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Savonarola moralità e politica nella Firenze del quattrocento, Appunti di Storia

riassunto libro "Savonarola moralità e politica nella Firenze del quattrocento" di Martines

Tipologia: Appunti

2012/2013

In vendita dal 07/10/2013

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Scarica Savonarola moralità e politica nella Firenze del quattrocento e più Appunti in PDF di Storia solo su Docsity! SAVONAROLA di Lauro Martines Capitolo uno – Coro All'inizio del 1498, durante gli ultimi mesi di vita di Savonarola, ai suoi danni fu ordito un complotto che prevedeva di farlo saltare in aria in Santa Maria del fiore, Duomo di Firenze, mentre la sua voce di predicatore tuonava dal pulpito rivolta a migliaia di ascoltatori. I capi della cospirazione erano i membri di una specie di fratellanza, i “compagnacci”, e avevano progettato di assoldare un uomo di nome Baia, esperto di esplosivi, per far piazzare un ordigno nel Duomo: se avesse portato a termine il loro piano sarebbe stato il primo atto terroristico nella storia d'Europa. Dopo aver studiato ogni dettaglio tuttavia rinunciarono all'idea quando scoprirono che alcuni loro amici o parenti probabilmente avrebbero presenziato alla predica rischiando di restare morti. Girolamo Savonarola è considerato un personaggio politico di primo piano e fu spesso oggetto di minacce di morte; lo stesso papa Alessandro VI non vedeva l'ora di mettere le mani su di lui. Quindi non deve sorprendere se nell'ultimo decennio del quattrocento la popolazione di Firenze cominciò ad assistere a una scena senza precedenti: un umile sacerdote frate domenicano circondato dalla scorta di uomini armati ogni volta che usciva dal convento per tutte le strade della città. Non mancarono neppure atti sacrileghi. Inoltre, meno di un anno dopo, i suoi oppositori sostenuti dal governo sferrarono l'attacco finale: un assalto armato al suo convento San Marco. Dopo un assedio durato sei ore, circondato dai suoi guardiaspalle, dovette sottoporsi a una sorta di forche caudine camminando per oltre 1 km fino a Palazzo della Signoria mentre una ressa di uomini urlava, cercava di prendere a calci e pugni la sua figura ricurva, lo insultava, gli sputava addosso, cercava di colpirlo con le torce. La furia pubblica nei confronti del frate era quasi palpabile mentre molti suoi sostenitori si erano nascosti o erano fuggiti da Firenze. Alla fine del quattrocento, al culmine del Rinascimento, l'uomo più prestigioso di Firenze non era Lorenzo dei Medici il Magnifico e neppure Michelangelo o Machiavelli ma un fraticello di Ferrara, come lo stesso talvolta si definì. Girolamo Savonarola era di statura media o bassa, scuro di capelli, gli occhi grigi, pallido, le mani ossute, un grosso naso e un accento che a Firenze lo distingueva come forestiero. Era la favola di tutta l'Italia, un uomo nell'occhio di un furibondo ciclone politico. A Venezia i funzionari governativi studiarono tutti rapporti su di lui; il Papa e il duca di Milano lo osservavano con preoccupazione. Aveva guidato delle ambascerie al re di Francia e molti personaggi di spicco del governo si rivolgevano a lui per chiedergli consiglio mentre altri e aristocratici di antico lignaggio, importanti politici detestavano il suo coraggio. Ebbe un ruolo di primo piano nell'elaborazione della politica estera della città e nel ripristino della sua moralità. La sua voce di predicatore che risuonava nell'immenso silenzio del Duomo fiorentino attraeva migliaia di ascoltatori ansiosi di farsi guidare dal parole e dalla sua appassionata forza morale. Fedeli e curiosi arrivavano dalle città vicine e lontane desiderosi di ascoltare il forestiero o soltanto per dargli, visto le interessanti voci che circolavano sul suo conto. Firenze, ancora all'avanguardia nel risveglio culturale del Rinascimento, seguita a ruota da Venezia e Roma, nel novembre 1494 aveva espulso la famiglia Medici. Un movimento clandestino di vivaci repubblicani era uscito d’un tratto allo scoperto per acclamare la fine della tirannia medicea, per chiedere un dibattito politico aperto e un governo affidabile. Fu in quel momento che si fece avanti l'ascetico Savonarola, divenendo il principale promotore dell'ideale repubblicano in città e il nemico implacabile del dispotismo. Non aveva paura di esprimere le sue opinioni in un ambiente in cui cittadini più in vista propendevano una posizione attendista e tenevano a freno la lingua. Quasi sessant'anni di vessatorio dominio dei Medici avevano insegnato a molti fiorentini di non parlare di politica o addirittura a collaborare in segreto con quanti minavano le istituzioni repubblicane della città, riducendole a facciate attraenti ma vuote. Ma come aveva fatto un frate a diventare la favola di tutta l'Italia? Stando alle voci che circolavano sul suo conto, Savonarola era intimo di re e principi; sosteneva di essere un profeta da Antico Testamento; era un oratore focoso e arruffapopoli; governava Firenze da dietro le quinte; pur appartenendo agli ordini religiosi si opponeva in modo scandaloso e virulento a papa Alessandro VI; capeggiava un partito politico segreto; aveva sottratto il potere alla nobiltà e lo aveva consegnato nelle mani dei ceti inferiori; era una arrivista ambizioso, scaltro, superbo, impegnato ad accumulare poco per volta una vera fortuna; aveva trasformato i cittadini di Firenze, famosi per la loro astuzia e il loro senso degli affari, in un gregge di pecore creduloni; si era comportato in modo spregevole con i suoi parenti; aveva disgregato le famiglie fiorentine, aizzando le mogli contro i mariti e fratelli contro fratelli e figli contro i padri; era un uomo benedetto, quasi un santo, e un intellettuale formidabile; era quasi certamente un eretico e uno scismatico. Si diceva anche che fosse ermafrodito, omosessuale e persino malato di sifilide, il nuovo flagello d’Europa. Insomma la sua fama e le sue infamie erano molte, e per cinque secoli gli storici hanno discusso le sue realizzazioni e la sua influenza, sulla sua personalità pubblica e sulla sua onestà e sincerità. Purtroppo per lui l'accusa di eresia attecchì. Nel maggio 1498, davanti ad una grande folla di uomini e ragazzi (alle donne infatti era stato vietato di assistere) fu impiccato insieme ad altri due frati, suoi stretti collaboratori, in piazza della Signoria a Firenze; subito dopo i cadaveri vennero arsi da un rogo che divorò anche il patibolo; infine i loro resti carbonizzati vennero caricati su dei carretti per essere portati via e gettati nel fiume. Infatti a Roma e nel governo di Firenze si temeva che quanti ancora credevano nelle parole e nelle gesta del frate, persone di ogni condizione sociale, si sarebbero precipitati a raccogliere il poco che ancora restava del suo corpo come se si trattasse di reliquie: se queste avessero prodotto miracoli, il frate sarebbe stato considerato un santo e un martire. Il dramma degli anni di Savonarola a Firenze trascende il tempo e il luogo in cui avvenne perché fu una vicenda che coinvolse l'alta politica e l'attività religiosa nel mezzo di una crisi epocale. L'Italia era caduta in balia di un esercito francese invasore e c'erano tentativi concertati di assoggettare la penisola al dominio straniero. La scelta di viaggiare a piedi di città in città attestava il suo impegno alla povertà e all'umiltà e anni dopo avrebbe tentato di attenersi a questa pratica anche mentre era temporaneamente ambasciatore della città di Firenze. A questo punto è necessario sottolineare che l'ordine domenicano era diviso tra osservanti e conventuali. Da una parte c'erano i conventuali, i frati che credevano nel possesso comunitario e personale di beni; dall'altra chi preferiva osservare i principi originari del fondatore, San Domenico, il quale a quanto pare aveva dichiarato la proprietà dei beni contraria alla regola. Naturalmente Savonarola aveva scelto di essere osservante e si era anche opposto al possesso collettivo di significative proprietà, a parte le terre e gli edifici necessari a compiere la missione dell'ordine, la predicazione. Il trasferimento da Ferrara a Firenze fece capire a Savonarola che i fiorentini erano molto diversi dalla popolazione di Ferrara, dove da tempo una corte principesca e un governo autocratico avevano estraniato i cittadini dalla politica e dalla vita pubblica. Ufficialmente Firenze restava ancora una repubblica, anche se di fatto lo era solo in parte: negli anni tra il 1480 e il 1490 Lorenzo de’ Medici era il capo politico e supremo. Inoltre la città era considerata un centro internazionale per il commercio, la finanza e l'industria e i suoi cittadini avevano la fama di essere gran parlatori, scaltri, spiritosi ed eccellenti contabili; non cortigiani, non nobili altezzosi e non semplici possidenti mantenuti solo dagli introiti delle loro tenute. Il loro forte era l'espressione verbale, erano considerati modelli e affinatori dell'idioma toscano. Era questo il mondo con cui Savonarola si confrontava ogni volta che usciva da San Marco e si addensava in città per fare una predica, una visita o sbrigare qualche altra commissione. In più erano i fiorentini a portare la città da lui quando andavano a trovarlo per chiedere consiglio e nell'ultimo decennio del secolo erano in tantissimi a recarsi a San Marco. Durante la sua prima missione rimase cinque anni a Firenze. Però Girolamo non era pronto per un uditorio scettico e scafato, soprattutto a Firenze, dove il popolino cercava persone che sapessero tenere la scena e i cittadini erano sempre pronti a fare confronti tra i predicatori, a criticare o a cambiare chiesa per le loro omelie stagionali. Un anno più tardi, quando predicò a San Gimignano, era assai migliorato, a giudicare dall'accoglienza che ottenne quando ritornò nel 1486. Evidentemente aveva curato la voce e l'esposizione. A Firenze invece Savonarola non doveva aver fatto una particolare impressione: quasi nessuno in seguito si ricordava di lui, di certo non i cronisti o i memorialisti, e la sua partenza nel 1487 passò inosservata. Era arrivata infatti una convocazione da Bologna e tornò come “mastro di studi” a San Domenico, dove l'insegnamento si teneva a livello universitario e specialistico. Un anno dopo fu di nuovo trasferito a Ferrara, ma nei due anni successivi predicò anche a Brescia, Genova e in altre città, tra cui forse Modena e Piacenza. Capitolo tre – Il ritorno del frate: 1490-1491 Il ritorno di Savonarola a Firenze verso la fine della primavera del 1490 fu frutto di una prodigiosa ironia della sorte perché il principale fautore dell'iniziativa fu Lorenzo il Magnifico sostenuto dal giovane e affascinante Conte Pico della Mirandola, una delle menti più formidabili dell'epoca. Il conte, avendo problemi con Roma per un'accusa di possibile eresia e scontento per come l'aveva trattato la curia, si era rifugiato a Firenze, dove aveva conquistato l'amicizia di Lorenzo. Nutriva una viva ammirazione per Savonarola, che aveva conosciuto e ascoltato otto o dieci anni prima a Ferrara o a Reggio; sarebbero poi diventati amici devoti. Viene da pensare che a legarli fosse il crescente anticlericalismo del frate: la sua sempre più forte critica morale nei confronti di un clero arrivista e senza scrupoli. L'aspetto beffardo della vicenda deriva dal fatto che il frate sarebbe diventato il principale nemico del “corrotto” casato dei Medici, l'uomo che avrebbe combattuto con le unghie e con i denti per tenerli lontani dalla città dopo il crollo del regime nel novembre 1494. Tuttavia nel 1489-90 Lorenzo non solo era disposto a compiacere il conte lavorando per il ritorno di Savonarola, ma con l'aggravarsi delle sue malattie croniche stava orientandosi verso una maggior devozione, ed era quindi più disponibile sul piano emotivo ad avere a San Marco una figura carismatica dal punto di vista religioso. Più di un anno prima del ritorno di Girolamo, Lorenzo infatti aveva inviato una lettera al generale dei domenicani, insistendo per il desiderato trasferimento a Firenze. Se durante il primo soggiorno fiorentino era stato poco più che un monaco sconosciuto, ora, quasi quarantenne, Girolamo tornava pienamente formato non solo come insegnante e teologo ma anche come persona. Ben presto venne eletto dai frati di San Marco priore del convento, e questo rese più diretti i suoi rapporti con la città rinascimentale: non aveva a che fare soltanto con i cittadini che andavano da lui a chiedere consiglio, ma doveva anche confrontarsi con uomini e intellettuali di primo ordine. Proprio per questo è arrivato il momento di tornare un po' indietro e vedere come aveva fatto a diventare come era nell'ultimo decennio del Quattrocento. Nel 14º secolo per ragioni che nessuno storico è riuscito ad individuare Firenze si pose all'avanguardia del grande risveglio culturale della penisola, soprattutto nell'ambito della letteratura e delle arti visive, mantenendo intatta tale preminenza fino al 600. Nei due secoli che separano Giotto da Botticelli, Dante da Machiavelli, si registrano molti altri nomi di fiorentini illustri. Ma Firenze poteva contare anche su energie diverse: con la sua prodigiosa produzione di tessuti, era una delle città italiane più industrializzate e rappresentava assai più che una semplice piazza commerciale. All'inizio del Quattrocento ospitava 70 sedi bancarie internazionali, un numero straordinario, più alto che in qualsiasi altra città europea. Inoltre Firenze rimaneva una florida repubblica, retta da una classe di cittadini determinati a governare le proprie sorti, che avrebbero costituito un pericoloso problema politico per i Medici, quando il grande banchiere Cosimo avrebbe cominciato la sua scalata al potere. E anche nel Quattrocento quando il sistema bancario e la produzione industriale di Firenze subirono una flessione la cultura della città mantenne tutte le sue caratteristiche innovative. Dal punto di vista politico a Firenze esisteva un diffuso e tangibile malcontento. Se durante il suo primo soggiorno in città Savonarola non aveva colto i segnali di questo disagio politico, di certo al suo ritorno li avrebbe notati. Savonarola venne mandato a San Marco per insegnare logica, una delle discipline che conosceva meglio, e conquistò in fretta il favore degli altri frati, ma anche in quell'occasione il frate si astenne dall'atto che tutti si attendevano da lui, cioè rendere visita a Lorenzo de’ Medici, capo dei grandi protettori di San Marco, e dimostrargli quanto lo apprezzava con la propria gratitudine e la disponibilità a riceverne i favori. Questo non accadde: Savonarola riteneva di essere in debito con Dio, non con un uomo. Anche se l'orgoglioso Lorenzo si risentì per l'affronto, a quanto pare non fece commenti a riguardo. Nel frattempo, se Lorenzo cominciava a nutrire dei dubbi sul conto del frate, avrebbe avuto motivi di assai maggior preoccupazione. Infatti durante gli anni trascorsi lontano da Firenze quel difensore militante di Cristo aveva acquisito gli strumenti per diventare un abile oratore e un personaggio pubblico di primo piano, seguendo così le orme dei più famosi predicatori dell'epoca. Le prediche dell'Avvento del 1490, pronunciate da Savonarola a San Marco e conclusesi il 9 gennaio 1491, avevano attratto e colpito moltissimi laici. Questo suo successo fu sancito da un invito a predicare nella chiesa più grande e importante della città, il Duomo, dove avrebbe pronunciato i sermoni quaresimali del 1491, il ciclo di prediche più importante dell'anno. Le diciotto prediche dell'Avvento furono un duro assalto contro un clero permissivo e impreparato, contro il peccato dell'usura e le transazioni finanziarie fraudolente, contro l'avarizia dei possidenti che corrompono i figli con l'immoralità del loro esempio, contro l'abitudine di onorare i ricchi solo perché ricchi. Il predicatore stava cominciando a suscitare apprezzamento ma anche indignazione; nei suoi attacchi non risparmiava niente e nessuno. Nessun governo fiorentino del Quattrocento era mai stato trattato in quel modo da un monaco che in realtà già nella sua 33ª predica aveva affermato: “Credo che per mezzo della mia bocca parli Cristo”. Le prediche quaresimali del 1491 recarono Savonarola fama e celebrità: ormai cominciava a influire sull'opinione pubblica fiorentina con i suoi severi ammonimenti su ricchezza e povertà, con i primi accenni di un'invocazione al rinnovamento della chiesa e l'implicita affermazione di sapere certe cose per privilegio divino. I sermoni mettevano in imbarazzo Lorenzo de’ Medici e i suoi principali sostenitori. Savonarola introduceva in modo diretto nella sfera religiosa questioni sociali e politiche o introduceva valori religiosi nella politica. Comunque il nuovo priore di San Marco continuò a predicare. Aveva cominciato a raccogliere intorno a sé un gruppo di seguaci in cui negli ultimi due anni era entrato il fior fiore degli intellettuali fiorentini. All'inizio di aprile del 1492, quando era in punto di morte, Lorenzo de’ Medici mandò a chiamare il frate, poiché desiderava che gli desse l'ultima benedizione. Tuttavia il problema tormentava i cittadini, perché Firenze non aveva un esercito permanente ed era a corto di fondi, mentre re Carlo aveva bisogno di denaro per sostenere almeno in parte le sue spese militari; inoltre nel regime mediceo e tra gli aristocratici più influenti vi erano divergenze profonde e i banchieri e i mercanti fiorentini, le cui proprietà e i cui investimenti in Francia ammontavano a circa 300.000 fiorini, erano stati espulsi dal Lione in giugno. L'ansia si trasformò in vera e propria paura all'inizio di settembre del 1494 quando Carlo invase l'Italia con un esercito di 40.000 uomini. Intanto Piero de’ Medici, legato al re aragonese di Napoli dal suo sangue Orsini, nonostante la forte opposizione di Firenze, continuava a lavorare per un'alleanza della sua città con il regno meridionale. Tuttavia in cuor suo cominciava tentennare, tanto che all'inizio di ottobre tenne delle riunioni segrete con emissari francesi. Di certo si era reso conto che Firenze era schierata compatta e silenziosa contro di lui. A Firenze la situazione stava ormai precipitando: si era verificato un colpo di Stato ma chi era l'autore che controllava ora la città? Intanto paura e ansia continuavano ad aumentare. Il 9 o il 10 novembre alcuni soldati francesi cominciarono ad entrare in città. I nuovi governanti riformati di Firenze, aristocratici o di altra estrazione disdegnati dal vecchio regime, avevano concluso che ormai la tirannia dei Medici era cosa del passato, ma sapevamo anche che Piero si era gettato tra le braccia del re allo scopo di salvarsi il collo e che il re avrebbe fatto pressioni sulla Signoria per riportarlo in città. Entra in scena il re Lunedì 17 novembre 1494, nel tardo pomeriggio, la paura serpeggiava per Firenze. Re Carlo VIII di Francia stava per varcarne le porte ma solo Dio e il re sapevano se sarebbe entrato da amico o da nemico; anzi, forse nemmeno il re lo sapeva perché per il momento la repubblica non aveva ancora stretto alcun accordo con lui. Ora la Repubblica era sola ad affrontare la potenza della Francia. I suoi unici probabili amici, papa Alessandro VI e il nuovo re di Napoli, erano già abbastanza preoccupati per la loro sicurezza. La Signoria e i consiglieri si inchinarono davanti al re che varcava la porta. Costruzioni celebrative in due punti del percorso dimostravano il desiderio dei fiorentini di compiacere gli “ospiti” in arrivo. Il re era entrato in città in trionfo. La città più civile della cristianità fu occupata da un esercito numeroso quasi come un quinto della sua popolazione. Tuttavia che cosa avrebbero potuto fare i soldati e che cosa volessero davvero o che cosa si aspettassero di ottenere il re e i suoi consiglieri restava un mistero. I fiorentini, sull'orlo del cataclisma, erano decisi a fare il miglior viso possibile a cattivo gioco; sorridevano e sopportavano, decisi a trasformare una farsa in una realtà provvisoria, così da rendere il loro spettacolo il più convincente possibile. Per quasi una settimana, fino al 22 novembre circa, il compito principale del governo consistette, oltre che nel cercare di mantenere la pace tra i cittadini e i soldati stranieri, nel resistere alle reiterate richieste del re di restaurare Piero de’ Medici nelle sue funzioni. Entra in scena il frate Savonarola poteva ora alzare il tiro. Era a capo di una nuova congregazione di conventi ed era noto in almeno una mezza dozzina di altre città, tra cui Genova e Brescia, dove aveva predicato. Nel duomo di Firenze migliaia di persone si erano commosse sentendo i suoi sermoni. L'atmosfera di religiosità sempre intensa e diffusa in città stava attirando un numero crescente di fiorentini verso il frate. Savonarola disse al re che lui, Carlo, era venuto in Italia come servo di Dio. Ammonì il re di essere misericordioso soprattutto con Firenze, dove Dio aveva molti servitori, nonostante i suoi peccati; di proteggere e difendere “gli innocenti”. Se i fiorentini avevano offeso la sua maestà doveva perdonarli, perché lo avevano fatto per ignoranza. Savonarola esortava il re a trattenersi e a mostrarsi misericordioso con Firenze e ad andarsene dalla Toscana il più presto possibile conducendo il suo esercito castigatore in Italia meridionale. I cittadini, i quali non smettevano di analizzare la situazione, a poco a poco si resero conto che il re non poteva permettersi uno sterminio il cui esito sarebbe stato la morte di migliaia di soldati ufficiali e forse addirittura dal re in persona e quindi cominciarono a rincuorarsi. Il 28 novembre il re e il suo esercito lasciarono Firenze con immenso sollievo della popolazione. Molti piagnoni affermarono che la città era stata salvata dalla grazia di Dio e dai colloqui di Savonarola con il sovrano. Capitolo sei - Sacra libertà Fermento: il Consiglio Grande Nelle settimane successive alla fuga e all'esilio di Piero de’ Medici, di fiorentini si dibattevano tra speranze e passioni in conflitto. Le famiglie e le persone che erano state vicine ai Medici vivevano nella paura di vendette e rappresaglie; mentre il filomedicei odiavano coloro che avevano defenestrato Piero. Dopo la partenza del re e delle sue truppe, i fiorentini dovevano affrontare un problema impellente: ora che avevano rivendicato la propria libertà, che genere di governo dovevano darsi? Che tipo di uomini, di classe o di classi avevano i requisiti per guidare lo stato? Gli uomini delle casate più insigni si divisero in almeno quattro gruppi distinti: i sostenitori segreti o silenziosi di Piero, gli accaniti oppositori dei Medici, i sostenitori della nascente repubblica (savonaroliana) e gli indecisi che restavano in attesa ad osservare tenendo una linea accomodante. Il Consiglio grande sarebbe stato la colonna portante del governo fiorentino per quasi 18 anni fino all'autunno del 1512 quando un colpo di stato armato rovesciò la nuova repubblica e riportò al potere i Medici. Le leggi del dicembre 1494 decretarono che il Consiglio grande avrebbe avuto il controllo sulle elezioni a tutte le cariche importanti e da quel momento l'istituzione divenne l'unico vero governo di Firenze. Inoltre per motivi di efficienza il Consiglio venne diviso in tre parti uguali, ciascuna delle quali prestava servizio per sei mesi e poi cedeva il posto a un nuovo gruppo di consiglieri. L'istituzione del Consiglio grande evidenzia l'amaro risentimento verso il regime mediceo e rivela la determinazione della classe media ad avere potere decisionale in merito alle pretese di notabili e aristocratici ambiziosi; anche se quegli uomini di umili origini erano disposti a collaborare con gli aristocratici e ad accettarli come capi, nonostante la diffidenza. Parla il frate Mentre la città era in preda alle passioni politiche, Savonarola si guardava intorno con preoccupazione e legittimo interesse. In base alla sua visione del futuro doveva trasformare Firenze nella testa di ponte del risveglio spirituale, in modo che potesse rappresentare la grande via di accesso per il rinnovamento universale della chiesa. Quindi il governo è politica andavano in quella direzione e Savonarola ebbe il coraggio di cercare di imboccare quella strada. Nell'estate del 1494 la sua statura morale e le sue parole possedevano ormai una tale autorevolezza a Firenze. C'erano momenti in cui i signori e i loro consiglieri sembravano pensare che soltanto Savonarola avesse il potere di evitare un orrendo saccheggio e di far allontanare dalla città il re e le sue truppe. Per un certo tempo la maggior parte dei fiorentini credette che fosse stato il suo discorso ispirato al re a prevenire un massacro, che essendo un profeta mandato da Dio fosse riuscito ad instillare timore in Carlo, ricordandogli il suo ruolo di castigo divino. Ma il vero motivo per cui i francesi lasciarono la città fu un altro, legato alle dimensioni insufficienti della loro guarnigione, all'incubo di una carneficina epocale e alle rimostranze dei consiglieri reali, che convinsero il sovrano a risparmiare le sue truppe e a proseguire nella sua vera missione, la conquista di Napoli. Il frate implorava i fiorentini di cercare l'armonia perdonando i collaboratori dei Medici, dimostrandosi misericordiosi con loro proprio come Dio era stato misericordioso con Firenze facendo andare via l'esercito francese e sostenendo che chi invocava giustizia in realtà non voleva giustizia ma voleva vendetta e dare sfogo al proprio odio. tirannia; sotto questa luce la convocazione del popolo fiorentino ad un'assemblea nella piazza del governo non poteva produrre niente di buono, e quindi era meglio sopprimerne del tutto la possibilità. inoltre i savonaroliani ottennero ciò che volevano: il 13 agosto 1495, il Consiglio grande approvò una legge contro qualsiasi eventuale tentativo di convocare un parlamento. Anche questo provvedimento fu ratificato a larghissima maggioranza. Infatti se soltanto Piero fosse riuscito ad arrivare a Firenze e a guadagnarsi, comprandolo od ottenendo un forte sostegno dalla Signoria, non ci sarebbe stato niente da fare. Il passo successivo sarebbe stata una convocazione di un parlamento e poco più di un'ora dopo l'assemblea, la folla circondata da cavalieri armati, fanti unitari, balestrieri, avrebbe gridato il suo sì ad una serie di provvedimenti riconsegnando il potere decisivo nelle mani di un piccolo consiglio di sostenitori dei Medici che di conseguenza avrebbe avuto controllo assoluto sulle elezioni, le cariche più importanti, il tesoro pubblico, l'invio di ambasciatori, oltre a mesi di svariate esecuzioni. Capitolo otto - Dio e politica La crisi della politica fiorentina ridusse in modo drastico la costruzione di nuovi palazzi privati. Inoltre l'esortazione di Savonarola alla carità, insieme ai suoi attacchi contro l'opulenza ostentata, portarono l'opinione pubblica ad osteggiare lo sfoggio di grandi e lussuosi edifici di pietra. Anche la perdita di Pisa di altre aree coltivabili nel pisano produsse l'effetto di arrestare l'edilizia privata. Per un rilancio delle grandi commesse architettoniche ci sarebbe voluto un clima di sicurezza in ambito generale e politico. Gli ultimi decenni del Quattrocento, caratterizzati da ristrettezze economiche e da una paura costante, rappresentarono una sorta di interludio perché solamente intorno al 1520 ripresero gli investimenti su larga scala per i palazzi privati. Combattente e profeta Lo strumento innovativo dalla stampa. Questa nuova tecnologia era arrivata nel 1471 con la creazione della prima stamperia della città, sei anni dopo l'introduzione delle tipografie in taglia. Il frate si rese conto che la stampa era l'unico modo per dare ampia diffusione a prediche, trattati, le lettere più incisive e altri suoi scritti. Fino all'avvento di Lutero, poco dopo il 1520, nessun membro del clero regolare dimostrò di saper sfruttare le risorse della stampa con la stessa efficacia di Savonarola. Nel 1490 del 1491 le sue critiche esplicite ai ricchi laici e chierici lassisti gli avevano procurato molti nemici, che raddoppiarono e triplicarono nel 1494 e 1495, quando il frate entrò spudoratamente in politica. Insieme a molte verità, cominciarono a circolare svariate menzogne sul suo conto: la necessità di difendersi aumentava di pari passo con la crescente veemenza delle accuse. Dalle tipografie di Firenze e di altre località cominciarono a uscire in gran numero prime edizioni e ristampe di sue prediche scelte, lettere personali e opere dottrinali. Per raggiungere un pubblico più vasto possibile, Savonarola aveva tradotto in italiano le sue opere dottrinali, prima pubblicate in latino. Savonarola alla fine del Quattrocento era uno degli scrittori più pubblicati in Italia e solo a Firenze vennero dati alle stampe 108 suoi testi (incunaboli), un numero molto superiore a quello dei poeti più amati della città, Luigi Pulci (18) e Dante (appena 10). Il frate, considerato un profeta e quasi un santo da molte migliaia di fiorentini, era così edotto in logica, filosofia e teologia che per molti anni insegnò queste discipline ai novizi domenicani di Bologna, Ferrara e Firenze. Un “intellettuale”. un uomo pratico di parole e di idee. Savonarola sosteneva che la ragione innalza l'uomo su tutti gli animali bruti, ma solo la fede e la grazia gli consentono di librarsi al di sopra della barriera terrena del peccato, per ottenere la salvezza e l'unità con Cristo. I suoi frati a San Marco ben presto furono disposti a rinunciare persino ai pochi piaceri fisici dei quali potevano godere in monastero. E’ sorprendente che come Lutero e Calvino il frate credesse nella predestinazione: un piccolo esercito di eletti destinati alla salvezza mentre le moltitudini sarebbero state dannate per l'eternità. Però Savonarola sosteneva anche che gli uomini e le donne potevano aspirare alla salvezza e conquistarla. Nelle sue prediche ricorrevano entrambi i concetti, quello della predestinazione e quello della salvezza ottenuta attraverso il libero arbitrio. La sua soluzione fondamentale consisteva nel distinguere fra tempo ed eternità e nell'affermare che la grazia di Dio in un certo senso, almeno all'interno del tempo, non era predeterminata. Attingendo a pensatori come Aristotele, Alberto Magno e San Tommaso d’Aquino, non si stancava mai di ripetere che conosciamo il mondo attraverso i nostri dati sensoriali e che è l'intelletto a consentirci di passare dall'esperienza sensoriale ad una zona in cui cominciamo ad avere concezione di Dio. Una fede ardente, dunque, un credo intenso rinnovato ogni giorno: questa è la via migliore per arrivare a Dio, nostro destino autentico e agognato. Il frate aveva sviluppato un'avversione per l'ostentazione del potere e della ricchezza a causa delle storie udite dal nonno molto devoto, medico di corte a Ferrara, e di ciò che dei principi d'Este e dei loro cortigiani vide con i suoi occhi per le strade della città. Forse era un bambino, e poi un giovane, troppo sensibile. Savonarola scelse il grande ordine dei predicatori, i domenicani, perché sin dall'inizio si considerava un combattente, un cavaliere militante di Cristo, come disse egli stesso, deciso a trasformare il popolo diffondendo la parola di Dio. Non stupisce quindi se ben presto compreso il grande potenziale delle nuove macchine tipografiche per le sue battaglie. Per quasi quattro anni, dal 1494 al 1498, Savonarola fu accusato dei suoi nemici di ingerenza negli affari dello stato: lui, un monaco forestiero e un sacerdote che in quanto tale non aveva alcun diritto di intromettersi nella politica. La sua risposta a questo pungente ritornello variava, passando dalla negazione assoluta di quanto veniva detto all'affermazione, fondata, che aveva una lunga serie di predecessori, che diversi domenicani prima di lui si erano esposti nella vita pubblica e che lui raccomandava soltanto “buone” leggi o strategie politiche generali per il bene comune del “popolo” fiorentino. Ribadiva di non appoggiare alcuna setta politica. Savonarola vedeva la Chiesa e la società in una prospettiva morale e al tempo stesso politica: la corruzione ecclesiastica, a suo modo di vedere, era così assoluta e aveva talmente contaminato la società italiana che solo un flagello divino, la punizione per mezzo di una guerra letale di eserciti “barbarici”, avrebbe potuto purificare e rinnovare Roma, la chiesa e l'Italia; gli stessi eserciti avrebbero rovesciato i principi e le élite dominanti, quindi la popolazione italiana sarebbe entrata in una nuova era. In realtà stava parlando di un assalto a tutto campo all'autorità, ai governanti che considerava marci alla radice. In scena c'erano tutti gli elementi per una rivoluzione politica la cui forza essenziale era in una richiesta di moralità. Perciò Savonarola doveva essere più di un semplice monaco che cianciava di vizi e virtù. Ora almeno era in grado di lasciarsi andare, spinto da un sentimento che lo accompagnava da anni: la sensazione di avere un rapporto particolare con Dio, grazie al quale poteva scrutare il futuro. Le sue prediche di novembre e dicembre 1494 affermavano con candore questa pretesa, e ben presto sarebbe emerso anche che sentiva voci celesti, quella di Dio e quella della Vergine Maria. Era arrivato il profeta. Un predicatore carismatico Nell'inverno 1494-95 Savonarola cominciò ad essere in grave pericolo di vita: da quel momento non sarebbe mai più stato al sicuro e ad ogni stagione i rischi aumentarono. Chi odiava il Consiglio grande imputava a lui il successo di quella iniziativa. Molti blasfemi, giocatori d'azzardo e sodomiti di certo detestavano il frate, che lanciava continue campagne contro di loro. E poi c'era sempre la sua grande nemesi, papa Alessandro VI, che aveva la fama di assoldare degli assassini, come era successo, si mormorava, a Giovanni Gatto, il “primo cittadino di Viterbo” trucidato in un castello nel giugno 1496. Ben presto Savonarola dovette essere affiancato da una scorta di uomini armati tutte le volte che usciva per le strade di Firenze. La rude potenza delle sue prediche mandava su tutte le furie gli avversari, facendo loro desiderare di assistere alla sua morte o addirittura di tramarla; ma tale potenze gli conferiva anche prestigio e influenza, che lui faceva il possibile per mantenere intatta. Predicare, affermò con ardore, era la sua vita. L'odore di santità e la capacità di imporre le sue convinzioni potevano derivare soltanto dalla sua condotta, dai sermoni e dal modo di pronunciarli. I predicatori rinascimentali, quando viaggiavano da una parte all'altra dell'Italia, terra di dialetti, dovevano imparare a modificare voce e dizione se volevano raggiungere una certa statura come oratori e come religiosi. Gli uomini migliori in questo senso, San Bernardino, Roberto Caracciolo e forse Giacomo della Marca, erano sempre molto richiesti: principi e città se li contendevano. Di certo il fallimento di Savonarola come predicatore durante il suo primo soggiorno fiorentino fu dovuto al non aver fatto sforzi sufficienti per modificare il proprio linguaggio e il modo di parlare. Con un sistema adeguato di elezione nel Consiglio grande, per votazione a scrutinio segreto o per estrazione dei nomi dalle sacche elettorali, un regime popolare avrebbe dato a moltissimi uomini la possibilità di operare per il governo e di avvicendarsi nella complessa struttura di cariche pubbliche della città. Non esisteva barricata migliore di questa contro le eventuali ambizioni di uomini forti che avessero cercato di giungere al vertice con la forza. Dal novembre 1494, e fino quasi all'epoca in cui venne giustiziato, Savonarola diede voce alle sue idee politiche in dozzine di prediche. Poi all'inizio del 1498 la nuova Signoria, guidata dal gonfaloniere Giuliano Salviati, lo invitò a scrivere un saggio per esporre le sue opinioni sul “nuovo governo di Firenze”, e lui redasse senza indugio il Trattato circa il reggimento e governo della città di Firenze. Era l'occasione per raccogliere le sue concezioni politiche, ma si piccò di respingere l'idea che i “plebei” potessero avere voce nel governo: accusato spesso di veder sminuito la nobiltà del potere in nome della vile moltitudine, Savonarola lo aveva negato di continuo e non senza irritazione; ora poteva confermare la sua opinione che il potere a Firenze appartenesse in modo legittimo ai possidenti delle classi medie e alte: era fuori discussione che la dirigenza dovesse essere privilegio delle fasce sociali più alte. Poi fate sferrò un attacco violento contro i pericoli e i vizi della tirannia, e sottolineò la sua affermazione secondo cui la nuova repubblica era stato un dono di Dio. Ancora una volta sostenne la causa del Consiglio grande, del governo, dei cittadini. Dio aveva istituito una nuova repubblica e un domenicano di Ferrara per implicazione manifesta era stato il suo portavoce. Il Signore voleva che Firenze, la sua città diletta, fosse governata dai cittadini e dal Consiglio grande, quindi qualsiasi opposizione alla repubblica “popolare” si trasformava in un'attività rivolta contro la volontà di Dio. L L'ostacolo maggiore che si contrapponeva al programma di Savonarola, a parte il papa Alessandro VI, era costituito dai Medici, in particolare da Piero che premeva per tornare a Firenze ma poteva tornarvi soltanto come despota. Nella visione che Savonarola aveva della vita pubblica, tiranni ed ecclesiastici libertini e amanti del denaro rappresentavano tutto quanto c'era di malvagio nel mondo moderno perché pur essendo gravati da responsabilità pesantissime erano estraniati senza speranza da Cristo e dal significato della croce, e si abbandonavano al mondo fisico nelle sue manifestazioni più vili. Capitolo nove - Angeli e ministri: 1496-1498 In città infuria la peste, soprattutto durante l'estate, e la spaventosa penuria di grano provoca una carestia così grave che persino i contadini alla ricerca di pane premono per entrare in città attraverso le sue porte sorvegliate. Molti sono destinati a morire a causa dell'epidemia e della fame, a volte anche per strada. Il frate utilizzava l'innocenza e l'onestà dei bambini come con una sorta di forza purificatrice e di bastone con cui percuotere gli adulti corrotti. I loro visi freschi erano un simbolo suggestivo. Gli storici hanno sostenuto che il frate si servisse dei gruppi giovanili per spingere fino in fondo il suo messaggio di rinnovamento. Il movimento giovanile savonaroliano s'era emancipato dalla rete di rapporti del potere locale, quindi San Marco assunse maggior controllo sui ragazzi e sui loro vincoli di fedeltà. Nel momento del suo massimo splendore l'ondata di giovani devoti, la cui età andava da 12 anni a circa 20, generava ragazzi che potevano essere aggressivi e persino minacciosi, soprattutto perché si consideravano una sorta di pulizia morale. Le donne lussuosamente vestite, quando li vedevano, cambiavano direzione cercando di evitarli; i giocatori di carte e di dadi come le prostitute fuggivano quando per le strade si snodavano le file di ragazzi vestiti di bianco, alla ricerca di giocatori, bestemmiatori e di brutture manifeste. Ma il clima generale a poco poco cambiò, soprattutto nell'ultimo anno di vita del Savonarola, mentre i suoi nemici fiorentini, con il sostegno di Roma e dei cardinali, aumentavano di numero nei consigli che governavano la città e intensificavano i loro attacchi ai piagnoni. Ora i ragazzi in processione ed in pattuglia incontravano una resistenza crescente, affrontavano insulti, minacce e aggressioni vere e proprie. Se entravano in scena i ragazzi di San Marco, i giocatori potevano prendere il coltello o se capitava la spada. Ora, quando i ragazzi andavano per le strade, cominciavano a temere il pericolo, e se ne lamentavano con i loro direttori; di conseguenza Savonarola nelle sue prediche doveva fare marcia indietro ed esortarli ad agire in modo più educato, più buono e “fraterno”. Possiamo dedurre senza difficoltà che la maggior parte dei ragazzi veniva dalle classi possidenti: dalle famiglie più antiche, dalle casate di ricchi mercanti o di quanti vivevano di redditi fondiari e investimenti, dalla classe dei piccoli mercanti e degli artigiani facoltosi. Perciò in quella società patriarcale, i ragazzi savonaroliani più eminenti con ogni probabilità provenivano da famiglie illustri o antiche. Pur essendo riformati e cristiani ferventi, non avrebbero digerito con facilità il fatto di ricevere ordini da persone socialmente inferiori; ben presto poi affioravano la loro istruzione e i loro modi più disinvolti e sicuri. Capitolo dieci - Il Papa e il frate: 1495-1497 Entra in scena Rodrigo Borgia In apparenza la competizione sembrava ridicola: una contesa tra un gigante e un nano, papa Alessandro VI, contro il “fraticello” di Ferrara. Anzi, stupisce che la lotta con Alessandro possa essere durata così a lungo. Ma dalla sua Savonarola aveva la protezione della repubblica fiorentina e qualcos'altro: una forte aura di santità, forte al punto da mettere a disagio persino il papa. Alla fine Alessandro non poteva non vincere, ma i suoi successori, tra cui due papi Medici, ne avrebbe pagato il prezzo a posteriori quando Lutero, Calvino e la riforma protestante spaccarono la comunità cristiana. In fondo, le appassionate invocazioni del frate per un rinnovamento della chiesa avevano colto nel segno: Savonarola aveva visto giusto. Il nome di Rodrigo Borgia è sinonimo della corruzione del papato rinascimentale, una corruzione che si esprimeva nella pratica manifesta della simonia e del nepotismo, oltre che nel lassismo in ambito sessuale, nel carrierismo e nella disinvolta vendita di indulgenze per la remissione o il perdono dei peccati. Borgia era nato intorno al 1431 in Aragona, nei pressi del porto di Valencia. Egli ebbe comunque bisogno di un trampolino di lancio: glielo fornì Alonso, fratello di sua madre, che proveniva da un altro ramo della famiglia Borgia ed era un eminente esperto di diritto canonico, vescovo di Valencia, poi cardinale e quindi papa con il nome di Callisto III. Rodrigo seguì in Italia lo zio, che lo favoriva elargendogli cariche ecclesiastiche, e per un certo numero di anni fece avanti e indietro dall'Università di Bologna, impegnato nello studio del diritto canonico. Rodrigo era una creatura di Callisto, ma ben presto cominciò a muoversi in modo brillante sulla scena romana grazie alle sue stesse capacità. Durante la sua carriera Rodrigo fece anche altre importanti esperienze. Con la competenza acquisita grazie alla sua posizione nella cancelleria e carico di averi, Rodrigo Borgia divenne in fretta molto influente. Se Borgia riuscì a farsi eleggere papa comprando i voti con denaro e con promesse di cariche e benefici, a sedurre i colleghi furono anche il suo fascino e l'amabilità dei suoi modi. Era prestante, allegro e amante della conversazione, ma anche pieno di spirito, versatile, colto ed eloquente come oratore. Un certo Girolamo Savonarola Alessandro VI non si accorse davvero di un certo frate fino a quando non caddero i Medici e l'esercito francese non cominciò la sua avanzata lungo lo stivale d'Italia. Ma anche in quel momento aveva troppe altre preoccupazioni: le intenzioni di re Carlo VIII, la rivolta dei signori Orsini nei loro castelli nei dintorni di Roma, un complotto di diciotto cardinali ribelli e il futuro dei suoi amati figli, per non parlare del governo dello stato. Le parole e le stravaganze di Savonarola erano dunque inizie, almeno fino a quando non entrarono in conflitto con la sua politica estera, di cui la “Lega Santa” costituiva una colonna portante. Ratificata a Venezia alla fine di marzo del 1495, questa alleanza di Stati italiani, cui Firenze non aderiva, mirava a cacciare i francesi dall'Italia, in modo che le città-stato e i principi italiani potessero proseguire i loro affari. E ora i tempi avevano anche prodotto quell'irritante frate domenicano, il quale insisteva nell'affermare che Dio aveva mandato re Carlo a purificare l'Italia dai suoi peccati orribili e prediceva un rinnovamento rivoluzionario della cristianità: continuava ad annunciare che Roma, la capitale del vizio, sarebbe stata castigata senza pietà. I principali nemici fiorentini di Savonarola erano ben decisi a fargli cambiare opinione. Avevano bisogno di tutto l'aiuto che riuscivano a trovare per dar vita alla Firenze cui aspiravano: riportare al potere i Medici, umiliare il Consiglio grande e istituire un'oligarchia di notabili. Firenze e dando temporaneamente soddisfazione a Milano, Venezia e ai cardinali che volevano far uscire di scena Savonarola, o almeno domarlo. Grazie a questa schiarita sarebbe stato più facile indurre Firenze ad entrare nella lega contro la Francia. Anche gli svariati cardinali che simpatizzavano con il frate si erano placati. Inoltre il papa non fece nulla per impedirgli di pubblicare le sue opere e non spiegò neppure il motivo di tale decisione: si deve sospettare che volesse evitare lo scandalo e l’assillo da parte di quanti avrebbero insistito sull’assoluta correttezza dei precetti e della dottrina di Savonarola. Intanto il breve del 16 ottobre aveva dato un momento di tregua a Savonarola. Ora si trovava nella posizione di poter prendere tempo. Essere bandito dal suo amato pulpito era una battuta d'arresto: la predicazione per lui era la vita. Ma era libero di scrivere, lui e i suoi uomini sarebbero rimasti a Firenze e avrebbe continuato ad essere il simbolo vivente di un autorevole movimento religioso e politico. Un anno di ansia Savonarola avrebbe mantenuto ufficialmente il silenzio per 120 giorni, dalla seconda metà di ottobre del 1495 al 17 febbraio del 1496. Ma poco dopo che aveva cessato di predicare, dedicandosi con fervore alla scrittura, Firenze cominciò ad assillare il papa tramite i suoi agenti ed emissari affinché gli concedesse di nuovo il diritto di pronunciare i suoi sermoni. Il 17 settembre la Signoria aveva scritto a papa Alessandro per difendere Savonarola; all’inizio di novembre la nuova Signoria aveva nominato un altro ambasciatore presso il papato, messer Riccardo Bianchi; il 13 novembre i signori inviarono delle missive al cardinale Carafa e al papa, chiedendo che fosse di nuovo consentito al frate di predicare. Nel frattempo il cardinale Carafa, protettore napoletano di San Marco, sommergeva il papa con una marea di buone parole sul frate e in un momento fortunato, tra il 10 e il 15 febbraio, riuscì ad ottenere da Alessandro un cauto e quasi segreto consenso orale per il ritorno di Savonarola sul pulpito. Alcuni dubitano che l'episodio sia avvenuto davvero, ma possiamo desumerne la possibile veridicità grazie a due considerazioni. Il consenso fu concesso in segreto in modo da accontentare Firenze e quel poco che rimaneva della coscienza del papa; ma con il tempo si sarebbe anche potuto ritrattare, affermando che non esisteva alcun documento a conferma del presunto diritto, in linea con una curia che aveva una nota passione per la burocrazia e le scartoffie. Per di più anche se in seguito Alessandro avrebbe protestato e si sarebbe lamentato spesso, permise a Savonarola di continuare a predicare per un altro anno. L'11 febbraio 1496 con un abile colpo di scena la Signoria ordinò al frate di pronunciare le prediche quaresimali nel duomo. Come ovvio, lui bramava quell'invito, che fu presentato in modo da apparire un ordine, e si gettò subito nella stesura di un nuovo ciclo di sermoni. All'inizio di marzo il papa cominciò a lamentarsi dicendo di non essere affatto soddisfatto della predicazione del frate; ammise che pure gli alleati della Lega santa, in particolare Milano e Venezia, erano alquanto contrariati dai sermoni. Insomma, le obiezioni avevano carattere politico, non dottrinale. Nel primo sermone, pronunciato il 17 febbraio, il frate dimostrò uno spirito combattivo che lo avrebbe accompagnato per molte domeniche fino al 10 aprile 1496. Dopo le prediche quaresimali si riposò per un mese circa. Non più tardi dell'inizio di aprile, il papa sostenne di essere deciso a far dichiarare Savonarola eretico e scismatico, ma i membri dell'oscura commissione esaminatrice non riuscirono ad aver ragione della energica difesa del cardinale Carafa. E grazie ad ulteriori promesse sue e di altri, per il momento Alessandro lasciò cadere le accuse. Altri dati confermano che il papa aveva dato il suo ambiguo consenso orale al cardinale Carafa autorizzando le controverse prediche successive. Coerente con il suo stile, in febbraio il frate reagì affermando che la vocazione a predicare (e l'autorizzazione a farlo) gli venivano da Dio. Nel 1496 ci furono problemi per l'economia e le finanze pubbliche in città. In termini di spesa, la lotta armata per riconquistare Pisa stava diventando un incubo: i fiorentini avevano perso grandi zone di terreni produttivi intorno a Pisa, mentre compagnie di soldati stranieri, pagate da Venezia e dal duca di Milano per sostenere i pisani, devastavano parti della Toscana fiorentina. Così nel corso dell'anno Firenze cominciò a sentire la penuria di grano e a soffrire di carestia. La produzione di seta e di tessuti di lana fine, componente fondamentale dell'industria cittadina, era in calo; inoltre il denaro scarseggiava perché in seguito alla fuga e all'espulsione dei vecchi tiranni la paura aveva indotto molti collaboratori dei Medici a trasferire ingenti quantità di fiorini d'oro fuori dalla città. Una delle conseguenze fu che la repubblica era costretta a prendere denaro in prestito dai suoi stessi cittadini a tassi di interesse esorbitanti per una forma di affarismo che veniva denunciata da Savonarola come spietata avidità. Nei rapporti tra il Frate e papa Borgia vi fu un'altra crisi verso la fine dell'autunno, quando a San Marco giunse inaspettato un breve papale datato 7 novembre 1496. Annunciava l'istituzione di una nuova congregazione di conventi, da Firenze a Lucca fino a Perugia e a Roma, che avrebbe unito tutte le case dominicane toscane e romane, promotore dell'iniziativa era il papa stesso. La ragione del cambiamento era burocratica, per ottenere maggior agilità operativa e a riguardo non c'era da discutere. Il breve si concludeva con la minaccia di scomunica da applicare a chiunque avesse contraddetto e ostacolato la nuova disposizione. Dando per scontato che San Marco e le altre case dominicane in Toscana appartenessero ancora alla Congregazione lombarda, il breve evidenziava il presupposto che la precedente frattura con la Lombardia era stata illegale, come già affermato nel breve dell'8 settembre 1495. Il nome del vicario della nuova congregazione fu reso noto a dicembre: si trattava di un siciliano. Savonarola mantenne il silenzio. Rispose più di sette mesi dopo, quand'era già arrivata la scomunica, e la risposta, datata 17 giugno 1497, uscì coraggiosamente come lettera pubblica indirizzata a sostenitori “eletti” o “diletti” di Dio. Si affermava che la decisione se entrare o no nella nuova congregazione romano-toscana riguardava esclusivamente i frati di San Marco; e dato che avevano scelto la scomunica, o addirittura la morte, pur di non unificarsi con le altre case, così doveva essere. Quanto a lui, non avrebbe imposto l'obbedienza agli altri frati, anche se ovviamente era d'accordo con loro. Quello che Savonarola non sapeva era che il cardinale suo protettore, Carafa, a quanto pare era favorevole al nuovo breve. Carafa secondo quanto sostengono gli storici non desiderava che San Marco fosse assorbita dalle altre case, e quindi contaminata, ma piuttosto che avesse la possibilità di aumentare la portata delle riforme savonaroliane. Comunque il cardinale e il frate non ne avevano parlato, né lo fecero mai dopo. nell'ufficio mai dopo. Giustamente sospettoso, Savonarola si oppose al cambiamento fin dall'inizio e questo fece infuriare il cardinale mettendolo contro il frate: con ogni probabilità Carafa si era lasciato andare a desideri irrealizzabili o era stato manipolato. Il nuovo breve in cui si annunciava la decisione di unificare sedici diverse case domenicane era concepito in modo così palese contro Savonarola che ognuna delle cose per cui egli si batteva lo costringeva a respingerlo. Alla fine del 1496 Savonarola era ancora desideroso di vedere re Carlo e i suoi “barbari” tornare in Italia per compiere il “flagello”; invece a Firenze gli aristocratici che volevano la sua testa stavano cercando di riportare la repubblica sotto il controllo o il dominio dei Medici, o di far entrare Firenze nella Lega santa contro la Francia, oppure di smantellare il Consiglio grande, in modo graduale o con un colpo di stato. Capitolo undici - Il momento savonaroliano Cristo re Firenze era sua. Parlando di fronte a migliaia di fiorentini, Savonarola l'aveva reclamata più volte per Dio. Ma lui solo era il portavoce di Dio nella più civile delle città europee. E se il Papa era il vicario di Cristo sulla terra, Savonarola era il vicario di Cristo a Firenze. C'erano anche cittadini indignati per i suoi incessanti attacchi al clero immorale, e altri ancora che volevano impedire le sue diatribe contro il gioco d'azzardo, la blasfemia, la sodomia, le corse dei cavalli, le giovani donne senza velo e la letteratura licenziosa, incluse le opere migliori della poesia di Luigi Pulci. Ciò nonostante il loro odio per Savonarola non era abbastanza forte per farli coalizzare in un partito perché le loro differenze di classe, di rango, di moralità e di alleanze clientelari erano più forti. Quindi la collaborazione su una questione oggi non poteva garantire la stessa collaborazione su un'altra domani. In presenza di tali frustrazioni, gli antisavonaroliani presumevano che gli uomini del frate fossero più organizzati di qualsiasi coalizione esistente tra loro, quando in realtà gli uomini che ammiravano Savonarola da certi punti di vista erano altrettanto divisi dei loro nemici. L'accusa che il convento di San Marco fosse la sede di una “intelligenza” segreta faceva infuriare Savonarola, il quale talvolta ne parlava con disprezzo nelle sue prediche. Dichiarò più volte di non essere il tipo da parlare di nascosto, che tutto quello che aveva da dire era stato espresso in pubblico. Savonarola negò sempre, anche sotto tortura, che San Marco ospitasse una setta politica. Per tre anni, quindi, le elezioni delle signorie che si avvicendavano ogni due mesi in linea di massima favorirono gli uomini di Savonarola. Nell'ultimo anno di vita del frate, la città finalmente produsse un gruppo antisavonaroliano che somigliava di più ad una setta politica o “partito”, i compagnacci. Essi si riconoscevano nell'odio viscerale per Savonarola e per le sue scelte politiche. Capitanati pubblicamente dal nobile fiorentino Doffo Spini, acerrimo nemico del frate, pare che fossero guidati in segreto, almeno sul piano finanziario, dai due fratelli del ramo cadetto dei Medici, uno dei quali aveva sposato una principessa Sforza e viveva a Forlì. I compagnacci erano un gruppo di gaudenti convinti e si piccavano di vestirsi in modo fastoso, banchettare accompagnati dalla musica alla faccia dei devoti frateschi. Anche se erano circa 150 uomini, potevano contare su molti altri sostenitori, per esempio nelle dimostrazioni di piazza, e al momento opportuno erano anche in condizione di accaparrarsi voti al Consiglio grande. All'inizio della primavera del 1498, mentre papa Alessandro premeva senza tregua sul frate, avrebbero svolto un ruolo determinante nella sua rovina. Capitolo dodici - Piagnoni e bigotti Firenze si era affezionata all'eloquenza del frate. Quindi i suoi nemici fiorentini a maggior ragione lo temevano e lo condannavano. Per i suoi seguaci, invece, usavano nomi di scherno. Piagnoni e pinzocheroni: erano questi gli appellativi più comuni con cui si insultavano gli entusiasti sostenitori di Savonarola. Questi ultimi finirono per accettare di buon grado, sino a diventarne quasi orgogliosi, il nome di piagnoni, attribuito loro perché alcuni piangevano durante le prediche. Ma rifiutarono sempre, e con sdegno, il nome di pinzocheroni, ovvero bigotti. I suoi detrattori lo scherniscono con appellativi offensivi come “fra cipollone”, “cipolla pessima maligia”, “scappuccino” e “fratuncolo”. E’ accusato di “arroganza” e di esercitare il suo fascino soprattutto sulle donne e i plebei. Ma le aggressioni più gravi a Savonarola e ai suoi sostenitori provenivano dai pulpiti e dalle pene di altri frati, uno dei quali, Giovanni Cairoli, un domenicano di altro genere, era erudito almeno quanto il suo perspicace collega. Cercava di confutare le argomentazioni del frate contro la schiera di sacerdoti e chierici senza principi. Anche se in tali repliche era consuetudine tacere il nome della persona presa di mira, i cittadini ben informati riuscirono subito ad individuare chi era colui che non era stato nominato. La celebrità di Savonarola, poi, semplificava il compito. Da quel momento in poi, i nemici e gli oppositori del frate avrebbero sempre confutato la sua affermazione di essere un profeta. Cairoli attaccò Savonarola perché profetava e si ingeriva in modo scorretto negli affari politici della città. In realtà accusava il profeta di San Marco di essere un impostore, un ingannatore spinto dall'ambizione e dal desiderio di celebrità e di potere. I falsi profeti, affermò, manipolano la folla superstiziosa per i propri fini e fomentano conflitti civili. Ma aumentavano pure le accuse di eresia e scisma (cioè l'intenzione di spaccare o dividere la Chiesa), così da quel momento il frate fu costretto a dedicare sempre più tempo a difendersi. Persino uomini provenienti dalle cittadine della campagna fiorentina se la presero con lui. In modo assai sconcertante, Altoviti aveva formulato l'accusa più terribile, la più drammatica: “Piero dé Medici l’ha favorito e aiutato perché a Firenze non venga la scomunica, e in persona è andato al papa a supplicare acciò che egli stia in Firenze e non si parta e li serbi il luogo e l'uso della tirannide”. Circolavano uomini disposti ad ucciderlo, mentre altri erano pronti a pagare per il suo assassinio. Date le sue abitudini, lo stesso papa Alessandro avrebbe perdonato in fretta gli attentatori. Un altro autore Girolamo Porcari, alto funzionario della curia, sostenne che Savonarola aveva predetto false assurdità, facendo anche precipitare Firenze dai suoi precedenti splendori, e che tra l'altro il frate era affetto dalla sifilide. Capitolo tredici - La scomunica: maggio-giugno 1497 Bandito dalla chiesa Tra l'inverno del 1495 e la primavera del 1498 affluirono agli uffici del papato decine di lettere e rapporti, in cui il frate veniva accusato di crimini di tutti generi, tra cui alto tradimento, furto, perversioni sessuali e ovviamente eresia. In prima fila tra i più accaniti nemici del frate c'era Ludovico Sforza, che aveva usurpato il titolo ducale di Milano scavalcando un nipote. Le dure prediche quaresimali del frate per il 1497 rinsaldarono l'alleanza antisavonaroliana intorno a papa Alessandro. Non va dimenticato che Savonarola avevo opposto un tacito rifiuto all'ordine formulato dal papa nel breve del 7 novembre 1496 sull'integrazione di San Marco nella nuova congregazione tosco-romana. Era venuto il momento di prendere severi provvedimenti. Papa Borgia firmò il breve di scomunica contro Savonarola il 13 maggio 1497. Il provvedimento fu accompagnato da un episodio colorito: il breve andava portato a Firenze, dove il suo contenuto sarebbe stato reso pubblico, e latore della notizia doveva essere Gianvittorio da Camerino, professore di teologia. Ma questi nel marzo precedente si era recato a Firenze e, avendo attaccato in pubblico Savonarola, probabilmente durante una predica, si era tirato addosso la collera di molti fiorentini che avevano emanato contro di lui un mandato di arresto e lo avevano fatto espellere dal territorio fiorentino. Lo avevano avvertito espressamente di non tornare, se non voleva essere condannato a morte. Dato che il latore della scomunica, il professore di teologia, non era autorizzato a entrare a Firenze, il breve dovette seguire un tragitto diverso, e circa un mese dopo, il 18 giugno, fu finalmente reso pubblico di fronte a molti monaci in cinque delle più importanti chiese della città. In ciascuna delle chiese, una volta letto il breve, furono suonate le campanelle, due grandi candele accese vennero capovolte e le loro fiamme spente contro il pavimento: da quel momento in poi la luce della chiesa veniva negata all'uomo scomunicato. Frate Girolamo Savonarola era stato bandito dalla comunità dei cristiani, fino al momento in cui forse si fosse recato a Roma, avesse presentato invocazioni e scuse e ottenuto, se possibile, il perdono e l’assoluzione del papa. Il breve di scomunica affermava che il frate era stato posto fuori dalla chiesa perché non aveva ubbidito agli ammonimenti e ordini apostolici. Inoltre veniva intimato a tutti cristiani di evitare del tutto frate Girolamo, in quanto scomunicato e sospetto di eresia se non volevano subire la stessa pena. Contrattacco La scomunica affermava che il frate era sospetto di eresia. Non lo accusavano del reato, perché farlo avrebbe richiesto un'indagine e un processo. Savonarola apprese di quel breve decisivo nel giro di una settimana dalla sua firma e ratifica e reagì inviando ad Alessandro una risposta il 20 maggio e una successiva e il 19 giugno. Già era noto per essere stato uno dei compagni di Piero dé Medici, ma aderì anche al movimento di Savonarola. Anche Cambi e Pucci confessarono i nomi di uomini che conoscevano il progetto di Piero di occupare la città o che gli avevano offerto aiuto di denaro. I loro nomi suscitarono una paura e una collera ancora maggiori: in cima alla lista vi era niente meno che Bernardo del Nero, seguito da altri due di cui nessun fiorentino ignorava la posizione sociale, Lorenzo Tornabuoni e Niccolò Ridolfi. Secondo i cronisti dell'epoca, molti sostenitori dei Medici avevano aderito al movimento di Savonarola, alcuni per nascondere la loro vera identità politica, altri spinti dalla gratitudine per i continui sforzi compiuti dal frate per fare perdonare i sostenitori del vecchio regime. A quanto affermano tali cronisti il frate era ben contento di poter contare su di loro, perché aumentava il numero dei suoi seguaci e, grazie ai loro rapporti familiari e alle conoscenze altolocate, davano un onore e un prestigio al movimento. Perciò, accettando il sostegno dei suoi ex nemici, aveva bisogno di credere, e certo di sperare, che fossero davvero passati dalla sua parte, nell'esercito dei repubblicani. La passione politica Lamberto dell’Antella fu arrestato il 4 agosto e confessò quel giorno stesso. Tutti gli altri uomini implicati furono arrestati il giorno dopo. Per impedire che i sospetti fuggissero e complottassero tra loro, il governo agì in fretta. Gli interrogatori dei prigionieri terminarono il 17 agosto, quindi la Signoria convocò 200 cittadini, presentò loro le confessioni dei cospiratori e nominò i giudici. Le confessioni degli uomini imprigionati avevano preoccupato i priori, impensieriti anche per una eventuale reazione dei Medici agli arresti. Il processo dei cinque uomini si svolse in un'atmosfera carica di sospetti e accuse. Le prove e le testimonianze che collegavano i cinque imputati all'arrivo di Piero alle mura della città il 28 aprile furono lette alla folla riunita della giuria e, quando il caso venne messo ai voti, l'assemblea lì giudicò colpevoli di alto tradimento. Per la legge fiorentina questo verdetto comportava automaticamente la pena di morte e la confisca di tutti i beni dei condannati. I cinque uomini decisero di presentare un appello al Consiglio grande, scavalcando la Signoria e i giurati da loro nominati. Il verdetto di colpevolezza del 17 agosto fu seguito da quattro giorni di intensi dibattiti. La legge diceva che qualsiasi fiorentino condannato a morte dalla Signoria o da chiunque fosse da loro delegato a giudicare aveva il diritto di appellarsi contro la sentenza al Consiglio grande, perché in caso contrario, come avevano affermato Savonarola e i repubblicani a lui favorevoli, il potere della Signoria, che non era né un tribunale né un'assemblea legislativa, sarebbe stato troppo spaventoso. Per colmo d'ironia, considerato il dettato legislativo in apparenza trasparente, furono propri i sostenitori dei Medici e nemici segreti del Consiglio grande a ricorrere a quest'ovvia motivazione legale per l'appello dei cinque imputati. Dall'altra parte, molti di quelli che temevano inganni dei Medici e dei cinque cospiratori ma che sostenevano il Consiglio grande e che avevano strappato le ali della Signoria, in quell'occasione speravano che i signori prevalessero sul Consiglio. C'era malafede da entrambe le parti. La discussione finale, svoltasi il 21 agosto, certi che per sottoporre il caso al Consiglio grande ci sarebbe voluto più tempo, forse molto di più. L'appello fu negato. Il metodo scelto per l'esecuzione dei cinque uomini fu la decapitazione, una morte adatta alla loro posizione nobiliare, da eseguirsi al riparo dagli occhi del pubblico. Pochi minuti dopo la decisione della signoria, vennero informati il boia, i condannati e le loro famiglie. Alle quattro del mattino le cinque esecuzioni erano ormai compiute, Bernardo del Nero era stato l'ultimo a morire, dopo cinque colpi d'ascia del boia, uno dei quali gli aveva staccato il mento. Quando i cittadini più mattinieri si alzarono e uscirono per le strade, appresero subito notizia. Questa scelta era stata fatta per salvare Firenze dall'accusa di cercare di mettere in imbarazzo le potenze straniere che avevano complottato insieme ai Medici. Date la colpa al frate In conseguenza delle esecuzioni si diffuse una voce secondo cui Savonarola dicesse che i cinque dovevano essere uccisi. Nessuno storico ha comunque mai ammesso la plausibilità di questa voce. Savonarola non avrebbe mai chiesto che i cinque fossero giustiziati. Machiavelli, che nel periodo in cui Savonarola era in auge si trovava a Firenze, in seguito affermò che l'esecuzione fu un punto di svolta per le sorti del frate, la cui popolarità cominciò a scendere perché non intervenne di persona nella vicenda e non cercò di salvare degli uomini accusati da un governo in cui, secondo tutte le apparenze, dominavano i suoi sostenitori. Tuttavia Machiavelli espresse questa opinione oltre 15 anni dopo gli avvenimenti; e se davvero nell'autunno del 1497 Savonarola stava diventando meno popolare, tale declino va invece ascritto alla sua scomunica, al fatto che re Carlo VIII non era tornato in Italia e alle continue ribellioni di Pisa. Gli storici contrari a Savonarola talvolta sostengono che se fosse stato davvero chi diceva essere avrebbe cercato di salvare i condannati. Questa affermazione non tiene conto della situazione reale e delle tensioni esistenti a Firenze nel 1497. Tutti i dati disponibili inducono ad escludere l'ipotesi che i cinque non si fossero davvero macchiati del tradimento. Quando i detrattori del frate affermano che avrebbe dovuto essere spinto da un religioso senso di misericordia, cadono in contraddizione. Sostengono che era un ipocrita, ma si trattava di un caso marcatamente politico: intromettersi avrebbe significato entrare in una situazione politica turbolenta. Perciò qualsiasi intervento sarebbe stato un atto politico, in questo caso si sarebbe tradotto nell'invocazione a salvare i complici, volenti o passivi, di un'aspirante tiranno, sebbene Savonarola avesse trascorso i mesi precedenti a sfidare a tutto campo la minaccia della tirannia. Comunque si fosse comportato avrebbe attratto le critiche, perciò preferì tacere e astenersi dall'azione. A quanto si presume, le esecuzioni aprirono una frattura tra i Medici e Savonarola, e gli storici concordano sul fatto che la morte naturale, in settembre, del politico mediceo più influente, Pierfilippo Pandolfini, in pratica lasciò Francesco Valori e gli uomini del frate padroni incontrastati della città. Capitolo quindici - L'accerchiamento di Roma Sfrontatezza Alla fine del 1497, le esecuzioni di agosto e l'allontanamento ufficiale del frate dalla comunità dei cristiani non avevano ancora provocato il rivolgimento dell'opinione pubblica fiorentina contro San Marco. Anzi, con l'elezione al Consiglio grande ai primi di gennaio-febbraio 1498 tornò un'altra signoria savonaroliana. Ma quell'inverno riesplose la controversia con Roma. Fu lo stesso reietto a innescarla, riprendendo a predicare. Domenica 11 febbraio il frate cominciò il ciclo delle prediche sull'esodo. L'avvocato Domenico Bonsi, uno dei due ambasciatori fiorentini a Roma, non aveva smesso di invocare l'assoluzione del frate. Ma il 14-15 febbraio giunse all'orecchio di papa Alessandro notizia delle nuove prediche dello scomunicato, e d'un tratto la situazione si fece rovente. Il 17 Bonsi inviò ai Dieci di Firenze una richiesta in cui esortava loro di scrivere al papa furibondo per spiegare e scusarsi. Intanto a Firenze il governo sosteneva il frate con determinazione. Intanto c'è un problema più drammatico: lo stesso Bonsi si trovava in grave pericolo, forse perché si sapeva che era un sostenitore del frate. Nel corso delle sei settimane successive, la vita a Roma divenne sempre più difficile per Bonsi, soprattutto perché Firenze non gli forniva spiegazioni credibili sul motivo per cui Savonarola aveva ripreso a predicare. Quindi lui non poteva far altro che continuare a ripetere un misero ritornello: che il frate era un uomo buono e santo, disposto a dimostrarsi obbediente, e che il governo fiorentino lo sosteneva con lealtà. Alla curia sapevano anche che alcune prediche del frate erano rivolte direttamente contro Sua Santità. In quel caso la politica in quanto tale sarebbe stata relegata in una posizione di secondo piano. Gli articoli dell'accordo, ultimati il 6 aprile, scendevano nei più minuti particolari. In caso di rifiuto di entrare nel fuoco, per i domenicani la punizione sarebbe stata l'esilio immediato di Savonarola; anche se entrambi i concorrenti fossero bruciati Savonarola sarebbe stato dichiarato un ribelle e avrebbe avuto tre ore per andarsene dalla città. In realtà, ormai, solo un autentico miracolo poteva garantire al frate la sopravvivenza a Firenze. L'alternativa, l'esilio della città, avrebbe posto fine per forza di cose alla sua crociata e concluso la sua vita da profeta. Roma reagì con stupore e disapprovazione alla notizia dell’ordalia. La capitale della cristianità non poteva guardare con favore ad una prova del genere. Il 30 marzo la Signoria interpellò una cinquantina di consiglieri, frateschi e arrabbiati. Lo stallo L'ordalia fu fissata per il 6 aprile e poi spostata al 7, il sabato prima della domenica delle Palme, mentre la Signoria curava gli ultimi particolari dell'organizzazione. Francesco da Puglia, l’istigatore, e Rondinelli, il monaco scelto per entrare nel fuoco, erano nel palazzo, ancora a colloquio con la Signoria. Domenico da Pescia entrò nel palazzo, dove gli tolsero anche quanto indossava sotto perché si pensava che i suoi vestiti fossero stregati. Intanto passavano le ore, nella marea di volti in attesa aumentavano l'impazienza e la collera. All'epoca non si usava comunicare le ragioni del ritardo, quel giorno non furono comunicate alla folle insofferente che aveva di fronte un muro di silenzio. Francesco da Puglia Rondinelli, i francescani al centro della controversia, in realtà non uscirono mai dal palazzo per unirsi ai frati. A quanto sembra, a un certo punto dal palazzo recarono un messaggio per Savonarola in cui si chiedeva che i domenicani procedessero all'ordalia anche se i due francescani non si erano ancora fatti vedere. Ma il frate respinse quell'invito unilaterale. Poi scoppiò un forte temporale, con grandine e molti lampi. Sebbene l'immensa folla resistesse, alcuni testimoni ritennero che la pioggia battente fosse un segno della disapprovazione di Dio per l'ordalia. La signoria, rassegnata ed esasperata, alla fine mandò via i francescani. Quindi anche il gruppo di San Marco colse l'opportunità per tornarsene al convento. Nel giro di poche ore, la mancata ordalia trasformò la parte più vulcanica del sentimento popolare di Firenze in un disprezzo furente per il frate e i suoi seguaci e molti fiorentini, persino i piagnoni, che avevano sperato di assistere di persona ad uno spettacolare miracolo legato ai poteri di Savonarola, si sentirono inbrogliati e ingannati. L'ordalia era diventato un fallimento per il frate. Capitolo diciassette - L'assedio di San Marco: aprile 1498 Cambia l'umore L'umore della città era cambiato in modo così netto che la nuova collera avvertibile nell'aria sembrava invocare un'epurazione, eccitando la folla sempre più nutrita di quanti detestavano il frate e l’influenza religiosa di San Marco. Nell'arco di un pomeriggio era diventato pericoloso esibire credenziali savonaroliane. I capi dei frateschi erano già diventati bersaglio di biglietti anonimi, fatti circolare o spediti. Quel mattino, come se presentisse la propria rovina, Savonarola aveva concluso una breve predica ringraziando Dio per essere pronto a prenderlo presto presso di sé, in un imminente martirio. A Savonarola furono concesse 12 ore per lasciare la città ed il territorio fiorentino. Savonarola si ritirò in preghiera davanti al grande altare di San Marco. Nelle settimane precedenti a quella giornata, notando che la collera cresceva, alcuni dirigenti savonaroliani di secondo piano avevano cominciato a temere proprio quanto poi si verificò, cioè un assalto armato a San Marco. Quindi avevano fatto entrare di nascosto nel convento molte armi. Insomma, di tanto in tanto anche i monaci erano spinti o indotti a usare le armi. E nel caso di San Marco si trattava di giustificata autodifesa, soprattutto perché l'assedio era in larga parte opera di compagnacci e di una folla inferocita, anche se supportato dal governo e da una milizia scelta di cittadini. L’assalto L'assalto a San Marco fu sferrato da una folla infuriata nel primo pomeriggio dell'8 aprile, domenica delle Palme, e per un paio di ore la Signoria non fece nulla per fermare l'attacco. Non mandò subito soldati nei dintorni del convento, ne richiamò le milizie civili delle sedici diverse zone della città. I priori non erano interessati a nessun tipo di trattativa con Savonarola. Questo deliberato rifiuto di agire aveva due ragioni. Prima di tutto, le sedici compagnie di cittadini armati probabilmente includevano ancora troppi simpatizzanti di Savonarola, che consideravano San Marco la colonna portante della nuova repubblica o una scuola per la riforma della chiesa. In secondo luogo, i priori volevano instaurare un'atmosfera minacciosa contro quanti erano ancora favorevoli al frate, e per il momento potevano ottenerla lasciando il controllo del tumulto ai compagnacci. I frati in tutta fretta fecero suonare la campana del convento segnalando così un'emergenza e diffondendo una disperata richiesta di aiuto. La gente aveva paura a correre in difesa di San Marco. Magari gli irriducibili all'interno del convento erano disposti a martirio, ma i comuni parrocchiani no. Ben presto i nemici assunsero il controllo di piazza San Marco e di tutte le strade di accesso circostanti. Dopo l'inizio dell'assedio, i capi dei frateschi consultarono Savonarola chiedendogli che cosa pensava dovessero fare. Lui rispose che era giunto il momento della resistenza fisica: qualcuno doveva uscire dal convento e mettere insieme uomini armati. Quando cominciò l'attacco a San Marco, uscirono dal convento un gruppo di uomini armati per unirsi alla battaglia. Allora e in seguito diversi uomini furono uccisi, forse una dozzina in tutto, e ovviamente molti altri rimasero feriti anche se tutti i dati forniti dalle fonti non sono attendibili. La Signoria diede un ultimatum agli assediati, ordinando che tutti i laici all'interno se ne andassero, e mandò due macchine lancia sassi da utilizzare nell'assalto. Tutte le donne e la maggior parte dei laici se n'erano andati dal convento prima che il nemico attaccasse i frati ormai circondati. Svariati esponenti di primo piano decisero saggiamente di non tornare a casa e, con l'aiuto di altri nobili, andarono a nascondersi. Intanto a San Marco i risoluti aggressori stavano appiccando il fuoco alle porte principali laterali del convento. La battaglia ebbe delle pause e dei momenti in cui si tentò di trattare, ma proseguì per circa sei o sette ore. Preso a calci e pugni Con la forza degli assalitori, furibondi e armati, appena fuori dal convento e Savonarola raccolto in preghiera davanti all'altare principale, i frati alla fine furono costretti ad arrendersi. L'alternativa, informò il governo, sarebbe stato lo smantellamento e la completa distruzione del convento. Fuori la folla furibonda sembrava impaziente di compiere l'impresa. Era circa l'una del mattino. Altrove in città, gruppi di uomini erano usciti in cerca dei capi savonaroliani, soprattutto Giovanbattista Ridolfi e Paolantonio Soderini. Alla fine quattro rappresentanti del governo furono autorizzati ad entrare nel convento per trattare la resa. Durante il colloquio con Savonarola, gli comunicarono l'intenzione della Signoria di farlo condurre al palazzo scopi precisi, quindi illegale, che faceva capo a San Marco; la volontà del frate di far assumere a tale partito il predominio del Consiglio grande; l'accusa secondo cui era venuto a conoscenza di segreti politici, acquisiti in confessionale da fra Silvestro Maruffi; la sua disponibilità a servirsi delle armi contro i suoi nemici nella lotta politica. Innanzitutto i suoi nemici fiorentini lo indussero a confessare che le sue pretese di essere un profeta non derivavano da una rivelazione divina e che non aveva mai avuto conversazioni con Dio. Poi gli inquisitori gli fecero ammettere di aver avuto una corrispondenza privata con gli ambasciatori fiorentini a Roma, Domenico Bonsi e Alessandro Bracci, ma il frate sottolineò che i loro rapporti riguardavano solo le minacce del papa contro di lui. Savonarola continuava a concludere ammissioni con l'assurda pretesa di volere un concilio ecumenico della chiesa. Il secondo processo, con una nuova serie di interrogatori, si svolse dal 21 al 25 aprile e fu condotto dagli stessi inquisitori. La mano di Roma L'interrogatorio del frate fu ripreso solo più di tre settimane dopo, il 20 maggio. Pur esultando per l'arresto, papa Alessandro continuò a fare pressioni su Firenze per la consegna del prigioniero sino alla fine della prima settimana di maggio. Era deciso ad averlo sottomano e forse voleva vederlo con i propri occhi, ma rivendicava anche l'incontestabile giurisdizione legale della chiesa sul suo caso. Per diversi motivi, i priori non osavano e non volevano perdere il controllo su Savonarola. Alla fine, l'istanza fiorentina era così decisa che il papa, sempre diplomatico, all'inizio di maggio finalmente cedette. Invitato a mandare a Firenze i suoi rappresentanti per giudicare le questioni religiose del processo, inviò due delegati. Uno era Gioacchino Torriani, generale dei domenicani su cui aleggiava una aura di autorevolezza, l'altro inviato, un importante concittadino del papa, era Francisco Remolins, un arrivista e fu il vero accusatore e giudice del terzo interrogatorio sotto tortura. Gli emissari papali condussero le loro inchieste in presenza di cinque fiorentini. Remolins era l'unico inquisitore. Remolins poi fece leggere al frate l'atto di imputazione che elencava le accuse contro di lui. Gli fu chiesto di rispondere a ciascuna, una alla volta. Remolins poi interruppe i procedimenti ammonendo il frate di pensare durante la notte a dire tutta la verità il giorno seguente, come se per lui la deposizione non avesse ancora prodotto sufficienti elementi a carico per portare a termine la sua missione. Il giorno seguente era il 21 maggio. Di nuovo Savonarola prestò giuramento a Remolins, il quale anche quel giorno era l'unico a interrogare. Minacciando l'uso della tortura, l'inquisitore ordinò al frate di dire tutto, intendendo i particolari sui suoi contatti. L'ultimo giro di domande di Remolins cominciò alle 17 del giorno dopo, il 22 maggio. Un'ora dopo, alle 18, nell’Alberghettino, Savonarola fu brevemente interrogato su questioni politiche da tre priori e altri importanti funzionari. Il processo era ormai concluso. Savonarola, Silvestro Maruffi e Domenico Buonvicini da Pescia furono giudicati colpevoli di eresia e scisma; gli emissari di Roma ordinarono che i tre uomini fossero consegnati per la punizione al governo di Firenze, ma prima dovevano essere spretati, degradati e privati della consacrazione sacerdotale. Già il 19 aprile al Consiglio grande era stata letta una versione della composita confessione di Savonarola, tra l'orrore e la collera di molti suoi seguaci. Capitolo diciannove - Di nuovo il fuoco. Tre esecuzioni: maggio 1498 Parole mendaci Se passiamo in rassegna le parole e le azioni di Savonarola nel corso dei sei anni precedenti, come dobbiamo intendere le sue confessioni? Era un impostore e un criminale, oppure un sant'uomo obbligato con la tortura, l’umiliazione, le ingiurie e le minacce a mentire sulle esperienze vissute? Gli atti del processo non gettano buona luce né sulle autorità di Roma, né su quelle di Firenze. I dirigenti e alto clero fiorentini, come anche i funzionari della curia romana, erano ostinati e meticolosi nel tenere i registri: viene perciò da chiedersi come mai non si trovino i verbali ufficiali del processo di Savonarola. Perciò l'intera documentazione si fonda sugli incunaboli del 1498 e su copie cinquecentesche non ufficiali. Gli accusatori erano ben decisi a scovare un uomo che aveva al tempo stesso violato la santità dei voti e accumulato informazioni politiche per vie traverse e per fini malvagi. Nella testimonianza di Savonarola colpisce la povertà espressiva: altro elemento che induce ad avere dubbi sul suo grado di autenticità. La corda e il fuoco Il 22 maggio sulla piazza del governo fu costruita ancora una volta una lunga piattaforma. Alla sua estremità si trovava un cumulo circolare di legna da ardere. La sovrastava una forca destinata a tre frati: Silvestro Maruffi, Domenico da Pescia e Girolamo Savonarola. I tre frati, con indosso l'abito dei domenicani in perfetto ordine, furono scortati lungo la scalinata del palazzo fino alla tribuna antistante, dove si trovarono di fronte una grande folla in attesa. Sulla tribuna erano presenti anche i rappresentanti della chiesa e dello stato e terminata la vestizione, Remolins consegnò i tre uomini al braccio secolare della legge, ossia al governo di Firenze. Dopo di che i condannati uno per volta (prima Silvestro, poi Domenico e infine Savonarola), con indosso leggere tuniche bianche, furono condotti al patibolo. Giunti alle forche, ognuno di loro fu condotto su una scala a pioli e impiccato; quindi i tre corpi vennero ridotti in cenere dal rogo. I presenti udirono Silvestro Domenico ripetere il nome di Gesù mentre il capestro lo strangolava; Savonarola invece morì in silenzio, anche se le sue labbra si muovevano nella preghiera. Imitava Cristo. Quando fu evidente che erano tutti morti, il carnefice accese un grande mucchio di paglia di legna da ardere, provocando forti crepitii e scoppi. Ben presto il fuoco li avvolse. Il rogo fu alimentato per un paio di ore. Il rogo fu anche alimentato con altra legna in modo che i cercatori di reliquie, confusi tra la moltitudine che contemplava lo spettacolo, non trovassero più nulla. Tutti resti furono poi raccolti e caricati sui carri, che si avviarono sul Ponte Vecchio per gettare tutto in Arno. Non dovevano esserci reliquie, anzi neppure il pretesto per raccoglierle. Il giorno successivo la triplice esecuzione, San Marco fu sottoposto ad un rito di purificazione che segnava un nuovo inizio. La fonte dell'eresia era stata estirpata. L'epurazione ideologica proseguì: il 27 maggio in tutte le chiese fu annunciato che chiunque possedesse scritti di Savonarola, di qualunque genere, entro quattro giorni avrebbe dovuto consegnarle a Remolins. Chi avesse mancato di farlo sarebbe stato scomunicato. Chiesa e stato si lanciarono in una campagna per neutralizzare qualsiasi influenza del frate e vanificare ogni tentativo di trasformarlo in un martire. Il convento di San Marco rimase isolato per quasi tre mesi, fino al quattro luglio: l'accesso era vietato a tutti i laici e alle donne. In tutta Firenze risuonavano canti osceni e ingiuriosi all'indirizzo di Savonarola e dei suoi seguaci, ripetuti anche da donne e bambini. Circolavano immagini su fogli di carta ove era raffigurato il frate nell'atto di sodomizzare un novizio. Nel frattempo non era mancato un regolamento di conti in ambito politico, antica prassi fiorentina ed italiana. Duecento membri noti come seguaci di Savonarola furono temporaneamente espulsi dal Consiglio grande. Parecchi seguaci del frate ricevettero una buona dose di tratti di corda. Infine ai savonaroliani illustri fu riservato un trattamento speciale. I personaggi davvero importanti subirono la pena del prestito forzato, ossia erano costretti a prestare ingenti somme al governo di Firenze mentre i piagnoni appartenenti a famiglie poco meno illustri furono privati dei diritti politici per periodi dai due ai 10 anni. L'epurazione seguita la morte di Savonarola non fu mai portata a termine, i fiorentini continuarono a leggerlo e stimarlo. Passarono gli anni, ma il ricordo dell'ideale politico di fra Girolamo non si spense. Dopo il 1500, i medicei e i loro alleati rimasero in attesa del momento giusto, che arrivò nel settembre 1512. Grazie alla falsa voce di una presunta minaccia proveniente dalle truppe spagnole, Giuliano dé Medici, Rappresentavano i diversi quartieri della città e votavano sulla maggior parte delle questioni importanti. Durante le guerre e nei periodi di pericolo, la Signoria condivideva il potere diplomatico con i Dieci della guerra, che restavano in carica per sei mesi o un anno e si occupavano dei conflitti. Gli Otto, una polizia politica e penale, venivano consultati di continuo dalla Signoria. Come i Sedici, i Dodici e i Dieci, si riunivano nel palazzo del governo, palazzo della Signoria. Quindi nella vita quotidiana Firenze era retta da un piccolo gruppo di istituzioni. La Signoria aveva l'iniziativa e presentava tutti i nuovi progetti di legge al Consiglio grande, ma solo dopo fitte consultazioni. Le cariche venivano assegnate tirando a sorte oppure, ma solo alcune, a seguito di elezioni al Consiglio grande. Per poter accedere alle cariche politiche bisognava risiedere da lungo tempo a Firenze (trent'anni o più), pagare le tasse da molti anni, ma soprattutto, in pratica, discendere da un maschio che in tempi recenti fosse stato candidabile a entrare nella Signoria, nei Dodici o nei Sedici. Di conseguenza gli uomini con i requisiti per essere eletti erano un’oligarchia. Quando si tirava a sorte venivano scelti a caso uomini che dovevano avere i requisiti necessari. Per decidere sulle questioni importanti la signoria poteva farsi aiutare in ogni momento, e spesso lo facevano, convocando e facendo votare i politici più importanti e i personaggi pubblici più in vista; duecento o trecento uomini in tutto. La solidità e la forza del governo repubblicano fiorentino si basavano proprio su questo. Glossario Arrabbiati: un vago raggruppamento politico fortemente avverso a Savonarola. Compagnacci: una compagnia di aristocratici gaudenti creata per contrastare Savonarola e il suo movimento. Consiglio grande: dopo il 1494, supremo organo legislativo di Firenze. Dieci: i Dieci della guerra si occupavano della guerra e delle questioni militari, inclusi i rapporti con l'estero in caso di guerra o di pericolo. Dodici: i Dodici buonuomini erano consiglieri della Signoria; rappresentavo i quartieri, i quattro settori amministrativi della città, tre per ogni quartiere. Frateschi: sostenitori di Savonarola. Otto: un corpo di polizia addestrato a servirsi di spie e ad operare in segreto. Parlamento: assemblea nella piazza del governo di almeno i due terzi di tutti i cittadini fiorentini dotati di diritti politici. Piagnoni: savonaroliani ferventi, noti anche come Frateschi. Priori: gli otto membri (“signori”) della Signoria, il principale organo governativo della città. Sedici: i Sedici gonfalonieri, consiglieri della Signoria; parlavano a nome dei sedici gonfaloni (ampi distretti) della città. Signoria: costituita da otto priori e dal gonfaloniere di Giustizia, si occupava dell'amministrazione della città, restare in carica per due mesi e poi veniva sostituita da un altro gruppo di nove uomini.
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