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savoca, dall'autografo al finale del Canto notturno in "Leopardi. profilo e studi", Dispense di Filologia italiana

savoca, dall'autografo al finale del Canto notturno in "Leopardi. profilo e studi", pagine 217-244

Tipologia: Dispense

2021/2022

In vendita dal 13/07/2022

giada-di-manno
giada-di-manno 🇮🇹

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Scarica savoca, dall'autografo al finale del Canto notturno in "Leopardi. profilo e studi" e più Dispense in PDF di Filologia italiana solo su Docsity! Giuseppe Savoca _ Leopardi: profilo e studi Gli studi su Canto notturno di un pastore errante dell’Asia dovrebbero impostarsi su metodi ottici e statistici più avanzati, tendere alla descrizione dei tratti caratteristici e della concreta evoluzione temporale della grafia leopardiana. Le considerazioni proposte fino a Savoca (autore del saggio) sembrano mancare dell’accettazione in toto dei vincoli proposti dall’autografo. La storia del problema inizia con Moroncini che propone una soluzione coincidente con altri dopo di lui: il Canto è stato composto in un periodo di tempo più lungo degli altri ed è un testo su cui l’autore torna più volte; dall’autografo vediamo che l’ultima strofa sia stata aggiunta più tardi e che in origine il canto terminava con “A me la vita è male”; inoltre l’autore riordinò le strofe apponendo dei numeri: 1> che fai tu… 2> vecchierel bianco 3> o greggia mia 4> nasce l’uomo 5> pur tu solinga. Con questa strofa il canto si chiudeva; con l’aggiunta della 6° fu mutato l’ordine di successione delle strofe, in modo che ordine: 1°, 2°, la 3° diventa la 5°, la 4° diventa la 3°, la 5° diventa la 4°. Per Moroncini il dato di partenza è l’esame dell’autografo:  Testo a 6 strofe della quale ultima aggiunta dopo  Successione di strofe che non coincide con quella definitiva in quanto la 3° e la 5° del manoscritto nella stampa diventano la 5 e la 4 Sulla base dell’aggiunta, Moroncini ritiene che:  Canto in origine dovesse chiudersi con l’ultima strofa trascritta e perciò con l’emistichio “a me la vita è male”  Dopo l’aggiunta dell’ultima fu mutato l’ordine di successione delle strofe  L’ordinamento definitivo è il risultato di un semplice spostamento (non altera il testo) Invece Monteverdi parte dal punto che l’ordine di trascrizione in pulito delle strofe coincideva con quello di composizione per argomentare che l’autografo per lui non presenta il Canto nella prima fase della composizione ma solo nella fase successiva e per proporre una ricostruzione del processo compositivo del canto che si sarebbe formato per successivi ampliamenti, passando da tre lasse, a 4 a 5. L’autografo attesta il momento dell’elaborazione in cui L. provò a inserire la strofa “o greggia mia” tra le due lasse dedicate alla rappresentazione delle miserie umane; per Monteverdi, questa strofa fu spostata in coda alle 4 prima composte perché spezzava la continuità logica e stilistica delle miserie. E fu qui che appose i numeri. Ora, abbandonato il finale “a me la vita è male” e insoddisfatto del finale della nuova 5°, L. sente la necessita di aggiungere la 6° strofa e ha trovato la formula finale altrettanto energica quanto quella della prima stesura. Quella di Monteverdi è una figurazione, una supposizione sulla genesi e la storia del canto. Una personale idea dell’architettura del canto più che sul rispetto dei dati offerti dall’autografo. Per lui le fasi sono attestate dalla loro successione nella stampa. La sua posizione è condivisa da molti ma la debolezza metodologica è già iscritta nel giudizio di valore che lo studioso dà al suo canto infatti afferma che la “bella unità del canto” non è mai venuta meno, tanta era la “costanza dell’ispirazione”. Se però questo è vero, il critico si contraddice, perché egli muove accuse di assurdità e rottura della continuità logica alla collocazione della lassa “o greggia mia”. Monteverdi parla inoltre di “diretto esame dell’autografo”, ma forse non lo ha esaminato per bene ed ha tenuto conto solo delle fotografie; dalla sua analisi si possono trarre queste conclusioni:  Ordine definitivo del canto è indicato nell’autografo dal numero aggiunto più tardi dal poeta stesso in capo a ciascuna lassa  Tutto fa credere che l’ultima lassa sia stata aggiunta quando il poeta ebbe a mutare l’antecedente ordine del canto  Gli pare di notare anche nella scrittura dell’ultima lassa una lieve differenza di carattere, simile a quando si scrive in due momenti diversi Conclusioni non assurde, ma scarsamente commentate paleograficamente; inoltre ha il sospetto che la differenza di carattere della scrittura potrebbe essere illusoria (cosa ardua da provare). Se avesse tenuto presente l’autografo, avrebbe potuto segnalare che tra la penultima e l’ultima strofa appare netta la differenza tra intensità e colore dell’inchiostro più scuro nell’ultima lassa. Per ciò che riguarda i numeri, hanno ragione De Robertis e Martelli quando affermano che sono dello stesso inchiostro del testo relativo; non è da escludere che i numeri siano stati aggiunti dopo, ma sembrano paleograficamente coevi alla copia delle strofe. I due citati contestano a Monteverdi il fatto che l’unico ordine plausibile del canto sia quello attestato dal suo assetto definitivo e che la collocazione dell 5 al posto dell 3 è solo un’ipotesi, abbandonata dal poeta perché interrompeva la continuità. Gli studiosi dimostrano che la successione delle strofe nell’autografo è coerente e aggiungono che fu la 6 a provocare lo spostamento della 3 e della 5. Questa loro conclusione non è propriamente condivisibile in sede di interpretazione complessiva; piuttosto le redazioni inscritte nell’autografo sono due (una 5 e una 6) ma tre (due in 5 e una in 6) e per dimostrarlo bisogna guardare a:  L’aggiunta della 6 posteriormente alle prime 5> questa è postuma e ultima sia se si guarda il dato paleografico sia se si guarda la successione materiale e tematica delle strofe  L’apposizione dei numeri arabi in capo a ciascuna strofa Inoltre, la contraddizione tra l’apposizione durante la copia dei numeri e la loro posizione anomala non viene sciolta da Martelli e De Robertis; l’inchiostro sembra deporre a favore della contemporaneità dell’apposizione dei numeri con la trascrizione, ma sempre in contrasto con anomalia dei numeri rispetto l’in-dentro del primo verso di ogni strofa: risulta molto ridotto rispetto all’uso leopardiano (19-12 mm), infatti non è più di 6 mm. È piuttosto sicuro che abbia ragione Monteverdi nell’affermare la posteriorità dei numeri. Un altro elemento paleografico è l’esame della fine della strofa “O greggia mia” nella quale l’ultimo verso presenta varianti inserite tra il primo emistichio e il secondo e le ultime tre righe della strofa rientrano tutte di circa 10 mm; quindi, se L. doveva scrivere anche il numero “3” egli avrebbe fatto rientrare di 10 mm tutta la riga e se non lo fece vuol dire che il numero è aggiunto dopo. Tra l’altro è quasi impossibile definire la tardività di questi numeri a causa dell’invecchiamento degli inchiostri leopardiani. Dunque, i fatti paleografici certi sono:  Posteriorità dell’apposizione dei numeri alle cinque strofe prima trascritte  Posteriorità dell’aggiunta della sesta strofa, numerata alle cinque precedentemente trascritte e numerate. Passando al tema del canto che da lì a poco meno di un anno riapparirà nell’intitolazione della prima edizione dei Canti dove in realtà è ultima lirica cronologicamente; nella raccolta fiorentina si intuisce il richiamo tra Ultimo canto di Saffo e l’ultimo canto dove il poeta assume la maschera del pastore; entrambi hanno a che fare con i superbi regni, con la stanza smisurata della natura, ma Saffo sa da subito che non farà mai parte della beltà della natura, il pastore non trova mai pace dopo non aver avuto “cagion di pianto”; il personaggio del pastore nasce dagli interessi di Leopardi di un articolo di Meyendforff e ciò che leggeva sul Journal des savans riguardo a dei popoli nomadi dell’Asia centrale; con il pastore rende la delusione e la drammaticità della scoperta dell’inganno della prima idea di felicità; lo fa anche moltiplicando i moduli interrogativi di Saffo e l’emblema della natura, la luna, ha la funzione lirico-epica di una dea omerica. Il Canto si presenta come una summa in cui dire le prime e ultime cose: da qui la sua lenta composizione, da qui anche l'indecisione e la difficoltà nella scelta di un finale appropriato che nel suo esito ultimo risente ancora della lettura fatta del Journal. mentre il libro di Meyendorff è un racconto di una missione russa del La saldatura perfetta tra le due facce del segno linguisti “ale” è il punto nodale in cui musica si fa poesia; ed è anche il vertice da cui il canto prende nuovo senso. Partendo da una cellula sonora compresa in “male”, che tutto sembrava chiudere agli occhi del poeta, introduce un dubbio, un sospetto e la speranza di una maggiore felicità. Monteverdi osserva che nella strofa conclusiva il pastore solleva lo sguardo al cielo, anzi tutta l’anima in un vano sogno di felicità; in realtà la felicità non è vana ma potrebbe esisterne una maggiore. Le aperture celesti della sesta strofa è in continuità con le domande sul senso dell’universo che il pastore rivolge alla luna nella strofa dell’autografo precedente. ma il tema del volo è significativo dell’inclinazione dell’uomo all’infinito che L aveva già connesso alla teoria del piacere; l’abisso in cui l’anima si immerge è lo stesso in cui si eleva. Nella sesta il poeta sviluppa con immagini nuove il movimento spaziale che era implicito nel desiderio e nello sguardo del pastore rivolto in permanenza in particolare nella strofa “pur tu solinga”; l'ultima strofa attualizza quel movimento in un'ansia desiderosa di elevazione e di metamorfosi che carica il discorso di una prospettiva sull'infinito in cui sta forse il nucleo segreto di tutto il canto; mentre nell'infinito il pensiero naufragava dolcemente nell'immensità, nel canto il pensiero ammira il profondo ma non si placa nell’annegamento mistico Che dopo l’errare dell'anima al di là dei limiti questa ritorni verso il basso è inevitabile in un canto che vuole dire fino in fondo il dolore dell’esistenza, tuttavia, la chiusura della strofa e del canto riproponendo il motivo fonico dell'”ale” genera una corrispondenza tra primo e ultimo verso in cui sul male dell'essere per la morte, prevale misteriosamente la forza del “dì natale”.
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