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Requisiti e competenze degli educatori penitenziari, Dispense di Sociologia della Devianza e della Criminalità

Una panoramica dettagliata dei requisiti culturali e formativi, competenze e materie disciplinari necessarie per diventare un educatore penitenziario. Inoltre, vengono esposte le origini culturali della legge sull'ordinamento penitenziario e il ruolo del corpo di polizia penitenziaria.

Tipologia: Dispense

2023/2024

Caricato il 12/03/2024

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silvia-pia 🇮🇹

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Scarica Requisiti e competenze degli educatori penitenziari e più Dispense in PDF di Sociologia della Devianza e della Criminalità solo su Docsity! Sartarelli G Prima parte. Capitolo 1. Aspetti metodologici delle scienze umane 1.1 Sulla metodologia della ricerca Nel momento in cui si presenta un problema (di natura scientifica, psicologica, sociale) possiamo dire che viene costituirsi e a sistematizzarsi una disciplina, la quale si avvarrà di più conoscenze o di più teorie. Nella prassi corrente ogni disciplina aspira ad essere una “scienza”. A seconda del significato che viene attribuito a questo termine, si crea uno spartiacque tra le due culture, quella scientifica e non. Una distinzione netta si può far risalire al positivismo logico viennese ed agli analisti del linguaggio. Il neopositivismo rappresenta un orientamento di pensiero espresso dal cosiddetto Circolo di Vienna1. Il nucleo centrale della riflessione dei neopositivisti era che il principio di verificazione, ossia di demarcazione tra asserzioni sensate e proposizioni insensate, avrebbe dovuto costituire il criterio di validazione della scienza. In tal modo quegli autori avrebbero considerato scientifiche soltanto le proposizioni analitiche e quelle sintetiche, ad esempio quelle della matematica e quelle della fisica. Di conseguenza, sarebbero state da respingere, secondo i neopositivisti, in quanto non suscettibili di dimostrazione o di verifica sperimentale, tutti gli altri settori della conoscenza, tra cui quello relativo alle scienze umane. Va rilevato tuttavia che le recenti acquisizioni della filosofia della scienza hanno accreditato la tesi del superamento della separazione categoriale che il neopositivismo aveva effettuato tra le scienze naturali da un lato e le scienze umane dall'altro. Lo stesso Popper si era impegnato a dimostrare che mentre il metodo scientifico è unico (tanto per le scienze naturali quanto per quelle sociali), diverse sono invece le tecniche di dimostrazione delle ipotesi. Anche l'atteggiamento fideistico (retaggio della filosofia del positivismo) nell'oggettiva della scienza e della ricerca scientifica è venuto meno. Il carattere di oggettività della conoscenza viene in parte inficiato dal fatto che quest'ultima viene filtrata dal ricercatore, il quale opera in un determinato contesto (storico, sociale, ambientale, scientifico). Pertanto, alcuni autori arrivano a concludere che la finalità della scienza non consiste tanto nella predittività, giacché la previsione è sempre un'osservazione post factum. La funzione della scienza consiste nella ristrutturazione delle nostre acquisizioni cognitive. 1.1 Dalla spiegazione causale alla spiegazione di tipo probabilistico In generale, il bisogno di spiegare e di prevedere i fenomeni (psicologici, sociali, culturali, ambientali e scientifici) è intimamente connaturato con l'esigenza di placare l'ansia della conoscenza, di avere risposte concrete ai molteplici quesiti umani. Ciò premesso, va rilevato che nella ricerca scientifica, soprattutto quando si incorre nella necessità di dover formulare leggi generali che presuppongano richiami a fatti o a fenomeni non conosciuti, esiste la tendenza da parte di vari ricercatori e operatori a pensare in maniera induttiva: ciò in quanto quest'ultima, tra l'altro, ci fa accettare il rischio dell'errore. Per lungo tempo la conoscenza scientifica ha fatto uso di generalizzazioni: le stesse leggi geometriche e quelle astronomiche contengono asserzioni generali, del tipo se allora sempre, che rappresentano un rapporto causale tra tutti i fenomeni di un certo tipo. Questo significa che nel rapporto causa-effetto che lega due fenomeni, la ripetizione deve presentarsi sempre: ad esempio, se un metallo viene riscaldato a sufficienza, allora sempre si liquefa. Diversamente potrà parlarsi soltanto di coincidenza casuale. Per quanto riguarda le motivazioni che spingono a ricercare le leggi causali dei fenomeni, analogamente a quanto sopra rilevato, va detto che tale ricerca è strettamente legata alla nostra tendenza subconscia a rifare l'universo a nostra immagine. La ricerca della spiegazione causale, espressione diretta del paradigma deterministico della scienza, è stata messa in crisi dalla moderna epistemologia delle scienze naturali e delle scienze umane. Lo stesso principio di indeterminazione, formulato da Heisenberg nel 1927, relativo alla meccanica quantistica, ha portato a rinunciare al costrutto teorico della rigida causalità, in favore di una implicazione probabilistica. La conseguenza pratica di tali assunti riveste notevole rilievo anche per le scienze umane: ad esempio, in criminologia la concezione probabilistica relativizza la teoria, valutandola per la sua contingente e provvisoria efficacia esplicativa e smitizza l'assolutezza del dato, riconoscendo che anche l'osservazione dei fatti empirici è sempre, in misura maggiore o minore, interpretazione di essa. Il fatto tuttavia che la conoscenza, sia nel panorama delle scienze cosiddette esatte sia in quello delle discipline umanistiche, non rappresenti lo specchio fedele della realtà, non deve comunque scoraggiare il cammino della ricerca scientifica. In buona sostanza, il superamento del rigido modello esplicativo di tipo deterministico, operato nelle scienze naturali, ha di riflesso orientato le stesse scienze umane e sociali a respingere il paradigma della causalità, a vantaggio di modelli teorici strutturati in maniera relativistica, così da poggiare la teoria scientifica stessa sulla base del principio del contingentismo, ossia della sua momentanea funzione esplicativa. 1.2 Definizione di scienza È un dato di realtà che ogni scienza si strutturi in più teorie; affinché essa possa definirsi tale occorre che circoscriva preventivamente l'oggetto di indagine e chi compie l'indagine stessa. È l'oggetto di indagine, nonché il modello concettuale utilizzato dal ricercatore, a definire i contenuti, gli ambiti di competenza, la specifica identità di una determinata area disciplinare, ed a fare in modo che essa si costituisca come scienza autonoma. Definiamo quindi la scienza come un sistema di conoscenze, acquisito in un determinato settore dello scibile umano, organizzato in maniera sistematica, metodica, ed in modo tale che gli assunti di base possano essere confutabili, falsificabili o, al contrario, confermabili. A ciò è da aggiungere che tali assunti devono essere sottoposti all'esame di critiche logiche o di prove e confronti con i dati di realtà. Secondo Popper, lo scopo della scienza è quello di trovare spiegazioni soddisfacenti a tutto ciò che ci colpisce come bisogno di spiegazione. Con Popper la fisionomia della scienza muta radicalmente, fino a superare i metodi induttivo e deduttivo. Ciò è stato possibile con la proposta del primato della teoria, dell'ipotesi sui fatti, e sostituendo al metodo positivistico quello cosiddetto falsificazionistico. Nell'orientamento logico-deduttivo, l'intelletto diviene la fonte principale della conoscenza, indipendentemente da ogni forma di validazione empirica. Al metodo scientifico che si ispira alla deduzione logica, si contrappone quindi il metodo induttivo- sperimentale, che si è sviluppato nel XVII secolo, soprattutto nell'ambito delle scienze naturali. La fonte della conoscenza è data dall'esperienza, dall'osservazione empirica. Mentre nella prova logica la deduzione è già inclusa nella premessa, nell'inferenza induttiva avviene qualcosa di diverso. Al fine di impadronirsi del reale, la scienza ha bisogno di organizzare delle teorie, le quali hanno la funzione di ampliare le conoscenze relative al fenomeno studiato e di stimolare in tal modo la ricerca scientifica. Ma oltre a questa finalità, la teoria ne ha anche delle altre, tra cui la riduzione della complessità del reale. Lo scopo della teoria è quindi quello di conoscere e di spiegare più a fondo un dato evento, da ciò la sua utilità pratica. Ogni scienza, dunque, si avvale di un modello concettuale esplicativo e di un suo campo di indagine. Tale modello consente la comprensione dei fenomeni e degli eventi osservati, fornendoci informazioni su di essi. In ambito pedagogico, si ritiene di individuare nei modelli teorici una particolare valenza conoscitiva che permette di far comprendere le dinamiche relazionali e/o esistenziali della persona umana. Nel momento in cui la pedagogia utilizza i saperi di altre scienze umane (dalla filosofia alla storia, dall'etica alla religione, dalla sociologia al diritto, dalla psicologia alla linguistica) per la costruzione del suo fine specifico, che è quello della formazione della personalità dell'uomo attraverso l'azione educativa, essa si caratterizza per il suo aspetto interdisciplinare. 2.3 Requisiti culturali e formativi, competenze dell’educatore Introducendo alcune considerazioni generali sui curricula accademici degli educatori penitenziari, appare evidente che i titoli più idonei siano costituiti attualmente dalla laurea triennale in Scienze dell'Educazione (L-19) e dalla laurea magistrale in Scienze Pedagogiche (LM-85) o altre lauree magistrali di ambito pedagogico attualmente esistenti nell'ordinamento universitario (LM-50 Programmazione e gestione dei servizi educativi, LM-57 Scienze dell'educazione degli adulti e della formazione continua o LM-93 Teorie e metodologie dell'e-learning e della media education). Va tuttavia rilevato che il conseguimento di questi titoli probabilmente necessita di essere integrato con una formazione più ampia, che preveda sia un'attività di tirocinio nel settore in cui l'operatore andrà ad inserirsi professionalmente, sia la partecipazione a seminari ed a gruppi di orientamento per l'intervento in situazione. Quest'ultima considerazione è avvalorata da un elemento assiomatico importante: la relazione interpersonale è alla base dell'attività educativa del formatore e del pedagogista, il detto socratico “conosci te stesso” trova espressione nell'apprendimento di un'adeguata cognizione delle proprie dinamiche personali, di natura affettiva e razionale. In questo senso, una conoscenza psicoterapica offre la possibilità al professionista dell'educazione di avere uno strumento prezioso per la conoscenza di sé e delle modalità di relazionarsi agli altri pur nella necessaria consapevolezza di non potersi sostituire al terapeuta. La cultura di base del professionista dell’educazione circoscrive l'aspetto relativo al bagaglio di conoscenze teoriche in ambito pedagogico e nelle discipline afferenti ad esso, mentre la sua capacità di riposarsi esorta gli operatori a curare ed a mantenere una sorta di equilibrio psicosomatico interno. Le altre caratteristiche possibili che un professionista dell'educazione deve avere (conoscenza di sé, capacità di introspezione, capacità di ascolto, empatia, umanità, capacità relazionali, capacità personali, capacità organizzative, equidistanza intesa come consapevolezza del quando è necessario un distacco emotivo, intelligenza emotiva, valorizzazione dell'altro) colgono opportunamente il valore della conoscenza e della relazione per meglio comprendere e sostenere l'utente nei processi di crescita personale. In questa dimensione si inserisce anche l'eticità dell'educatore, la sua capacità di promuovere il mondo dei valori tipicamente umani e l'educazione alla legalità. È per questa ragione che il requisito della competenza professionale di tipo psicologico viene caldeggiato da vari autori nella descrizione della professionalità pedagogica. Va osservato che per quanto riguarda i requisiti culturali, finora non è stato ancora richiesto dall'amministrazione penitenziaria il possesso esclusivo di un diploma di laurea in Pedagogia o Scienze dell’Educazione, aprendo le selezioni per il ruolo di educatore penitenziario spesso anche ad altre figure professionali. A quanto già rilevato in tema di formazione di base, va aggiunto che si rende necessario garantire una formazione permanente all'educatore penitenziario, e in particolare delle modalità di formazione integrata con gli operatori territoriali. Storicamente, nel settore degli adulti, gli educatori nascono con la legge di riforma penitenziaria del 1975 ed assumono servizio negli istituti penali a decorrere dal 1979. Per quanto concerne le loro attribuzioni, l'Ordinamento Penitenziario, all'articolo 82, comma 1, statuisce che gli educatori partecipano all'attività di osservazione scientifica della personalità dei detenuti e degli internati, ed attendono al trattamento rieducativo individuale e di gruppo, coordinando la loro azione con quella di tutto il personale addetto alla rieducazione. Nello specifico, gli educatori penitenziari garantiscono l’espletamento dei seguenti compiti: -Segreteria tecnica del gruppo di osservazione – Mantenere i collegamenti operativi tra i vari componenti dell'equipe, così da garantire lo scambio delle informazioni sugli interventi svolti e l'aggiornamento della documentazione relativa ai singoli detenuti. -Partecipazione alle commissioni -Per le attività culturali, ricreative e sportive (articolo 27 dell'Ordinamento Penitenziario) -Per il consiglio di disciplina secondo l'articolo 40 dell'Ordinamento Penitenziario -Per il controllo della qualità e quantità del vitto dei detenuti -Per l'ammissione al lavoro interno -Colloqui (Di primo ingresso, Di sostegno, Per l'osservazione e il trattamento - La finalità del gruppo di osservazione della personalità è quella di pervenire alla stesura di un documento condiviso tra gli operatori, che contenga elementi sufficienti per formulare, motivandolo, un programma individualizzato di trattamento per i detenuti e/o gli internati) -Coordinamento degli interventi socio-psico-riabilitativi, per detenuti tossico ed alcoldipendenti, di concerto con gli operatori del SERT -Rapporti con la magistratura ed il tribunale di sorveglianza – Ai fini della trasmissione di atti o documenti necessari per decidere in ordine alla concessione, sospensione, revoca o rigetto delle istanze dei condannati, in materia di misure alternative, di permessi premio e liberazione anticipata. -Gestione dei detenuti stranieri - anche in collaborazione con i mediatori culturali Per quanto riguarda invece le competenze dell'educatore penitenziario, vanno individuate le seguenti aree cognitivo-operative: -Conoscenza delle discipline psicologiche e pedagogiche – Al fine di intervenire con efficacia sulle condizioni di apprendimento e sugli aspetti cognitivi e relazionali dei reclusi -Cultura giuridica – Per garantire all'educatore la possibilità di un'adeguata stesura o formulazione delle varie istanze amministrative o riguardanti la normativa penitenziaria -Competenze informatiche – Per dare la possibilità all'educatore di collegarsi in rete e seguire corsi di formazione a distanza Tra le materie disciplinari vanno infine segnalate: • Modelli teorici in pedagogia • Pedagogia della marginalità e della devianza • Educazione degli adulti • Analisi delle dinamiche di gruppo • Teorie della devianza e della criminalità • Tecniche del colloquio • Scienza dell'organizzazione • Psicologia sociale • Psicologia della personalità • Psicopatologia • Cultura giuridica: ordinamento penitenziario, diritto penale, procedura penale, diritto amministrativo, diritto del lavoro, diritto minorile e di famiglia • Competenze informatiche • Conoscenza delle risorse del territorio, al fine di agevolare il reinserimento lavorativo Capitolo 3. Dalla pedagogia generale alla pedagogia penitenziaria 3.1 Excursus storico della concezione del carcere e della pena Con il concetto di sistema penitenziario si intende fare riferimento agli apparati organizzativi che hanno la finalità, all'interno del più complessivo sistema penale, di provvedere alla esecuzione delle pene (in generale limitatamente a quelle privative o limitative della libertà) inflitte dai tribunali ed alla custodia dei soggetti in attesa di giudizio. Nella storia del carcere assistiamo essenzialmente al passaggio da un'organizzazione di tipo punitivo ad un'altra che vuole essere invece primariamente rieducativa, almeno negli intenti del legislatore. È interessante osservare che il termine “penitenziario”, derivato etimologicamente da “penitenza”, esprime bene la finalità della pena, intesa come castigo per ottenere il riscatto. Nella chiesa romana, penitenzière e penitenziario stavano ad indicare il confessore. Le origini del penitenziario risalgono quindi al periodo medievale, con l'esperienza della prigione monastica. I tratti caratteristici del penitenziario ecclesiastico sono appunto da identificare nel concetto di isolamento-privazione della libertà, finalizzato alla penitenza, tappa obbligata per la redenzione e cioè per quella che poi sarà chiamata rieducazione. Nel medioevo la prigione era solitamente inglobata nel castello o nell'Oppidum. Dunque, essendo la prigione ricavata nei sotterranei o nel maschio del castello non aveva alcun bisogno di propri sistemi di sicurezza. Il carcere moderno nasce a Roma, su iniziativa del Papa Innocenzo X, il quale ordina che vengano costruite le “Carceri Nuove”. Siamo tra il 1652 e il 1655. La prigione innocenziana può essere considerata come il primo edificio carcerario, in stile tardo rinascimentale, progettata e costruita di sana pianta, dalle fondamenta fino al tetto, dalle mura maestre alle pareti delle celle, esclusivamente per la sua specifica funzione custodialistica. Un edificio concepito per farvi trascorrere un periodo di isolamento coatto con scopo emendativo e di medicina dell'anima. La necessità di dover prendere in considerazione le attività lavorative e religiose, quali aspetti della rieducazione, accanto all'elemento punitivo della pena portò alla creazione della prigione Clementina, voluta da Papa Clemente XI. Ma sul piano strettamente filosofico-giuridico, va rilevato che, contrariamente ai dettami dell'arbitrio e dell'autoritarismo monarchico, che portarono alla prassi di somministrare le pene corporali, si vennero affermando le idee di alcuni pensatori il cui capostipite fu certamente Cesare Beccaria (1738-1794) l'antesignano della cosiddetta Scuola classica del diritto penale. Questi pubblicò nel 1764 l'opera poi universalmente nota come Dei delitti e delle pene, la quale rappresenta il manifesto dell'ideologia liberale nel campo del diritto penale. Il lavoro di Beccaria si può riassumere in tre assunti fondamentali: • Necessità della universalità e della chiarezza della pena • Abolizione della condanna a morte e delle pene corporali • Giusta correlazione tra entità della pena e gravità del reato commesso Il pensiero penalistico classico trova poi espressione autorevole in Francesco Carrara (1805-1888). Il quale delinea una filosofia della pena riassumibile nei seguenti assunti: • Il reato viene concepito come ente giuridico e non di fatto, cosa che comporta tuttavia un'astrazione dallo studio e dalla valutazione della personalità del reo, considerato quest'ultimo come libero di scegliere le proprie azioni e quindi dotato di responsabilità etica e giuridica; • In quanto negazione del diritto, il reato può estinguersi soltanto al prezzo dell'applicazione della pena: da qui l'elemento di “utilità” e di “necessità” di essa; • Il carattere di “certezza” della pena richiama invece il garantismo insito nella corretta applicazione dei codici penali; • Il principio di uguaglianza avrebbe dovuto tendere ad assicurare che nella somministrazione della pena a persone diverse, per la stessa tipologia di reato, non si fossero verificate disparità di trattamento. Va osservato che in contrapposizione al modello classico si venne affermando il modello positivista. Il precursore di tale indirizzo criminologico fu sicuramente Cesare Lombroso (1835-1909), il quale pubblicò, nel 1876, un lavoro di ricerca chiamato L'uomo delinquente. Ma anche volendo considerare il solo aspetto rieducativo, è pur vero che non si possono trascurare i tentativi messi in atto dai detenuti di strumentalizzare le attività trattamentali e gli interventi degli operatori dell'area psicopedagogica al fine di ottenere i vari benefici previsti dalla normativa penitenziaria. Il recupero sociale del soggetto recluso si realizza in particolar modo attraverso l'applicazione delle misure alternative alla detenzione, le quali assolvono, tra l'altro, alla duplice funzione di evitare il più possibile il contatto del soggetto con l'esperienza carceraria e all’esigenza di ridurre il numero della popolazione detenuta, in considerazione dei ben noti problemi di sovraffollamento carcerario. ➢ Apertura del sistema penitenziario alla comunità esterna. Per quanto attiene all'apertura del sistema penitenziario alla comunità esterna, questa viene esplicitamente prevista dall'articolo 17 dell'Ordinamento Penitenziario, laddove si afferma che la finalità del reinserimento sociale dei condannati e degli internati venga perseguita con la partecipazione di privati e di istituzioni o associazioni pubbliche o private all'azione educativa. In via teorica, è possibile considerare la comunità carceraria e la comunità esterna come due parti contrapposte di una medesima realtà. La società civile ha il compito di aprirsi al carcere, affinché questo si trasformi realmente da una istituzione totale ad una istituzione sociale. L'apertura al sociale potrebbe inoltre essere favorita attraverso la creazione di un servizio sociale penitenziario, da collocare ad un livello intermedio rispetto all'area interna, relativa alla sicurezza, ed all'area esterna, espressione degli enti locali, che gestirebbero la fruizione delle misure alternative. ➢ Costituzione di ruoli nuovi di operatori professionali. Con la legge di riforma penitenziaria è stata introdotta la figura dell'educatore. Nel quadro delle competenze operative dell'educatore penitenziario è da sottolineare la circolare dell'Amministrazione Penitenziaria n. 2598/5051 del 13 aprile 1979: Attività di osservazione e trattamento dei condannati e degli internati, nella quale si stabilisce che l'osservazione degli atteggiamenti umani del soggetto detenuto venga svolta dall'educatore; l'elaborazione degli aspetti socio-familiari sia di competenza dell'assistente sociale; gli elementi cognitivi, affettivi e caratteriali del detenuto, costituiscano materiale di indagine da parte dello psicologo. La competenza dell'educatore, nella versione pedagogica moderna relativa al settore degli adulti, vai intesa come rivolta soprattutto ad obiettivi di consolidamento motivazionale, di sostegno e di rilascio delle energie personali positive, di incoraggiamento dei sentimenti di responsabilità ed impegno, che possono condurre gradualmente i detenuti ad assumere un atteggiamento costruttivo nei confronti della realtà del carcere e dei suoi programmi. Senza dubbio la riforma del 1975, con l'introduzione della figura professionale dell'educatore, ha sancito il passaggio da detenuto oggetto ha detenuto soggetto e quindi artefice di un percorso educativo. ➢ Giurisdizionalizzazione dell'esecuzione penale. Con il nuovo Ordinamento Penitenziario sono stati creati due livelli di giurisdizione, affidato il primo al magistrato di sorveglianza ed il secondo al tribunale di sorveglianza. Dal contesto della normativa si coglie che è stata attribuita alla magistratura di sorveglianza la delicata competenza di trasformare le pene detentive in misure parzialmente o totalmente alternative alla carcerazione. Il sistema bifasico è costituito dalla legge penale e dalla legge penitenziaria: la prima viene rappresentata dal giudice della cognizione, la seconda dal magistrato di sorveglianza. Questa ripartizione delle funzioni giurisdizionali consente di distinguere il momento del procedimento penale da quello relativo all'applicazione dell'esecuzione penale. Nella pratica, mentre l'organo giudicante stabilisce una pena massima, la magistratura ed il tribunale di sorveglianza decidono quanto di quella pena debba essere scontata se in carcere o in misura alternativa. I rapporti professionali che intercorrono tra gli operatori penitenziari del trattamento e la magistratura di sorveglianza trovano espressione nella cosiddetta relazione di sintesi, un documento elaborato in modo unitario dall'équipe di osservazione e trattamento, nel quale vengono indicate le proposte operative in ordine alla possibilità di ammettere il detenuto ai vari benefici, previsti dall'ordinamento penitenziario e dalle altre fonti normative. 3.3 Elementi di pedagogia penitenziaria Se ci si sofferma nella disamina degli aspetti epistemologici fondanti la pedagogia penitenziaria. Nello specifico bisogna concepire una pedagogia applicata al penitenziario, ossia una disciplina che si avvale del bagaglio conoscitivo di altre scienze umane il cui discorso, così amplificato, risulti pedagogicamente estendibile al settore carcerario. La pedagogia penitenziaria trova la sua identità strutturante nel momento in cui viene coniugata agli interventi relativi all'osservazione ed al trattamento dei detenuti e degli internati. Per converso, è la specificità del campo di applicazione di una data disciplina, che consente di promuovere un insieme di conoscenze e di formare delle competenze, che possono corroborare i costrutti teorici di quelle scienze da cui è scaturita l'applicazione stessa. Applicando queste premesse nel quadro della strutturazione dei corsi universitari, si può serenamente sostenere un inserimento della pedagogia penitenziaria tra le discipline che formano il corpus teorico-pratico del corso di laurea in Scienze dell'educazione degli adulti, Scienze pedagogiche, Psicologia e Sociologia. L'oggetto della pedagogia si estende dallo studio dell'educazione, intesa come acquisizione di elementi valoriali e potenziamento della personalità umana, all'analisi delle modificazioni. Il tema della formazione della personalità centrata sulla "pedagogia dei valori umani" viene sviluppato da un'ampia letteratura di riferimento. Tale dimensione assiologica della pedagogia, in quanto scienza dei valori, trova espressione possibilità d'applicazione, oltre che nel settore scolastico anche in ambito extrascolastico. Per quanto riguarda il mondo penitenziario, va tenuto presente che anche il detenuto è una persona destinataria di valori. Sulla base di quanto già rilevato, è possibile ritenere che il metodo pedagogico debba essere contestualizzato, ossia adattarsi al particolare intervento dell'educatore in uno specifico ambito di competenze. Le linee guida dei programmi educativi vanno enucleate essenzialmente nel criterio dell'individualizzazione e della rieducazione, nel criterio dell'integrazione individuale ed interpersonale. Il metodo deve inoltre possedere i caratteri dell'efficacia e della trasposizione o ripetibilità. In ambito penitenziario, il criterio della individualizzazione del trattamento risulta esplicitamente previsto dall'art. 1 dell'Ordinamento Penitenziario, il quale recita, al sesto comma: « Nei confronti dei detenuti e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l'ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi ». In sostanza, il trattamento penitenziario, attraverso l'impiego di specifiche attività e di particolari interventi, ha lo scopo di modificare la personalità del reo in senso eticamente valido e socialmente congruo; quindi, nel prevenire la recidiva del reato, attraverso l'individuazione ed il superamento di quei fattori che hanno impedito al detenuto una sana integrazione sociale. Per quanto riguarda le competenze degli educatori penitenziari, queste vanno individuate essenzialmente nel dettato normativo dell'art. 82 della L. n. 354/1975 nota come Legge di Riforma penitenziaria (Ordinamento Penitenziario). L'articolo, dal titolo “attribuzioni degli educatori”, al primo comma, così recita: « Gli educatori partecipano all'attività di gruppo per l'osservazione scientifica della personalità dei detenuti e degli internati e attendono al trattamento rieducativo individuale o di gruppo, coordinando la loro azione con quella di tutto il personale addetto alle attività concernenti la rieducazione ». Dunque, è la giurisprudenza penitenziaria a definire il campo di applicazione della pedagogia, la cui identità epistemologica nasce dalla confluenza di contributi scientifici diversi. Tuttavia, occorre rilevare che l'idea di rieducazione va sostanziata di contenuti possibili e realistici perché non rimanga un punto del nostro immaginario di operatori penitenziari o solamente un topos culturale per astratti ed onirici riferimenti. Rieducazione, allora, come processo di emancipazione, di affrancamento del cittadino detenuto nel suo contesto di vita. Non soltanto, anche affrancamento dalle proprie convinzioni limitanti e dagli inquinanti psicologici" interni. In tale prospettiva, appare opportuno parlare di psico-educazione. A proposito dell'osservazione scientifica della personalità, indicato nell'articolo sopraccitato, pur considerando le difficoltà che l'operatore incontra nel pervenire all'esame oggettivo del fenomeno da analizzare (nella fattispecie, la persona detenuta), occorre ricordare che gli strumenti psicodiagnostici e psicoterapeutici oggi a disposizione (e dunque la collaborazione del professionista dell'educazione penitenziaria con lo psicologo) possono comunque farci comprendere l'uomo in quasi tutte le sue caratteristiche di pensiero e di comportamento. Inoltre, appare chiaro il richiamo a quanto previsto dall'art. 27 del Regolamento di esecuzione della Legge 354/1975, ossia il D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, laddove al comma primo, osservazione della personalità, statuisce che essa [...] è diretta all'accertamento dei bisogni di ciascun soggetto, connessi alle eventuali carenze fisico- psichiche, affettive, educative e sociali, che sono state di pregiudizio all'instaurazione di una normale vita di relazione. Inoltre, le tecniche o strategie dei singoli educatori possono variare in funzione sia della propria abilità che della rispettiva formazione professionale. Il modello trattamentale è valido nella misura in cui l'operatore sia in grado di utilizzare bene gli strumenti sopra riportati e possegga una solida formazione umanistico- pedagogica, ossia una visione antropologica allargata. Le tecniche operative vanno inoltre integrate sinergicamente con quelle degli altri operatori dell'esecuzione penitenziaria (assistenti sociali, psicologi, volontari, cappellano, e altre figure). Ma al di là dell'utilizzazione di tecniche operative, sono le qualità umane a dover fare da contenitore principale a quei contenuti che definiamo come metodi o tecniche di intervento. Capitolo 4. Pedagogia della devianza minorile 4.1 Considerazioni generali Affrontare il tema della devianza, del soggetto adulto deviante, presuppone necessariamente l'analisi preventiva del fenomeno in età minorile, giacché è nelle fasi infantile e adolescenziale che si pongono quelle condizioni che orienteranno poi le scelte del giovane verso quel tipo di esistenza. La disamina della devianza minorile si configura quindi come fenomeno complesso, in quanto molteplici risultano essere le variabili che entrano in gioco nel determinismo di quella particolare condotta interpersonale, peraltro assai diffusa nell'età contemporanea, e che alcuni autori hanno messo in relazione con i problemi legati alla cosiddetta “marginalità sociale”. In linea generale è possibile sostenere la tesi in base alla quale l'adolescente esibisce la propria forza fisica, la propria energia aggressiva, per dimostrare agli altri di esistere. Ecco allora che per esserci, per diventare protagonista, deve inventare altri valori, altre regole, magari in contrapposizione con quelle della cultura dominante. Da questa angolazione teorica l'atto deviante, la trasgressione e la conflittualità agita, rappresentano delle forme o modalità di comunicazione da parte del ragazzo. Il gesto auto-soppressivo, il ricorso all'assunzione di stupefacenti, le lesioni al pubblico ufficiale, possono esprimere il sentito bisogno di attenzione di valorizzazione da parte del mondo degli adulti. Ciò che i giovani chiedono ai propri genitori ed alla società in generale è di essere riconosciuti in quanto tali, nella propria identità e dignità di persone, di essere più attenti ai loro bisogni. In un'ottica pedagogica, va rilevato che per contrastare i processi di disagio e di disadattamento sociale, occorre concepire il giovane come un essere in cammino, un progetto che si realizza, e che nel suo itinerario può deviare, rallentare, riprendersi, purché non sia lasciato solo a gestire una libertà che ancora non ha pienamente maturato, in una società complessa e contraddittoria come quella di oggi. Se ci si pone in un atteggiamento di attenta osservazione, si comprende come le componenti aggressive della personalità, anche se presenti in maniera dirompente, rappresentano un evento naturale. Assai carente risulta essere la presenza di valori morali nei giovani. Per valori morali è da intendere le valutazioni di azioni generalmente considerate dai membri di una data società o giuste o sbagliate. Quali valori morali possiamo ritenere che siano presenti in quegli ignari e pericolosi soggetti? Condividiamo la tesi in base alla quale quanto più una persona è convinta che è sbagliato mentire, rubare, agire in modo aggressivo, violare le leggi, cioè quanto più forti sono i suoi modelli morali, tanto più allora sarà coerente il suo comportamento morale nelle varie situazioni. Nella condotta equilibrata interviene certamente l'azione educativa dei genitori, del clima familiare sereno ed emotivamente gratificante. Se prendiamo in considerazione i casi di disadattamento minorile maggiormente diffusi ai nostri giorni, ci si accorge che essi provengono non tanto da situazioni di privazione concreta della famiglia (orfani, abbandono) quanto dai nuclei domestici fragili sotto gli aspetti delle relazioni e dei valori. La persona che attua una condotta etica è capace di scegliere autonomamente ciò che è bene per sé, nel rispetto della libertà dell'altro. Ha interiorizzato dei modelli comportamentali costruttivi, portando con sé l'immagine genitoriale positiva; nella società agisce andando verso l'altro. 4.4 Sui diritti dei minori Affrontando il tema dei diritti dei minori, appare opportuno esaminare alcuni vissuti dei minori, figli di detenuti. Interessante in questo senso è uno studio eseguito sullo sviluppo del bambino in carcere, attraverso un'indagine su di un gruppo di madri detenute con il figlio convivente, confrontato con un gruppo di controllo di madri detenute con il figlio affidato a terzi. Senza entrare nei dettagli della ricerca, preme rilevare che la detenzione del minore insieme alla madre pone di per sé il minore in una situazione oggettiva di rischio. Il rischio è legato ovviamente all'influsso negativo del penitenziario sulla struttura psicologica ed emotiva del ragazzo, costretto a subire una condanna ingiustificata. 4.5 Il paradigma interazionista ed il modello ermeneutico Di recente, è stato proposto il modello costruttivista nella spiegazione del crimine, che consiste nel fornire una spiegazione circolare, sistemica, e non di causalità lineare. Sulla base di questa prospettiva teorica, il comportamento deviante viene definito da una complessa rete di interazioni che producono significati intorno all'azione ed al suo autore. Questo paradigma attribuisce inoltre una funzione ideologica all'azione deviante, nel senso che quest'ultima, al pari di qualsiasi altra azione umana, presenta dei contenuti comunicativi. L'azione deviante, pur rinviando allo scopo di essa, al contesto relazionale, rappresenta comunque il prodotto umano della personalità del singolo attore, il quale, pur essendo influenzato da fattori esterni, di natura ambientale e sociale, elabora la condotta criminale a livello intrapsichico, secondo particolari modalità o meccanismi. La necessità di identità e di bisogni connessi alle relazioni sociali trovano possibilità di spiegazione nell'ambito di un paradigma ermeneutico e teleologico che integri quello interazionista. Il paradigma esplicativo proposto comprende non solo l'analisi del comportamento (o dell'azione) deviante, attraverso l'esame dei significati che esso rappresenta ed il fine che l'autore del reato persegue, ma intende anche valorizzare l'indagine degli strumenti cognitivi messi in opera dal soggetto, per rendere meno riprovevole possibile la sua azione antisociale. Pur rilevando il condizionamento dei fattori sociali e relazionali nello sviluppo dell'identità personale, ai fini della realizzazione dell'atto deviante non è possibile trascurare, il ruolo agito dai processi mentali intrapsichici e dalle caratteristiche di personalità del singolo autore. 4.6 Modelli di giustizia: retributivo, rieducativo, riparativo Quando si parla di giustizia retributiva si parla del somministrare una giusta punizione al colpevole, una volta che questi sia stato riconosciuto come tale. Questo modello di giustizia fa appello al concetto di equa proporzione tra gravità del reato ed entità della pena. Nel modello rieducativo, invece, l'artefice di un reato viene sottoposto ad una serie di interventi riabilitativi o trattamentali, al fine del suo recupero sociale, previa osservazione scientifica della personalità. Entrambi questi paradigmi non fanno accenno all'attuazione di interventi a favore delle vittime dei reati. A differenza di essi, il modello riparativo-conciliativo si basa sulla riparazione del danno direttamente alla vittima, anziché alla società in astratto. La restituzione rappresenta una forma di risarcimento materiale. Va precisato che, nel caso in cui il confronto diretto tra l'autore del reato e la vittima non si realizzi, per l'intenzione della vittima di voler dimenticare al più presto il suo aggressore, il processo penale minorile può ugualmente prescrivere la mediazione penale tra le due parti. Gli ingredienti principali della giustizia riparativa sono i seguenti: • Riappropriazione del processo da parte dei due attori principali, cioè vittima e autore del reato • Rivalutazione della vittima all'interno del processo: è quest'ultima che decide le modalità attraverso le quali si considera adeguatamente risarcita, in senso sia morale sia materiale • Affermazione di un nuovo concetto di responsabilità da parte dell'autore del reato, direttamente nei confronti della parte offesa • Inserimento di nuove figure professionali, che possano prescindere dall'amministrazione della giustizia La necessità di integrare il modello riparativo con quello riabilitativo rende interessante il rilievo di cui al terzo punto, qualora si consideri che la rieducazione dovrebbe presupporre la riparazione (etico-sociale) nei confronti della vittima del reato. Quando questo non fosse possibile per ragioni oggettive (ad esempio la scomparsa della vittima), sarebbe necessario almeno prevedere la presenza di un processo psicologico di ravvedimento e di riflessione critica nei confronti dei danni prodotti dal colpevole. Ne consegue, come corollario pedagogico, che non è sufficiente constatare l'assenza di negativi rilievi disciplinari ed un comportamento formalmente corretto da parte dei detenuti, per poter accedere ai vari benefici di legge, quali i permessi premio, di cui all'art. 30 lett. ter dell'Ordinamento Penitenziario. La mediazione penale tra le parti (vittima e reo) rappresenta lo strumento di attuazione della giustizia riparativa. Attraverso la componente relazionale della mediazione, le parti hanno l'opportunità di rappresentare i propri vissuti e le proprie emozioni in rapporto all'evento-reato. In ambito minorile, la mediazione penale trova possibilità di concreta applicazione nell'ambito del D.P.R. 448/1988, che sancisce il nuovo processo penale minorile. Lo strumento della mediazione, inoltre, si pone nell'ottica del recupero sociale del minorenne. Tale restituzione si realizza attraverso una serie di attività socializzanti a favore del minore. In tale contesto assume rilevanza il mediatore penale, il cui ruolo si configura anzitutto come educativo, proprio per la funzione di stimolo al riscatto morale e sociale esercitata nei confronti del minore. 4.7 Istituti giuridici in favore dei minori Si può sostenere che la funzione educativa è insita nel nuovo processo penale minorile, in quanto sono previsti diversi istituti giuridici che hanno lo scopo di evitare l'assoggettamento del minore alle procedure della legge penale. In particolare, l'art. 1 del DPR 448/1998 stabilisce che: “il giudice illustra l'imputato e il significato delle attività processuali che si svolgono in sua presenza nonché il contenuto e le ragioni anche etico-sociali delle decisioni.” L'art. 28 definisce invece l'istituto della “messa alla prova” e può essere accompagnato dal dettato della conciliazione con la vittima per i ragazzi dai 14 ai 18 anni autori di reato. La finalità di questo provvedimento è quella di responsabilizzare il ragazzo attraverso un impiego concreto nelle attività di lavoro e di volontariato. Dal punto di vista della natura giuridica, il perdono giudiziale è concepito come causa estintiva del reato. Per ottenerlo è necessario che il ragazzo non sia mai stato condannato e che il reato sia di lieve entità (non superiore ai due anni di pena previsti). Per quanto inerisce la sospensione condizionale della pena, altra causa estintiva del reato, consiste nella fattispecie nella rinuncia dello Stato alla sua potestà punitiva, ma subordinatamente alla condizione che l'imputato mantenga una condotta irreprensibile per un certo periodo di tempo. La liberazione condizionale viene invece concessa dal giudice di sorveglianza del Tribunale per i Minori e consiste nel sospendere la pena residua a chi abbia dato prova di costante ottima condotta durante il periodo della detenzione2. (2 Da osservare che gli istituti della liberazione condizionale della sospensione della pena trovano applicazione, sia pure con diversi presupposti, anche nel diritto penitenziario degli adulti.) Il beneficio della riabilitazione speciale, prevista espressamente per i minori, è destinato ad estinguere le pene accessorie e gli altri effetti penali della condanna. La riabilitazione comporta la non menzione della condanna nel certificato penale. Per quanto attiene alle modalità di esecuzione di arresto e di fermo, una volta che il PM riceve dalla polizia giudiziaria la notizia dell'arresto (o del fermo), dispone che il ragazzo venga trasferito in una comunità o presso un centro di prima accoglienza, che rappresenta una specie di comunità-alloggio con un regime di sorveglianza. Quindi, entro quattro giorni dall'ingresso nella struttura, i minori possono essere affidati ai genitori, inseriti in comunità, possono entrare in un istituto penale o essere rimessi in libertà. Particolari misure preventive vengono adottate dal giudice. Tra queste vi è la permanenza in casa, che corrisponde agli arresti domiciliari, previsti per gli adulti. Nel corso di essa, il giudice può anche imporre limiti o divieti al minore di comunicare con persone diverse da quelle che con lui coabitano o che lo assistono. Un altro provvedimento è costituito dalla custodia cautelare e viene applicata quando tutte le altre misure si sono rivelate inefficaci3. (3 il DPR 448/1998 stabilisce che la custodia cautelare venga adottata quando ci si trova di fronte a reati di una certa consistenza, al fine di tutelare il sistema sociale.) In conclusione, abbiamo osservato come la giustizia penale in ambito minorile sia passata dal modello punitivo-repressivo (o retributivo) a quello rieducativo, per integrarsi quest'ultimo con il modello riparativo. A livello della prassi operativa, il paradigma conciliativo prevede un'équipe integrata, composta da operatori penitenziari, giudiziari ed operatori della mediazione. Volendo estendere l'analisi al settore degli adulti, occorrerebbe verificare in che misura ed attraverso quali modalità il modello riparativo-conciliativo possa trovare applicazione concreta. La previsione di forme di partecipazione volontaria al lavoro che veda impegnati i reclusi in attività di risanamento e di recupero di beni pubblici, costituisce un progetto di notevole portata rieducativa e riparativa nei confronti del tessuto sociale precedentemente danneggiato. Un'attività lavorativa esterna al carcere e controllata, socialmente apprezzabile, che costituisce l'espressione di una volontà risarcitoria. Si noti ancora che l'aspetto riparativo del danno provocato dal reo, viene contemplato dallo stesso regolamento di esecuzione, laddove, all'art. 27 comma 1° (osservazione della personalità) viene indicato che: 5.3.1 Attività di osservazione scientifica della personalità e trattamento In questo contesto il contributo professionale dello psicologo si polarizza sull'opera di consulenza, finalizzata a fornire un quadro personologico del soggetto, che ha presentato istanza per ottenere un permesso premio (art. 30 lett. ter Ordinamento Penitenziario) o l'ammissione alle misure alternative alla detenzione. Risulta evidente che l'approntamento degli elaborati psicologici e comportamentali non avranno l'obiettivo di raggiungere la reale ed oggettiva descrizione della personalità, ma lo psicologo avrà la consapevolezza di proporre al giudice una costruzione relativa a quel particolare sistema osservatore/osservato. La stesura della relazione di osservazione della personalità del recluso costituisce una variabile dipendente sia rispetto alle caratteristiche psicologiche dell'osservatore/valutatore, sia rispetto ai modelli teorici che egli utilizza, sia ancora alla sua formazione personale e professionale. Gli elementi della relazione di valutazione psicologica del comportamento e della personalità del detenuto sono i seguenti: ➢ Disponibilità al colloquio manifestata dal detenuto nei confronti dell'operatore penitenziario ➢ Presenza di un processo di maturazione, da parte dell'esaminato, acquisita durante la detenzione ➢ Revisione critica dei trascorsi malavitosi, arricchita da un sentimento di autentico pentimento ➢ Capacità di superamento delle componenti di odio distruttivo ➢ Presenza di una modalità di pensiero non più rigidamente coartata Va osservato che nella fase dell'osservazione scientifica della personalità viene richiesto a volte all'esperto, da parte del direttore che presiede l'équipe, una valutazione sul grado di probabilità di recidiva del detenuto. Si pretende cioè dallo psicologo delle particolari abilità e competenze, che si rivelano nella capacità di prognosi del comportamento criminale. 5.3.2 Servizio Nuovi Giunti Costituisce una seconda area di intervento degli psicologi, la quale è stata istituita con la circolare A.P. 3233/5683 del 30 dicembre 1987, allo scopo di contenere il dilagante fenomeno degli atti di violenza nelle carceri. In tale servizio assume particolare rilievo il colloquio di primo ingresso di quei detenuti che entrano per la prima volta in carcere. Lo psicologo dispone a tal fine di una cartella denominata osservazione psicologica e colloquio di primo ingresso, fornita dal direttore dell'istituto di appartenenza. In questa dovrà annotare: ❖ Dati anagrafici ❖ Posizione giuridica ❖ Data di arresto ❖ Situazione lavorativa ❖ Valutazione del livello di rischio di agire l'aggressività all'esterno o di compiere atti autolesionistici, strutturata su di una scala che va dal minimo, al basso, al medio, all'alto fino al massimo. In caso di livello di rischio suicida elevato, si rende necessaria una presa in carico del soggetto mediante un adeguato intervento di valutazione psicologica. Inoltre, la direzione dell'istituto dovrà attivare tutta una serie di misure cautelative, rivolte alla tutela dell'incolumità dei detenuti ed alla sicurezza degli operatori. La relazione è riservata non solo ai soggetti nuovi giunti, ma tutti i detenuti in difficoltà esistenziale, qualunque sia la fase della detenzione o la posizione giuridica: condannato o giudicabile. 5.3.3 Presidio sanitario per soggetti tossico e alcoldipendenti e affetti da HIV Si tratta di un presidio ormai ho assorbito dal Sistema Sanitario Nazionale, sia a livello funzionale sia a livello amministrativo. Nei confronti dei detenuti tossico ed alcoldipendenti, la normativa penitenziaria ha previsto un trattamento particolare, finalizzato al recupero sociale terapeutico. Si tratta della misura dell’affidamento in prova in casi particolari, prevista originariamente dall'art. 47 lett. bis dell'Ordinamento Penitenziario, sostituito poi dall'art. 94 del DPR 309/1990 (Testo Unico delle leggi in materia di stupefacenti). Questo testo affida all'amministrazione penitenziaria nuovi ed importanti compiti per ciò che concerne: il trattamento sociosanitario, la cura e la riabilitazione dei detenuti alcolisti, la prevenzione e la cura delle infezioni da virus HIV in ambito carcerario. L'affidamento in prova al servizio sociale può essere richiesto dal soggetto tossicodipendente, sia dallo stato di detenzione che dalla libertà. I presupposti sostanziali per la richiesta sono: ❖ Che la pena detentiva (totale o residua) non superi il limite di quattro anni ❖ Che il soggetto tossico o alcoldipendente sia in possesso di certificazione della ASL, in merito allo stato di tossicodipendenza ❖ Che il condannato intenda sottoporsi ad un programma riabilitativo/terapeutico o che lo abbia già iniziato, e che tale programma venga dichiarato idoneo da parte della struttura sanitaria pubblica, per il recupero sociale del giovane Anche in questi casi, va considerata l'operatività dello psicologo delle tossicodipendenze attraverso il ricorso ad una relazione psicologica strutturata nei seguenti elementi: ❖ Il rilievo dato alle componenti senso-percettive e psicosomatiche della personalità, laddove lo psicologo osserva la lucidità, l'orientamento nel tempo e nello spazio, la congruenza della mimica, non che l'attenzione e la ricettività della persona esaminata. ❖ L'analisi della problematica tossicomanica, che viene coniugata sia all'esperienza vissuta dal detenuto che alla sua capacità di progettarsi la vita futura, attraverso il superamento del bisogno di ricorrere a quella deleteria esperienza. ❖ La previsione del programma terapeutico, con inserimento comunitario, ha valore prescrittivo, al fine dell'attivazione del processo di guarigione. Si noti la diversa fisionomia strutturale di questa relazione rispetto a quella precedentemente analizzata, la quale si caratterizza per i peculiari parametri utilizzati dagli esperti negli elaborati. Tale diversificazione si giustifica con le finalità stesse delle due relazioni. Va detto che il programma riabilitativo della comunità terapeutica che si rende disponibile ad accogliere il giovane tossico o alcoldipendente in regime di affidamento sociale deve contenere: ❖ L'indicazione delle varie fasi del percorso terapeutico, con specificazione delle attività ricreative, socializzanti, psicoterapiche. ❖ Gli orari di frequenza della comunità. ❖ La dichiarazione di eventuali inadempienze del soggetto alle autorità competenti, al fine di una possibile revoca della misura alternativa. Accenniamo ora brevemente ad un'area di applicazione nella quale può essere talvolta impiegato lo psicologo: la commissione denominata Consiglio di Disciplina, che nello specifico dell'applicazione del regime di sorveglianza particolare (art. 14 bis dell’Ordinamento Penitenziario), prevede la contemporanea presenza di due esperti ex art. 80 dell'ordinamento penitenziario, appartenenti a due distinti istituti penitenziari. Il regime di sorveglianza particolare costituisce uno strumento di rigore che viene disposto dall'amministrazione penitenziaria, con provvedimento motivato. Si applica nei confronti di condannati, internati ed imputati che: ❖ Con i loro comportamenti compromettono la sicurezza, ovvero turbano l'ordine negli istituti ❖ Con la violenza o minaccia impediscono le attività degli altri detenuti o internati ❖ Nella vita penitenziaria si avvalgono dello Stato di soggezione degli altri detenuti nei loro confronti Questo regime speciale, particolarmente rigido, e che prevede una riduzione del numero delle telefonate e dei colloqui, è valido per sei mesi, prorogabile nella misura non superiore a tre mesi ogni volta. Capitolo 6 ELEMENTI DEL TRATTAMENTO L’istituzione carceraria rappresenta un complesso "sistema vivente”, all’interno del quale i protagonisti dell’azione umana stabiliscono un insieme di interrelazioni, che assumono significato con riferimento al contesto globale di appartenenza. L’elemento di raccordo tra il singolo e il contesto carcerario è costituito essenzialmente dalla comunicazione. La presente analisi individua alcune caratteristiche della relazione educativa, che consiste soltanto nell’agire su qualcuno, ma essa è un elemento contestualizzato di un tutto. La comunicazione educativa si avvale della conoscenza della "soggettività" della persona detenuta e dei vari livelli di espressione messi in atto dal soggetto stesso. 6.1 Il dialogo e il bisogno di comunicare La comunicazione dialogica ha costituito da sempre l’humus, il terreno sul quale vengono edificate le dinamiche relazionali, in ogni ambito della vita sociale. Nella fase storico-sociale che stiamo vivendo, accade invece che molti giovani, come abbiamo esaminato sopra, esprimano una condizione di crisi dei valori e uno stato di malessere determinato dalla solitudine e dalla privazione del senso di appartenenza. Tale condizione di disagio deriva dalla “incapacità del singolo uomo di porsi in costruttiva relazione con la natura, con i propri simili, con il Trascendente.” Se tale condizione si verifica nella società libera, maggiormente la si riscontra nella vita detentiva, dove la mancanza di contatto umano e il non sentirsi riconosciuti dall’altro come persona favoriscono l’espressione della distruttività. Ciò di cui ha bisogno l’uomo, e in particolare il detenuto, è la comprensione umana, la quale passa attraverso l’incontro e il dialogo. 6.2 il colloquio pedagogico L’educatore penitenziario è l’operatore istituzionalmente deputato a garantire e a gestire il colloquio pedagogico con il detenuto, dandogli l’opportunità di <<stabilire con lui una relazione educativamente ed affettivamente valida , che umanizzi il processo rieducativo>>. È quanto prevede l’articolo 1 Ordinamento penitenziario. In tale assunto viene sottolineato che la rieducazione passa attraverso il valore dell’”umanità” da trasmettere mediante una specifica “relazione” tra l’educatore e l’utente. Nell’ottica della risocializzazione della persona detenuta, bisogna inoltre considerare che la difficoltà che si presentano nella sfera d’azione dell’operatore pedagogico sono rilevanti, non soltanto in quanto investono il delicato ambito educativo, ma soprattutto per le ragioni connesse principalmente alla "strumentalità" agita dai detenuti nei confronti degli operatori. Le principali configurazioni del colloquio pedagogico sono: - Il colloquio di primo ingresso; - Il colloquio di sostegno; - Il colloquio finalizzato all’osservazione e al trattamento. 6.3 Il colloquio di primo ingresso Si tratta di un intervento dell’operatore nei confronti del nuovo giunto in istituto, che l’educatore effettua su designazione del direttore. Il colloquio deve essere svolto entro le 24 ore dall’entrata, ed è finalizzato alla raccolta di dati personali, familiari e giuridici, per l’acquisizione della documentazione dell’iter trattamentale. Questa cartella prevede varie aree: Dati bibliografici, Giudiziari, sanitari, disciplinari, permessi, ed altre eventuali misure alternative. La prima parte, denominata “intestazione”) è corredata dei dati anagrafici, impronte digitali e fotografie, elemento necessario per la precisa identificazione della persona. In buona sostanza, il colloquio di primo ingresso rappresenta una forma di colloquio strutturalmente definito. - Il rivolgimento contro di sé indica quel procedimento inconsapevole in base al quale l’aggressività verso una persona viene diretta contro di sé fino a produrre gesti autolesionistici. - La dissociazione è il meccanismo mediante il quale <<le funzioni mentali di una persona si scindono o dividono, così da consentire l’espressione di impulsi proibiti solitamente inconsci, senza che essa avverta nessuna responsabilità per le proprie azioni>> 6.6.3 La conoscenza delle “tecniche di neutralizzazione del conflitto” Le tecniche di neutralizzazione del conflitto vi è la “negazione della propria responsabilità”, ossia l’evitare di assumersi la paternità di quanto compiuto. 6.6.4 L’indagine della scrittura (grafologia) Per quanto riguarda un altro settore d’indagine conoscitiva delle caratteristiche di personalità del soggetto l’analisi della scrittura, o grafologia, la quale può essere annoverata tra le particolari modalità di comunicazione non verbale, ossia come “tecnica proiettivo-espressiva”. La storia della grafologia inizia nel 1622, quando Camillo Baldi pubblica il trattato. Studi grafologici avanzati hanno evidenziato la presenza di una correlazione tra disturbi neurologici gravi, come il morbo di Alzheimer, e alcune peculiarità del gesto grafico. I campi di applicazione riguardano il settore peritale, l’ambito criminologico, la consulenza aziendale, l'orientamento familiare e della coppia. Nel contesto penitenziario, la grafologia trova valida applicazione nella conoscenza del detenuto, l’individuo <<con la sua scrittura fa il proprio ritratto>>. La comunicazione normativa o istituzionale, la quale è “regolamentata” dall’Ordinamento penitenziario e dal Regolamento di esecuzione, e si esplica: - nel colloquio di primo ingresso; - In ambito disciplinare, come “contestazione” e “diritto di discolpa”; - nell’espressione del “diritto di reclamo” La comunicazione extraistituzionale, invece, include: -La comunicazione non verbale. In particolare le “Manifestazioni di protesta collettiva”, che hanno la finalità di comunicare all’esterno una condizione di disagio -La comunicazione strumentale e la comunicazione autentica. La prima può essere attivata dal detenuto, la seconda dall’operatore. Caratterizza il colloquio finalizzato all’osservazione scientifica della personalità. 6.7 Il lavoro penitenziario Il carattere di obbligatorietà del lavoro, che era stato circoscritto ai condannati e ai sottoposti alle misure di sicurezza della colonia agricola e della casa di lavoro, è stato abolito dal legislatore con il recente D.Lgs. 124/2018. L’attività lavorativa dovrebbe consentire di far acquisire ai soggetti una professionalità. Il lavoro rappresenta un antidoto importante contro la devianza e contro la recidiva, inoltre esso rappresenta uno dei diritti fondamentali della persona detenuta. 6.7.1 Sulle lavorazioni In una dimensione pedagogico-sociale e riabilitativa, va segnalata la legge 22 giugno 2000, n 193, che ha esteso il principio degli sgravi contributivi e fiscali alle aziende pubbliche e private disposte ad assumere soggetti detenuti o internati. La normativa penitenziaria prevede che possano essere istituiti corsi di formazione professionale attraverso convenzioni con le Regioni. 6.7.2 Criteri per l’assegnazione al lavoro Per tale problematica l’Ordinamento penitenziario prevede che si debbano tenere in considerazione i seguenti parametri: - L’anzianità di disoccupazione - I carichi familiari; - La professionalità; - Precedenti e documentate attività svolte. - La posizione giuridica. Dovrebbero essere privilegiati quei detenuti con posizione giuridica “definitiva”, mentre vengono penalizzati quei detenuti che hanno riportato una sanzione disciplinare. Il collocamento al lavoro avviene nel rispetto di graduatorie fissate in due apposite liste, delle quali una generica e l’altra per qualifica o mestiere. 6.7.3 La commissione lavoro È Istituita, presso ogni istituto, la commissione per la formazione delle graduatorie all’interno delle liste e per il nullaosta agli organismi competenti per il collocamento. Il lavoro autonomo, che concerne attività artigianali, intellettuali e artistiche, e che richiede quindi particolari attitudini, può essere svolto sia all’interno dell’istituto che all’esterno. 6.7.4 Sulle garanzie retributive e assistenziali Sono garantiti il riposo festivo e la tutela assicurativa e previdenziale, che concerne la retribuzione. Viene riconosciuto il diritto di essere compensati per l'attività prestata e non sfruttati, ma anche per il benefico effetto psicologico che ne deriva. La novella legislativa si adegua alla Corte europea dei diritti dell’uomo, che afferma la necessità di una retribuzione equa per i detenuti. La remunerazione è soggetta a pignoramento o a sequestro per risarcimento di eventuali danni arrecati all’Amministrazione. 6.7.5 Il peculio Il peculio la remunerazione del lavorante con l’aggiunta del denaro che questi possedeva al momento dell’ingresso in istituto a titolo di premio o di sussidio. L’art. 57 del Regolamento di esecuzione afferma che il peculio si distingue in “fondo disponibile” e in “fondo vincolato”. Quest’ultimo comprende un quinto della remunerazione, e non può essere utilizzato dal detenuto. Il fondo disponibile può essere usato per invii ai familiari o ai conviventi. Il peculio degli imputati, invece, è interamente disponibile. Al condannato o internato semilibero sono consegnate somme in contanti, prelevate dal fondo disponibile, in base alle spese che deve sostenere. 6.7.6 IL lavoro all’esterno UN altro aspetto particolare del lavoro dei reclusi è quello previsto dall’art. 21 dell’Ordinamento penitenziario e dall’art. 48 del Regolamento di esecuzione. Consiste nel prestare attività lavorativa a favore di imprese, pubbliche o private, o nello svolgere lavoro autonomo. Nell’approvare il provvedimento di ammissione al lavoro all’esterno, il magistrato di sorveglianza deve valutare la tipologia del reato, la durata effettiva o presunta della misura privativa della libertà e l’esigenza di prevenire il pericolo che il soggetto commetta altri reati. Nell’ambito del programma di trattamento del detenuto ammesso al lavoro all’esterno, con la legge 9 agosto 2013, n 94, era previsto anche il lavoro di pubblica utilità. 6.8 Le attività scolastiche e professionali Altri “elementi del trattamento”, previsti dall'art. 15 della legge sull' Ordinamento Penitenziario, sono costituiti da: istruzione, religione, attività culturali, ricreative e sportive. Questi agevolano opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia. Per quanto riguarda l'istruzione, vengono attivati negli istituti penitenziari corsi scolastici, che vanno da all'alfabetizzazione ai corsi di scuola media inferiore e superiore, fino ai corsi professionali. L'art. 42 del Regolamento d'Esecuzione, comma 1, stabilisce che le direzioni degli istituti promuovono la partecipazione dei detenuti ai corsi di formazione professionale, attraverso accordi con gli enti locali preposti. Spesso si verifica che i detenuti presentino istanza di trasferimento in altro istituto per poter partecipare ad un corso professionale di particolare interesse, magari assente nel loro istituto. I corsi di istruzione secondaria superiore sono organizzati, ai sensi dell'art. 43 del Regolamento d'Esecuzione, su richiesta dell'amministrazione penitenziaria, dal Ministero dell'Istruzione, attraverso la costituzione di succursali di scuole di quel livello in determinati istituti penitenziari. L’art. 44 del Regolamento d'Esecuzione, comma 4, stabilisce che gli studenti possono essere autorizzati a tenere nella propria camera e negli altri locali di studio, i libri, le pubblicazioni e tutti gli strumenti didattici necessari al loro studio. Presso ogni istituto, inoltre, è prevista l'istituzione di una biblioteca e nella sala riservata ad essa, trova occupazione un detenuto, in qualità di bibliotecario, addetto alla consegna ed al ritiro dei libri e alla relativa trascrizione sul registro dei vari movimenti. Il servizio della biblioteca dovrebbe rappresentare un'occasione di incontro umano significativo e pedagogicamente costruttivo tra detenuti ed operatori penitenziari. Per quanto riguarda la religione in ogni istituto è presente un cappellano che celebra la Santa Messa e per coloro che professano altri riti, diversi da quello cattolico, è concesso il diritto di poter ricevere i singoli rappresentanti religiosi. In particolare, per i detenuti di fede islamica, è prevista la possibilità, ogni anno, di seguire le prescrizioni coraniche del Ramadan, relative all'astensione dal vitto e dalle bevande. L'art. 15, invece, dell'Ordinamento Penitenziario indica la religione come elemento del trattamento. Le attività culturali, ricreative e sportive, secondo quanto stabilito dall'art. 27 dell'Ordinamento Penitenziario, devono essere incentivate al fine di promuovere la realizzazione della personalità dei detenuti e degli internati, anche nel quadro del trattamento rieducativo. I contatti con il mondo esterno hanno una chiara finalità risocializzante e si realizzano con la presenza di privati cittadini, con istituzioni o associazioni pubbliche e private. Tali contatti, oltre a configurare una forma di controllo sull'esecuzione penale, consentono di gettare un ponte tra l'universo penitenziario e la società esterna, facendo percepire quest'ultima come meno distante agli occhi della popolazione detenuta. Un altro fattore rieducativo sono i rapporti con la famiglia che mirano alla cura nel mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie. Le attività artistiche, in particolare il teatro, la pittura, la poesia, vanno considerate come attività pedagogiche, in quanto consentono di esprimere la creatività del soggetto e di liberare potenziali attitudini, agendo contro la coartazione della personalità prodotta dalla privazione della libertà personale. Il soggetto ha la possibilità di manifestare certi aspetti del suo carattere, di esprimere sentimenti e stati d'animo, che altrimenti verrebbero repressi, fino a destare in lui odio e risentimento contro il mondo circostante. A proposito della pittura e del disegno va detto che sono attività che consentono un rapporto intimo con la propria storia personale e la possibilità di rappresentarla in maniera grafica. Per entrambe le attività artistiche, vengono messi in palio dei premi per i vincitori, le cui opere sono esaminate da apposite commissioni. Le iniziative riguardanti la creazione di momenti di competizione tra artisti, o di gare, nascono dal dipartimento dell'amministrazione penitenziaria o da singole associazioni culturali sul territorio. Nell’istituto penitenziario della Casa circondariale di Roma Rebbiba Nuovo complesso del 1999 le attività che si svolgevano erano diverse: -scolastiche (corso di scuola dell’obbligo, istituto tecnico commerciale), -culturali (corso di luce, colore, pittura, di energia e salute), -sostegno (gruppi di auto-aiuto per i detenuti tossicodipendenti, di sostegno psicologico), -formazione al lavoro (corso per restauratori di mobili antichi, per bibliotecari). 6.9 Circuiti differenziati e custodia attenuata L'art. 13 della legge penitenziaria, comma 1, statuisce che “il trattamento penitenziario deve rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto”. È importante sottolineare che un particolare aspetto del trattamento individualizzato è conferibile alle strutture differenziate per l'esecuzione delle pene e dei programmi riabilitativi. La diversificazione degli istituti si connette alla problematica relativa alla custodia attenuata, definita da Renato Breda come custodia proporzionata all'effettivo grado di pericolosità del soggetto detenuto. Tali soggetti, come quelli sottoposti a custodia cautelare, potrebbero essere inseriti in circuiti custodiali meno difesi rispetto agli istituti ordinari, proprio a causa del loro limitato livello di pericolosità sociale. Nella fase iniziale dell'esecuzione penale, si può puntare all’ del soggetto in un istituto a custodia attenuata o in un altro a custodia ordinaria, e sulla base di precise ed oggettive considerazioni che tengano conto sia degli aspetti di personalità, sia di quelli giuridico-giudiziari del soggetto, facendo riferimento anche alle eventuali precedenti esperienze detentive ed alla consistenza del reato. Attualmente, le strutture a custodia attenuata realmente operanti sono costituite dagli istituti per detenuti tossicodipendenti, che provengono da altre situazioni detentive e senza le problematiche connesse alla “crisi di astinenza”. La ratio nell'edificazione di strutture a custodia attenuata sta primariamente nell'affiancare l’elemento custodiale. Il trattamento avanzato a custodia attenuata è stato previsto dalla legge 309/90, anche nell'indicazione di nuovi istituti da costruire ad hoc per i tossicodipendenti (con specifica configurazione architettonica degli edifici, da dotarsi con stanze ampie e luminose).
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