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Saggi esame di Antropologia Museale, Dispense di Antropologia

Saggi riassunti per l'esame di antropologia museale con Davide Domenici, Anno 2023/2024

Tipologia: Dispense

2022/2023

Caricato il 01/03/2024

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Scarica Saggi esame di Antropologia Museale e più Dispense in PDF di Antropologia solo su Docsity! 1 Indice 1. Ducan 1989 – MoMa’s Hot Mamas 2. Clifford 1997 – Musei come zona di contatto 3. Shelton 2013 - Critical Museology 4. Bennett 2015 - Thinking with Museums 5. Vogel - Sempre fedeli all’oggetto 6. Harris OHanlon 2013 - The future of ethnographic museums 7. Kreps 2009 - Indigenous curation 8. Sarr e Savoy 2018 – Report 9. Gosden and Marshall 1999 - Cultural biography of objects 10. Hicks - Death Writing in the Colonial Museum 11. Thomas 2019 - The Museum as Method The MoMA 's Hot Mamas Carol Ducan Il tema di questo saggio → “immagini di potere”. Gli obiettivi di questo saggio sono delle opere d’arte conosciute, le quali non sono immagini di potere in senso letterale (non hanno un potere dominante) ma tuttavia rappresentano degli artefatti del potere. Piuttosto che mostrare direttamente la loro forza o i loro simboli, invitano lo spettatore ad una esperienza che drammatizza e conferma la superiorità sociale del maschile sull’identità femminile. Moma 1984 – collezione permanente → molte critiche → nessuna innovazione e progressione di stili nell’esposizione con alcune correnti che dominano sulle altre. Con Cezanne, primo pittore che si vede, annuncio dell’arte contemporanea. Le Demoiselles d’Avignon di Picasso indica l’avvento del cubismo, il primo grande passo fatto dall’arte del XX secolo, da cui gran parte della storia dell’arte contemporanea procede. Altri notevoli movimenti di avanguardia: l’espressionismo tedesco, il futurismo, il dadaismo, espressionisti astratti americani. Molti critici lamentano il carattere retrospettivo e formalista del museo, il quale era nato come un museo innovativo. Storia dell’arte → progressione di stile in stile, graduale allontanamento della rappresentazione oggettiva del mondo naturale. Liberandosi dalla rappresentazione tradizionale, gli artisti acquistano maggiore libertà espressiva, artistica e di spirito. Vari progressi nell’arte che si traducono in scelta morale e artistica: negazione del volume, rovesciamento degli schemi compositivi, emancipazione del colore, liberazione della pittura dalla tela e dal muro stesso. Moma → numerose opere di donne, tanti ma di varietà ridotta. Non viene rappresentata l’identità della donna, ma spesso solo la sua anatomia, il suo corpo o spesso rappresentate come donne socialmente poco accettate, prostitute, modelle.. Cosa c'entrano, se c'entrano, i nudi e le prostitute con l'eroica rinuncia dell'arte moderna alla rappresentazione? I musei, in teoria sono spazi pubblici dedicati al miglioramento spirituale di tutti coloro che li visitano. I musei, però sono prestigiosi e potenti motori di ideologia, tra cui il Moma → l’autrice si occupa dell’identità sessuale. 2 L’autrice sostiene che le immagini ricorrenti della collezione di corpi femminili sessualizzati mascolinizzano attivamente il museo come ambiente sociale, queste immagini danno l'idea di un museo che ha come ricerca il maschile, arte moderna come un fine principalmente maschile. Questa trascendenza maschile mette in gioco le paure e i sentimenti maschili → idea della donna distorta e minacciosa. Collezione delle donne del Moma trasmette questi sentimenti: vedi opere di Picasso, De Kooning ecc. Ognuna di queste opere, in modi diversi, testimonia una paura dei confronti della donna. La peculiare iconoclastia di molta arte moderna, la sua rinuncia alla rappresentazione e al mondo materiale che la sottende, sembra almeno in parte basata su un impulso, comune tra i maschi moderni, a sfuggire non alla madre in senso letterale, ma a un'immagine psichica della donna e del suo dominio terreno che sembra radicata in nozioni infantili o infantili della madre. Questo ci fa capire perché le donne hanno poco spazio all’interno dei musei → tenderebbero a sminuire la “prova rituale maschile” → la presenza femminile è necessaria solo sotto forma di immagini. Anche gli uomini sono rappresentati, ma a differenza delle donne ritratte come mostruose o sessualmente accessibili, gli uomini sono ritratti come esseri fisicamente e mentalmente attivi che modellano il loro mondo e ne riflettono i significati. - Willem de Kooning, Woman I Pablo Picasso, Les Demoiselles d’Avignon – Tra le opere artistiche più importanti nel mondo e nella collezione del Moma → sono anche il fulcro del museo mascolinizzato. Spesso le immagini di donne nell’arte moderna parlano di paure maschili. Donna De Kooning → grande mamma cattiva, volgare, sessuale e pericolosa. La posa suggestiva è solo un movimento di ginocchio lontano dalla coscia aperta che mostra la vagina, l’esposizione di sé, gesto della pornografia comune. Questi tratti non sono unici nella storia dell’arte. Essi appaiono nelle antiche tribali (etruschi, greci ecc) culture allo stesso modo che nella moderna pornografia e graffiti. Insieme costituiscono la ben nota figura tipizzata. Nella aperta mandibola noi possiamo leggere la vagina dentata→ l’idea del pericolo, la divorante vagina, troppo orribile da guardare e quindi trasposta alla bocca dentata. Sensazioni di inadeguatezza e vulnerabilità davanti la donna sono comuni, salienti fenomeni nello sviluppo della psiche maschile. Confronto De Kooning e Medusa. La donna non è solo monumentale e iconica. Con scarpe col tacco e reggiseno virgola e anche lasciva a, la sua posa indecentemente stuzzicante. De Kooning rivendica per lei una somiglianza non solo con l'arte seria, icone antiche e nudi di alta arte, ma anche con le pin up e le foto femminili del volgare presente. In quanto donna, potente e minacciosa, è lei che dev’essere affrontata e superata ma dichiarandone il suo lato femminile e sessuale, ciò la rende inoffensiva. 5 essere in atto processi reciproci di sfruttamento e appropriazione. Le zone di contatto sono costituite attraverso movimenti reciproci di persone, non solo di oggetti. Altri esempi di zone di contatto: New Guinea Sclupture Garden a Stanford, progetto universitario che vede la creazione di un giardino nel quale la popolazione della Nuova Guinea portava in scena usi e costumi della loro cultura, protagonisti come artisti e non come nativi o oggetti esotici da mettere in mostra. Sfruttamenti C’è la possibilità di sfruttamento reciproco (benigno) facendo attenzione a non cadere nello squilibro di potere causato dal lungo sfruttamento dell’Occidente verso le altre popolazioni. (sfruttamenti derivati anche dalla nostra ideologia interiorizzata di supremazia sul nuovo e “diverso”). Fulcro sui viaggiatori → il viaggio spesso non era volontario o se lo era c’erano delle ragioni tra cui necessità, timore, desiderio di avventura, bisogno economico ma venivano trattati come esemplari esotici passivi e vittime. Spesso questi viaggiatori in mostre itineranti e spettacoli venivano fortemente fruttati e degradati, mentre Curtis nel suo film del 1975 riesce a dare dignità a questi uomini e al col tempo riportare la loro storia passata senza cadere nello sfruttamento e nel denigramento della persona. Occorre confrontare le possibilità storiche di relazioni di contatto, negative e positive. La prima manifestazione di Africa 95 fu Teng/articulations, un laboratorio artistico del Senegal. Seguì un laboratorio internazionale di scultura nello Yorkshire. Clèmentine Delìss, direttrice artistica di Africa 95, mise l'accento sul fatto che il progetto era stato concepito come un sito non meramente dì esposizioni, ma anche d'incontri tra artisti, un'occasione per sviluppare ì contatti in corso. L'Europa godeva ancora del potere di raccogliere ed esibire l'Africa alle proprie condizioni e sul proprio terreno. Lavorando all'esterno e all'interno di musei e gallerie, Africa 95 aveva qualcosa in comune con l'attuale proliferazione di Festival nazionali (Festival del1'India, dell’Indonesia ecc.), durante ì quali le regioni del Terzo Mondo espongono la loro arte in luoghi del Primo mondo allo scopo di aumentare la legittimità globale e di attrarre investitori. Contestazioni Zone di contatto → comprendono anche relazioni culturali nello stesso Stato, ragione o città. Distanze sociali e non geografiche. La nozione di una zona di contatto, formulata da Pratt in contesti di espansione e transculturazione europea, può essere estesa fino a comprendere relazioni culturali nell'ambito dello stesso Stato. Per la maggior parte degli abitanti dì un quartiere povero, situati magari a qualche isolato di distanza soltanto o separati solo da un breve tragitto in autobus da un museo di belle arti, il museo potrebbe anche essere su un altro continente. Abbiamo visto come possono apparire diverse le pratiche museali di raccolta ed esposizione in una prospettiva di contatto. I centri diventano frontiere attraversate da oggetti e produttori. Tali attraversamenti non sono mai «liberi». Gli esempi da me scelti finora suggeriscono i modi in cui questi confini possono essere democraticamente negoziati, una scelta che riflette il tono riformistico della mia analisi. L’esposizione The spirit Sings: Artistic Tradizions of Canada’s First Peoples organizzata dal Glenbow Museum di Calgary radunò numerosi manufatti provenienti da collezioni canadesi ed estere con l’obiettivo di presentare un’immagine particolareggiata delle culture native canadesi. La 6 mostra esplorava poi la distinta visione del mondo condivisa da queste culture e la loro resistenza davanti a influenze e domini. Per molti, compresi alcuni gruppi dì nativi canadesi, l'esposizione fu un successo, benché venisse per la sua relativa mancanza di attenzione nei confronti di manifestazioni contemporanee dei suoi temi di fondo. Ma non fu in primo luogo il contenuto di «The Spirit Sings» a provocare un boicottaggio sostenuto largamente. Per un numero crescente di sostenitori dei lubìcon, nativi e non nativi, era ipocrita da parte di «The Spirit Sings» celebrare la bellezza e continuità di culture la cui attuale sopravvivenza era minacciata dallo sponsor stesso de1l'esposizione. I sostenitori dell'esposizione sottolinearono il fatto che nessun museo, di qualsiasi dimensione, può sopravvivere senza la sponsorizza- zione di grandi aziende o del governo, le cui mani non sono mai perfettamente pulite. Il museo veniva preso di mira scorrettamente, trascinato senza preavviso nella lotta dei lubicon. «Into the Heart of Africa», al Royal Ontario Museum, fu in parte ispirata da recenti scritti critici sulla storia del collezionismo e dell'esposizione museale. Studiando il museo come un manufatto, leggendo le raccolte come testi culturali e scoprendo il ciclo vitale degli oggetti, la mostra cercava di comprendere in parte la complessità degli incontri transculturali. L’approccio dell’esposizione era riflessivo, facendo accostamenti e ironia. Le affermazioni di missionari e autorità imperiali erano presentate senza commento accanto ai manufatti africani. La gente recepì messaggi piuttosto diversi dalla presentazione. Mentre alcuni visitatori trovavano la mostra stimolante, anche se alquanto confusa nella sua presentazione, altri erano offesi da quella che scambiavano per una sospensione di giudizio che sfiorava l’indifferenza. Molti visitarono il museo restarono sconvolti dalle immagini colonialistiche esaltate e dalle affermazioni condiscendenti riguardo agli africani, presentate con ostentazione e in apparenza acriticamente. Non rimasero sedotti da un trattamento ironico della distruzione e appropria- zione violenta delle culture africane. Il museo e il curatore ospite, l'antropologa Jeanne Cannizzo, avevano valutato erroneamente i diversi tipi di pubblico dell'esposizione. I critici dell'esposizione furono liquidati come gretti ideologi e censori, incapaci di afferrare l'ironia o un complesso resoconto storico. La controversia si è poi allargata a macchia d'olio attraverso i contesti museali e, come confessa Enid Schildkraut, in una critica acuta: «Fece tremare molti di noi, che lavoravamo nel campo delle esposizioni etnografiche e in particolare africane, per l'impressione di “Là ci vado solo per grazia di Dio”. Come poteva una mostra aver sbagliato tanto? Come poteva aver offeso così tante persone di diverse parti dello spettro politico?» Il museo divenne un'inevitabile zona di contatto (conflitto). Tipi distinti di pubblico portarono in «Into the Heart of Africa» esperienze storiche diversamente sintonizzate. Su questo punto M. Nourbese Philip esprime un giudizio molto tagliente, e critica il museo per aver perso nella controversia un'occasione di affrontare i suoi obiettivi pubblicamente affermati: comprendere il «museo come manufatto» e le «complessità degli incontri transculturali». L'esposizione non si mostrava chiaramente sensibile nei confronti della partecipazione degli afro-canadesi alla storia dei canadesi bianchi e dell'impresa coloniale africana. Il museo apprese, nel modo più difficile, quali sono i rischi (e Philip insiste: le opportunità) del lavorare in relazione a una diaspora africana all'interno di una sfera pubblica canadese divisa. La mostra era un «testo culturale» che non poteva essere letto da una collocazione stabile. Secondo una lettura, questi manufatti erano come congelati nel tempo e raccontavano una storia sull’esplorazione dell’Africa da parte dei canadesi bianchi; un'altra storia inseriva attivamente nel 7 testo il lettore — il lettore afro-canadese —, che leggeva poi questi manufatti come i dolorosi frammenti di un'esp1orazione selvaggia e di un tentato genocidio del proprio popolo» «The Spirit Sings» e «Into the Heart of Africa» — che fondamentalmente sono in gioco strutture di potere. Finché i musei non andranno al di là della consultazione (che spesso avviene dopo che la visione del curatore si è saldamente fissata), finché non includeranno una più vasta gamma di esperienze storiche e priorità politiche nell'attuale programmazione delle esposizioni e nel controllo delle collezioni museali, essi saranno percepiti come puramente paternalistici da persone per cui il contatto nei musei è stata una storia di esclusione. Dal momento che le comunità e le collezioni sono raramente unificate e omogenee, ai musei potrebbe toccare di doversi rivolgere a tipi nettamente diversi di pubblico. La soluzione è inevitabilmente contingente e politica. I musei si adattano regolarmente ai gusti di un pubblico presunto e i donatori esercitano una sorta di censura su tipi di esposizione che un museo può allestire. Ai musei non piace offendere il proprio pubblico, tantomeno le fonti del proprio sostengo economico e materiale. In Canada e Usa ci sono forti limiti politici sulle modalità di esposizione e interpretazione dell’arte nativa americana, latino-americana e afroamericana. Perciò il lavoro di contatto in un museo va al di la della consultazione e della sensibilità (comunque importanti) diventa collaborazione attiva e condivisione di autorità. Una delle aree di negoziazione più difficile relativamente agli oggetti tribali e alle storie coloniali riguarda il rimpatrio. In una prospettiva di contatto, lo spostamento di oggetti dai luoghi tribali ai musei metropolitani sarebbe un atteso esito di dominio coloniale. Nelle zone di contatto, le appropriazioni culturali sono sempre politiche e contestabili, attraversate da altre appropriazioni, effettive o potenziali. Spesso le appropriazioni avevano come obiettivo il salvataggio dei manufatti destinati a scomparire nei luoghi d’origine. Ma ora è più difficile vedere il destino di collezioni come una teleologia lineare di questo tipo. Postulando la scomparsa dei mondi tribali, la raccolta di salvataggio presumeva (ed entro certi limiti provocava) la rarità dell'arte tribale «autentica». Alcune comunità tribali scomparvero sul serio, spesso in modo violento. Altre resistettero, contro terribili pressioni. A volte questo significò adottare dei camuffamenti, per uscire dal nascondiglio quando la situazione fosse diventata meno repressiva. Il rimpatrio di opere tribali non è la sola risposta adeguata alle sto- rie di contatto, relazioni che non sempre possono essere ridotte all'oppressione e all'appropriazione coloniali. Ma è una strada possibile e giusta. Nel mondo dei musei Il mio resoconto dei musei come zone di contatto è allo stesso tempo descrittivo e normativo. Ho dimostrato che è inadeguato rappresentare ì musei come collezioni di cultura universale, come depositi di valore incontestato, come siti di progresso, scoperta e accumulazione di patrimoni umani, scientifici o nazionali. Una prospettiva di contatto vede tutte le strategie di raccolta della cultura come risposte a particolari storie di dominio, gerarchia, resistenza e mobilitazione. Il mio resoconto parla a favore di una politica democratica che sfidi un modo gerarchico di valutare ambiti diversi dì attraversamento. Parla a favore del decentramento e della circolazione di collezioni in una sfera pubblica multipla, di un'espansione della gamma di cose che possono accadere in musei e in ambientazioni simili. Esso vede come necessaria l'inclusione dì una gamma più varia di arti, culture e tradizioni in grandi istituzioni consolidate, ma non come l'unico o il principale punto 10 F. Gonzalez → il passato è irrecuperabile e può essere colto solo attraverso le sue relazioni con un presente socialmente costruito, mediato in modo differenziato attraverso relazioni di potere diseguali. 2. La figura del collezionista è stata a lungo privilegiata per dare continuità storica alla museologia operativa e conferirle una legittimità oggettiva. Collezionismo →caratterizza ogni società/ogni periodo della storia dello sviluppo umano, è stato naturalizzato fino a diventare una predisposizione psicologica fondamentale comune a tutta l'umanità. La legittimazione del materialismo umano, dell’acquisto e della competitività è, nella museologia operativa, garantita da presunte leggi trascendentali che esistono e governano il comportamento, i musei legittimano le proprie "storie" e attività facendo riferimento a criteri trascendentali. Susan Stewart e Susan Pearce hanno distinto tre modalità di collezionismo: ⎯ feticistico: collezioni accumulate attraverso una fissazione patologica che sostituisce gli oggetti all'impulso sessuale “normativo”. ⎯ di ricordo: l'individuo condensa l'esperienza personale di un tempo e di uno spazio in un oggetto che contiene i suoi ricordi soggettivi. Collezioni incentrate sull’ego. ⎯ sistematico: sfugge all’ego, la raccolta sistematica è incentrata sul rispetto delle regole di una scienza tassonomica oggettiva trascendentale. L'accumulazione è regolata dall'attenzione a classi di oggetti specifici, sistematicamente definiti, che condividono un'affinità comune → solo il collezionismo sistematico è considerato "scientifico" e quindi utile per la ricerca e l'esposizione museale. Concentrando il collezionismo sull'acquisizione di classi di oggetti sistematicamente costituite, i musei si confermano come istituzioni scientifiche. Il collezionismo non rientra in tipologie così nette: spesso si attinge e combinano insieme tutti e tre i criteri che lei e Stewart avevano precedentemente definito. Fruttuoso è l'approccio fenomenologico che vede gli oggetti come inseparabili dal soggetto che li percepisce. Gli oggetti ci seducono e ci affascinano senza mai trasmetterci la loro identità intrinseca: l'unico significato che possiamo conoscere è quello che noi stessi investiamo in essi. Gli oggetti sono vissuti come vicini e confortanti, ma tuttavia, esistenzialmente, sono sempre lontani ed estranei. 3. La museologia operativa ha costruito l'autorità istituzionale del museo sull'accettazione acritica di metodologie empiriche ancorate a teorie dell'oggettività. L'istituzione della curatela è uno dei garanti essenziali di questa stessa autorità. Le musée cannibale: I museologi utilizzano gli oggetti museali che hanno lo scopo di portare alla luce i contrasti e le somiglianze esistenti tra i mondi di qui e di là. Per fare questo, hanno più o meno concordato una retorica che rimane poco analizzata e messa in pratica senza metodo o sistema, in cui mescolano giustapposizione, estetizzazione, sacralizzazione, mimesi e ibridazione, relazioni logiche e associazioni poetiche, esponendo i loro oggetti o semplicemente in vetrine o in modi tridimensionali complessi. Diaz Balerdi ribadisce l'inestinguibile fame dei musei di accrescere le proprie collezioni e di trasformare gli oggetti in mostre, pubblicazioni e programmi, nascondendoli allo stesso 11 tempo in magazzini e depositi per garantire che il loro volto pubblico appaia almeno esile, snello e fresco. Gli oggetti, nel contesto degli allestimenti museali, non agiscono solo come significanti ma anche come significati. Sono rappresentati come se contenessero al loro interno sia la forma (evidenza ottica) sia il significato (autorità), che il curatore aveva tradizionalmente la responsabilità di dispiegare e rendere esplicito al grande pubblico. Che cos'è "autentico"? occorre chiederselo, in un mondo in cui la tecnologia ha la capacità di intervenire per preservare, conservare, restaurare, riparare e invertire l'effetto del decadimento. Se gli oggetti e i significati non sono tenuti insieme da alcuna relazione vincolante "naturalizzata" - se non quella arbitrariamente attribuita loro - non solo il significato di un oggetto può cambiare e differire in fasi specifiche della sua "storia di vita", ma la natura del simulacro attraverso il quale diventa imminente potrebbe essa stessa cambiare. 4. Significanti stessi non hanno una "valenza" comune nella loro relazione con i significati.ù Baudrillard → 4 effetti di realtà o simulacri (immagine puramente esteriore, che non trova corrispondenza nella realtà) che sono il risultato delle relazioni tra significanti e significati. La museologia operativa si sviluppa all'interno di un campo la cui realtà è costantemente manipolata, dove la politica è inseparabilmente coinvolta nella sua "verità". I musei, tuttavia, per quanto profondamente offuscati, sono fondamentalmente più eterotopici delle società in cui operano e sono quindi potenzialmente dirompenti nei loro confronti. Interdizioni metodologiche 1.Nozione di Agency, fondamentale per la museologia operativa ma spesso ignorata. Si può intendere la capacità “attiva” degli oggetti di entrare ed influenzare la storia grazie alla loro peculiarità o per l’influenza diretta. La museologia critica → deve interrogarsi sulle relazioni che si celano, esaminando le varie agency manifestate da determinate culture e gruppi si intersecano o si scontrano. L’agency del museo stesso suscita resistenze, opposizioni, movimenti opposti e persino reazioni violente volte alla sua distruzione. (vedi Napoleone, Hitler, Stalin). Bisognerebbe indirizzare l’agency museale verso progetti di riconciliazione e guarigione culturale, come musei dell’Olocausto, ecc. 2.Musei → collaborazioni interculturali, la cui utilità è perfettamente riconosciuta dalla museologia operativa. La museologia critica può fondare la propria efficacia nella democratizzazione e nella decolonizzazione dei musei, fenomeni qui considerati più come un processo che come un fatto compiuto. Museologia → campo intellettuale: "un universo sociale separato che ha le proprie leggi di funzionamento indipendenti da quelle della politica e dell'economia". È allo stesso tempo condizionato e condizionante e comprende i meccanismi che regolano le relazioni di potere che ne derivano e definiscono i limiti della lotta tra le diverse posizioni dei soggetti al suo interno. Le pratiche museologiche devono essere comprese in relazione al campo in cui si svolgono → è una condizione necessaria per stabilire una teoria della pratica, dalla quale possa emergere una pratica della teoria. Solo teorizzando le pratiche museali diventiamo consapevoli dei presupposti che applichiamo al nostro lavoro quotidiano e solo attraverso una rigorosa decostruzione e riflessività di 12 tale lavoro possiamo sviluppare nuove intuizioni e innovazioni necessarie per garantire lo sviluppo futuro dei musei. 3.La distinzione tra museologia e museografia è incompatibile con i metodi della museologia critica. La distinzione tra museologia come studio dei musei e museografia come configurazione di conoscenze scientifiche, tecniche e gestionali elude le relazioni essenziali e dipendenti tra i due sistemi di conoscenze e ne oscura i punti di articolazione, le relazioni di dipendenza, le origini epistemologiche comuni e le funzioni politiche. Distinguendo tra sapere applicato e sapere intellettuale, oscuriamo le loro strette relazioni e il modo in cui sono mediate attraverso le relazioni sociali. Ciò non fa che rafforzare la loro apparenza di campi chiusi, sistematici e coerenti, privi di operazioni sociali e culturali. Conservazione → mediata e applicata in base a valori sociali ed etici fondamentali del museo Gestione → basa su valori culturali e modelli socio-strutturali che regolano la distribuzione delle risorse per raggiungere determinate funzioni 4.I musei e la museologia vanno compresi non come singoli ma in relazione con altri musei e gallerie. Estevez Gonzalez → "McDonald'sizzazione" dei musei, parte dell'industria turistica e della "New Economy", l'omogeneizzazione dei musei sotto la direzione di una museologia operativa egemonica. 5.Un elemento cruciale della museologia critica è l'idea che, definendo un aspetto della società o della cultura in cui un corpo sociale è inserito, implicitamente definiamo o riproduciamo l'aspetto opposto. Le mostre raramente menzionano il commercio, lo scambio, la raccolta o il saccheggio all'origine delle collezioni, e la ragione di ciò è, in parte, che la musealizzazione dell'arte e della cultura materiale avviene in modo diverso in Europa e in America rispetto al resto del mondo, come se non ci fosse stato alcun contatto storico tra questi mondi. Nel 1996, il governo Chirac annunciò che avrebbe spostato le collezioni etnografiche del Musée de l'Homme e le avrebbe raggruppate con quelle del Musée national des arts d'Afrique et d'Océanie (MNAAO) al fine di creare il Musée du quai Branly → separando le collezioni europee dalle altre, la Francia ha rafforzato l'annosa e ampiamente criticata divisione binaria stabilita tra l'Europa e l"altrove". Tuttavia, nelle mostre permanenti sul Quai Branly, non è stato possibile evitare la riduzione delle culture extraeuropee ad attributi essenziali. Tagliate fuori dalla storia, le collezioni sono ridotte alla loro essenza all'interno di un sistema di definizione delle differenze generato dall'Occidente che ignora i processi, le trasformazioni e le relazioni interculturali che hanno permesso di creare legami tra l'Europa e il resto del mondo. L'Occidente si è così autoescluso. 6.Istituzioni museali → la museologia operativa dovrebbe alimentare l’autocritica e la riflessività, una riflessività costante in relazione alle pratiche museali e alle loro più ampie componenti. Né possiamo ignorare il fatto che la museologia critica si è sviluppata all'ombra del discorso dominante della "nuova economia" → deve quindi mantenere un certo scetticismo nei confronti di sé stessa e del suo campo di applicazione. Sebbene non fornisca ai musei strumenti operativi o una nuova visione strategica, il suo ruolo è quello di incoraggiare le istituzioni a muoversi verso pratiche più sperimentali, a dare priorità all'apertura e alla trasparenza e a sostenere l'impegno critico della comunità. 15 Questa prospettiva ha molto arricchito la nostra conoscenza dei processi e delle reti attraverso cui vengono assemblate le collezioni museali, è stata messa a fuoco la natura consequenziale di varie forme di azione che sfuggiva all’attenzione della nuova museologia (anni ‘70 e ‘80) Sam Alberti mette in evidenza l’importanza dei diversi modi in cui i musei acquisiscono collezioni (tramite donazione, acquisto, ricerca sul campo, trasferimento o prestito). Il lavoro correlato sulle “biografie degli oggetti” che tracciano i complessi percorsi attraverso i quali gli oggetti raggiungono infine i musei, spesso attraverso una serie estesa di fasi intermedie, ha dimostrato in modo simile come le collezioni dei musei sono state modellate dall'azione di attori spesso piuttosto distanti. Ciò ha avuto conseguenze significativamente nel rivedere la nostra comprensione di come i popoli indigeni hanno modellato le collezioni dei musei coloniali nel decidere cosa avrebbero dato e cosa avrebbero rifiutato dagli scambi attraverso la frontiera coloniale. Museo come punto di intersezione tra una serie di reti e relazioni. Problema dei musei e delle collezioni coloniali, influenza sulle popolazioni indigene di queste collezioni. Musei come assemblaggi governativi. Gli elementi costitutivi dei concatenamenti sono legati tra loro non da un lignaggio di discendenza comune, o da una qualche connessione intrinseca con gli altri elementi con cui sono co-assemblati, ma esclusivamente attraverso i meccanismi contingenti di connessione che caratterizzano momenti particolari in quelli che sono processi in costante dispiegamento di smontaggio e rimontaggio. Sebbene tali assemblaggi possano avere durate variabili – e spesso estese –, gli assemblaggi sono costitutivamente instabili. Il concetto di complesso espositivo fa proprie queste considerazioni, interpretando i musei come luoghi in cui testi, cose, tecnologie e corpi vengono messi insieme in complesse relazioni tra loro, e rendendo conto del funzionamento dello spazio evolutivo di rappresentazione prodotto da discipline espositive in termini performativi come un insieme integrato di effetti corporei, mentali e visivi. Si tratta, però, di una performatività concepita esclusivamente in relazione alle pratiche espositive del museo. Le formulazioni della teoria dell'assemblaggio hanno il vantaggio di consentire una maggiore duttilità delle relazioni tra testi, cose, tecnologie e corpi che i musei orchestrano. I musei devono essere considerati nei termini delle loro relazioni con entrambi i tipi di assemblaggi governativi, e non tanto come apparati di conoscenza/potere autonomi quanto come punti di commutazione nei circuiti attraverso i quali le conoscenze vengono prodotte e diffuse attraverso reti diverse. In quanto tali, svolgono un ruolo nella distribuzione della libertà attraverso la quale sono organizzate le forme di governo liberali, accordando una capacità di forme di autogoverno libere e riflessive ad alcuni settori delle popolazioni con cui si collegano e allo stesso tempo negando tali forme. La storia delle relazioni tra musei e pratiche coloniali fornisce esempi significativi, poiché polarizzati, dei modi complessi in cui i musei hanno operato come punti di scambio nei flussi tra diverse reti per la produzione e circolazione di conoscenza. Susan Vogel Sempre fedeli all’oggetto, a modo nostro 16 Susan Vogel: curatrice di mostre d’arte africana. Ci parla con la sua pratica e non solo con fatti teorici. Oggetti esposti nei musei → non sono stati creati per essere nel museo. Contesto e funzioni diverse, intenzioni dei produttori diverse. Lavoro museale = mediatore Mostra d’arte = collaborazione non intenzionale tra curatore e artista, ruolo artista più attivo e determinante e spesso il nome del curatore non viene neanche citato nella mostra (solo nel catalogo) oscurandone l’importanza. Secondo Vogel i musei dovrebbero chiarire al pubblico quale parte di una mostra deriva dall’artista e quale sia il frutto dell’interpretazione del curatore. L’unica arte creata per essere esposta nel museo è l’arte recente, quella Occidentale dal XVIII in poi. Siamo noi ad aver dato a degli oggetti caratteri artistici con lo scopo di essere contemplati. Pale d’altare, tombe egiziane, arte africane vengono tolte dal loro contesto originale e inserite all’interno del museo, spesso senza una giusta contestualizzazione o senza porsi delle semplici domande: Questi oggetti possono essere visti e considerati come opere d’arte? Sono stati prodotti da persone che pensavano al loro ruolo come quello di artista? Arte africana → recente all’intero dei musei. Il pubblico sa che questi oggetti non sono stati creati per essere visti e mostrati nelle sale del museo. La civiltà Occidentale si è appropriata dell’arte africana e le ha attribuito significati occidentali. Abbiamo idea del significato che questi oggetti avevano in origine? Cosa sono, arte, artigianato, oggetti sacri? Il pubblico occidentale sa di essere ignorante nei confronti dei contesti originali di questi oggetti, il contesto culturale di gran parte dell’arte è difficilmente afferrabile dal pubblico attuale dei musei. L’aura di fede e reverenza con cui tale arte veniva guardata dal pubblico cui si rivolgeva in origine è andata irrimediabilmente persa. Siamo troppo lontani dalle voci dei proprietari e dei produttori originari, troppo chiusi negli schemi della nostra cultura per poter pensare di essere fedeli all’oggetto e se siamo fedeli, possiamo esserlo solo nei modi proprio del nostro tempo. Center for African Arts di NY → mostre recenti che hanno tentato di essere fedeli in modi diversi: ⎯ tutte hanno rinunciato ad avere un atteggiamento autoritario ⎯ strategie per affrontare la drastica ricontestualizzatine dell’arte africana nei musei occidentali ∟ The Art of Collecting African Art: problema selezione oggetti da esporre. → oggetti ritenuti migliori da curatore (vogel), ma anche le opere che erano state scartate in quanto mediocri alterate, restaurate o decisamente false. La mostra invitava l’osservatore a guardare attentamente e formarsi una sua opinione personale prima di leggere il cartellino che riportava l’opinione dela curatrice. Le didascalie erano personali, decise e informali. La mostra tendeva incoraggiare uno sguardo attento e non mirava a trasmettere competenze. ∟ Perspectives: Angles of African Art: allestita in vari musei, Center for African Arts di Ny, Virginia Museum of Fine Arts di Richmond, al San Diego Museum of Art tra il 1987-88. La mostra considerava i modi in cui noi occidentali proiettiamo i nostri bisogni e le nostre fantasie sull’Africa, mettendo in questione gli americani più che gli africani. Tema principale il pubblico. 17 La mostra esplorava ciò che l’arte africana ha via via significato, invitando dieci persone, che rappresentavano punti di vista disparati, a scegliere gli oggetti da esporre e chiarire i motivi delle loro scelte. 10 → erano curatori americani e africani legati all’arte africana, solo due specializzati sull’argomento. Le didascalie con commenti dei dieci erano personali e varie e anche le interpretazioni lo erano, chi considerava questa arte come patrimonio nazionale, come espressione di credenze religiose e politiche tutt’oggi vive. Curatori → interessati al rapporto tra valutazione-comprensione, forma-significato, senso artistico-senso scientifico Ivan Karp→ Possiamo effettivamente parlare di criteri estetici universali? O possiamo apprezzare qualcosa solo dal punto di vista per le quali l’oggetto è stato fatto? L’estetica ha confini culturali precisi Come possiamo capire o valutare correttamente l’arte proveniente da una civiltà che non conosciamo a fondo? Anche gli atteggiamenti, gli strumenti utilizzati dai curatori per capire questa arte sono stati diversi: arte per istituzione, descrizione degli oggetti nel modo in cui il curatore è stato educato a vederli, Bearden considera che spesso l’informazione è un ostacolo per la percezione, esperienza diretta ecc… Si sottolinea la dicotomia occidentale tra forma e contenuto: ora la forma è contenuto. Viene affermato che la scelta non è tra una ricostruzione contestuale totale (obiettivo utopico) e una pura risposta estetica. Noi non rispondiamo agli oggetti d’arte con un insieme di risposte ben delimitabili in quanto estetiche ma con la nostra intera umanità. Il punto di vista di un archeologo nigeriano poneva l’enfasi sulla importanza della comprensione ottenuta attraverso lo studio (erudizione) e una risposta emotiva estetica, attraverso il toccare, il manipolare e il guardare oggetti= ci si lega emotivamente. In Perspctives i curatori non rinunciano completamente al loro ruolo di fornitori di informazione. Preparano un foglio illustrativo che contiene info sull’uso e sul significato che gli oggetti avevano per i primi proprietari in Africa. Una voce autoritaria può limitare il visitatore, ma non si può lasciare il visitatore abbandonato ad associazioni libere e cieche di fronte agli oggetti. Perspctives non era una mostra sull’arte africana ma sui diversi approcci all’arte africana. ∟ Art/Artifact: anche questa mostra considerava i modi in cui noi occidentali proiettiamo i nostri bisogni e le nostre fantasie sull’Africa, mettendo in questione gli americani più che gli africani. Tema principale qui era il museo. Allestita tra 1988-1990, vari musei d’arte ma anche scientifici. La mostra aveva come oggetto la percezione e l’esperienza museali, si concentrava sui modi in cui gli occidentali hanno classificato ed esposto gli oggetti africani. La mostra aveva come obiettivo far vedere come guardiamo gli oggetti africani e come i loro significati/visione è stata condizionata dal nostro retaggio culturale. Partendo dal presupposto che la collocazione e l'ambientazione fisica di un oggetto contribuisce a fare di esso un'opera d'arte, l'allestimento mostrava oggetti d'arte e oggetti non artistici in modo da suscitare il problema nella mente dello spettatore. 20 Appadurai, Vita sociale delle cose 1986 → oggetti hanno la capacità di trasmettere un significato controllabile → questa teoria ora abbandonata a favore di schemi concettuali che ne sottolineano la mobilità e la malleabilità. Che cos’è un museo etnografico? Sono diversi gli elementi che inquadrano un museo etnografico e lo presentano al suo pubblico, dalla segnaletica all'ingresso allo stile architettonico dell'edificio. Cambiamenti dovuti a: studi postcoloniali e femminismo Abbandonati i termini museo dell’umanità o dell’uomo. Recentemente, mentre i termini "etnografico" sono stati mantenuti da alcuni musei in Europa, altri hanno scelto di chiamarsi musei della cultura mondiale: questi musei hanno una copertura globale in termini di collezioni e che cercano di parlare a un pubblico globale? Oppure il termine "cultura mondiale" indica un modello più egualitario che permette di accogliere tutte le "culture" all'interno del museo? Alcuni dei musei più importanti d'Europa e del Nord America, tra cui il British Museum, il Louvre e il Metropolitan Museum di New York, nella loro "Dichiarazione sull'importanza e il valore dei musei universali" del 2002, hanno sostenuto che la conservazione di "materiale proveniente da altri Paesi è di utilità "universale" piuttosto che esclusivamente nazionale". Data la storia travagliata delle acquisizioni nei musei etnografici nel periodo coloniale, il concetto di "cultura mondiale" potrebbe sembrare un tentativo simile di rebranding. Dove sono i musei etnografici? Trasformazioni nel vocabolario ma anche fisiche. In tutta Europa i musei "etnografici" sono stati abbandonati o aboliti, reinventati e riprogettati. British Museum → non ha più una sede separata per le sue collezioni etnografiche. Vienna e Leida → salvato l’edifico originale, interni cambiati e stili espositivi nuovi. Pitt Rivers Museum → mutamento, alla sua storica "corte" è stato aggiunto un nuovo annesso ed è stata creata un'area d'ingresso migliorata per consentire un accesso più agevole ai visitatori. Parigi → 2006 le collezioni dell'ex Musée de l'Homme e del Musée National des Arts d'Afrique et d'Océanie sono state riunite nel nuovissimo Musée du Quai Branly. Ciò pone un'altra questione per il futuro dei musei etnografici: come si definiranno e si ritaglieranno un'identità distinta di fronte alla concorrenza di altri tipi di istituzioni espositive come le gallerie d'arte, i musei storico-artistici, i siti del patrimonio e le fiere e biennali del mondo dell'arte? I manufatti etnografici possono essere facilmente interpretati come "arte" secondo criteri determinati da persone che non sono né i loro creatori né gli antropologi → ma anche musei etnografici hanno bisogno di finanziamenti → c’è il rischio di accentuare "alterità" che l'antropologia accademica ha ripetutamente cercato di disinnescare, un ritorno alle Expo in cui l’etnografia era vista solo per la sua connotazione esotica. Che cosa c’è in un museo etnografico? Negli ultimi anni alcuni musei etnografici europei hanno scelto di rimuovere gran parte del materiale storico dall'esposizione, preferendo oggetti di nuova acquisizione e mostre incentrate su temi di temporanea attualità sociopolitica → Museo delle culture del mondo di Göteborg, in 21 Svezia. Il museo ha sgomberato le vecchie gallerie e si è imbarcato in una serie di mostre che affrontano temi di attualità, come nel caso della mostra del 2004 AIDS nell'era della globalizzazione. Altri musei hanno tenuto la loro collezione facendo maggiori ricerche sulla storia delle collezione e delle relazioni che l’hanno create → Pitt Rivers Museum il progetto Relational Museum: insieme delle relazioni che hanno contribuito alla creazione della collezione del museo nel XIX e all'inizio del XX secolo. Questi approcci hanno permesso di riconsiderare le collezioni dei musei etnografici come risorse importanti per l'interrogazione del colonialismo e/o per il coinvolgimento delle popolazioni indigene e di altri pubblici. Per molti musei etnografici il principale punto di discussione non è stato quello di quali oggetti dovessero acquisire, ma piuttosto di cosa dovessero o non dovessero conservare. → Indigeni e attivisti sulla restituzione → Ciò ha portato ad alcuni casi di rimpatrio riusciti (e ad altri non riusciti), alla stesura di nuove politiche museali e a una legislazione che sostiene gli interessi dei proprietari originari o delle "comunità di origine" da cui provengono molti degli oggetti presenti nei musei. Bisogna ripensare il museo come una "zona di contatto" (Clifford 1997), uno spazio in cui si riconoscono le storie passate e le disparità di potere e si negozia una nuova relazione morale → facilitando l'interazione tra i rappresentanti delle comunità d'origine e coloro che lavorano nei musei, creando un accesso più facile alle collezioni e consultando in modo più sensibile le storie e il potere continuo degli oggetti museali, i musei etnografici sono stati sostanzialmente migliorati. Molte delle collezioni oggi conservate nei musei etnografici europei sono state accumulate durante il periodo coloniale, l'eredità di quel periodo ne plasmi la forma attuale → la maggior parte preferisce ancora esporre gli oggetti delle loro collezioni storiche come rappresentativi di altre "culture", ma con narrazioni più "moderne" ad essi collegate. Di solito questo viene fatto senza fare riferimento alle storie travagliate della loro acquisizione. Chi va al museo etnografico? Museo ha un pubblico (reale e virtuale). ⎯ Visitatori del posto e non ⎯ Origini diverse ⎯ Visitatori con finalità diverse (turismo, ricerca, membri di “comunità di origine”, studenti) Collezioni etnografiche devono soddisfare le esigenze di un pubblico vario ed eterogeneo, ma anche le esigenze dei finanziatori → i quali possono influenzare il modo in cui il museo deve porsi al pubblico, la sua finalità: esempio, avere una narrazione nazionale e dunque politicamente esposto. Alcuni teorici museali e antropologi hanno recentemente sostenuto che i musei possono essere istituzioni terapeutiche e luoghi in cui le comunità precedentemente escluse possono ottenere un riconoscimento attraverso la rappresentazione. I contenuti esistenti di questi musei saranno sufficienti per raccontare il tipo di storie che le comunità contemporanee vogliono raccontare e ascoltare, o i musei etnografici dovrebbero riorientarsi per affrontare eventi traumatici della storia europea (come l'Olocausto) o la commemorazione di sviluppi più positivi come l'abolizione della schiavitù? 22 Tecnologie→ possono essere alleati dei musei etnografici. Spesso visitatori virtuali sono maggiori di quelli reali, mezzo per diffondere la conoscenza delle loro collezioni a livello globale e migliorarne l'accesso in un'ottica di democratizzazione. Alcuni azzardano che queste attività come un tipo di rimpatrio 'virtuale'. Chi ha bisogno del museo etnografico? Sebbene in futuro il digitale possa aumentare in modo sostanziale l'accesso ai musei etnografici, non c'è dubbio che i visitatori reali continuino ad apprezzare l'esperienza somatica dell'incontro con gli oggetti di persona. o la complessità materiale, la creatività tecnologica, l'attrattiva visiva e l'assoluta mancanza di familiarità con i contenuti dei musei etnografici a costituire una forte attrattiva per milioni di persone. I musei etnografici possono essere luoghi di scoperta e di sogno, di memoria e di incontro: luoghi in cui la libertà di stupirsi della varietà e dell'ingegno delle cose fatte dall'uomo non è ancora morta. Curatela indigena, musei e patrimonio culturale immateriale Cristina Kreps Fino a 15 - 20 anni fa nessun curatore di musei americani avrebbe mai messo in dubbio il proprio diritto di operare su manufatti indigeni. Ad oggi invece, da quando i musei hanno iniziato a sforzarsi di rispondere ai bisogni di queste etnie minoritarie, inizia ad esserci molta più attenzione: diventano più inclusivi e sensibili rispetto ai diritti delle persone e danno voce alle loro culture per come sono rappresentate. La collaborazione tra musei e comunità di origine e la co-curazione di collezioni e mostre, è diventata molto comune in molti musei. Queste collaborazioni hanno anche rivelato quante comunità indigene hanno proprie tradizioni curatoriali o modalità di percezione e valorizzazione, gestione, interpretazione e preservazione del proprio patrimonio culturale. Nonostante ci sia un riconoscimento degli approcci indigeni o non occidentali, la teoria e la pratica museologica di orientamento occidentale continua a dominare il mondo museale. Bisogna però ricordare che le tradizioni curatoriali indigene e gli approcci alla conservazione del patrimonio sono espressioni culturali uniche, e in quanto tali, dovrebbero essere riconosciute come parte del patrimonio culturale di un popolo, oltre ad essere anche un aiuto di formulazione di nuovi paradigmi museologici. La crescente consapevolezza della curatela indigena coincide con una maggiore discussione su ciò che riguarda il patrimonio culturale immateriale (ICH) nei musei. Questo discorso si è inasprito quando l'UNESCO ha adottato la convenzione sulla salvaguardia del patrimonio culturale immateriale nel 2003 e gran parte della discussione, si concentrava su come i musei possano integrare tra i loro compiti convenzionali attività dedicate alla cura e alla preservazione delle espressioni culturali viventi e immateriali. 25 le pratiche, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, le competenze – così come gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali ad essi associati – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono come parte del loro patrimonio culturale. Questo patrimonio culturale immateriale, trasmesso di generazione in generazione, è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia, e fornisce loro un senso di identità e continuità, promuovendo così il rispetto per la diversità culturale e umana. creatività. (Articolo 2.1, Definizioni) La Convenzione include anche nella sua definizione di oggetti, manufatti e spazi culturali associati a manifestazioni dell'ICH e prosegue affermando: Il patrimonio culturale immateriale si manifesta nelle tradizioni orali, compresa la lingua; arti dello spettacolo (danza tradizionale, musica e teatro); pratiche sociali, rituali ed eventi festivi; conoscenze e pratiche e artigianato tradizionale (Articolo 2.2, Definizioni) Secondo la Convenzione, “salvaguardare” significa: misure volte a garantire la vitalità del patrimonio culturale immateriale, compresa l'identificazione, la documentazione, la ricerca, la conservazione, la protezione, la promozione, la valorizzazione, la trasmissione (in particolare attraverso l'educazione formale e informale) nonché la rivitalizzazione dei vari aspetti di tale patrimonio. (Articolo 2, 3, Definizioni) L'obiettivo della convenzione è quello di aiutare a sostenere le tradizioni, pratiche e processi culturali viventi invece di limitarsi a raccogliere e preservare i prodotti culturali. La convenzione istituisce anche un fondo per la salvaguardia del patrimonio culturale e sostiene la cooperazione e assistenza internazionale, soprattutto nei settori della ricerca, della documentazione, dell'istruzione e della formazione. Un requisito importante della convenzione è che le comunità locali e gli stessi portatori di cultura siano coinvolti nell'identificazione del proprio patrimonio culturale e che operino nello sviluppo e attuazione di misure per la sua salvaguardia. I diversi articoli di ciascuna sezione della Convenzione delineano in dettaglio le misure di salvaguardia, nonché il ruolo e le responsabilità degli Stati parti o firmatari della Convenzione stessa. Ad esempio: la creazione di inventari nazionali del patrimonio culturale immateriale ed elenchi su ciò che necessita salvaguardia urgente. A differenza della convenzione del 1972 incentrata sull'identificazione e la tutela del patrimonio culturale tangibile( come monumenti, opere architettoniche, sculture, dipinti, eccetera eccetera ) che aveva l'obiettivo di proteggere prodotti della creatività e dell'ingegno umano prevalentemente del passato, la convenzione del 2003 sposta l'attenzione sulla salvaguardia della conoscenza delle competenze e dei valori alla base della cultura tangibile, concentrandosi sulle persone e sui processi sociali che la sostengono. Oltre a dimostrare una maggiore preoccupazione per la tutela della cultura viva espressa nelle tradizioni popolari e folkloristiche, riconosce anche come queste tradizioni siano di valore per le comunità locali e soprattutto per quelle comunità che vengono identificate come marginali (ad esempio gli indigeni). 26 Patrimonio culturale immateriale e musei È logico che i musei svolgano un ruolo di primo piano nella promozione dell’ICH e degli obiettivi della Convenzione dal momento che si dedicano da tempo alla curatela e alla conservazione del patrimonio culturale, anche se per lo più̀ in forme tangibili. Ma la curatela dell’ICH non è un ruolo del tutto nuovo per i musei. Molti musei in tutto il mondo lo fanno da sempre, come i musei comunitari e indigeni dove si svolgono regolarmente programmi di lingua e letteratura, spettacoli di danza e musica, festival e incontri cerimoniali. Ci sono anche esempi di musei e centri culturali in cui gli approcci indigeni alla curatela sono sempre stati parte integrante del loro scopo e delle loro funzioni. Il Makah Cultural and Resource Center nella riserva indiana Makah nello stato di Washington, ad esempio, si occupa di documentare e preservare l'etichetta Makah associata agli oggetti in suo possesso. Il personale e i membri della tribù vedono questo come un modo per preservare la sensibilità̀, i ricordi e le emozioni delle storie Makah. Questa etica sta cominciando a prendere piede nei musei tradizionali poiché sempre più curatori si stanno rendendo conto che il loro lavoro non è solo prendersi cura degli oggetti, ma anche delle relazioni tra oggetti e persone. Questa tendenza rappresenta una svolta verso le dimensioni sociali e culturali del lavoro curatoriale. Ciò̀ segnala come i musei oggi vengano definiti più in termini di relazioni e responsabilità̀ nei confronti delle persone che nei confronti di oggetti, collezioni e cultura tangibile. In questa luce, i musei stanno diventando agenti e arene chiave per l’apprezzamento, la promozione e la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale. Queste tendenze sono anche in linea con l’emergere di quello che Eileen Hooper-Greenhill chiama il “post-museo”. Sostiene che il post- museo “manterrà alcune delle caratteristiche del suo genitore, ma le rimodellerà per i propri fini”. Nel post-museo, l’autorità curatoriale è condivisa tra il museo, i membri della comunità e altri stakeholder le cui voci e prospettive contribuiscono alla produzione di conoscenza e cultura nel museo attraverso accordi economici, sociali, politici (partenariati) che celebrano la diversità. La Convenzione e il paradosso della conservazione del patrimonio culturale La convenzione riconosce il diritto culturale delle persone ad avere un maggiore controllo e voce in capitolo sul modo in cui viene trattato il loro patrimonio culturale, in particolar modo delle minoranze. Sebbene questi principi e le linee guida possano essere visti come dei progressi considerevoli, l'idoneità della convenzione a promuovere la curatela indigena nei musei è discutibile a causa della natura problematica delle misure di salvaguardia che raccomanda. Ad esempio, in precedenza si era parlato della creazione di inventari ed elenchi, ma alcuni mettono in discussione la logistica coinvolta e vedono la loro creazione come un “vasto esercizio di gestione delle informazioni”. Ci sono anche alcuni che credono che questo sforzo distoglierà risorse limitate da ambienti stimolanti che consentono alla musica tradizionale, alla danza, all'artigianato, alla conoscenza e così via di sopravvivere. Barbara Kirshenblatt-Gimblett si preoccupa di come la valorizzazione, la regolamentazione e la strumentalizzazione alterano la relazione dei beni culturali con coloro che si identificano con essi, così come con gli altri. In definitiva, tali processi creano una situazione paradossale in cui la diversità dei beni culturali e di coloro che li producono vengono assunti sotto l'ombrello del patrimonio umano e mondiale. 27 Nei casi in cui la conoscenza curatoriale indigena corra il rischio di andare perduta, la documentazione e l'archiviazione sono benvenute, ma sollevano una serie di questioni e preoccupazioni: innanzitutto questo processo potrebbe inavvertitamente minare l'integrità della curatela indigena isolando le pratiche dal loro insieme culturale e rendendole conformi ai criteri delineati nella convenzione. Qui sorge un aspetto contraddittorio poiché : se uno degli obiettivi della convenzione è proteggere la diversità culturale mondiale e promuovere la diversità come valore universale, i metodi utilizzati nel processo di archiviazione possono però portare ad una standardizzazione di pratiche che sono varie e disciplinate da specifico protocollo culturale. Come sottolinea Kirshenblatt-Gimblett, «quando la cultura diventa patrimonio dell'umanità̀, il presupposto è l'accesso aperto» (2006: 185). Questa premessa è inaccettabile per molte comunità̀ indigene che trovano inquietante la natura pubblica delle collezioni museali e del lavoro curatoriale Nonostante i suoi limiti e contraddizioni, la Convenzione ha stimolato un dialogo internazionale sul ruolo dell’ICH nei musei e, quindi, ha aperto strade per l’esplorazione della curatela indigena come ICH a livello teorico e pratico. Ha ampliato la nozione di ciò che costituisce patrimonio e potrebbe essere utilizzato allo stesso modo per ampliare le idee su ciò che costituisce "salvaguardia" e sulle misure per tale salvaguardia. La promozione della curatela indigena nei musei sia come forma di ICH che come mezzo di salvaguardia, potrebbe liberare i musei dal loro ruolo tradizionale di custodi della cultura tangibile e statica e di amministratori e curatori di una cultura immateriale, vivente e dinamica. Da un lato, la Convenzione contiene elementi di vecchi modelli di conservazione del patrimonio che riguardavano in gran parte la documentazione e la creazione di elenchi, ma dall’altro rappresenta una svolta ponendo l’accento sul sostegno delle condizioni necessarie per la riproduzione culturale. Il museo è un’arena in cui le pratiche curatoriali indigene possono essere incoraggiate e mantenute in vita, consentendo ulteriori ricerche su tali pratiche oltre alla creazione di approcci museologici innovativi. Conclusione La Convenzione del 2003 sulla salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, a differenza degli strumenti precedenti, riconosce che la nostra concettualizzazione del patrimonio, come la cultura in generale, è un processo in continua evoluzione espresso in forme molteplici. Il lavoro svolto oggi nei musei con le comunità̀ di origine è una prova evidente di come i musei siano luoghi chiave per la promozione e la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale. Tuttavia, è solo attraverso un’analisi critica sostenuta e una pratica riflessiva che i nostri concetti di patrimonio possono essere continuamente rivisti e che le misure di salvaguardia possono essere adeguatamente applicate. I processi culturali (come la curatela del patrimonio) sono intrinsecamente particolari e particolarizzanti; quindi, non dovremmo aspettarci che l’applicazione di una politica globale abbia gli stessi risultati in tutte le situazioni. 30 Nel 1975, Claude Lévi-Strauss definì l'antropologia “figlia nata da un'epoca di violenza”. I nostri musei etnografici sono allo stesso tempo conservatori della creatività umana e responsabili di una violenta dinamica di appropriazione. −Un affare di famiglia La questione della restituzione occupa un posto così importante tra gli intellettuali e la stampa anche al di là del semplice quadro franco-africano, oggetti africani sparsi in tutta Europa. Al di fuori della Francia, l'annuncio di una possibile restituzione francese è diventato oggetto di una costante attenzione mediatica e di numerosi commenti e coloro che per lungo tempo hanno militato per la restituzione di questi oggetti del patrimonio culturale sfollati ai loro paesi d'origine vedono l'inizio di una nuova era. Autorità tedesche, Provenienzforschung → indagine su provenienza oggetti conservati nei musei, e istituzioni tedesche si sono trovate in una posizione di incertezza sulle origini esatte delle collezioni etnografiche tedesche. I musei berlinesi hanno finito per ammettere, con tanto di documenti che lo dimostrano, l'esistenza di oggetti nelle collezioni museali frutto di saccheggi militari. Oggetti provenienti dall’Africa, colpevolezze ammesse anche dal museo Tervuren (Bruxellese) e dal Victoria & Albert Museum. −Prudenza politica e ansia da museo Praticamente ovunque in Europa - e la Francia non fa eccezione - la sola parola "restituzione" suscita un riflesso di difesa e un gesto di ripiegamento. Siamo parte di una generazione che ha conosciuto le restituzioni solo attraverso lotte dolorose. Solo in Europa la restituzione di resti umani sembra farsi progressivamente strada nella coscienza istituzionale: nel 2002, la Francia ha adottato una legge che autorizza la restituzione dei resti mortali di Saartjie Baartman al Sudafrica; diversi musei francesi hanno restituito alla Nuova Zelanda i resti di 21 teste Maori. Nell'ottobre 2017, i musei di Dresda hanno restituito alle Hawaii mucchi di ossa e resti umani che erano stati saccheggiati all'inizio del 1900. Più recentemente, alla fine del 2018, i resti di alcune vittime del genocidio degli Herero e dei Nama, perpetrato tra il 1904 e il 1908 dalle forze coloniali tedesche, sono stati restituiti da diverse istituzioni tedesche alla Namibia, una delle ex colonie tedesche. −1960, Anno Zero In Africa, alcuni Paesi o comunità (Etiopia e Nigeria, per esempio) hanno invocato e rivendicato per oltre 50 anni la restituzione dei loro oggetti culturali scomparsi durante il periodo coloniale. Nel 1957, durante le celebrazioni dell'indipendenza del Ghana, la Regina d'Inghilterra restituì ad Accra un grande sgabello Asante di grande valore. Da quella prima restituzione, il Ghana ha atteso la restituzione di una parte molto più consistente del patrimonio culturale e dei beni Asante →non restituiti. Nel 1968, la Nigeria presentò un progetto di restituzione all'ICOM chiedendo ai musei occidentali di mettere a disposizione e restituire al museo nazionale appena inaugurato a Lagos diversi pezzi significativi del patrimonio culturale proveniente dal Grande Benin: non ricevette mai alcuna risposta. Per tutti gli anni Sessanta in Europa questo tema è stato completamente ignorato e nessuno ha osato avere il coraggio di affrontare direttamente la situazione. Non furono intrapresi negoziati con le 31 vecchie potenze coloniali. Non ci fu una riflessione strutturata sul ruolo che gli oggetti del patrimonio culturale avrebbero potuto svolgere nell'emancipazione dei Paesi africani ex colonizzati. Nello stesso periodo in cui la Francia concedeva l'indipendenza a diversi Stati nazionali, continuava tuttavia a garantire il suo potere economico, militare, industriale, monetario e persino accademico sul continente africano, e la questione delle migliaia di opere culturali trasferite dalle colonie ai musei francesi non è mai sembrata degna di essere posta. Mentre i giovani Paesi africani indipendenti appena costituiti erano ancora nel pieno della gioia per la loro ritrovata libertà, l'amministrazione francese adottò una serie di misure per evitare il più possibile ogni potenziale rivendicazione sulle collezioni costituite nelle colonie e per assicurarne il godimento e i diritti di proprietà a lungo termine alla sola Francia. Un’attesa piuttosto lunga UNESCO – 1978→ direttore Amadou-Mahtar M'Bow, "A Plea for the Return of an Irreplaceable Cultural Heritage to those who created it": vittime di saccheggio, privati di capolavori e della loro memoria. “Certe opere d'arte hanno svolto un ruolo troppo intimo nella storia del Paese in cui sono state portate perché i simboli che le legano a quel Paese vengano negati e perché le radici che hanno preso piede vengano recise. [...] Questi uomini e queste donne che sono stati privati del loro patrimonio culturale chiedono quindi la restituzione almeno dei tesori artistici che meglio rappresentano la loro cultura, che sentono come i più vitali e la cui assenza li angoscia maggiormente. È una richiesta legittima”. L'UNESCO stampò moduli generici in tre lingue per aiutare le richieste di restituzione, che furono ampiamente distribuiti per tutta la fine degli anni Settanta. “La restituzione dei beni culturali, delle opere d'arte e dei documenti storici permetterà ai vari popoli di assumersi le proprie responsabilità. Dobbiamo aiutare questi popoli a riscoprire il loro passato e la loro autostima”. −Missione Impossibile In Francia, nonostante questa passata apertura potenziale per un progresso verso le restituzioni, non c'è stato alcun movimento progressivo in questa direzione negli ultimi 40 anni. Purtroppo, è stato l'esatto contrario: I governi che si sono succeduti hanno continuato a rifiutare qualsiasi offerta di restituzione, con la motivazione che le opere d'arte richieste sono ormai da tempo integrate come parte del patrimonio culturale della nazione francese e, in quest'ottica, sono inalienabili. A mezzo secolo dall'indipendenza delle nazioni africane, la questione delle restituzioni dei beni culturali sembra ancora bloccata all'interno di una duplice temporalità: da un lato, nella temporalità di chi continua ad aspettare ed è pieno di rassegnazione, dall'altro, nella temporalità di chi ha la sicurezza di poter finalmente conferire ad altri, dopo molti decenni, il senso di proprietà, la legittimità scientifica e i giusti servizi resi al patrimonio culturale dell'umanità. In Francia, è stato spesso detto che il nostro attuale lavoro sulle restituzioni era una "missione impossibile". Invitato da diversi media a reagire alle dichiarazioni di Emmanuel Macron, il presidente del Musée du quai Branly-Jacques Chirac, Stéphane Martin dichiara "non possiamo permettere che un continente sia così gravemente privato del suo passato e della sua genialità artistica", che l'attuale situazione di stallo non ha alcuna intenzione di rimanere tale e “che il destino degli oggetti culturali porterebbe certamente alla restituzione di almeno una parte di essi.” 32 −La mobilitazione dell'opinione pubblica Va ricordato il ruolo svolto dalla crescente pressione esercitata dall'opinione pubblica europea, anni organizzazioni militanti senza scopo di lucro hanno iniziato a sostenere con forza la riflessione sulle restituzioni, chiedendo risposte alla classe politica. In Francia, la questione delle restituzioni è entrata nell'agenda politica nel 2013 grazie al lavoro del CRAN (Consiglio rappresentativo delle associazioni nere). Molte associazioni si sono battute per la restituzione di oggetti → In Etiopia l'associazione Afromet, in Camerun e in diverse altre città europee la fondazione AfricAvenir International, In Benin la Fondation Zinso, a Berlino l'associazione No Humboldt 21. Vanno citati anche i numerosi progetti in corso da parte di (giovani) studiosi accademici: Working Group of Young International Law Scholars, gruppo Museum affordances: activating West African ethnographic archives and collections through experimental museology presso il SOAS di Londra…A questi gruppi va aggiunta una generazione di giovani curatori che, tanto in Africa quanto in Europa e in Francia continuano a interrogarsi con sempre maggiore acutezza sul modo in cui potremmo "reinventare i musei". Ma, oltre a questi ambienti accademici e a quelli delle varie associazioni, è soprattutto nel mondo della creazione contemporanea - dal sapere culturale alla cultura popolare - che la questione della possibile restituzione delle collezioni formatesi intorno al periodo coloniale ha trovato l'eco più significativa negli ultimi anni → arte contemporanea, letteratura, danza, l'industria cinematografica, il tema della restituzione ha preso piede da tempo. Oggi, in tutto il mondo, la questione delle traslocazioni del patrimonio culturale e della proprietà degli oggetti musealizzati in Europa durante il periodo coloniale è diventata un tema condiviso a tutti i livelli del sapere e della cultura. 1. Restituire Qual è il significato di restituzione? Lettera Macron parla di restituzioni definitive e restituzioni temporanee →ossimoro, oggetti i saranno restituiti solo per un periodo di tempo limitato, restituzione non avrà carattere definitivo. Forti dibattiti →chi vede in queste restituzioni un modo per far circolare il patrimonio africano. Due posizioni sulle restituzioni: ⎯ Musei devono impegnarsi nella circolazione degli oggetti, scambi con i musei del continente africano ⎯ Trasferimento di proprietà attraverso le restituzioni permanenti (posizione sostenuta dai rappresentanti delle culture derubate) −Cosa significa restituire "Restituire" significa letteralmente restituire un oggetto al suo legittimo proprietario. Questo termine serve a ricordare che l'appropriazione e il godimento di un bene che si restituisce dipendono da un atto moralmente riprovevole (stupro, saccheggio, spoliazione, espediente, consenso forzato, ecc.) → riconoscimento dell'illegittimità della proprietà di cui si era precedentemente rivendicata la proprietà, indipendentemente dalla durata del tempo. Le restituzioni aprono una profonda riflessione sulla storia, sulle memorie e sul passato coloniale, sulla storia, sulla formazione e sullo sviluppo delle collezioni museali occidentali. 35 dell’inversione di valore: gli oggetti collezionati hanno un alto valore di scambio mentre (o proprio perché) non hanno un valore d’uso. −Risarcimento e riparazione La spinosa questione delle riparazioni non può essere elusa. È una questione che viene spesso evocata nel contesto dei crimini contro l'umanità (il genocidio degli Herero e dei Nama), nel contesto dei violenti massacri legati alle conquiste coloniali o alla predazione di risorse economiche per le quali le perdite sembrano più facilmente quantificabili. Non si tratta di semplici oggetti sottratti, ma di riserve di energia, risorse creative, potenzialità e questa perdita è incommensurabile. La semplice restituzione di questi oggetti culturali non sarà la giusta compensazione. Quindi, non si tratta tanto di reclamare una compensazione finanziaria, quanto di una ricostituzione simbolica attraverso una richiesta di verità. Il risarcimento consiste nell'offerta di riparazione della relazione. La restituzione degli oggetti implica anche un lavoro storiografico equo e giusto e una nuova etica relazionale; operando una ridistribuzione simbolica che ripara i legami e li rinnova attorno a modalità relazionali reinventate e qualitativamente migliori. −La questione di Archivi Legati alla coscienza collettiva e ai processi storici di restituzione degli oggetti, gli archivi costituiti durante l'epoca coloniale svolgono un ruolo centrale nel processo di ricostruzione della memoria. Da tempo diverse ex colonie francesi, prima fra tutte l'Algeria, chiedono di poter accedere agli archivi della propria storia. In Africa, tutti i nostri interlocutori hanno insistito non solo sulla restituzione degli oggetti del patrimonio culturale custoditi nei musei francesi, ma anche sulla necessità di una seria riflessione sulla questione degli archivi. 2. Restituzioni e collezioni Voler "restituire il patrimonio culturale africano all'Africa", come propone Emmanuel Macron, richiede una conoscenza precisa delle collezioni africane conservate in Francia (Dove si trovano? di cosa sono composte?). −Il tempo dei ritorni Arrivo e musealizzazione arte africana in Francia dal XIX al XX secolo, periodo molto lungo →nessuno prevede il ritorno della totalità degli oggetti. Al momento solo una parte può essere restituita e in modo progressivo, deve essere sostenuto da un'analisi rigorosa dei criteri storici, tipologici e simbolici. Bisogna riconoscere il posto che questi oggetti sfollati del patrimonio culturale hanno occupato all'interno delle lotte politiche e degli immaginari delle loro comunità di origine e tenere conto che questo patrimonio ha subito un processo di risemantizzazione nei musei occidentali. Può sembrare strano, vista la violenza con cui questo patrimonio è stato profanato dalla Francia, ma la restituzione deve avvenire secondo parametri eticamente e giuridicamente praticabili. Le restituzioni devono quindi essere negoziate in base a questi due criteri e devono essere adattate ai ritardi e ai ritmi di ogni parte coinvolta. 36 −Presenza africana Attualmente, all'interno delle Collezioni pubbliche francesi, ci sono almeno 90.000 oggetti provenienti dall'Africa subsahariana. Solo 70.000 pezzi sono conservati nel Musée du quai Branly- Jacques Chirac, altri 20.000 - ed è una stima modesta, probabilmente il numero è molto maggiore- sono conservati in diverse città portuali (Bordeaux, Marsiglia, Nantes ecc…), massiccia presenza anche nelle biblioteche. Questi due tipi di istituzioni (musei e biblioteche), insieme a diversi archivi pubblici, conservano e ospitano anche collezioni di fotografia, collezioni cinematografiche e documentazione sonora create durante il periodo coloniale che, per i Paesi africani, rappresentano una fonte di memoria di prim'ordine. C’è una ridistribuzione ineguale del patrimonio: ▪ "ipercentralizzazione" a Parigi delle collezioni di beni culturali giudicate più importanti ▪ presenza massiccia nelle zone portuali coinvolte nel commercio mercantile con l'Africa, in quanto punti di arrivo di imbarcazioni mercantili o navi militari ▪ una dinamica di eredità, doni, registrazioni e donazioni + presenza Musei delle Missioni Non tutte queste collezioni africane sono accessibili al pubblico e conosciute, servirebbe dunque un catalogo unico che descriva in dettaglio e contenga tutte le collezioni del patrimonio culturale africano in Francia, i criteri di restituibilità delle collezioni non possono essere applicati. −Quale africa per quale restituzione? Paesi africani nella collezione del Musée du quai Branly-Jacques Chirac: ▪ Ciad circa 10.000 pezzi, ▪ Camerun 7.838 ▪ Madagascar (7.590) ▪ Mali (6.910) ▪ Costa d'Avorio (3.951) ▪ Benin (3.157) ▪ Repubblica del Congo (2.593) ▪ Gabon (2.448) ▪ Senegal (2.281) ▪ Guinea (1.997). Senza considerare colonie italiane, inglesi, belghe ecc. Cosa possiamo imparare da queste informazioni? Che la geografia delle colonie francesi in Africa e le collezioni africane del Musée du quai Branly-Jacques Chirac - e più in generale della Francia - sono strettamente convergenti. Il progetto di restituzione deve considerare la questione del rapporto tra diritto coloniale ed estrazione del patrimonio culturale e, insieme ad essa, se vi sia stato (o meno) il consenso da parte del popolo d’origine. Bisogna: tracciare una cronologia delle acquisizioni, in modo da notare se c'è stata o meno una marcata indicazione di un aumento delle collezioni prima e dopo la colonizzazione. Questo ci permetterà di discernere la legittimità delle acquisizioni in ogni epoca, compresa quella più recente −Quale storia vogliamo rivisitare? La storia dell'integrazione degli oggetti del patrimonio culturale africano da parte della Francia nelle sue collezioni nazionali è iniziata prima del periodo coloniale ed è proseguita ben oltre 37 l'indipendenza delle nazioni. Si possono individuare tre momenti principali che si susseguono l'uno dopo l'altro: ▪ primo momento è precedente alla conferenza di Berlino che sancì l'accordo tra le potenze europee (1884/1885) sul modo in cui esse intendevano dividersi il controllo dell'Africa ▪ secondo momento copre il periodo coloniale fino all'indipendenza delle nazioni (1960) ▪ terzo momento è iniziato negli anni '60 e continua ancora oggi a fornire oggetti del patrimonio culturale alle collezioni francesi Musée du quai Branly-Jacques Chirac emerge chiaramente un dato → prima del 1885, le collezioni africane ospitate dal museo erano composte da circa meno di mille oggetti. Tra il 1885 e il 1960 il numero di beni culturali è salito alle stelle fino a superare i 45.000 pezzi, una cifra che rappresenta circa il 66% dell'intera collezione di oggetti provenienti dall'Africa sub-sahariana presenti nel museo →Missioni etnografiche anni Venti. Dopo il 1960, le collezioni hanno continuato ad aumentare con l'aggiunta di altri 20.000 oggetti del patrimonio culturale, fino ad arrivare alla cifra attuale di 70.000 pezzi. Esempio: i pezzi provenienti dal Camerun sono attualmente più di 7000 ma iniziata la collezione con solo 3 pezzi prima del 1885, tra il 1885 e il 1960, altri 6.968 beni culturali sono entrati a far parte dell'inventario del museo. Si conferma, quindi, la presa di questi oggetti durante il periodo coloniale. −Forme storiche di esproprio Fino all'indipendenza delle ex colonie, lo Stato francese ha incoraggiato il reperimento di oggetti in situ. La tradizione militare, la curiosità estetica e scientifica, insieme con un'acuta consapevolezza del valore economico che tali oggetti potevano portare sul mercato europeo, si combina con un'acuta impresa a Parigi di musei in grado di rivaleggiare con quelli di Berlino o Londra. Cominciano a circolare istruzioni sulla natura dei pezzi da procurare e sul modo di trattarli, incoraggiati dal museo e dalle istituzioni stesse che spesso chiedevano agli “attori” coinvolti di recuperare oggetti durante le missioni −Bottino: All'interno delle memorie collettive, in Africa come altrove, le violenze commesse durante la guerra occupano una posizione molto singolare, soprattutto se si attribuisce loro un ruolo nel crollo di alcune dinastie che avevano resistito per secoli. Gli oggetti d'arte, i manoscritti, i gioielli, gli emblemi dinastici, gli ornamenti architettonici, le armi e le armature saccheggiate: tutti questi oggetti culturali catturati cristallizzano emozioni specifiche. Riflessione sulle restituzioni: alcuni oggetti sono diventati delle reliquie, dei simboli per il popolo d’origine, non hanno perso il loro legame con il contesto originale →questo legame maggiore proprio a causa delle violenze che hanno portato la loro assenza o il crollo della dinastia a cui appartenevano. Divenuti simboli di resistenza contro l’aggressore coloniale. Nelle collezioni francesi sono conservati diversi bottini di guerra compilati durante il periodo coloniale →difficili da classificare come tali: oggetti ridistribuiti arrivati in Francia, classificati come doni la maggior parte delle volte e non come bottino. Per localizzare questi bottini all'interno delle collezioni museali francesi bisogna cambiare prospettiva: non cercare di rintracciarli attraverso le informazioni parsimoniosamente fornite dalle 40 Il problema delle restituzioni è inseparabile da quello del traffico illecito, che continua ad avere un forte impatto sulla perdita del patrimonio culturale e dei beni africani e continuerà a farlo se non si compie alcuno sforzo per prevenirlo. Musée du quai Branly (inaugurato nel 2006) →forte acquisizione di pezzi dal mercato dell’arte, come la celebre collezione nigeriane Barbier-Mueller: 276 pezzi acquistati dallo Stato francese per una somma stimata di 48 milioni di franchi. Nella corsa all'acquisto di bei pezzi, le questioni relative alla provenienza esatta e al carattere lecito o illecito degli oggetti in vendita non sono di solito la priorità principale. (alcuni pezzi acquistati provenienti dalla Nigeria considerati vietati all'esportazione dalla legge nigeriana adottata nel 1979). La Francia ha finalmente accettato di riconoscere che questi pezzi erano di proprietà della Nigeria, la quale, da parte sua, ha acconsentito a farli rimanere a Parigi e a concederli in prestito per un periodo di 25 anni, rinnovabile. −Criteri per restituire: ▪ Restituzione rapida ed esaustiva, senza ulteriori ricerche sulla provenienza o l'origine, di tutti gli oggetti sottratti con la forza o che si presume siano stati acquisiti in condizioni inique (bottini, spedizioni scientifiche, personale medico e militare) ▪ Ricerca complementare per i pezzi entrati nei musei dopo il 1960 e per quelli ricevuti in dono o in donazione al museo, quando si ha una buona ragione di credere che i pezzi abbiano lasciato il suolo africano prima del 1960 (ma che siano rimasti nelle famiglie per diverse generazioni). Nei casi in cui la ricerca non sia in grado di accertare le circostanze iniziali della loro acquisizione durante il periodo coloniale, i pezzi richiesti possono essere restituiti sulla base della giustificazione del loro interesse da parte del Paese richiedente. ▪ Conservazione, all'interno delle collezioni francesi, di pezzi di oggetti d'arte e di patrimonio culturale africano per i quali è stata stabilita la seguente procedura: dopo la conferma che è avvenuta una transazione liberamente acconsentita e documentata, concordata ed equa che i pezzi acquisiti fossero conformi al necessario rigore e all'attento monitoraggio dell'apparato in vigore sul mercato dell'arte dopo l'applicazione della Convenzione UNESCO del 1970, in altre parole, senza "correre alcun rischio etico". I doni dei capi di Stato stranieri ai governi francesi rimangono acquisiti per la Francia, tranne nei casi in cui i capi di Stato interessati siano stati condannati per uso improprio di fondi pubblici. −Tempistica per un programma di restituzione Il processo di restituzione stesso deve aderire e adattarsi ai ritmi e ai preparativi di ogni Stato nazionale interessato; il processo di restituzione che si svolga in tre fasi specifiche: ▪ Prima fase (novembre 2018- 2019): Agli Stati africani interessati, la presentazione formale dell'inventario dei pezzi provenienti dal loro territorio (secondo i loro confini attuali) che sono attualmente conservati nelle collezioni pubbliche francesi. La restituzione formale di alcuni pezzi, in gran parte simbolici, la cui restituzione è stata richiesta da lungo tempo da diverse nazioni o comunità africane, in modo da mostrare e dimostrare la reale volontà di restituzione da parte dello Stato francese. 41 Il trasferimento di questi pezzi nei Paesi d'origine, se i Paesi richiedenti le restituzioni ritengono che le infrastrutture per ospitarli siano pronte e preparate a riceverli. Si dovrebbe procedere all'adozione di misure e norme legislative che garantiscano l'irrevocabilità di queste restituzioni. No alle mostre temporanee. Questa prima fase potrebbe riguardare: ⎯ Benin. Le statue derivanti dal saccheggio di Abomey nel 1892, in particolare i pezzi inventariati e conservati al musée du quai Branly Jacques Chirac. (Statua di Bochio a immagine del re Ghezo e vari pezzi reali di re Ghezo) ⎯ Senegal. I pezzi che seguono provengono dal bottino di guerra di Ségou (il "tesoro" di El Hadj Omar Tall/ Ahmadou) conservato al Musée du quai Branly-Jacques Chirac, al musée de l'Armée e al Museo di Storia Naturale di Le Havre ⎯ Nigeria. I pezzi seguenti, provenienti dal saccheggio di Benin City da parte dell’esercito britannico nel 1897 e che hanno circolato nei musei o sul dell’arte europeo mercato prima di essere acquisiti dal Musée du quai Branly-Jacques Chirac. (varie placche, zanne di avorio) ⎯ Etiopia. I dipinti sacri di pezzi staccati dalle pareti della chiesa di Saint Antoine (Abbā Antonios) di Gondar esportati illecitamente dall'Etiopia nel 1932 (durante la Missione Dakar-Djibouti). L'Etiopia si è opposta a queste esportazioni all'epoca in cui sono avvenute. Da alcuni decenni l'Etiopia è una delle nazioni africane più attive nel richiedere la restituzione del proprio patrimonio culturale. ⎯ Molte maschere provenienti dal Mali ⎯ Camerun. Trono "raccolto" in Camerun nell'ambito della Missione Henri Labouret nel 1934. ▪ Seconda fase (primavera 2019-novembre 2022): prevede il processo di inventariazione, la condivisione di file digitali e un intenso dialogo transcontinentale. Quattro iniziative che hanno come obiettivo la creazione di un accesso online gratuito o all'organizzazione della restituzione dei materiali iconografici, cinematografici e sonori relativi alle società africane, opere autentiche giudicate importanti dagli Stati nazionali e dalle comunità interessate. ⎯ Inventario: questo lavoro di inventario deve essere condotto da professionisti dei musei e da esperti del patrimonio culturale in Francia e in Africa che lavorino insieme. ⎯ Condivisone di contenuti digitali: dato il gran numero di istituzioni francesi interessate e la difficoltà del pubblico straniero di orientarsi tra questi musei, raccomandiamo la creazione di un portale unico che dia accesso a questa preziosa documentazione sotto forma di piattaforma ad accesso libero. ⎯ Laboratori ⎯ Commissioni congiunte: la creazione di commissioni congiunte tra la Francia e ciascuno degli Stati africani interessati che desiderano recuperare il proprio patrimonio culturale. Queste commissioni struttureranno e modereranno il dialogo tra le istituzioni francesi e i rappresentanti dei musei e delle comunità interessate designati dagli Stati nazionali africani. Missioni: esaminare richieste restituzioni, consigliare le aree di ricerca necessarie per stabilire le liste di oggetti restituibili, 42 consigliare le misure di accompagnamento necessarie per assicurare il successo delle operazioni di "partenza" e “restituzione”. ▪ Terza fase (novembre 2022 - aperta -): Il processo di restituzione non dovrebbe essere limitato nel tempo. Gli Stati africani interessati dovrebbero essere certi che le loro eventuali richieste di restituzione potranno essere accolte anche dopo i prossimi "cinque anni" (per rifarsi all'agenda specifica fissata da Emmanuel Macon). 3. Accompagnare le restituzioni −Aspetti giuridici La restituzione definitiva si inscrive in un quadro più generale di cooperazione culturale, che costituisce inoltre uno dei punti di forza del progetto. La procedura di restituzione presuppone un'evoluzione positiva del diritto, nel quadro di una modifica del codice dei beni culturali, articolata nel principio di inalienabilità delle collezioni pubbliche ma d'altra parte, la restituzione degli oggetti del patrimonio culturale mette in luce la lotta contro il traffico di beni culturali. La legge attualmente in vigore, che finora si è opposta a qualsiasi tentativo di rispondere alle richieste di restituzione, si basa su un intreccio di disposizioni miste riguardanti il Codice dei beni culturali e il Codice generale dei beni del personale pubblico (CG3P) → attuale legge prevede una definizione di proprietà pubblica che include tutti i beni culturali, in particolare le collezioni museali pubbliche, generando così una protezione sostenuta da regole di imprescrittibilità e di inalienabilità della proprietà pubblica che, in questo caso, creano un ostacolo alle richieste di restituzione. −Operazioni con le regole della proprietà pubblica I rari casi di restituzione negli ultimi 20 anni sono stati possibili solo attraverso transazioni che applicavano le regole della proprietà pubblica. Sono stati utilizzati due strumenti: ⎯ Legge di eccezione: restituzione dei resti di Saartjie Baartman (Venere Ottentotta) nel 2002. Al di là della giurisprudenza, il rispetto dei defunti correlato all' importanza dei resti umani (in particolare per la loro comunità di origine) ha portato, attraverso un percorso legislativo e un certo consenso, ad aggirare l'applicazione delle normali procedure per la liberazione di un oggetto dal vincolo di proprietà normalmente portato al rifiuto della restituzione del corpo. ⎯ Il secondo mezzo per aggirare questa giurisprudenza consiste nell'evitare di applicare all'oggetto in questione i testi relativi alla proprietà pubblica, grazie al suo status di non appartenenza alla collezione. La sua non appartenenza può essere considerata di fatto. = vedi ritorno alcune opere in Cina, da proprietà pubblica a privata e trasferimento. Risonanze con il metodo per la restituzione del patrimonio culturale africano Compito attuale è quello di porre rimedio alla situazione del più grande espatrio di beni culturali africani mai conosciuto. Compromette: conservazione delle culture nazionali e delle varie comunità e le prospettive di costituzione di un'offerta museale di prestigio che abbia un peso sullo sviluppo economico. 45 Ora → la cultura materiale ha un peso diverso, gli oggetti non fanno solo da scenografia all'azione umana, ma ne sono parte integrante. Nuova attenzione si rivolge al modo in cui la storia umana e quella degli oggetti si informano a vicenda. Biografia → l'idea centrale è che le persone e gli oggetti, nel corso del tempo, del movimento e del cambiamento, si trasformano costantemente e queste trasformazioni della persona e dell'oggetto sono legate l ' una all'altra Approcci use-life si concentrano sui cambiamenti alle caratteristiche morfologiche o funzionali di un oggetto o manufatto → l'oggetto qui è un materiale passivo, inerte che subisce il cambiamento delle cose. Tale analisi non affronta le interazioni sociali che coinvolgono persone e oggetti Approccio biografico → mira a fare proprio quello tiene in conto le interazioni sociali Cerca di indagare il modo in cui gli oggetti vengono investiti di significato attraverso le interazioni sociali -> Questi significati cambiano e vengono rinegoziati attraverso la vita dell'oggetto stesso La nozione di biografia degli oggetti risale a Kopytoff (1986), il quale riteneva che le cose non potessero essere comprese appieno in un solo momento della loro esistenza e che i processi e i cicli di produzione, scambio e consumo dovessero essere considerati nel loro insieme. Non solo gli oggetti cambiano nel corso della loro esistenza, ma spesso hanno la capacità di accumulare storie, così che il significato attuale di un oggetto deriva dalle persone e dagli eventi a cui è collegato. Pensare biograficamente Pitt Rivers Museum: collana figiana fatta di denti di capodoglio infilati in fibra di cocco → può sembrare statico e isolato, ma questa è un'idea sbagliata degli oggetti museali, nonostante la loro apparente staticità, questi oggetti raccolgono continuamente nuovi significati, connessioni e significanti. Questi denti hanno significati e valori importanti per la popolazione del posto. La collana del Pitt Rivers Museum è molto diversa. È fatta di denti di capodoglio segati anziché interi ed è stata realizzata appositamente per essere indossata come collana. Le collane di denti di capodoglio segati furono prodotte per la prima volta all'inizio del XIX secolo. Le collane di denti hanno biografie note e molto specifiche, come nel caso della collana di Pitt Rivers. Collana: donata 1874 dal capo al reverendo Calvert, donata poi al Pitt Rivers (circa 50 anni dopo). Donata a Calver, regalo personale in un importante periodo coloniale (nel 1574 le Figi divennero una colonia della Corona britannica). Questi doni come altri alla regina Vittoria, richiama l’uso politico degli oggetti negli scambi e le relazioni sociali che ne costituiscono la biografia. Tra oggetti e persone Biografia → domande sui legami tra le persone e le cose, sui modi in cui i significati e i valori si accumulano e si trasformano. Differenza tra doni e merci: (Gregory prende ispirazione dalla teoria di Marx) ⎯ Merci: relazioni tra cose nel mercato, sono in realtà relazioni sociali, concentrate sulla proprietà dei mezzi di produzione e degli oggetti prodotti. Alienabili, in modo da poter essere scambiate senza lasciare alcuna relazione duratura tra chi le dà e chi le riceve. 46 ⎯ Doni: i doni nelle società basate sulla parentela possono sembrare, a un occhio occidentale, transazioni economiche, ma in realtà riguardano la produzione di socialità, attraverso la creazione e il mantenimento di legami sociali. Mantengono sempre un legame con la persona o le persone che li hanno fatti e con quelle che li hanno successivamente scambiati. La circolazione dei doni crea una fitta matassa di legami tra le persone, che può essere dipanata solo dalla restituzione dei doni. Se i doni mantengono un legame indissolubile con le persone che li hanno prodotti e scambiati in passato, allora tutti i doni hanno una molteplicità di autori: sono prodotti da una serie di persone diverse e da diversi legami (per i malesiani). Una persona è in definitiva composta da tutti gli oggetti che ha creato e scambiato e questi oggetti rappresentano la somma totale della sua agency → può avere effetti a una distanza considerevole dal suo corpo e può continuare a produrre effetti anche dopo la sua morte. Le cose materiali non sono supporti esterni o misure di una vita interna, ma piuttosto le persone e le cose hanno biografie reciproche che si sviluppano in modi culturalmente specifici. (gli occidentali hanno una visione diversa del rapporto persona-oggetto). Appadurai → incerto sull’utilità distinzione tra doni e merci. Contesto è tutto, non la gerarchia degli oggetti ma le circostanze politiche e sociali che circondano gli scambi; è interessato al grado di scambiabilità dell’oggetto. Gli oggetti possono essere compresi solo osservando i contesti culturali che li hanno originariamente prodotti e le nuove circostanze in cui si sono successivamente trasferiti. Le storie di molti oggetti sono composte da spostamenti di contesto e di prospettiva. (vedi doni coloniali, oggetto nato come merce e scambiato come dono.) Hoskins → autrice collegamento tra biografia dell’oggetto e biografia della persona. Durante lavoro in Indonesia, quando chiedeva alle persone la storia della loro vita, otteneva poche risposte, ma quando chiedeva loro degli oggetti significativi, otteneva una massa di dettagli sulle biografie delle persone. Gli oggetti operino come supporti per l'autodefinizione e aiutino a determinare la storia della vita di una persona. Significato performativo Biografia → non è data solo dallo scambio ma anche dal suo significato performativo, come nelle esibizioni cerimoniali: sulla costa nord-occidentale del Pacifico, in Canada, la performance degli oggetti è fondamentale per il loro significato. Antologia della vita e dei tempi di Willie Seaweed, artista e capo Kwakwaka'wakw → per noi occidentali significato dell’opera è nella creazione, ma non per i Kwakwaka: il significato non è insito nella scultura, il significato deve essere messo in atto (nuove maschere vendute perché non erano state messe in scena). L'atto di mostrare era potente e che stabiliva il significato di una maschera. Il possesso di una maschera non era di per sé significativo perché la maschera aveva un significato solo nel contesto della sua rappresentazione. In quest'ultima area ha senso parlare di oggetti come attori sociali e di significati che risiedono in un certo senso negli oggetti stessi. Sulla costa nordoccidentale un oggetto prende vita solo nella performance, per cui al di fuori di questo contesto non ha un significato intrinseco. In alcune circostanze, in particolare quelle dell'incontro coloniale, può verificarsi una brusca rottura in una biografia, una radicale reimpostazione del significato. La nozione di biografia ci porta a 47 pensare in modo comparativo all'accumulo di significato negli oggetti e agli effetti mutevoli che questi hanno sulle persone e sugli eventi. Questo filo conduttore della comparazione rende ancora più evidente la varietà delle relazioni tra persone e cose in diversi contesti culturali. Death Writing in the Colonial Museum Hicks Quando si tratta di studiare le opere d'arte come cultura materiale, ci sono pochi idiomi più familiari di quella della “storia di vita” dell'oggetto. Attraverso questo consumo di teoria antropologica→ storie dell'artefatto e vita dell'umano = genere di storiografia. A volte la nozione di biografia dell'oggetto è servita a fissare i confini delle cose un po' troppo fermamente tendendo a sopravvalutare la costanza fisica di fronte al movimento tra lo spostamento dei contesti umani, quelli che lgor Kopytoff chiamava “regimi di valore”. Ma per i conservatori, archeologi, curatori e altri che lavorano con le cose fisiche, è sempre chiaro che qualsiasi oggetto è instabile almeno quanto il suo contesto; che ogni storia di vita è sempre un corso di vita, con invecchiamento, decadimento, mantenimento, morte, piuttosto che una semplice ricontestualizzazione seriale. Le culture possono essere degradate. Il contesto istituzionale primario assemblato e costruito da antropologi per i loro studi teorici sulla cultura materiale: quegli spazi euroamericani, come il museo “etnologico”, “antropologico” o “della cultura mondiale”, ricco di patrimonio culturale del sud globale trasportato sotto il colonialismo non sta semplicemente decadendo → ha fallito. Il ruolo centrale di tali raccolte nell'oggettivazione dei cosiddetti “non occidentali” le culture umane non erano in primo piano in quelle discussioni teoriche della fine del ventesimo secolo sull'agency oggettuale, ma la principale fonte dell'errore era che gli oggetti venivano trattati analiticamente come soggetti. Oggi il ruolo non solo dell'oggettivazione ma anche dell'espropriazione culturale della storia del colonialismo europeo viene messo a fuoco. Ogni oggetto rubato è una forma di debito insoluto e rifiutarsi di restituire ciò che è stato rubato equivale a “una dichiarazione di guerra”. Da Londra e Oxford a Berlino e New York, mentre questi musei iniziano a fallire, è più chiaro che mai che quelle teorie antropologiche della cultura materiale non sono mai state metafore innocenti, senza storie proprie o senza politica nel momento contemporaneo. Il fallimento del museo della cultura mondiale provoca una sorta di capovolgimento, una qualche forma di inversione figura- fondo. Bronzi del Benin → migliaia di opere d'arte sacre e reali della città del Benin in quello che oggi è lo stato di Edo, in Nigeria, saccheggiato violentemente nel 1897 da ufficiali della marina britannica e amministratori coloniali, ora sparsi in più di 160 musei in tutto il mondo. Decine di migliaia furono uccisi e il bottino di guerra acquisito caoticamente e mostrato per illustrare un'ideologia di supremazia culturale. Nella primavera del 2016, lo storico dell'arte John Boardman ha scritto sulle pagine di Common Knowledge: “Con i bronzi del Benin, lo stupro si è rivelato un salvataggio”. "Marmi di Elgin" → gruppo di sculture in marmo della Grecia classica realizzate in il V secolo a.C. e portato dal Partenone al British Museum da Thomas Bruce. Parlando ad una rivista greca nella primavera del 2019, Hartwig Fischer, direttore del British Museum, ha dichiarato: “Quando sposti il 50 possono dare potere e creare spazio a voci esterne all'istituzione e possono diventare una parte cruciale dell’aggiornamento citazionale di cui c'è bisogno nell'ambito della ricerca, allontanandosi dalle voci di uomini bianchi che occupano posizioni di autorità istituzionale Gettando via così rigorosamente concetti e strumenti come la biografia degli oggetti e sostituendoli con necrologia/necrografia, Hicks sostituisce la possibilità di una polifonia, dal basso verso l'alto, con un'altra prospettiva dall'alto verso il basso. Bisogna adottare n approccio che dia molto più spazio alle voci che sono state così violentemente soppresse? Accanto alla più ampia teorizzazione e riconoscimento della violenza che spiega Hicks, dobbiamo includere anche voci che, per esempio, stanno lavorando attraverso discorsi di guarigione e riparazione. I curatori di NMAI e di altri musei nazionali indigenizzati hanno insistito sul fatto che le loro narrazioni trascendono la colonizzazione concettuale e letterale del genocidio e dell'annientamento culturale come il quadro dominante utilizzato per rappresentare i popoli nativi. Piuttosto che l'antropomorfismo che Hicks deride, la biografia dell'oggetto è un canale attraverso il quale possono essere fatte diverse narrazioni visibili e materiali, consolidando epistemologie alternative nel museo. −Leggere il Trapper Point Blanket: Conquista in codice - Marlene Kadar, Professore I manufatti ritenuti significativi appartengono ai musei e quindi hanno uno status istituzionale. Gli artefatti occupano una zona intermedia ed ambigua, tra la storia politica e globale e la storia privatizzata dello spazio domestico e del dare. La coperta di lana Trapper Point è uno di questi oggetti collocati in modo ambiguo, un bellissimo tessuto → l'eredità è avvolta nella storia dei coloni canadesi e nel commercio di pellicce. La coperta funziona come un significante della vita domestica quotidiana. Anche se in questo caso non è il prodotto diretto dell'imperialismo violento, la coperta ha la crudeltà scritta nella sua trama→ il trauma causato dal furto dà una piena comprensione della sua storia. A causa di questa tardività, i suoi precedenti proprietari non avrebbero potuto cogliere la storia controversa della coperta come una cronologia semplice di storie traumatiche da cui si è evoluto. Essa rappresenta entrambi, soggetti e oggetti perduti e contestati. La visione “euro-pessimistica” dei musei di Dan Hicks è commovente nel considerare tali travagliati e storie traumatiche. La coperta di cui si vedono i dettagli qui è un regalo di nozze conservato in un archivio domestico. In quanto immigrata bianca, mia madre, si sposò nel 1948. La coperta celebrava un nuovo amore e un futuro pieno di speranza nella nuova terra → tuttavia, era stata rubata e le Prime Nazioni smantellate per fare spazio ai coloni bianchi e le future ondate di migranti: una storia complicata del lungo braccio della ricchezza e conseguente povertà. Hicks invoca la frase, morte-scrittura, in due modi: primo, come pratica che racconta il passato, ma lo fa nel presente, e secondo, come attività “forense” nel presente che si estende anche al futuro politico → come atto etico dell’antropologo che riconosce la necrografia ma intende anche affrontarla “scrivendo storie di furto” ed espropriazione. Suggerisco che gli studi di scrittura di vita possano intervenire per amplificare quella storia senza aderirvi completamente. Per me, il soggetto di una biografia è eroico e la loro storia di vita, coerente. Il rapporto tra scrittura di vita e scrittura di morte è impreciso, ma forse quest'ultima è compresa nel 51 primo e potrebbe essere il suo travestimento più virulento. Ecco come si comporta la coperta: ci invita a scoprire il suo travestimento al presente. Scrivere la vita di questo oggetto si fonde con la cronaca delle morti associate. Vermisst Benin. Un intervento artistico - Emeka Ogboh, artista Vermisst in Benin (Missing in Benin) è un intervento artistico che cerca di accelerare e attualizzare la narrazione intorno al rimpatrio dei manufatti del Regno del Benin attualmente in possesso del Museum fùr Vòlkerkunde Dresden. Il dialogo fino ad oggi è stato inefficace nel restituire i manufatti alla loro casa originale di Benin City, in Nigeria. (Varie immagini di poster nel saggio) Scendendo per le strade di Dresda con manifesti che dichiarano che questi bronzi sono "scomparsi in Benin", spero di demistificare quello che è diventato un dialogo elitario confinato al settore museale e artistico. Nel diventare di pubblico dominio, con il formato immediatamente riconoscibile di un poster scomparso, spero di far rivendicare questo problema come una responsabilità postcoloniale e sociale. Nessuno è esente dalle ripercussioni del colonialismo fino a quando continueranno a esistere questioni di proprietà e libertà continueranno esistere. La società deve agire nel suo insieme per rimpatriare manufatti che semplicemente non sono loro. Questi manifesti sono un invito all'azione, un messaggio trasparente e chiaro che può essere compreso da tutti. I manifesti di Missing si basano su una variabile assente: l'oggetto mancante stesso o il luogo in cui un oggetto dovrebbe essere restituito. Nella loro collaborazione al progetto, il Museum fùr Vólkerkunde Dresden apre il dialogo per una nuova via da seguire, che non si nasconde né si fa timida lontano dai fatti chiari e schiaccianti. −La conservazione come forma di violenza - Fernando Domfnguez Rubio Dan Hicks ci invita a ripensare il museo spostando la nostra attenzione su "storie di perdita e morte" trascurate. In questa breve risposta, voglio sostenere che questo cambiamento deve coinvolgere edifici come quello illustrato qui sotto. Situato in un angolo ignaro di Long Island, il Qns del Moma (deposito) straordinariamente insignificante è uno dei luoghi più importanti nel mondo dell'arte. Ci sono molti altri edifici come questo nascosti in bella vista in aree urbane e rurali anonime. D Depositi → lontani dalle narrazioni dei musei, anche se è il luogo in cui vive la stragrande maggioranza degli oggetti collezionati. Concordo con Hicks quando sostiene che dovremmo richiedere ai musei di informarci su “cosa c'è nel magazzini”. Ma penso anche che il nostro impegno con i depositi museali dovrebbe andare oltre questa richiesta → i depositi museali non sono semplicemente reperti fossili di forme passate di colonialismo e violenza. Sono macchine potenti che organizzano attivamente le logiche contemporanee di estrazione ed espropriazione attraverso la quale la violenza coloniale si perpetua e si estende oggi. I depositi contemporanei non si basano sulle "buone vecchie" forme di saccheggio e uccisione che ne sono derivate nel diciannovesimo e ventesimo secolo. Invece, operano attraverso una più sottile, ma ugualmente pervasiva e non meno efficace, forma di violenza infrastrutturale, una che sta al cuore della promessa di cura che offrono questi depositi. 52 I depositi contemporanei sono macchine potenti e sofisticate progettate artificialmente per prolungare la vita degli oggetti che contengono, rallentando i processi chimici e meccanici attraverso il quale la morte stessa si dispiega. Rallentare la morte non è facile, né a buon mercato. Esso richiede un apparato infrastrutturale complesso che coinvolga, tra l'altro, l’alta intensità energetica dei sistemi di condizionamento. Non dovrebbe sorprendere che solo i musei più grandi e ricchi possano permettersi macchine, ovvero che solo loro possono permettersi di mantenere la promessa di cura. Il mio invito a occuparmi dei depositi e delle loro storie non è semplicemente un invito a completare o estendere narrazioni sul museo con storie su ciò che si trova nel loro backstage. Se dobbiamo prestare attenzione ai depositi, è perché ci costringono a riconcettualizzare fondamentalmente il museo e il suo ruolo. Lo fanno mostrandoci che non è possibile separare gli oggetti da come vengono narrati, rappresentati, e da come sono conservati e curati. −Clémentine Deliss: Manifesto per il diritto di accesso alle collezioni coloniali sequestrate nei musei dell’Europa occidentale. Manifesto che tratta attraverso una specie di poesia dei musei coloniali europei e delle restituzioni. A che punto siamo nel 2021? 125 anni dalla prima Biennale di Venezia, con le sue infrastrutture colonialiste e l'anacronistico leone d'oro, adottato e adattato, per arrivare oggi a oltre 200 iterazioni in tutto il mondo. 29 anni dalla prima edizione di Dak'Art, la Biennale di arti visive del Senegal. 29 anni da quando Alpha Oumar Konaré, ex presidente del Mali e presidente dell'ICOM, ha dichiarato: "che è giunto il momento di mettere in discussione la base fondamentale della situazione e ucciso-Ripeto ucciso-. il modello occidentale di museo in Africa, affinché possano fiorire nuovi metodi per la conservazione e la promozione del nostro patrimonio". Ripensiamo a questi musei coloniali: 1863: Saint-Louis, Senegal: il Museo dell'Africa Tropicale, creato da Louis Faidherbe al servizio della Repubblica francese; 1907: Windhoek, Namibia: la struttura museologica creata dalla Germania coloniale; 1910: Nairobi, Kenya e Lagos, Nigeria: i musei fondati dall'imperialismo britannico; i musei britannici! E un secolo dopo, nel periodo della post-indipendenza: 1966: il Musée Dynamique 55 tornare ai protagonisti originali, i sacerdoti della fantasmagoria etnologica. Riportare le ancelle del colonialismo, e incoraggiare nuovamente il loro lavoro ermeneutico, ripristinare la legittimità della loro disciplina, proprio quando stavano per andare in pensione... Non ne siete sicuri? No, grazie! È allora che lo Stato europeo entra magnanimamente in scena, mano nella mano con il museo universale. del ventunesimo secolo! Ora, andate a ottenere un visto per visitare il vostro patrimonio! A Parigi, Londra, Vienna o Berlino! Un nuovo edificio con nuovi allestimenti, modellati da un design interno, esclusivo ed espansivo che aggiungono solo una frase o due... Perché è questo il punto: Non hanno documentato molto in quelle spedizioni coloniali, vero? Invece, si raccoglieva! Raccogliere! Raccogliere! L'escoriazione del nome dell'ingegnere, dell'artista, dell'architetto! E le bombe della Seconda Guerra Mondiale che hanno distrutto gli archivi. Gli incendi nelle riserve... Li conosciamo fin troppo bene. Ma che sollievo per l'analisi biografica! Quale conforto per lo status di "capolavoro"! Ma allora, come curare la ferita coloniale? "Uccidete il museo!" ha dichiarato Alpha Konaré. Aspettate! Insistiamo sulla restituzione! Ma non alla cieca, a passo di lumaca! Non aspetteremo la rianimazione etnologica per le "necrografie" e il commercio di organi per ripristinare i fantasmi del passato! Non aspetteremo il discorso della provenienza, con le sue politiche di cortesia, passo dopo passo, pezzo dopo pezzo. Dobbiamo agire ora, mentre la restituzione è in corso! 56 E spingere per una legislazione tra musei, per il diritto d'accesso alle storie dell'arte dei mondi conservate al British Museum di Londra. il Museo Quai Branly di Parigi il Forum Humboldt di Berlino il Tropenmuseum di Amsterdam il Museo dell'Africa di Bruxelles il Weltmuseum di Vienna e molti altri. Aprire i bunker E rivedere queste collezioni, mentre sono ancora in Europa. Osare ripensare radicalmente la condizione del museo, partendo dalle ferite più profonde, dove non esiste alcun riscatto per l'intermediario: il curatore. Costruiamo musei-università, con un'architettura fatta per la guarigione. Spazi fisici e concettuali per la riparazione e la reinterpretazione di questi agenti-oggetti. Affrontiamo la loro ostinata materialità, che è stata così terribilmente trascurata. Costruiamo assemblaggi incongrui e problematici, e sì, integriamo la digitalizzazione... Ma aspettate! Chi selezionerà ciò che deve essere digitalizzato? Chi accederà al cuore di questo patrimonio, consapevolmente nascosto o dimenticato, se non i colporteurs dell'etnologia e del mercato? E non dimentichiamo i parametri della conservazione! Quell'ideologia della sopravvivenza materialista, che è notevolmente impenetrabile, con la sua longue durée di mille anni o più. Basta con le monocolture! Basta con le piantagioni intellettuali! Basta con i mimetismi da museo! Basta con le egemonie estetiche! Basta con le gerarchie degli oggetti! 57 Basta con le piramidi museali! Quella "aria condizionata assente", quei "conservatori inadeguati", eccetera, eccetera... Cambiamo l'ergonomia dei musei, questi "accumulatori di orgone" del consumismo, e apriamo musei-università! Costruire spazi di indagine in questi serbatoi di ingegno, con spazi per l'intimità concettuale e la trasgressione disciplinare. sulla base di queste collezioni ansiose e contestate. Musei-università! Accogliere la nuova generazione di studenti e ricercatori più diasporici che mai. Con le loro politiche di comunicazione e metodologie decoloniali. Così, con prototipi brevettati, Sulla base di queste raccolte storiche occluse, possiamo rinominare gli autori esclusi, e restituire il rispetto e il diritto d'autore ai loro antenati! Organi e alleanze! Tutti voi! Artisti! Scrittori! Curatori! Registi! Avvocati! Architetti! Ecologisti! Antropologi! Fratelli e sorelle! Non c'è tempo da perdere! −Il teschio palestinese: la Nakba come scena del crimine al British Museum - Nicholas Mirzoeff, Nel suo recente libro, The Brutish Museums, Dan Hicks descrive la metodologia della sua trasformazione come lavoratore forense “perché si tratta di comprendere la verità sulla scena di un crimine”, un medico legale dell’archeologia. Si consideri il cosiddetto Cranio di Gerico nel British Museum, risalente al Neolitico preceramica del periodo B (8500 a.C.-6000 a.C.), trovato con grande clamore dagli inglesi. 60 centrale nell’attesa della mostra permanente del Museo dell'Epopée delle Amazzoni e dei Re del Dahomey nel 2023. Di nuovo ad Abomey, il trono acquisirà una nuova vita. Per i discendenti del re, il trono rappresenta la loro eredità. Ai discendenti delle vittime dei crimini di Gezo, il trono può contribuire ad aprire vecchie cicatrici e forse per generare una nuova “necrografia”. Nicholas Thomas Il museo come metodo Musei oggi → anacronistici e coloniali ma stanno attraversando un successo mai visto in passato: attirano più visitatori, hanno un peso maggiore nella vita culturale e dispongono di molte risorse finanziare. Tutti i musei, piccoli e grandi, negli ultimi venti anni hanno avuto miglioramenti e investimenti incredibili. Antropologia → un tempo legata fortemente al museo etnografico, per poi allontanarsi con la crescita delle questioni sociali. L’antropologia continua ad allontanarsi dal museo, ma il paradosso → pubblico conosce l’antropologia attraverso il museo. Aumentano drammaticamente i visitatori dei musei e delle collezioni antropologiche, ma diminuisce costantemente la conoscenza reale di questo settore. L’attuale successo di questi musei mette a fuoco diverse questioni. Thomas si chiede, il modo in cui noi (curatori di collezioni etnografiche) concepiamo ciò che stiamo facendo, se le nostre istituzioni sono meno inserite nell’antropologia accademica e più in un ambito di impegno pubblico. L’antropologia resta la disciplina che informa le collezioni antropologiche, per esserne a sua volta informata? per passare dalla teoria e dalla ricerca all’impegno pubblico – come dovrebbero essere esposte le collezioni antropologiche, quali storie dovrebbero raccontare, quali domande dovrebbero sollevare? I critici, compresi gli attivisti indigeni, sono diventati curatori, e la nuova generazione di curatori è stata formata dai critici. Una concezione postcoloniale del museo etnografico è entrata nella mentalità, non dell’intera professione museale, ma della maggior parte di coloro che si occupano di materiale etnografico e di arte nativa contemporanea → si prevede che le comunità originarie vengano consultate intorno a progetti espositivi o di ricerca; esse sono infatti, sempre più, collaboratrici a pieno titolo. La pratica museale viene quindi esplorata come un metodo, attraverso tre momenti chiave: scoperta, didascalia, accostamento. Cosa, tra tutto ciò che è accaduto in passato, dobbiamo ricordare e considerare significativo? Che presenza e che peso hanno le storie e i loro residui sulle nostre diverse vite? Se il momento della scoperta ci offre molto su cui riflettere, quel pensiero deve essere attentamente e deliberatamente esaurito nell’atto della didascalia. Per didascalia si intende non solo la composizione letterale di una riga di testo che potrebbe accompagnare un'immagine o un oggetto, ma anche l'attività di descrizione e contestualizzazione discorsiva di qualsiasi pezzo da museo. C’è stata una grande discussione circolare sulla questione se i manufatti etnografici dovessero essere descritti e presentati come opere d’arte o contestualizzati antropologicamente. Il momento dell’accostamento nasce perché gli oggetti raramente vengono esposti da soli. Qualunque cosa sia, bisogna chiedersi con cosa sta, con cosa può essere messo in serie o con cosa 61 può essere opposto. Oggetti che appartenevano alla vita segreta, esoterica, rituale di uomini maturi (per favore non 'di comunità') possono essere collocati con strumenti quotidiani? Dove la differenza diventa incommensurabilità? Quando è sbagliato, e quando potrebbe essere giusto, mettere insieme cose incommensurabili? Le collezioni antropologiche sono sempre anche collezioni storiche, sono il prodotto, la prova e forse anche la memoria di storie intrecciate. Vale la pena considerare come le storie di oggetti particolari, di collezioni particolari e quelle dell’istituzione nel suo insieme potrebbero diventare lenti su questioni molto più ampie di storia interculturale e coloniale. Alcune collezioni includono materiale sequestrato in seguito al conflitto, e le difficili storie di quelle collezioni, e le eredità di quelle storie, devono essere riconosciute e spiegate. Il testo approfondisce la presentazione delle collezioni antropologiche, criticando l'approccio delle "culture del mondo" e suggerendo che le esposizioni dovrebbero riflettere storie interculturali e coloniali. Si sottolinea che le mostre dovrebbero sollevare domande difficili anziché fornire risposte, incoraggiando il pubblico a esplorare e scoprire storie inaspettate. Il contatto, la collaborazione, la negoziazione e la partnership devono far parte del lavoro continuo di qualsiasi museo →museo come zona di contatto, Clifford L'autorità curatoriale è messa in discussione, non solo dalle “comunità”. Se, negli anni Ottanta e Novanta, i commentatori erano preoccupati per la decolonizzazione della conoscenza, quell’apertura era spesso facilitata e mediata da curatori che rivalutavano e riposizionavano la loro esperienza. Ormai, un numero crescente di curatori e professionisti museali è, comunque, di origine indigena. Il nuovo problema è piuttosto che la ristrutturazione dei musei ha in troppi luoghi declassato la pratica curatoriale basata sulla ricerca. In molte istituzioni, c’è semplicemente meno competenza sulle collezioni, e meno esperienza per negoziare le sfide che sollevano, che vanno dalle complessità della provenienza alle questioni etiche di accesso e interpretazione. L'autore conclude evidenziando che il museo come metodo offre un modo di esplorare la storia interculturale e coloniale in profondità e in modo significativo. Suggerisce che le collezioni possono essere utilizzate per stimolare la riflessione su questioni complesse, offrendo un'alternativa alle narrazioni semplificate. Il concetto di "museo come metodo" si riferisce a un approccio museale che va oltre la mera presentazione di oggetti o collezioni. Invece di considerare il museo solo come un luogo in cui esporre manufatti, l'idea è di vedere il museo come un metodo di esplorazione, ricerca e interpretazione della cultura e della storia. In questo contesto, il termine "metodo" si riferisce a un approccio organizzato e sistematico alla raccolta, all'esposizione e all'interpretazione delle collezioni. Piuttosto che limitarsi a mostrare oggetti, il museo come metodo implica un coinvolgimento attivo con gli oggetti, cercando di scoprire le loro storie, i loro significati culturali e le connessioni con il contesto più ampio.
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