particolarmente operosa nell’allestimento di feste e spettacoli cortigiani che infondevano linfa indiretta dell’arte. Mantova grazie alla politica dei Gonzaga che si erano molto presto assunto l’onere di sovvenzionare direttamente una propria formazione professionistica. Ma la storia di queste città non fu uniforme. Ad accentuare la frammentazione del territorio settentrionale intervenivano i fattori meramente geografici e gli spostamenti di interesse artistico. Si stabiliva così sulla strada del teatro un itinerario a handicap variabili, con una cesura indiscutibilmente più forte ogni volta che dal percorso navale si passava a quello terreste. Si aggiungevano poi gli acciacchi del sesso, capitava che le attrici incinte ricevessero come gli altri compagni sollecitazioni brusche ad andare dove voleva il committente. Meno evidente ma forse ancora più grave l’impaccio provocato dalle ingenti merci che gli attori erano costretti a portarsi dietro, principalmente quelle necessarie alla messa in scena. La cosidetta ‘condottta delle robbe’era costosissima e gravosa da un punto di vista organizzativo, esigendo l’intervento delle superiori autorità per gli sdoganamenti di rito e per il trasporto che doveva essere fatto con un relativo dispiegamento di mezzi, infatti un cavallo era il più gradito noto offerto dai mecenati. La frequenza dei viaggi li addestrò al trasformismo. Il passaggio degli attori e degli spettatori di ciascuna area teatrale dall’una all’altra regione implicava la registrazione delle differenze. E non è forse un caso che le principali caratterizzazioni linguistiche ed etniche del teatro professionistico utilizzassero come contorni delle ‘parti’ sceniche le differenze rilevate dal confronto delle aree teatrali che abbiamo individuato: il Magnifico veneziano, il Dottore emiliano, gli innamorati di lingua toscana, le cosiddette ‘parti napoletane’, Arlecchino, Poliglotta e Mantovano. Nel corso del Cinquecento italiano è noto che un procedimento del tutto opposto era stato messo in opera dai letterati affibiati dal fiorentinismo linguistico: la tolleranza delle differenze era stata lentamente epurata dalle scene; la bella letteratura, meglio se in edizione di prestigio, aveva funzionato da lasciapassare con cui si erano potuti aggirare gli ostacoli e le frontiere. Lo spostamento in contesti più lucrosi propugnarono alle infinite liti che i comici dovettero sostenere contro i poteri municipali che volevano ostacolare i loro spostamenti. Gli ostacoli e gli obblighi determinanti dal controllo esercitato con crescente severità, a partire dalla seconda metà del Cinquecento, sul flusso migratorio verso le città, mettono gli uni contro gli altri i forestieri e i locali. Nel 1576 il commissario granducale in Pisa proibiva il rientro in città della compagnia del comico Pedrolino per ragioni di pubblica moralità. La supplica del comico, ex ciarlatano, Nicolò Barbieri, non è solo un trattato in difesa dei comici, ma anche un documento sulla mentalità del tempo. Oggetto delle sue cronache sono gli umori e le reazioni di tutti coloro che assistono alle esibizioni degli attori professionisti. In questo modo egli finisce inevitabilmente per registrare gli scarti di incomprensione, smarrimento, emozione che si produco o tra i portatori di teatro e i ricettori; nela sua esperienza dello spettacolo (Barbieri) dimosta come solo la concreta esperienza dello spettacolo professionistico possa superare la differenza fra spettatori e attori. Il mondo è pieno di persone e di gruppi sociali che, una volta usciti dalla loro segregazione ed entrati nel recinto dello scambio sociale, si ricredono dei pregiudizi e diventano cittadini di un mondo migliore, come ad esempio di luoghi comuni come le osterie di cui fa riferimento l’attore Domenico Bruni di cui giudica male, ma se si pensa era il punto di incontro di molti artisti. Come anche si evince il linguaggio: -rompere le scarpe, è quasi un sinonimo di recitare, la fatale accettazione di un destino -moto perpetuo -Flaminio Scala, un sinonimo della vita comica e gli attribuisce la capacità di produrre il profondo senso dell’umore che esercitano i comici. Nella tradizione del Cinque-Seicento e nelle memorie teatrali si fa riferimento a uno straordinario picaro come il Capitano Alonso de Contreras, come interprete anche il celebre Capitano Spavento da Vall’Inferna inventato dal grande attore Francesco Andreini. Il personaggio cercò anche di fornire un certificato di autenticità storica alla sua parte diffondendo le notizie su una presunta partecipazione a imprese turchesche, laciandoci i passi della Bravure del Capitan Spavento. Se gli spettatori continuarono a vedere nel viaggio una rivelazione delle differenze, gli attori cercarono a vedere nel viaggio una rivelazione delle differenze, gli attori cercano di dimostrare che il loro mestiere contribuiva al superamento di quelle. Per questo le tecnche di che culturale. Un giudizio negativo che ha coinvolto non soltanto l’operato del monarca ma tutto l’apparato delle sue corti, ufficiali e ‘residenziali. Nelle maglie di questa consolidata tendenza storiografica per più aspetti deviata e deviante è stata inglobata anche la consorte del sovrano Stuart, di volta in volta delineata come una figura inconsistente, capricciosa e superficiale ed eccessivamente frivola e mondana per il suo cosiddetto ‘sproporzionato’ interesse nei confronti degli intrattenimenti (revels) di corte. ’indifferenza critica nei con- fronti della regina è stata ulteriormente rafforzata dalla tendenza della maggior parte delle biografie giacobine a concentrarsi prevalentemente sul periodo suc- cessivo al 1614, ossia sugli ultimi anni di vita della reale consorte (morta nel 1619), quasi ignorando la prima decade del regno considerata esclusivamente dal fuorviante punto di vista dell’anticipazione degli avvenimenti cruciali e delle crisi politiche degli anni successivi. Firenze e Londra: i rapporti politici e culturali fra i Medici e gli Stuart In tal senso è fondamentale, per la corretta restituzione del ruolo strategico che la regina Anna ebbe nella prima fase del regno degli Stuart, focalizzare l’attenzione sul rapporto politico e culturale intercorso fra la corte inglese di Giacomo I e la corte fiorentina dei Medici, prima quella del granduca Ferdinando I, poi quella di Cosimo II. La regina Anna si delinea da subito come uno dei più importanti interlocutori dei visitatori stranieri, diplomatici o artisti; perfettamente calata nelle dinamiche politiche, molto attiva nella proposta spettacolare e nella creazione di quel modello di corte rinascimentale tanto ambito dallo stesso re ma soprattutto dalla regina stessa e dal primogenito Enrico. La base di partenza per questo processo di ‘riabilitazione’ storiografica affonda le radici nella ricognizione dei fondi Mediceo del principato e Miscellanea medicea dell’Archivio di stato di Firenze, in particolare delle filze che raccolgono le corrispondenze dei residenti fiorentini alla corte di Giacomo I. L’asse Londra-Firenze e viceversa è decisivo per delineare un quadro di interazioni strategiche a livello storico, culturale e spettacolare che vede co-me protagonisti da una parte i granduchi medicei, Ferdinando I e Cosimo II con le granduchesse Cristina e Maria Maddalena e dall’altra la casa reale de- gli Stuart, nella quale possiamo attribuire un ruolo predominante ad Anna e a Enrico, oltre che alla principessa Elisabetta, futura sovrana di Boemia in segui- to al matrimonio con il principe palatino del Reno Federico V. Non è un caso che uno dei primi ritratti storici di Anna, appena arrivata in Inghilterra come regina consorte, venga delineato dalle fonti archivistiche fiorentine, in un lungo dispaccio di Montecuccoli alla segreteria granducale scritto da Winchester e datato 29 ottobre 1603; un documento che mostra la regina in una luce diversa da quella tradizionale e che svela uno spirito curio- so ed eclettico, una personalità desiderosa di contatti culturali, già proiettata attivamente nella politica dello scambio dei doni, fondamentale per i rapporti diplomatici dell’Europa delle corti. (per colpa di storiografie sbagliate la regina veniva descritta come non interessata al teatro). Gli Stuart sovrano di Inghilterra: una corte policentrica Per comprendere la complessa realtà in cui Anna si inserisce al suo arrivo in Inghilterra e che le permetterà di ritagliarsi un ruolo di primo piano nelle vicende del regno, si consideri che la corte giacobina, specialmente quella del primo decennio, non si fonda sulla sola personalità del sovrano, ma sulle diverse componenti sociali e politiche che ne definiscono il polimorfismo: i nobili della corte, l’aristocrazia terriera, i mercanti delle più importanti città del regno, le corporazioni di stampo tardo-medievale ma ancora influenti nella politica londinese: tutti elementi interattivi e competitivi che, a dispetto della retorica sull’autorità assoluta e accentrante del sovrano, sono alla base della società strut- turandola come un organismo policentrico, multiforme e centrifugo. La recente storiografia anglosassone di gender propende a vedere in Anna e nella sua corte una sorta di ‘fronte’ femminista avverso, sia politicamente che culturalmente, alla corte patriarcale di Giacomo I;18 senza addentrarsi in tali problematiche, a nostro avviso storicamente estranee e de- contestualizzate, è proficuo analizzare l’influenza di Anna sulla spettacolarità giacobina e sulla codificazione del masque. È suo senz’altro il maggior impulso dato alla struttura definitiva del masque come spettacolo rappresentativo della corte giacobina e carolina: suoi sono i più importanti masques della prima de- cade del regno di Giacomo I, anni fondamentali per la genesi e il definitivo sviluppo del ‘genere’. Una regina in scena: i ‘Queens’s Masques’ (1604-1611) Anna è la principale figura di riferimento per la spettacolarità della corte giacobina, fondamentale mediatrice fra lo spettacolo dei dilettanti, i nobili che agiscono in scena nei masques, e quello del teatro dei professionisti, a partire dagli attori, coinvolti nelle parti recitate e danzate (specialmente nell’antima- sque), dai poeti di corte, Samuel Daniel o Ben Jonson, con i quali la regina interagisce attivamente per lo sviluppo della trama del masque, e dallo scenografo, Inigo Jones, cui la regina dispensa volentieri consigli e direttive sui costumi e anche sulle entrate in scena.19 Fondamentale per lo sviluppo dell’interazione fra il teatro dei professionisti e quello dei dilettanti è proprio l’introduzione dell’antimasque presentato per la prima volta da Ben Jonson il 2 febbraio 1609 in occasione dell’allestimento di The Masque of Queens: una delle più fertili colaborazioni con Jones e un’evoluzione importantissima nella storia della spettacolarità inglese. Qui Jonson segue l’esplicita richiesta della regina Anna che dimostra ancora una volta la sua vocazione teatrale. Dopo gli intensi anni trascorsi alla corte scozzese, durante i quali Anna ebbe modo di farsi notare per il suo impegno politico e per le sue frequenti e poco gradite ‘incursioni’ nelle decisioni del consorte reale,23 è in Inghilterra che Anna può dedicarsi a soddisfare il suo interesse per lo spettacolo, inteso come tramite metaforico-politico autocelebrativo, creando un polo di attrazione, se non opposto, diverso dalla corte del re e ‘seme’ forte della sua ideologia volutamente ‘alternativa’ al potere del sovrano. Fin dal suo arrivo a Londra la regina imposta il calendario spettacolare inglese in modo che l’allestimento dei suoi spettacoli, i citati Queen’s Masques, coincida con l’appuntamento più importante delle feste annuali: la notte dell’Epifania (Twelfth Night) che dal 1604, anno della prima rappresentazione di un masque di Anna, diventa l’evento rappresentativo più dispendioso. Da unificatrice dei tre regni e portatrice di pace e armonia; una strategia auto- celebrativa alla quale prende attivamente parte in qualità di masquer: in scena come protagonista e valente esecutrice delle danze teatrali di corte, tra le ‘quinte’ come ispiratrice dell’allestimento, dei costumi e della drammatur- gia. Gli eventi in programma sono i più attesi dalla corte e dai visitatori stra- nieri che si contendono la possibilità di essere ammessi agli spettacoli: The Vision of the Twelve Goddesses, rappresentato nel palazzo di Hampton Court, l’8 gennaio 1604, su libretto di Daniel e con scene di Jones;25 The Masque of Blackness, messo in scena il 6 gennaio 1605 a Whitehall Palace, che sancisce la prima delle successive e numerose collaborazioni fra Jonson, autore del li- bretto, e Jones per le scene e i costumi (figg. 10-11); The Masque of Beautie, il 10 gennaio 1608 allestito a Whitehall Palace, dove i due autori, per volontà della regina, portano a termine il disegno drammaturgico e il messaggio poitico del masque precedente (fig. 12); The Masque of Queens, rappresentato il 2 febbraio 1609 sempre a Whitehall, uno degli intrattenimenti di corte più complessi ed elaborati, di cui Anna cura personalmente i dettagli dell’allestimento. Thetys Festival, portato in scena a Whitehall nel giugno del 1610, su libretto di Daniel e scenografie di Jones, offerto dalla regina per la ‘Creazione’ del primogenito a principe di Galles. Dopo la morte del principe Enrico, scomparso nel 1612 all’età di diciotto anni molto probabilmente per una febbre tifoide, Anna smette di produrre spettacoli e si ritira nelle sue residenze private con le dame più fidate. Negli anni seguenti, tuttavia, vengono ancora allestiti diversi intratteni- menti nei palazzi della sovrana, non più partecipante allo spettacolo ma piuttosto attiva in un ruolo di mediazione e di patrocinio: fra le produzioni a Greenwich House si ricorda Cupid’s Banishment (4 maggio 1617), attribuito a Robert White, interpretato dalle giovani allieve, pupille della regina, della scuola di Deptford. Il prologo dedicatorio indirizzato alla contessa di Bedford sancisce la definitiva uscita della regina dalle ‘scene’ dell’organizzazione spet- tacolare, anche a causa delle sempre più gravi condizioni di salute. (morì a 44 anni). Il castello di Elsinore Pagnini Sotto il regno della dinastia tedesca degli Oldenburg la Danimarca conosce un periodo di significativa vivacità culturale e artistica, concentrata negli anni che vanno dall’ascesa al trono di Federico II (1559) a quelli del regno del figlio Cristiano IV (dal 1588 al 1648)1; una corte luterana del Nord Europa che non fu affatto isolata ed estranea alle istanze innovatrici del rinascimento, mantenendo 11 stretti rapporti con la Francia, con l’Impero, con l’Italia e con l’Inghilterra, in un intenso scambio di rapporti diplomatici, politici e culturali. Federico II2, salito al trono di Danimarca e Norvegia alla morte del padre Cri- stiano III, persegue da subito un preciso ideale politico, indirizzato a rendere la Danimarca uno dei regni più potenti d’Europa. Al contrario del padre, che si era dovuto focalizzare sulle difficoltà interne create dai dissidenti cattolici del Rigsraad (Consiglio di Stato), Federico si concentra totalmente sulla politica estera e sull’e- spansione del territorio per la supremazia nel Baltico; il suo progetto strategico, quello del “risanamento” culturale del regno e della razionalizzazione del patrimonio architettonico civile e regale. Il definitivo stanziamento a Helsingør coincide con il grandioso progetto di riqualificazione dell’antica dimora di Krogen5, che nelle intenzioni del sovrano deve configurarsi come la reggia del Nord Europa. Affidato il progetto all’architetto fiammingo Hans Hendrik van Paesschen, che lo porta a termine nell’arco di due anni. Così modernamente riconfigurata, l’antica fortezza di Helsingør può competere con il modello delle regge rinascimentali del continente, identificandosi nella prospettiva neoplatonica dell’esternazione del potere, simbolo di un regno che vuole essere perfettamente integrato e quindi fortemente rappresentativo nell’assetto delle corti assolutistiche del tempo. Qui Federico II e la regina Sophia istituiscono una corte ispirata al modello rinascimentale delle dinastie europee, con un’attenzione particolare alla Francia e all’Italia; sono mecenati di artisti – musici, poeti, attori, pittori, scultorie si dilettano di astronomia, chimica, alchimia, letteratura, musica e poesia. Mentre il re è impegnato nella “costruzione” della potenza baltica, la regina Sophia, a differenza del consorte che intende il mecenatismo come uno strumento politico non necessariamente legato all’arricchimento individuale, si dedica con autentico interesse all’erudizione e alle arti; è attiva sostenitrice di Tycho Brahe. Contravvenendo al progetto originario che prevedeva il viaggio diretto della regina da Copenhagen a Edimburgo, dove il re l’avrebbe attesa per l’incoronazione e per celebrare le nozze nella cattedrale della città, il matrimonio religioso in pre- senza viene celebrato a Oslo il 23 novembre 1589, nel palazzo vescovile della città (Christen Mule’s House). L’inattesa variazione è conseguente alle rigide condizioni meteorologiche dell’inverno nordico; le navi danesi, salpate da Copenhagen il 5 settembre, dopo diversi inutili tentativi di attraversare il Baltico e rischiando anche un naufragio per i fortissimi venti dello stretto, cambiano rotta per raggiungere con meno pericolo le coste norvegesi ed approdare finalmente a Oslo, a più di un mese dalla partenza dalla patria. Informato del rischio corso dalla sposa che verosimilmente non potrà tentare la
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