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Funzioni e Tipi di Stati Mentali: Descrizione e Esplicazione, Appunti di Filosofia della Mente

Le funzioni principali dei vari stati mentali, tra cui descrittiva, esplicativa, epidemica, motivazionale, qualitativa e non qualitativa. Viene inoltre discusso il dualismo mentale-corporeo di cartesio e le teorie alternative come l'occasionalismo di malebranche e il comportamentismo filosofico. Il documento conclude con una discussione sulle teorie dell'identità tra stati mentali e stati fisici.

Tipologia: Appunti

2021/2022

Caricato il 24/12/2023

chiara-gjoshi
chiara-gjoshi 🇮🇹

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Scarica Funzioni e Tipi di Stati Mentali: Descrizione e Esplicazione e più Appunti in PDF di Filosofia della Mente solo su Docsity! Filosofia della mente Prof. Silvano Zipoli Caiani Lezione 1 27.10.2020 In questo corso tratteremo le categorie concettuali della filosofia della mente, una disciplina ufficializzata nella seconda metà del Novecento, attraverso una serie di vicende di storia della filosofia occidentale che legano la filosofia della conoscenza alla filosofia del linguaggio e alla filosofia teoretica. La filosofia della mente tratta primariamente della relazione della mente e del corpo. Noi cercheremo di capire quali sono i presupposti per parlare di una filosofia della mente e andremo ad analizzare le categorie concettuali che le pertengono. Analizzeremo le principali posizioni teoriche, ma anche questioni di natura empirica, sperimentale. Lo scopo principale è trovare un catalogo di risposte alle domande: che cos’è la mente? È possibile una scienza del mentale? E, se sì, quali sono gli strumenti per indagare il mentale? Queste domande sono strettamente legale tra loro. Approfondiremo poi il tema della cognizione e della corporeità. Per cognizione intendiamo l’insieme di processi che sottomano alla nostra capacità intellettiva. Ci interrogheremo dunque su altre domande: dove si trova la mente? Qual è il ruolo della corporeità nella cognizione? Testi: - Un testo a scelta tra Filosofia della Mente. Corpo, Coscienza, Pensiero. Carocci, Di Francesco, M.; Marraffa, M.; Tomasetta, A. (2017) e Philosophy of Mind, Westview Press, Kim, J. (2011); - Un testo a scelta tra: Corporeità e Cognizione, Le Monnier, Zipoli Caiani, S. (2016) e Embodied Cognition, Routledge, Shapiro, L. (2011); - Un commento ad un articolo discusso a lezione (max. 4000 parole) da consegnare una settimana prima della data dell’esame; - Per la lode, almeno due articoli tra quelli segnalati a lezione o contenuti nella sezione dispense su Moodle (diversi dall’articolo oggetto del commento). Struttura del saggio: 1. Autore; 2. Titolo dell’articolo commentato; 3. Abstract (max 200 parole): qui si riassume il contenuto della relazione; 4. Introduzione: qui si introducono le premesse dell’argomento che si intende sostenere; 5. Argomento: qui si svolge l’analisi critica con riferimento a 4); 6. Conclusione: qui si traggono le conseguenze dell’analisi svolta in 5). Perché nasce la disciplina della filosofia della mente? Essa ha come oggetto di studio la mente, che tratteremo innanzitutto come una x, come un elemento incognito da comprendere. Due sono i problemi principali: quello epistemologico (perché parliamo di mente?) e quello ontologico (cos’è la mente?). Perché parliamo di mente? Partiamo da un dato di fatto: nella ita di tutti i giorni impieghiamo termini che fanno riferimento a credenze, desideri, percezioni, emozioni, stati di coscienza. Tale linguaggio è detto mentalistico. Il riferimento a questi elementi permette di rendere intelligibile il comportamento di un agente. Si parla di psicologia del senso comune (psicologia pre-scientifica, che si adotta nella vita quotidiana, prima ancora di aver iniziato a sturare qualcosa: anche un bambino utilizza la psicologia del senso comune) quando si fa riferimento agli stati mentali nella spiegazione del comportamento di un agente. In altre parole, gli stati mentali hanno una funzione esplicativa, predittiva o descrittiva. Analizziamo le principali funzioni degli stati mentali: 1. Funzione descrittiva: l’attribuzione di stati mentali descrive le proprietà che contraddistinguono un agente —> un agente è contraddistinto dall’essere titolare dello stato mentale M; 2. Funzione esplicativa: l’attribuzione di stati mentali rende intelligibile il comportamento di un agente —> un agente ha eseguito/esegue/eseguirà il comportamento c perché era/è/sarà titolare dello stato mentale M. Quando parliamo di una funzione descrittiva degli stati mentali stiamo parlando della possibilità di attribuire gli stati mentali come proprietà di un soggetto, così come attribuiamo proprietà non mentali agli oggetti. Nell’uso comune credenze, desideri, percezioni, emozioni, stari di coscienza possono cioè essere impiegati come attributi di un soggetto. Così come diciamo di un tavolo che è bianco, possiamo dire di Giulio che è triste, ad esempio. Esiste un isomorfismo tra stati non mentali e stati mentali. Quando parliamo di una funzione esplicativa degli stati mentali stiamo usando gli stai mentali per determinare le cause di un particolare comportamento di un soggetto. Nell’uso comune credenze, desideri, percezioni, emozioni, stati di coscienza possono essere impiegati come spiegazioni del comportamento di un agente. Anche in questo caso esiste un isomorfismo tra stati non mentali e stati mentali. Cosa come diciamo che l’orologio è fermo perché un ingranaggio è mancante, possiamo anche dire che Maria non risponde perché non ricorda la risposta. 1 È vero che esiste un’analogia nell’uso esplicativo di enti mentali e non mentali, tuttavia nel caso di enti mentali la questione è indubbiamente più sottile e ciò costituisce una delle principali questioni della disciplina della filosofia della mente. Ciò dipende dal problema ontologico. Il problema ontologico si chiede che cos’è la mente. Occorre comprendere cosa sono gli stati mentali. È utile catalogare gli elementi della mente secondo una distinzione per “funzione”: 1. Stati mentali epidemici: sono fonti di giustificazione della conoscenza, ad esempio credenze, percezioni (stati visivi, uditivi…); 2. Stati mentali motivazionali: forniscono ragioni per l’esecuzione di un’azione, ad esempio 3. Le emozioni, che costituiscono un caso ambiguo: in alcuni casi forniscono giustificazione alle nostre credenze sul mondo (ad esempio: so che quel cibo non è edibile perché il suo odore mi disgusta), in altri motivano le nostre azioni (ad esempio: lo spavento lo ha fatto scappare). Si può anche applicare una distinzione per “qualità”: 1. Stati mentali qualitativi: fa un certo effetto soggettivo essere in quello stato, ad esempio sento un insopportabile dolore al morale; 2. Stati mentali non qualitativi: solitamente i fenomenologi negano l’esistenza di questi stati; non si prova alcun effetto ad essere in quello stato, ad esempio so come si chiama mia madre anche quando non ci penso. La domanda che dobbiamo porci è: che cosa sono gli stati mentali? Sono stati naturali, cioè stati che hanno lo stesso statuto ontologico degli enti postulati dalle scienze natale (come può un ente naturare veicolare informazione o avere una carattere qualitativo?) o non sono enti naturali, ovvero gli stati mentali non hanno lo stesso statuto ontologico degli enti postulati dalle scienze naturali (come può un essere naturale relazionassi con enti non-naturali?). Lezione 2 28.10.2020 Il problema mente-corpo Al centro della filosofia della mente c’è il mind-body problem, ovvero il problema della relazione tra gli stati mentali e gli stati corporei. Se stiamo al modo con cui noi parliamo dei soggetti che ci circondano, vediamo che in prima facie i soggetti sono titolari sia di stati corporei che di stati mentali. Questa è una prerogativa della psicologia del senso comune, quella psicologia semplice che utilizza gli stati mentali come explanandum, come sistemi di spiegazioni. Ma che rapporto c’è tra queste due proprietà che attribuiamo ai soggetti? Facciamo un esempio: - Descrizione mentalistica: io credo che oggi sia mercoledì (attribuzione di una credenza); - Descrizione corporea: il mio cervello è in un particolare stato fisico. Un primo elemento di interesse rispetto a questa domanda deriva dal fatto che alla risposta a questa domanda sono legate anche altre domande, altri problemi filosofici: 1. Problema dell’identità personale: chi sono io? Ha senso una distinzione tra identità mentale e identità corporea? Pensiamo al problema del fine-vita. 2. Problema del libero arbitrio: sono libero di agire? Può uno stato mentale determinare il movimento del corpo? 3. Problema delle altre menti: gli altri hanno una mentre? Posso inferire l’esistenza di altre menti dall’osservazione di altri corpi? Il rapporto mente-corpo può essere trattato anche tramite un’analisi di tipo semantico, chiedendosi a che cosa si riferiscono i termini che descrivono il corpo e i termini che descrivono la mente. Di che cosa parliamo quando parliamo di corpo? Di cosa parliamo quando parliamo di mente? Il problema può essere affrontato chiedendoci a quali enti si riferiscono le parole corpo e mente. Si osserva che, mentre sembra esserci convergenza nell’attribuire alla parola corpo il significato “porzione di materia estesa e limitata nello spazio”, non sembra esserci altrettanta convergenza riguardo al significato della parola mente. Due sono le posizione principiai sul rapporto mente-corpo: 1. Monismo semantico: le parole mente e corpo si riferiscono agli stessi enti. I due insiemi sono coestensivi; 2. Dualismo semantico: le parole mente e corpo si riferiscono a due enti distinti. I due insiemi non sono coestensivi. La tradizione vede nel rapporto mente-corpo un forte spostamento sulla tesi dualistica. Questa tradizione ha origini remote: ne si ritrovano tracce all’interno della filosofia platonica, in certi aspetti della filosofia aristotelica, in tutta la tradizione cristiano-scolastica, la filosofia cartesiana. La filosofia cartesiana e, in particolare, le Meditazioni Metafisiche (1641) di Cartesio costituiscono un punto di svolta per la questione mente-corpo. All’interno delle Meditazioni è contenuto un particolare argomento per il dualismo, l’argomento della concepibilità: nessuno stato mentale è uno stato corporeo. Nella seconda meditazione Cartesio è giunto a sancire quel principio fondazionale secondo il quale cogito ergo sum, penso dunque sono; ma sempre all’interno di questa sezione dell’opera, Cartesio si domanda: penso dunque sono, ma che cosa sono? Sono una cosa che pena, cioè una cosa che dubita, che concepisce, che nega, che vuole, che immagina, che sente: sono un insieme di stati mentali. Non posso dubitare di avere stati mentali, perché il dubbio stesso mi definisce ente pensante. Nella sesta meditazione è affrontata la questione della concepibilità. In questa sede Cartesio evoca l’onnipotenza di Dio quale prova del suo ragionamento, tuttavia anche un ateo può seguire il suo argomento, che infatti storicamente ha fatto breccia anche all’interno della 2 psicologia, come scienza empirica, nasce nel XIX secolo e verso la metà di questo stesso secolo si delineano due strade, due filoni di pensiero: - Quello di Franz Brentano, secondo il quale la psicologia è definita come analisi immanentistica dei vissuti di coscienza. Il metodo di Brentano consiste nel sostenere che il soggetto percepisca immanentemente i propri vissuti e sia in grado di farne oggetto di riflessione e di descrizione. L’opera principale di Brentano è La psicologia dal punto di vita empirico (1874): in queste pagine Brentano radicalizza l’approccio cartesiano, tentando di sistematizzare l’accesso introspettivo che il soggetto ha nei confronti dei propri stati mentali, cercando di fornire degli strumenti adatti a descrivere adeguatamente i flussi di coscienza, aggirando in qualche modo la cosiddetta interdizione di principio kantiana. Brentano spende molte parole nel cercare di giustificare la tesi secondo la quale un soggetto percepisce i propri stati mentali in modo adeguato, cioè riesce cogliere e ad isolare delle proprietà del suo flusso di coscienza - una delle più note delle quali è l’intenzionalità, ovvero quella particolare caratteristica che hanno alcuni stati mentali di riferirsi a qualcosa: le credenze sono credenze di qualcosa, i desideri sono desideri di qualcosa, le emozioni sono emozioni per qualcosa. Queste caratteristiche sono le caratteristiche intenzionali degli stati mentali, e questo è uno dei grandi lasciti della filosofia brentaniana. L’esito della ricerca filosofica di Brentano è la fenomenologia, il cui maggior esponente sarà Husserl. Si può dunque impostare lo studio della mente come studio del flusso di coscienza attraverso un aspetto descrittivo-introspettivo. - Quella di Wilhelm Wundt, secondo il quale la psicologia è definita come analisi sperimentale dei vissuti di coscienza. Wundt è prima di tutto un fisiologo, uno studioso del corpo, delle sue funzioni e della sua anatomia, con un particolare interesse per il sistema nervoso. Nel 1879, egli riesce a convincere la commissione dell’Università di Lipsia ad aprire il primo laboratorio di psicologia, un piccolo spazio per effettuare dei piccoli esperimenti psicologici. Il metodo di Wundt consiste nel sostenere che il soggetto sia sottoposto a stimolazioni controllate e che sia in grado di fornire un resoconto affidabile dei propri vissuti, cioè di fornire un report dei vissuti associati a queste stimolazioni. Quello di Wundt è una sorta di studio empirico della correlazione tra lo stimolo e la descrizione che il soggetto fa del proprio vissuto in concomitanza con quello stimolo. In questo approccio entrano in gioco anche gli strumenti dell’osservazione esterna, dunque gli strumenti tipici della sperimentazione - anche di tipo matematico. Nella descrizione di stimolo controllato, infatti, entrano infatti in gioco fattori di tipi quantitativo. Mentre nel caso di Brentano si presuppone che l’unico modo per poter sviluppare una scienza empirica del mentale sia quello di accedere alla mente tramite un’analisi introspettiva, dunque in prima persona, nel caso del metodo di Wundt l’analisi è in terza persona, c’è uno sguardo dall’esterno che permette di recupero il metodo di tipo sperimentale e tutto il suo apparto concettuale. L’esito della ricerca filosofica di Wundt, infatti, è la psicologia sperimentale, di cui egli viene tutt’oggi considerato padre. Dalla psicologia sperimentale di Wundt seguiranno le scienze cognitive di oggi. Spesso le strade inaugurate de Brentano e da Wundt, che si dividono in torno alla metà dell’Ottocento, si rincontrano nei decenni successivi. Noi, in questo corso, seguiremo in modo particolare la strada inaugurata di Wundt. Il metodo di Wundt, subito adottato in Germania e preso esportato negli Stati Uniti, è detto metodo introspezionista e ha le seguenti caratteristiche: - L’oggetto di studio della psicologia è l’esperienza del soggetto; - È possibile suscitar reazione esperenziali attraverso stimoli controllati; - Il soggetto ha accesso introspettivo immediato alla propria esperienza; - Il soggetto riporta la propria esperienza attraverso il comportamento; - Lo scienziato misura che mutano i report al variare dello stimolo. C’è un dibattito ampio intorno al valore conoscitivo della metodologia di Wundt. Il dibattito inizia subito a girare intorno a due principali problemi: - I report soggettivi rappresentano in modo affidabile l’esperienza interna? - Esiste un’attività mentale indipendente dallo stimolo sensibile? Una particolare soluzione ai problemi dell’approccio di Wundt è il comportamentismo, una soluzione molto interessante in quanto ha una duplice natura: - Comportamentismo metodologico, che che affonda le sue radici nei primi decenni del Novecento che costituisce una sorta di linea guida interna alla stessa disciplina psicologica (che, dalla fine dell’Ottocento in poi, si imposta su un binario di tipo sperimentale). Secondo questa prospettiva la psicologia è la scienza del comportamento e l’introspezione non è parte dei metodi della psicologia. Non si assumono, in questa prospettiva, implicazioni dal punto di vista ontologico: non si prende posizione sull’esistenza di un flusso di coscienza, si parla solo di come impostare una disciplina dal punto di vista metodologico. Quell’elemento introspettivo che è ancora presente nel metodo di Wundt viene abolito; - Comportamentismo filosofico, una sorta di analisi di tipo ontologico-metafisico del mentale, che si sviluppa dopo il comportamentismo metodologico e che ha tra i suoi esponenti Ludwig Wittengstein, Rudolf Carnap, Gilbert Ryle, Willard Quine. Secondo questa tesi, esistono solo gli stati comportamentali. Ci sono due grandi famiglie di argomenti per sostenere questa tesi: una di tipo semitico (il linguaggio mentalistico è traducibile in linguaggio comportamentale) e una di tipo ontologico (esistono gli stati comportamentali, non esistono gli stati mentali). L’interesse del comportamentismo filosofico non è quello di impostare un metodo, bensì è quello di capire di cosa e in che termini si parli. Analizziamo il comportamentismo metodologico. La sua tesi è che gli stati mentali, per come sono stati descritti a partire dalla tradizione cartesiana, non sono accessibili per mezzo di protocolli sperimentali, sono opachi, nascosti agli spettatori esterni, pertanto una psicologia scientifica deve fare a meno (i) del riferimento agli stati mentali e (ii) del ricorso al 5 metodo dell’introspezione. Per quanto riguarda gli argomenti del comportamentismo metodologico, affinché lo studio della mente possa delinearsi su basi sperimentali occorre che: 1. Sia accantonato il ricorso all’introspezione; 2. Sia fatto oggetto di sperimentazione il comportamento dei soggetti. Fare psicologia, dunque, significa cercare le leggi del comportamento, perché il comportamento è ciò che si può misurare. Tra i protagonisti di questa svolta metodologica del comportamentismo del Novecento troviamo John Watson, uno psicologo americano che si forma in un’ambiente in cui il metodo di Wundt e di altri autori che sostengono questa svolta sperimentale sta prendendo piede. Watson è un ribelle, un soggetto con una biografia piuttosto movimentata: decide di dedicarsi allo sviluppo della scienza sperimentale e, dopo alcuni anni di ricerca in laboratorio a studiare il metodo di Wundt, inizia a pubblicare, intorno agli anni ’10 del Novecento, degli articoli che avranno una rilevanza straordinaria per l’epoca. La proposta metodologica di Watson avrà un successo così rapido che negli anni uniformerà la definizione di psicologia non solo in tutti i laboratori degli Stati Uniti, ma in breve tempo il suo metodo verrà esportato in Europa e riscuoterà ampio successo. Ma il comportamentismo metodologico non è soltanto un paradigma da lavoratorio: avrà anche un successo enorme nella pubblicistica divulgativa e nella definizone di politiche sociali e culturali-economiche negli Stati Uniti. La psicologia, con Watson, non diventa solo una scienza empirica, ma anche un oggetto di discussione pubblica: si inizia a parlare della psicologia e di come essa possa essere una disciplina rilevante per la società, un qualcosa che può incidere fortemente nelle scelte politiche ed educative di una comunità. In Psychology as the behaviorist vibes it (La psicologia per come la vede il comportamentista, 1913), Watson delinea quelli che sono i problemi metodologici e concettuali di una psicologia basata sull’introspezione. Il testo è un manifesto aperto alla lettura non soltanto accademica, ma anche divulgativa. Scrive Watson: “La psicologia, per come la vede il comportamentista, è una scienza naturale, sperimentale. Il suo compito, obbiettivo teorico è la predizione e il controllo del comportamento. L’introspezione non ha alcun ruolo all’interno di questa disciplina. Nel suo sforzo, il comportamentista cerca di costruire un’unità tra l’essere umano e il bruto, il non umano (—> c’è una condivisione della tesi darwinista, secondo la quale l’essere umano non ha niente di speciale rispetto agli altri enti naturali, è certo un ente complesso, ma non gode di alcun particolare privilegio rispetto agli altri enti naturali). Il comportamento dell’uomo, con tutta la sua raffinatezza e complessità, costituisce solo una parte dell’indagine complessiva del sistema comportamentale.” Il comportamentista, dunque, studia l’essere umano, ma il comportamento dell’essere umano non è altro che una parte del comportamento più generale che è quello degli esseri umani. Questo approccio metodologico segna una struttura portante della psicologia successiva: il paradigma stimolo-risposta o approccio input-output. Questo paradigma, che si ritroverà in modo costante anche nei successivi sviluppi della nostra analisi, si basa sull’idea per cui la psicologia deve occuparsi unicamente del rapporto tra uno stimolo (input) e il successivo comportamento (output), senza curarsi di ciò che vi è in mezzo (black box). Il black box, la scatola nera, non è di interesse dello psicologo comportamentista. Esiste forse un flusso di coscienza sul quale il soggetto ha un approccio privilegiato? Questa è una domanda che uno psicologo comportamentista non si pone. Egli si attiene unicamente ad un approccio sperimentale, oggettivo, in terza persona: è solo facendo così e abbandonando l’idea di un flusso di coscienza che, secondo Watson, è possibile costruire una scienza della psicologia. Input —> Black box —> Output Il paradigma stimolo-risposta ha inoltre un antenato illustre, una propria risposta ante-litteram: il riflesso condizionato. Nel 1903, infatti, Pavlov aveva già iniziato ad impostare studi di tipo comportamentistico di un’analisi stimolo-risposta, giungendo a formalizzare quello che è noto come il condizionamento pavloviano. Nell’esperimento di Pavlov si riscontra la possibilità di condizionare il comportamento di un agente attraverso la somministrazione di stimoli: nel caso del cane di Pavlov, dopo aver associato più volte il suono della campana alla somministrazione di cibo, il solo suono della campana farà sì che il cane inizi a salivare proprio come se stesse per essergli somministrato del cibo. Cosa significa condizionamento del comportamento? Che, in questo caso, il comportamento del cane è modificato attraverso una regolazione di stimoli e risposte. Esistono, in generale, due tipi di condizionamento: - Il condizionamento classico (Pavlov): l’associazione ripetuta di due o più stimoli rinforza la disposizione a eseguire un particolare comportamento; - Il condizionamento operante (Skinner): l’attività dell’agente determina stimoli e proprio l’associazione tra particolari attività e particolari stimoli rinforza la disposizione ad eseguire uno specifico comportamento. Per il comportamentista fare psicologia significa dunque studiare la relazione tra l’ambiente e il comportamento, tra ciò che sta fuori dal corpo dell’agente e le relazioni dell’agente a ciò che sta fuori dal suo corpo. Uno stimolo in entrata, dunque, un input che è essenzialmente uno stimolo sensibile, che avviene attraverso i canali di accesso dei sensi (vista, udito, tatto, olfatto, gusto) e una risposta in uscita, un output comportamentale o motorio. Il comportamentista studia quali sono le relazioni tra certi stimoli dell’ambiente e certe reazioni comportamentali di un soggetto. È una manifestazione comportamentale anche l’assenza di movimento: la mancata reazione ad uno stimolo attraverso una 6 dinamica di tipo comportamentale è comunque un comportamento. Inoltre è un comportamento anche il linguaggio: questo aspetto risulta determinante nell’evoluzione del comportamentismo metodologico. Effettori non solo di tipo motorio, dunque, ma anche di tipo linguistico. Non tutti gli agenti, ad esempio determinati agenti animali non umani, possiedono un comportamento linguistico articolato. Negli agenti umani, il comportamento linguistico si sviluppa in modi molto diversi ed in età specifiche, dunque è uno dei comportamenti tra i più interessanti. Il compito del comportamentista, come dicevamo, è quello di individuare le regolarità che permettano di prevedere il comportamento (che include anche l’assenza di comportamento e le interazioni sociali veicolate dal linguaggio) di un agente nel momento in cui sono date determinate circostanze. In altre parole: ciò che interessa al comportamentista è la correlazione tra certi input e certi output (questo è infatti un altro modo per descrivere il paradigma stimolo-risposta); la loro correlazione, il co-avvenire di determinati eventi, se inquadrato e descritto all’interno di regole generali, permette di sviluppare previsioni sul comportamento. Il comportamentista, facendo questo, adotta una particolare cornice metodologia che porta la psicologia all’interno dell’albero delle scienze naturali: possiamo usare un’analogia con i metodi di scienze come l’astronomia, nella quale si cerca di prevedere il comportamento di un particolare corpo celeste date particolari evidenze e circostanze. L’assunto fondamentale che permette a questo parallelismo di esistere è che in quanto esseri umani siamo anche corpi: abbiamo un corpo che ha lo stesso tipo di proprietà che hanno i corpi celesti. Facciamo parte dello stesso tipo di natura che accomuna tutti gli altri corpi: questo forse è l’unico assunto di tipo ontologico del comportamentista metodologico. Il comportamentismo ha avuto un grande successo perché prometteva la possibilità non solo di descrivere il comportamento, di prevederlo, ma anche di modificarlo. Quando infatti si descrivono le regole del gioco, modificando certi fattori è possibile anche ottenere determinati risultati desiderati. Modificando il contesto ambientale iniziale, modificando l’input, è possibile modificare il comportamento del soggetto. Si presenta dunque un particolare ruolo di una disciplina come la psicologia, che per la prima volta si candida ad essere una disciplina socialmente interessante, politicamente interessante (teoria dell’amministrazione della cosa, della polis): attraverso la conoscenza della psicologia comportamentista è possibile costruire contesti di stimolazione atti ad ottenere risposte desiderate. Burrhus Skinner, altro importante psicologo statunitense del Novecento, è colui che tra tutti ha più puntato sulla funzione pedagogico-educativa della psicologia comportamentista. La psicologia comportamentista, per lui, può fornire degli strumenti per una pedagogia, per una teoria dell’educazione: questo ha delle essenziali conseguenze nella vita pubblica. La psicologia non è dunque una mera ricerca speculativa, non è nemmeno (come qualcuno potrebbe interpretare) una cura per particolari patologie o tendenze, ma è una più generale teoria dell’educazione. La sua opera Science and Human Behavior (1953) è un manifesto in cui si dichiara in che modo la psicologia può essere una scienza utile per costruire una società migliore: attraverso una psicologia comportamentista completa, ideale (ancora, all’epoca, lontanissima dall’essere disponibile), è immaginabile lo sviluppo di teorie dell’educazione che permettano di “produrre” soggetti in grado di evitare manifestazioni comportamentali che sono considerate immorali, pericolose o politicamente non accettabili. Quello su cui puntano molto i comportamentisti sono temi di grande interesse per l’epoca (il periodo a cavallo tra le due Guerre Mondiali): in che modo possiamo evitare che quello che è successo accada di nuovo? In che modo possiamo evitare che esistano tendenze così nocive per l’intera umanità come il nazismo o come le dittature comuniste? Come possiamo evitare di cadere nuovamente nell’oblio e nella devastazione della guerra? Questo tipo di concezioni hanno anche questa retorica. La risposta è: educando le nuove generazioni, attraverso l’utilizzo della teoria comportamentista, capace di individuare un metodo. Poiché è la relazione con gli stimoli dell’ambiente a produrre determinati comportamenti umani, costruire un determinato ambiente, produrre determinati stimoli permette di raggiungere obiettivi sociali lodevoli. Questo è uno dei messaggi più rilevanti del comportamentismo metodologico. Ciò avviene attraverso una teoria del condizionamento. Per comprendere la teoria del condizionamento comportamentale, dobbiamo metterci nell’ottica di un comportamentista, per il quale tutto ciò che si deve descrivere sono le relazioni tra l’ambiente e l’agente. Skinner è anche un autore di opere di divulgazione che affrontano questioni legate all’etica, alla morale, alla socialità. Egli scrive un’opera dal titolo provocatorio, Behind Freedom and Dignity, in cui emerge una concezione per la quale è privo di senso pensare che sia un valore attribuire al soggetto una totale libertà di scelta: noi sappiamo, e la scienza comportamentista ce lo mostra ogni giorni di più, che i soggetti reagiscono agli stimoli in funzione di leggi; dunque una società migliore, che eviti conflitti e leggi, è una società che sa organizzare l’educazione dei propri soggetti attraverso la conoscenza di queste leggi. Evitare contesti ambientali che producano conflitti: questo, e non difendere una pseudo-libertà del tutto priva di fondamento nei fatti, è il vero scopo della scienza comportamentale. Diseguaglianza economica, diseguaglianza sociale, intolleranze: tutti questi sono aspetti che possono essere controllati solo grazie al padroneggiamento delle leggi comportamentali degli esseri umani. Si tratta di controllare le variabili indipendenti (ambientali) per controllare anche le variabili dipendenti (comportamentali). In altre parole: organizzando l’ambiente in un certo modo, possiamo modificare il comportamento dei soggetti. I primi esperimenti di condizionamento si eseguono su cavie animali in lavoratorio, che permettono un ventaglio di possibilità più eticamente vasto, e presto si scopre, come già Pavlov aveva notato anni prima, che il comportamento della cavia può essere condizionato attraverso la modificazione dell’ambiente ricreato in laboratorio. Si può ad esempio stabilire in quanto tempo la cavia acquisterà la competenza comportamentale del muovere una leva al fine di ottenere cibo, si può vedere cosa avviene modificando le dimensioni o la posizione della leva, associando al cibo uno stimolo positivo o uno stimolo negativo. Skinner scrisse anche romanzi: Walden Two, ad esempio, è il tentativo di ridefinire in qualche modo certe tendenze secondo le quali per poter sviluppare una vita eticamente adeguata occorrerebbe ritirarsi dalla società, rifugiarsi in una 7 Per il comportamentismo logico-semantico solo le proposizioni dotate di senso possono far parte della conoscenza. Affinché una proposizione sia dotata di senso occorre che sia chiaro qual è il suo metodo di verificazione. Rudolf Carnap, esponente di questo tipo di comportamentismo, nel 1932 pubblica un’opera intitolata Psychology in Physical Language, in cui presenta la tesi del comportamentismo logico-semantico. L’assunto di questa concezione è che il linguaggio della fisica, la scienza naturale per antonomasia, è un linguaggio universale e inter-soggettivo, ovvero è un linguaggio che può essere compreso e parlato da tutti, perché basato su l’utilizzo di uno strumento razionale (e dunque per questo condivisibile da tutti) come la matematica e sull’evidenza empirica. Questi due aspetti permettono al linguaggio della fisica di essere accessibile a tutti: non c’è niente di personale, di nascosto, di soggettivo, di misterioso all’interno del lignaggio della fisica, che dunque risulta un linguaggio particolarmente vantaggioso dal momento in cui vogliamo condividere con altri informazioni. Questo ha come conseguenza il fatto di rendere opaca e poco rilevante una psicologia che invece si basa sull’assunzione che invece esistano aspetti dell’esistente accessibile a pochi o addirittura a nessuno. Carnap imposta l’analisi della psicologia come un processo di traduzione: noi non stiamo imponendo alla psicologia di trasformarsi in una fisica, ma le stiamo suggerendo, per trasformarsi in una scienza empirica, condivisibile, che permetta la condivisione delle informazioni, di utilizzare un linguaggio che sia traducibile in quello della fisica, cioè un linguaggio che adotti come criterio di significanza la possibilità di essere messo in corrispondenza stretta con quello della fisica. Un linguaggio della psicologia completo e adeguato, dunque, è un linguaggio che è traducibile in quello della fisica. La psicologia, nel momento in cui si presenta come una scienza, è scienza traducibile in fisica. Un riassunto dell’argomento di Carnap potrebbe essere il seguente: - Un linguaggio scientifico è universale e inter-soggettivo (cioè è costituito da definizioni ed enunciati osservabili); - Affinché un enunciato sia conoscenza, deve essere espresso in un linguaggio scientifico o deve essere traducibile in un linguaggio scientifico (non tutti gli enunciati sono conoscenza); - Affinché gli enunciati della psicologia siano conoscenza, devono essere espressi in un linguaggio scientifico o devono essere traducibili in un linguaggio scientifico (la psicologia utilizza un linguaggio universale e inter-soggettivo); - Il linguaggio della fisica è il miglior linguaggio scientifico a disposizione (perché costituito da definizioni ed enunciati osservativi). Pertanto: - Gli enunciati della psicologia sono conoscenza se traducibili nel linguaggio della fisica. Questo tipo di comportamentismo si chiama logico-semantico perché la struttura di una disciplina come quella della fisica deve avere come corrispondente strutturale quella della fisica e, dal punto di vista dei termini, deve esserci una relazione di tipo semantico tra i termini e gli enunciati enunciati della psicologia e i termini e gli enunciati della fisica. Questa possibilità di tradurre, di ridurre una teoria in un’altra è definita riduzionismo inter-teorico. C’è un passo in cui Carnap cerca di sottolineare che la resistenza a questo genere di considerazioni è una resistenza culturale, che deriva da un retaggio, che ha certo origini nobili e culturalmente comprensibili (da Platone a Cartesio, passando anche attraverso la teologia cristiana), ma che è pur sempre un retaggio. Tuttavia, se guardiamo all’orizzonte che si apre una volta accettato questo tipo di soluzione, i vantaggi conoscitivi sono molti. L’argomento di Carnap non è un argomento eliminativistico: la psicologia può continuare ad usare parole come desideri, stati di coscienza, conoscenza; tuttavia bisogna comprendere che, affinché siano dotate di senso, devono potersi riferire ad una scienza come la fisica. Esiste un esempio, un argomento di Gilbert Ryle, che egli introduce in The Concept of Mind (1949), in cui è delineato il mito cartesiano. Secondo Ryle, infatti, la filosofia della sua epoca è compromessa dall’argomento cartesiano, che viene considerato un argomento scontato ma che, in realtà, non è conclusivo: conduce infatti ad una serie di assunti privi di senso. Uno tra tutti è l’assunto del fantasma nella macchina: il dualismo cartesiano ci costringe a concepirci come dei corpi guidati da un fantasma (la nostra mente) che non occupa spazio e che non è della stessa sostanza dei corpi, che non interagisce causalmente con i corpi, ma che tuttavia guida il nostro comportamento. Questo, secondo Ryle, è qualcosa che, se preso in considerazione, repelle alla ragione. Dunque per Ryle il dualismo mente-corpo non è altro che il prodotto di un errore categoriale, ovvero dell’applicazione di regole d’uso che appartengono ad oggetti di una categoria a oggetti che appartengono ad un’altra categoria. Un altro argomento interessante di Ryle, espresso nello stesso testo, è quello dell’errore categoriale, che è riassumibile in un esempio: un visitatore straniero si reca all’Università di Firenze e inizia a visitarla insieme ad un accompagnatore, che lo accompagna prima nella Biblioteca Umanistica, poi nel Dipartimento di Via della Pergola e così via. Alla fine del tour l’ospite chiede di vedere l’Università. Lo stesso tipo di errore commesso dal visitatore è quello commesso dai dualisti ed è un errore, per l’appunto, di tipo categoriale: non ci si rende conto che la categoria università e l’insieme delle categorie biblioteca, dipartimento e così via sono coestensivi, parlano della stessa cosa. È un errore di tipo categoriale attribuire alla categoria università proprietà diverse da quelle che sono proprie della biblioteca, del dipartimento e così via. L’errore categoriale compiuto dai dualisti è quello di attribuire agli elementi della categoria “mente” proprietà che sono degli elementi di categorie come “comportamento”, “azione”, “disposizione” e così via, senza riconoscere che sono tutti coestensivi, che hanno tutti gli stessi elementi. Lezione 5 4.11.2020 10 Il materialismo: l’identità dei tipi Abbiamo proposto due argomenti a favore del comportamentismo filosofico - quella particolare tesi secondo la quale esistono i comportamenti degli agenti, ma non esistono gli stati mentali, almeno che il modo in cui ne parliamo non sia traducibile in un linguaggio tipico della scienza (comportamentismo logico-ontologico). Questo è essenzialmente l’argomento di Carnap. Il suo comportamentismo prevede la riducibilità del linguaggio mentalistico ad un linguaggio di tipo naturalistico - quel linguaggio che utilizza termini della scienza naturale, con una particolare attenzione al linguaggio della fisica. Perché questa operazione? Perché se vogliamo sviluppare una scienza del mentale che sia condivisibile occorre un linguaggio adeguato. Ciò non significa fare della psicologia una fisica: la psicologia potrà continuare ad usare i propri termini, ma dovrà essere in grado di ridurre il suo linguaggio a quello di una scienza di base. Questa è una tesi non eliminativista, a differenza della tesi del comportamentismo ontologico: gli stati mentali abitano ancora il linguaggio della psicologia. Nel caso del comportamentismo ontologico, si ha una tesi di tipo eliminativista: non c’è spazio per gli stati mentali né nell’ontologia naturale né nel linguaggio della psicologia, perché il riferimento a stati mentali è considerato foriero di incomprensioni, di indeterminazioni, di ambiguità e, come nota Ryle, di errori di tipo categoriale. Siamo di fronte al tentativo di aggirare il problema sia epistemologico che ontologico del dualismo cartesiano. L’argomento di Wittgenstein è molto noto e molto discusso. Wittgenstein è un filosofo oggetto di svariate interpretazioni: la maggior parte della sua produzione, infatti, è costituita da aforismi. La sua produzione è caratterizzata da uno stile asciutto e procede per piccole proposizioni logicamente più o meno concatenate. Un suo argomento dedicato al problema mente-corpo è quello del diario o del calendario: sembra che Wittgenstein voglia proporre un argomento di tipo eliminativista. Immaginiamo di tenere un diario in cui ogni giorno scriviamo quali sono gli stati mentali qualitativi che ci si manifestano, per cui in un dato giorno, ad esempio il 3 novembre, abbiamo scritto che lo stato mentale M si è manifestato alla nostra coscienza, e scriviamo M. Apriamo oggi il diario e ci convinciamo che anche oggi lo stato mentale M si è manifestato alla nostra coscienza, e scriviamo di nuovo M. La domanda è: questa M che troviamo sia il 3 che il 4 di novembre indica lo stesso stato mentale? Come posso esserne sicuro? Quale criterio posso adottare per poter individuare un’identità tra questi due stati mentali? L’unico modo, secondo Wittgenstein, sarebbe guardargli con sguardi indipendenti, ma questo non è possibile perché, per come sono definiti gli stati mentali, solo io posso accedervi, io ne sono l’unico garante. Al di fuori di un contesto linguistico condiviso, io non ho criteri per valutare la correttezza semantica dell’applicazione dell’utilizzo di M il 3 e il 4 di novembre. Io non posso nemmeno definire uno stato mentale se non all’interno di un contesto linguistico condiviso, perché solo in questo campo si applicano norme di correttezza semantica. Dunque io posso fare addirittura a meno di assumere che quella M si riferisca a qualcosa. In questo modo si propone, attraverso un’analisi delle possibilità semantiche, un argomento per l’eliminazione del linguaggio mentalistico e pertanto anche dei riferimenti agli enti mentali. Questa seconda parte è la più discussa della filosofia di Wittgenstein. Tendenzialmente egli è a favore di una psicologia di campo comportamentista, ma sulla tesi ontologica c’è una grande discussione. Non ci sono criteri di applicazione di tipo semantico per gli stati mentali, secondo l’argomento del calendario di Wittgenstein. L’argomento del coleottero è il seguente: immaginiamo che tutti abbiamo una scatolina e immaginiamo che ognuno di noi ritenga di avere un coleottero all’interno di essa. Tuttavia tutti abbiamo accesso solamente alla nostra scatolina. Immaginiamo a discutere delle caratteristiche dei nostri coleotteri: nessuno ha accesso ai coleotteri degli altri. Potremo sviluppare una teoria, una scienza dei coleotteri, ma sarebbe una disciplina priva di garanzia che vi siano dei riferimenti semantici condivisi. Chi garantisce agli altri che effettivamente nella mia scatolina ci sia un coleottero? Secondo Wittgenstein potremmo assumere che stiamo parlando di qualcosa che non esiste e potremmo comunque continuare a parlare di questa teoria. Questa è una sfida concettuale che egli pone alla fenomenologia stessa, il suo relativismo attacca del presupposto che, da Cartesio in poi, caratterizza la tesi dualistica. Del resto la fenomenologia di Husserl è una disciplina che parte dal presupposto una riduzione dell’atteggiamento naturale, una epoche per cui i soggetti devono pare astrazione dall’atteggiamento naturale, secondo il quale esistono i riferimenti delle cose: è una scienza che nasce a partire da questa messa tra parentesi. Questa certo non è la strategia di autori come Wittgenstein. Ci sono obiezioni al comportamentismo che occorre prendere in considerazione. Il comportamentismo metodologico ha avuto un grande successo nella prima metà del Novecento ed è stata sicuramente la prima forma di psicologia di massa. Il comportamentismo filosofico è stata una parentesi non così influente come il comportamentismo metodologico: negli stessi anni in cui comportamentisti filosofici introducevano i loro argomenti, altri andavano per strade completamente diverse. Ci sono due tipi di obiezioni alle tesi comportamentiste. Una è evolta al comportamentismo metodologico, l’altra a quella filosofico. Naom Chomsky è autore di una critica che segna la fine del comportamentismo metodologico. Chomsky è forse il linguista più noto del panorama contemporaneo, sebbene da qualche anno forse si occupa più di politica che di linguistica. Egli tutta via resta il padre della linguistica cognitiva o generativa e uno dei più influenti linguisti di oggi. Nel 1959, Chomsky è un giovane linguista ma ancora non è così noto nel dibattito: fa parte di un nucleo di linguisti che è solo una fronda rispetto alle grandi posizioni comportamentiste. Il linguaggio è il più importante dei comportamenti umani e la psicologia comportamentista deve affrontare, ad un certo punto, questo aspetto del linguaggio. Lo fa considerando il linguaggio come un processo di condizionamento che avviene nei primi anni di vita del bambino a partire dal rinforzo di 11 stimoli ambientali. In questa dialettica tra stimolo e risposta comportamentale si ha lo sviluppo di un linguaggio così come lo vediamo modificarsi, accrescersi, raffinarsi nel corso dell’età infantile fino allo sviluppo del linguaggio adulto. Nel 1959 Chomsky pubblica una recensione del testo di Skinner intitolato Verbal Behavior. In questa recensione Brevissima, Chomsky elenca una serie di problemi teorici e metodologici che mettono fuori gioco la tesi comportamentista, in particolare quella sul linguaggio. Questo testo è la pietra tombale del comportamentismo, che viene messo fuori gioco attraverso una serie di argomenti elencati da Chomsky. Uno degli elementi più rilevanti che viene sempre ricordato è l’argomento noto come argomento della povertà dello stimolo, basato sia su un’analisi fattuale che su una critica concettuale della tesi comportamentista. Chomsky riporta un dato, il fatto che i bambini acquisiscano competenze linguistiche sintatticamente molto complesse già nei primi anni di vita; inoltre, quando sbagliano, i bambini sbagliano in modo simile. Ci sono dei pattern di errori che hanno sempre la stessa occorrenza in quasi tutti i bambini di una certa comunità linguistica. Questi due dati non sono spiegabili all’interno di una concezione comportamentista: se il linguaggio fosse effettivamente un’abilità sviluppata attraverso stimoli e rinforzi, servirebbero molti più anni, molti più stimoli affinché un bambino possa sviluppare in breve tempo le stesse competenze che i bambini sviluppano in un contesto naturale; inoltre non si spiega come, con le differenti esperienze linguistiche che affronta ognuno di noi, tendiamo a sviluppare gli stessi errori. Chomsky elenca poi molti altri argomenti e la sua recensione, nel giro di pochi anni, giunge a decretare il passaggio dall’epoca del comportamentismo a quella che noi chiamiamo cognitivismo. La tesi di Chomsky è che, affinché sia possibile spiegare le evidenze che caratterizzano lo studio del linguaggio, occorre assumere che vi siano stati mentali dedicati all’elaborazione delle competenze sintattiche - quelle che saranno chiamate poi rappresentazioni sintattiche - stati mentali e relative regole di elaborazione di essi che sono presenti, fin dalla nascita, negli esseri umani e che permettono di sviluppare, in contesti diversi, lingue diverse. Oggi questa tesi è la concezione linguistica più diffusa. Un altro argomento, più intuitivo, rivolto al comportamentismo ontologico è quello di Hilary Putnam, epistemologo che in un lavoro del 1975 intitolato Brain and Behaviors, propone un esperimento mentale in cui tenta di contrastare la conclusione eliminiativista tipica delle concezioni eliminativistiche come quella di Ryle o di Wittgenstein. L’esempio è noto con il nome di super-spartano: Putnam immagina una comunità di agenti che egli chiama super-spartani, agenti con la caratteristica di essere stati educati a non manifestare, in nessun modo, i propri stati emotivi attraverso il comportamento. Perciò i super-spartani, ogni volta che ricevono una martellata su un dito, non esprimono il loro dolore. L’argomento è disarmante: egli scrive che è assurdo allora attribuire ad un super-spartano l’assenza, il non possesso di uno stato mentale legato al dolore. Non è una conclusione che si può trarre dal fatto che egli non manifesti nel comportamento aspetti che noi associamo al dolore. Lo stesso discorso di potrebbe fare per gli attori a teatro che fingono di provare dolore; essi provano davvero dolore? No. È dunque un’ipotesi coerente e utile sostenere che un soggetto è titolare di un particolare stato mentale anche se non lo prime nel comportamento, secondo Putnam. Siamo chiamati a ripescare il linguaggio mentalistico e a chiederci che cosa sono gli stati mentali. I risultati del comportamentismo agli inizi degli anni ’60 sono deludenti: non si sono trovate le spiegazioni alle leggi del comportamento che si andava cercando. Questo non significa che tali leggi non esistano. Chomsky propone una strada alternativa che risulta ricca di evidenze: la linguistica generativa. Tuttavia resta in piedi un elemento: se io affinassi le mie conoscenze comportamentali potrei contrastare quella visione, riesumare il comportamentismo alla luce di nuove metodologie di indagine; questo è qualcosa di minoritario ma di non assente nel dibattito contemporaneo. Lo ritroveremo quando parleremo dell’inattivismo. Prendiamo i due argomenti di Chomsky e di Putnam: la domanda è sempre cos’è uno stato mentale, in che modo possiamo parlare degli stati mentali, a cosa si riferisce il mentale. Tutta la sfida è nella dialettica tra argomenti. Che cos’è, dunque, uno stato mentale? In che modo posso continuare a parlare di stati mentali senza cadere nei problemi epistemologici insiti nel dualismo cartesiano? Partiamo da un dato di fatto: esistono numerose correlazioni tra l’attribuzione di stati mentali e l’attribuzione di siti fisici; in particolare si danno correlazioni tra l’attribuzione di stati mentali e l’attribuzione di particolari stati cerebrali. Tali correlazioni si manifestano con particolare evidenza nei seguenti casi: - Lesioni: danni selettivi al sistema nervoso sono correlati ad alterazioni selettive degli stati mentali. Tali correlazioni sono riproducibili in laboratorio (e.g. TMSr); - Farmaci: l’assunzione di alcune tipologie di farmaci in grado di alterare l’attività del sistema nervoso è stabilmente correlata all’alterazione dei processi mentali. In altre parole: la variazione di proprietà corporee è correlata alla variazione di proprietà mentali. Un modo per trattare queste correlazioni è attraverso una teoria dell’identità tra la mente e il corpo. La teoria dell’identità tra la mente e il cervello è una particolare tesi per cui tutte le istanze di uno stato mentale M sono identiche a istanze di uno stato fisico F e per cui gli stati mentali sono identici a stati fisici. Ci sono due versioni della teoria dell’identità: - Teoria dell’identità dei tipi: tutte le istanze di uno stato mentale M sono identiche a istanze di uno stato fisico di tipo F; - Teoria dell’identità delle occorrenze: tutte le istanze di uno stato mentale di tipo M sono identiche a istanze di uno stato fisico di qualche tipo. 12 Secondo Fodor, il problema è che i materialisti assumono che se la psicologia parla di qualcosa che è materiale, allora i cui concetti devono essere traducibili in una scienza naturalistica di base come la fisica. Secondo Fodor, invece, assumere una teoria di tipo materialista non implica assumere una teoria di tipo riduzionista. Il punto, cioè, è che la teoria dell’identità degli stati mentali e degli stati fisici sembra implicare il riduzionismo. Riduzionismo: proposizioni della psicologia —> proporzioni delle neuroscienze —> proposizioni della chimica organica —> proposizioni della fisica. La tesi di Fodor è proprio quella per cui il materialismo non implica il riduzionismo. Secondo Fodor le proporzioni della psicologia possono riferirsi a oggetti/eventi/fenomeni fisici o cerebrali senza che siano traducibili in stati fisici. Argomento delle classificazioni alternative: lo stesso oggetto può essere inserito in categorie diverse caratterizzate da estensioni diverse. Le scienze possono avere fini descrittivi diversi e per questo utilizzare categorie concettuali diverse; la fisica, le neuroscienze e la psicologia adottano dorme di categorizzazione dei fenomeni non coestensive. Si pensi a quanti modi esistono per affettare una torta: non necessariamente tutte le fette sono coestensive. Le proposizioni della psicologa non sono necessariamente traducibili in proposizioni delle neuroscienze, perché i concetti della psicologia non sono necessariamente coestensivi con i concetti delle neuroscienze. Essere materialisti, dunque, non significa essere riduzionisti: questo è il merito che ca riconosciuto a Fodor. In altre parole la psicologia si candida ad essere una disciplina scientifica, naturalistica (è possibile avere conoscenza psicologica giustificata naturalmente), senza che sia necessario assumere che le proposizioni della psicologia siano riducibili alle proposizioni delle neuroscienze o dell fisica addirittura. L’abbandono relativo di tesi come quelle dell’identità dei tipi a favore di una tesi dell’identità delle classificazioni alternative passa attraverso l’autorità di Putnam. Esiste un argomento, detto argomento delle occorrenze molteplici, secondo il quale se agenti fisicamente diversi posso trovarsi nello stesso stato menale, allora la teoria dell’identità dei tipi è sbagliato. Ad esempio: soggetti diversi possono avere credenze diverse. Se siamo disposti ad attribuire, ad esempio, stati mentali come il dolore ad agenti molto diversi da noi, come possiamo giustificare la tesi per cui tipi di stati mentali sono identici a tipi di stati mentali fisici, data la differenza tra noi e altre specie o semplicemente tra noi e altri individui? La conformazione del mio sistema nervoso centrale, secondo Putnam, è diversa da quella di chiunque altro, tuttavia sembriamo disposti ad attribuire a tutti gli stessi stati fisici e mentali a tutti. Questo è evidentemente qualcosa di difficile, se non impossibile, da sostenere. Lezione 7 10.11.2020 Il funzionalismo e la mente computazionale L’identità delle occorrenze prevede una realizzabilità multipla degli stati mentali. Siamo passati attraverso due argomenti classici all’interno delle concezioni monistiche: l’argomento delle classificazioni alternative e quello delle occorrenze molteplici. Secondo queste teorie uno stato mentale può essere realizzato secondo modi diversi. Se un tipo specifico di stati mentali non è identico a un tipo specifico di stati cerebrali, come può allora essere identico a uno stato materiale/ fisico? È ancora Putnam a indirizzare in qualche modo la ricerca verso quella che oggi è nota come teoria della realizzabilità multipla degli stati mentali o funzionalismo: gli stati mentali sono identici a stati materiali, ma a stati materiali di tipo funzionale. Nel 1960, Putnam scrive un articolo, intitolato Minds and Machines, che riprende il tema delle macchine di Turing e lo ricollega al dibattito della filosofia della mente, fornendo una nuova definizione di stato mentale. Putnam ritiene che gli stati mentali siano stati funzionali. Cos’è uno stato funzionale? Per capirlo bisogna capire prima cos’è un carburatore. La definizone funzionale di carburatore recita: parte meccanica del motore a combustione interna che ha la funzione di formare una miscela di aria e combustibile e convogliarla nella camera di combustione. Tutti i carburatori, qualunque sia la loro forma e qualunque sia il materiale di cui sono costituiti, hanno la stessa funzione. Se noi fossimo dei meccanici e un cliente sostenesse di avere un problema al carburatore, non avremmo problemi ad individuare il carburatore e a risolvere il problema, poiché abbiamo una definizione funzionale di carburatore, anche se magari non abbiamo mai visto quel particolare tipo di veicolo. Nel momento in cui andiamo a rilevare il carburatore, non ci interessano materiale, forma, colore, dimensione del carburatore, ma solo la sua funzione, la sua interazione con altre parti del motore. L’idea generale è che enti diversi possono avere funzioni identiche. La stesso criterio lo utilizziamo nel mondo biologico. Che cos’è un occhio? La sua definizione funzionale è: organo di senso in grado di convogliare stimolazioni luminose esterne all’interno dell’organismo per mezzo di processi di interazione causale. Tutti gli occhi, qualunque sia la loro forma e qualunque sia il materiale di cui sono costituiti, hanno la stessa funzione. Di nuovo, l’idea generale è che enti diversi possono avere funzioni identiche. Secondo Putnam, anche gli stati mentali, di conseguenza, possono essere definiti come stati materiai che svolgono una particolar funzione all’interno di un particolare sistema materiale, organizzato secondo interazioni di tipo causale, funzionale. Gli stati mentali sono stati che si trovano in particolari relazioni funzionali, dunque causali, con altri enti di un sistema, proprio come il carburatore e l’occhio. Un altro esempio valido è quello del libro: pensiamo all’edizione del nostro libro preferito. Di quel libro esistono più edizioni che, nella loro realizzazione materiale, posso 15 essere molto diverse tra loro: carattere, copertina, note e così via possono variare. Tuttavia, in ogni caso si tratta sempre dello stesso libro, è innegabile. La tesi funzionalista è la seguente: uno stato mentale è uno stato materiale che svolge una funzione causale nel processo che conduce dalla stimolazione al comportamento. Da ciò segue che: 1. Identità funzionale degli stati mentali: ogni stato mentale è identico a un stato materiale che svolge una funzione specifica all’interno di un processo cognitivo; 2. Realizzabilità multipla (di stati menali e di processi cognitivi): stati materiali diversi possono svolgere la stessa funzione all’interno di un processo cognitivo. Il funzionalismo, sostanzialmente, apre il black box, individua il ruolo funzionale degli stati mentali tra stimolo e risposta; ne consegue che i funzionalisti fanno quello che i comportamentisti si erano promessi di non fare mai, pena il regredire della scienza del mentale. Un processo cognitivo è un processo che lega uno stimolo ad una risposta comportamentale. Secondo l’identità funzionale degli stati mentali, ogni stato mentale svolge un ruolo funzionale in un processo: ogni stato mentale può essere identificato in virtù delle relazioni causali che intrattiene con altri stati mentali, stimoli sensoriali e comportamenti. STIMOLO —-> Percezione —> Credenza —-> Ricordo —> Emozione —> Desiderio —> AZIONE Possiamo immaginare gli stati mentali come elementi all’interno di reti di relazioni causali quanto mai complesse, stati del sistema nervoso più o meno distribuiti nello spazio del nostro sistema nervoso. Ogni stato mentale, all’interno di una concezione funzionalistica, è identificato da una una posizione funzionale all’interno di un network causale; stati mentali identici occupano la stessa posizione funzionale all’interno di un processo cognitivo. Ogni stato mentale è identico a un stato funzionale di un sistema fisico. Possiamo dunque parlare di realizzabilità multipla di stati mentali e processi cognitivi: uno stato mentale ammette realizzabilità multipla; se uno stato mentale è identico a uno stato funzionale, non è rilevante ciò di cui è fatto, ma solo il ruolo causale che esso svolge. Possiamo dunque pensare ad una cognizione di tipo artificiale, cioè implementata da supporti non di tipo naturale; l’arte è quella di individuare dei corrispettivi funzionali. Questo è il presupposto per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale. La metafisica del mentale che deriva dal funzionalismo è una metafisica non sostanzialista: gli stati mentali non sono identici ad una sostanza, ma ad una funzione. Lo stato mentale non è una particolare sostanza, è una relazione tra stati funzionali. Il funzionalismo, di base, è una teoria anzi sostanzialista. Domanda: che differenza c’è tra la mente e il software di un computer? Alan Turing è uno dei grandi geni del Novecento, che prima di tutto è stato un logico matematico. Turing, nell’ambito della filosofia della mente, è padre di un’ipotesi, esposta in un articolo del 1936, nel quale egli affronta un problema: è possibile derivare tutti i teoremi della logica a partire dalla definizone degli assiomi? Questo problema di logica matematica nasce dalle ricerche di Hilbert. Scrive Turing: un soggetto che calcola è identificato da una macchina che svolge determinate funzioni; questa macchina è la cosiddetta macchina di Turing, un sistema meccanico in grado, date certe caratteristiche funzionali, di comportarsi, dati certi stimoli, in modi che sono programmati. In particolare, la macchina di Turing scrive simboli 0 e 1 su un nastro infinito in funzione di regole. Le regole sono realizzate nella macchina! Le regole della sintassi sono rappresentate dal sistema cognitivo, dice Chomsky: dietro a questa frase c’è la definizione di macchina di Turing. Con l’ipotesi della macchina di Turin si inizia a parlare di un’associazione meccanica tra input e output dove è possibile identificare stati mentali che crei un nesso tra essi. Si parla di computazione o di procedura di calcolo; modello meccanico: una procedura di associazione input-output può essere concepita come un processo meccanico implementato da un sistema attraverso le interazioni casuali tra i suoi comportamenti. In generale, qualsiasi processo meccanico di trasformazione può essere concepito come una computazione. Se concepiamo gli stati mentali come stati materiali identificati dal loro ruolo funzionale (funzionalismo), allora la loro combinazione darà luogo ad un processo meccanico di interazione causale. La combinazione di stati mentali può pertanto essere concepita come un processo computazionale. Analizziamo meglio l’argomento per il funzionalismo computazionale: 1. Gli stati mentali sono identici a stati materiali (argomenti di Smart e di Place); 2. Gli stati materiali non sono riducibili ad un tipo particolare di stati mentali (argomenti di Putnam e di Fodor); 3. Concepire gli stati mentali come stati funzionali di un sistema materiale permette di salvare 1 e 2; 4. La combinazione causale di stati funzionali può essere interpretata come un calcolo logico (macchina di Turing); 5. La mente è un Sistema Computazionale implementato su stati materiali. La domanda da porsi dunque è la seguente: quali stati materiali implementano computazioni cognitive? Nel 1943, Warren McCulloch e Walter Pitts ci propongono, in un articolo intitolato A Logical Calculus of the Ideas Immanent in Nervous Activity, il primo esempio di interpretazione computazionale del sistema nervoso. Lezione 8 11.11.2020 Intenzionalità e rappresentazioni mentali 16 Ricordiamo che la tesi funzionalista è quella tesi secondo la quale uno stato mentale è uno stato materiale che svolge una funzione causale nel processo che conduce dalla stimolazione al comportamento. In questo senso, la tesi funzionalista è una tesi identitaria, ontologica. Le conseguenze di tali tesi sono l’identità funzionale degli stati mentali (ogni stato mentale è identico a uno stato materiale che svolge una funzione specifica all’interno di un processo cognitivo, che definisce lo stato mentale stesso) e la realizzabilità multipla di stati mentali e processi cognitivi (stati materiali diversi possono svolgere la stessa funzione all’interno di un processo cognitivo). È possibile concepire la cognizione come un processo funzionale, come una concatenazione di eventi causali in cui ogni nodo è uno stato mentale; questo processo causale può essere interpretato come un processo di computo, come un calcolo che può essere modellato attraverso gli strumenti della logica elementare: si parla pertanto di cognizione computazionale - un programma di ricerca che si ritrova all’interno di molte etichette che si associano a varie discipline (neuroscienze computazionali, linguistica computazionale, e così via). Oggi la tesi funzionalista è in larga parte accettata sulla discussione sul mentale: si ritiene che gli stati mentali siano stati che svolgono un ruolo causale, cioè che siano stati di tipo funzionale; ciò permette di conciliare la convinzione del senso comune per cui gli stati mentali sono effettivamente la causa e dunque anche la spiegazione del mio comportamento (psicologia del senso comune) con un’analisi di tipo ontologico, aprendo anche linee di ricerca di tipo sperimentale. Se è vero che il funzionalismo è tuttora uno degli elementi centrali delle scienze cognitive, è possibile introdurre delle linee di critica a questa tesi. Quali sono i problemi del funzionalismo? Le relazioni funzionali sono davvero sufficienti a descrivere le proprietà degli stati mentali? Ci sono diverse risposte negative a quest’ultima domanda. La prima è che il funzionalismo non è in grado di cogliere gli aspetti qualitativi che noi associamo al mentale, cioè quegli effetti inerenti all’effetto che fa trovarsi in un determinato stato mentale. David Chalmers, un filosofo che oggi rappresenta uno dei più interessanti casi di difesa di una concezione dualista in filosofia della mente, critica il funzionalismo e riconosce la sua incapacità di cogliere gli elementi qualitativi del mentale. Una critica che invece si mantiene all’interno della concezione monista, delineando una mancanza del funzionalismo (la sua capacità di cogliere le caratteristiche intenzionali degli stati mentali o più in generale il valore semantico che hanno, se non tutti, molti stati mentali) è quello di John Searle. Per parlare di intenzionalità si possono percorrere diverse strade. Una particolarmente interessante dal punto di vista didattico, poiché apre molti spunti di riflessione, è proprio quella di John Searle, che nel 1980 pubblica, su Behavioral and Brain Science, una rivista caratterizzata da un’impostazione peculiare, che ritaglia sempre uno spazio per tesi innovative, un articolo intitolato Minds, Brains and Programs. L’articolo di Searle è un articolo particolarmente lungo in quanto alla sua tesi si aggiungono i commenti dei vari scienziati, ricercatori e filosofi che sono intervenuti su questo articolo. L’articolo di Searle ha dato vita ad un dibattito che non si è mai sopito; tra i protagonisti di questo dibattito ci sono i principali filosofi e scienziati cognitivi dell’epoca. Il tema è la possibilità di sviluppare una scienza cognitiva adeguata sulla base semplicemente di protocolli di tipo funzionalista. Searle, in questo articolo, non prende in considerazione direttamente il funzionalismo, ma una delle sue conseguenze, ovvero la possibilità di sviluppare forme di intelligenza artificiale. Searle lavora in California, a Berkeley, uno dei luoghi in cui proprio in quegli anni nascevano i più floridi programmi di ricerca di intelligenza artificiale: siamo vicini alla Silicon Valley. Searle individua due programmi di ricerca dell’intelligenza artificiale: 1. Intelligenza artificiale debole: all’interno di questo programma di ricerca ciò che è rilevante è determinare comportamenti di agenti artificiali il più simili possibili alle esigenze degli agenti umani. Lo scopo, cioè, è quello di imitare i comportamenti intelligenti umani, ma non le architetture cognitive che ne soggiacciono. Cioè che è importante è che ci sia un’interazione fluida, imitativa degli agenti naturali, tuttavia i processi computazionali possono essere diversi. Un esempio di intelligenza artificiale debole è un assistente virtuale tipo Siri. Dietro a questi oggetti c’è un programma di ricerca che punta a produrre elle risposte comportamentali in grado di agevolare l’interazione uomo macchina, cioè dei comportamenti che assomiglino il più possibile ai comportamenti intelligenti degli esseri umani e che ci assistano. Ma gli sviluppatori non sono interessati ad imitare i processi cognitivi degli agenti umani; 2. Intelligenza artificiale forte: lo scopo non è solo quello di ricreare comportamenti intelligenti, ma anche quello di riprodurre lo stesso tipo di processi funzionali che occorrono all’interno degli agenti funzionali intelligenti (in particolar modo l’essere umano). Questo programma di ricerca è detto “forte” proprio perché ha un’esigenza ulteriore rispetto al programma di ricerca debole. In questo senso, un individuo sviluppato da questo tipo di ricerca sarebbe un individuo, un sistema artificiale dotato di una mente. Ci sono programmi di ricerchi che sfruttano questa intelligenza artificiale per risolvere problemi rilevanti per soggetti che hanno deficit cognitivi, ovvero per sviluppare particolari protesi biomediche. L’argomento di Searle è noto come argomento della stanza cinese. È un’esperimento mentale, un particolare caso che sfrutta l’immaginazione per poter giungere a delle conclusione. Di solito gli esperimenti mentali sono usati per indicare dei problemi in una particolare tesi: si individua un caso limite e si dimostra come a quella tesi sfugga la spiegazione di quel particolare caso. L’argomento in questione è il seguente: un soggetto si trova all’interno di una stanza completamente vuota, all’infuori un individuo umano parlante una sola lingua, l’italiano. Nella stanza però c’è anche un dizionario molto scarno, che associa dei simboli, di cui il soggetto è completamente ignaro, con delle parole della lingua italiana, che il soggetto riconosce come tale. La stanza è completamente chiusa, all’infuori di due fori, su lati opposti della stanza. Il soggetto è a suo agio e ad un certo punto riceve, da uno dei fori, un foglio con un simbolo che il soggetto non riconosce, che non ha mai visto. Il soggetto, poiché è particolarmente intelligente, inizia a sfogliare il libro e scopre che quel simbolo è associato ad una parola italiana. Poiché c’è anche una penna all’interno della stanza, il soggetto scrive sul foglio la parola che traduce il simbolo secondo il dizionario e inserisce il foglio nell’altro foro. Appare così, dal primo foro, un altro 17 Ci si può rapportare a qualcos’altro anche attraverso una reazione mediata da contenuti proposizionali: ho una particolare credenza, ad esempio la credenza che Aristotele è l’autore del De Anima, allora posso ipotizzare che vi sia un veicolo mentale, cioè un particolare veicolo materiale che è parte del mio sistema nervoso centrale, che ha come riferimento un particolare ente (Aristotele) e che è in relazione con quell’ente attraverso un particolare contenuto proposizionale, ovvero una descrizione. Ecco che è possibile attribuire valori di verità a porzioni del sistema nervoso centrale che permettono di interpretare il sistema nervoso centrale in termini semantici, come rappresentazione di qualcosa. L’intenzionalità del mentale viene in questo modo ricondotta ad una particolare proprietà di tipo semantico del sistema nervoso. Resta da chiarire in che modo si attribuiscano questi contenuti. Analizzando il rapporto tra stati mentali di tipo intenzionale o rappresentazioni mentali e la natura linguistica della mente e della cognizione è possibile fornire un doppio livello di spiegazioni: un livello di spiegazione razionale del comportamento, cioè un comportamento spiegato attraverso l’attribuzione di ragioni al soggetto, e un livello di spiegazione di tipo causale, cioè una spiegazione fatta di causa e conseguenze. Lezione 9 12.11.2020 Ragioni e cause dell’azione Abbiamo detto che la concezione rappresentazionale del mentale, ovvero l’assunzione secondo la quale gli stati mentali sono stati rappresentazionali, cioè simboli materiali che veicolano un’informazione riguardo a qualcosa è largamente condivisa all’interno di tutte quelle discipline che costituiscono le scienze cognitive (filosofia, linguistica, antropologia, neuroscienze, informatica e psicologia). In tutte queste discipline troviamo una presenza largamente diffusa di riferimenti a veicoli materiali (naturali o artificiali) in grado di trasmettere informazioni, parti del sistema che sono titolari di contenuti informazionali. Nella letteratura, numerosi sono gli esempi di un ricorso ad un modello rappresentazionale del mentale. In un articolo intitolato The Neurobiology of Semantic Memory (2011, Trens Cognitive Science), Binder e Desai discutono di alcuni modelli per comprendere quali sono le relazioni tra luoghi della corteccia cerebrale che sono coinvolti nella processazione del ricordo, della memoria. Si individuano aree cerebrali che sono funzionalmente coinvolte, ovvero che sono causalmente coinvolte, che svolgono un ruolo causale: esse sono degli elementi di una catena causale che definisce il processo cognitivo della memoria. Che tipo di linguaggio usano per descrivere questo sistema di relazione? Ci sono, secondo Binder e Desai, delle aree che sembrano immagazzinare rappresentazioni di tipo astratto, che riguardano certi enti o certe conoscenze; in altre parole: ci sono parti del sistema nervoso che veicolano informazioni di tipo astratto che riguardano certi enti o certe conoscenze. Ci sono poi zone che controllano l’attivazioni diretta ad un particolare scopo e la selezione delle informazioni rilevanti a questo scopo e ci sono anche aree che codificano eventi significanti. Questo è solo un piccolissimo esempio di come il linguaggio rappresentazionale sia parte del modo in cui le scienze cognitive (in questo caso le neuroscienze cognitive) descrivono i processi cognitivi, cioè quei processi che si collocano tra l’input (stimolo sensibile) e l’output (comportamento): quei processi che mediano input ed output sono descritti, all’interno delle scienze cognitive che rispondono alla tradizione nota come cognitivismo, in termini rappresentazionali, come processi di elaborazione dell’informazione. Siamo di fronte ad una concezione che, come nel caso del mero funzionalismo, ha la possibilità di essere interpretata come una computazione. In altre parole: la concezione rappresentazionale della mente permette di intendere la cognizione come una computazione. Mentre nel caso del funzionalismo eravamo di fronte ad una commutazione meramente causale, cioè definita da relazioni esclusivamente causali, prive di riferimento semantico, nel calcolo che emerge da un’interpretazione di tipo rappresentazionale, sono coinvolti anche i valori di verità. Gli stati mentali, oltre a svolgere un ruolo funzionale (determinare causalmente altri eventi), veicolano anche informazioni, che possono essere interpretate, se sono informazioni proposizionali, attraverso valori di verità). Ecco che si delinea la possibilità di descrivere la cognizione come un calcolo preposizionale, come un processo di computazione proposizionale. Questa è una della grandi risorse che il cognitivismo mette a disposizione della ricerca e che ha permesso di costruire i grandi filoni di ricerca che contraddistinguono le odierne scienze cognitive. Siamo di fronte agli assunti fondamentali, basilari per delineare i grandi programmi di ricerca delle scienze cognitive standard o classiche, che si sono affermate a partire dagli anni ’50 e ’60 dello scorso secolo, sulle spoglie del comportamentismo. Un altro esempio per chiarire il modo con cui l’assunzione rappresentazionalista entra in gioco nel momento in cui si vanno a descrivere i processi cognitivi. Hubel e Weisel, in un articolo di fondamentale importanza per quanto riguarda i 20 processi cognitivi che soggiacciono alla vista, proposero un modello atto a interpretare l’attività della corteccia occipitale, ovvero la parte caudale della corteccia cerebrale, che già si sapeva che fosse legata alla visione: quel modello era gerarchico, computazionale e relazionale. Perché gerarchico? La corteccia occipitale, dunque la corteccia visiva, è suddivisa da Hubel e Wiesel in varie parti (V1, V2, V4, IT), le quali sono temporalmente e in successione coinvolte nella processazione dello stimolo visivo. Questa suddivisione è basata sulle funzioni e sulle informazioni che sono codificate all’interno di queste aree, di queste sezioni della corteccia visiva. Il modello è gerarchico anche perché secondo Hubel e Weisel lo stimolo visivo viene processato inizialmente attraverso una scomposizione dei suoi elementi minimali: lo stimolo visivo viene percepito dall’area V1 come composto in elementi costitutivi elementari; nella corteccia V1 ci sono neuroni o claster (gruppi di neuroni) che sono sensibile all’orientamento di certi stimoli, ad esempio sono sensibili a stimoli che hanno un orientamento verticale, mentre altri claster di neuroni hanno una sensibilità per stimoli che hanno un orientamento orizzontale, e cos’ via. Si configura così tutta una serie di rappresentazioni elementari, di stimoli elementari. È possibile, secondo Hubel e Wiesel, attribuire a dei piccoli claster di neuroni un riferimento a particolari condizioni dell’ambiente, che sono caratterizzate da certe proprietà geometriche, ad esempio. L’informazione di queste caratteristiche individuate dall’area V1 viene poi convogliata nell’area V2, nella quale avviene una prima combinazione, una prima elaborazione dell’informazione: l’elaborazione è essenzialmente una combinazione secondo regole, che caratterizzano proprio il funzionamento di questa seconda area. Qui vengono raccolte, organizzate le informazioni riguardo alle stimolazioni dell’area V1 secondo quelle che noi chiameremmo delle figure, cioè l’informazione viene organizzata in termini di figure, ancora semplici, per poi passare nel aree successivi a gradi di complessità di elaborazione sempre più raffinati, fino a giungere, nelle aree superiori della corteccia, a individuare e riconoscere semanticamente certi oggetti. Quello che è rilevante è il principio, la cornice concettuale che usano Hubel e Wiesel: essi assumono che l’area occipitale del sistema nervoso centrale sia essenzialmente un sistema di elaborazione di informazioni, basato sulla combinazione di sistemi simbolici attivati attraverso particolari stimolazioni che provengono dal canale visivo. Vediamo dunque come la confezione rappresentazionale della mente sia particolarmente influente per comprendere quelli che sono dei processi cognitivi basilari come la memoria e la visione. Possiamo leggere questo tipo di ricerca come il tentativo di dare una descrizione della percezione. Che cosa significa percepire visivamente qualcosa? Significa rappresentare questo qualcosa ed elaborarlo attraverso particolari regole. Rappresentare significa veicolare rappresentazioni, elaborare significa trasformare o nominare queste informazioni. Il modello che presentano Hubel e Wiesel è un modello di tipo costruttivista: la percezione di un oggetto è il risultato di una costruzione a partire da informazioni elementari; il nostro sistema visivo è primariamente un sistema che coglie aspetti elementari dell’ambiente, per poi combinarli costruendo quello che di solito viene chiamato in letteratura il “percetto”. Questa è una costruzione che può essere vista da due punti di vista: può essere letta attraverso l’analisi dei contenuti informazionali che sono coinvolti all’interno della elaborazione, dunque attraverso l’analisi delle informazioni che sono presenti nell’area V1, delle loro combinazioni nelle aree successive, oppure può essere letta, su un piano non informazionale, ma meramente funzionale, attraverso analisi di quegli eventi causali che caratterizzano il funzionamento di quelle aree cerebrali (dunque i processi, ad esempio, di tipo chimico, biochimico, che si verificano all’interno di quelle particolari aree che siamo interessati a studiare). Torniamo alla genesi della concezione rappresentazionale. Secondo la concezione rappresentazionale della mente, gli stati mentali sono stati materiali che svolgono una particolare funzione, che hanno un ruolo causale. In questo, la concezione rappresentazione della mente riprende la tradizione funzionalista e il suo assunto, ma aggiunge qualcosa (quel qualcosa che, secondo Searle, le manca): l’intenzionalità. L’intenzionalità è quella particolare proprietà del mentale secondo la quale uno stato mentale è intenzionale nel momento in cui si rivolge a qualcosa, ad un oggetto; e ne momento in cui si rivolge ad un oggetto, esso pone una relazione di senso verso di esso. Il senso è una nozione introdotta da Frege in un celebre articolo che si intitola Senso e riferimento (un articolo di fondamentale importanza, il quale ha dato vita alla filosofia del linguaggio del Novecento). Il senso, secondo Frege, è quella particolare modalità attraverso la quale un simbolo si riferisce al proprio oggetto. Ci si può riferire ad un oggetto in molti modi: ci si può riferire ad un particolare ente come Aristotele, come l’autore del De Anima, come l’allievo di Platone, come il mostro di Alessandro. Ci sono, in altre parole, molti modo di indicare e di determinare un ente. Dato ciò, si possono costruire descrittori di quell’ente che sfruttano i diversi modi, cioè i diversi sensi, a partire dai quali un simboli si riferisce al suo oggetto. Si parla allora di atteggiamento proposizionale nel momento in cui si assume che gli stati mentali siano veicoli o simboli di contenuti proposizionali - descrittori che si riferiscono a qualcosa in un particolare modo. Un esempio paradigmatico è quello delle credenze, ma lo stesso tipo di lavoro lo possiamo fare sui desideri, sulle emozioni, e altri stati mentali. Si può assumere che un soggetto abbia una credenza riguardo ad un particolare ente, del tipo “Aristotele è l’autore del De Anima”. Si può assumere poi che il soggetto abbia anche un’altra credenza, diversa dalla prima: “L’allievo di Platone è l’autore di un libro sull’anima.” Perché queste due credenze sono credenze diverse, quando si può ragionevolmente dire che il riferimento è lo stesso? Le due credenze sono diverse per un criterio, che è il criterio che fornisce proprio la concezione rappresentazionale della mente: il contenuto proposizionale di queste credenze è diverso. Le due proposizioni sono due proposizioni diverse, sebbene abbiano lo stesso valore di verità, si riferiscano allo stesso oggetto. In altre parole: le stesse condizioni del mondo permettono a queste due credenze di avere lo stesso valore i verità, tuttavia esse sono due credenze diverse, cioè due stati mentali diversi. Cosa c’è di interessante nel descrivere la mente attraverso questo tipo di strategia? Abbiamo detto che innanzitutto ripeschiamo quella che è una antica conoscenza della filosofia, cioè la nozione di intenzionalità. Prendiamo un esempio: la storia di Edipo. Edipo sposa Giocasta, ma Giocasta è sua madre. Edipo sposa sua madre, secondo la storia, a sua insaputa. Pensiamo a questa condizione: Edipo ha una credenza, “Giocasta è la madre di Edipo”, oppure Edipo ha un’altra credenza, “Giocasta è la regina di Tebe”. Come nel 21 caso precedente, queste due credenze sono co-referenziali o co-estensive, cioè hanno lo stesso riferimento e, avendo lo stesso riferimento, hanno anche lo stesso valore di verità, se attribuite ad Edipo. Domandiamoci allora: queste due credenze hanno anche lo stesso valore esplicativo? Sono in grado allo stesso modo di spiegare il comportamento di Edipo, cioè quella particolare condizione che ha portato Edipo a sposare Giocasta? Si possono definire anche ulteriori esempi. Pensiamo al caso in cui Edipo abbia la credenza che Giocasta sia la regina di Tebe oppure ha la credenza che sua madre sia la regina di Tebe oppure che Giocasta sia sua madre. Queste credenze hanno lo stesso valore di verità, tuttavia non spiegano allo stesso modo il comportamento di Edipo. Il suo comportamento è ben spiegato dall’ipotesi per la quale egli ha la credenza “Giocasta è la regina di Tebe”, ma non da quella per la quale egli ha la credenza “Giocasta è la madre di Edipo”. Perché? Avremmo bisogno di ulteriori tipi di assunzioni. Il fatto che due credenze siano co-referenziali, che abbiano lo stesso valore di verità non implica che abbiano anche lo stesso valore esplicativo. Questo fenomeno si chiama intenzionalità del mentale, cioè la particolare caratteristica che hanno gli stati mentali di riferirsi a qualcosa attraverso una particolare definizione e non un’altra. Proprio questa caratteristica, cioè il fatto che il contenuto proposizionale sia in qualche modo un elemento caratteristico di una credenza fa sì che si possano avere spiegazioni diverse di comportamenti. In altre parole, ci permette di aver spiegazioni che non sono tutte rilevanti allo stesso modo per comprendere un certo comportamento. In altre parole: l’esecuzione di un’azione dipende dal modo in cui quell’azione o il mondo è descritto. La spiegazione mentalistica di un comportamento, all’interno di una concezione rappresentazionale, è strettamente legata al contenuto proposizionale delle rappresentazioni che sono coinvolte. Rappresentazioni coestensionali non permettono lo steso tipo di spiegazione. Qui non è tanto in gioco la giustificazione di un comportamento, ma la sua spiegazione. L’intelletualismo è quella particolare concezione secondo la quale le azioni di un agente sono determinate dal modo in cui quell’agente descrive il mondo, cioè dalla sua capacità di produrre descrizioni del mondo, vere o false (questo è irrilevante: si possono spiegare comportamenti attribuendo all’agente stati mentali che abbiano come valore di verità sia il vero che il falso). Quello che è rilevante, tuttavia, è che sono in gioco stati mentali che hanno valori di verità. Gli stati mentali che hanno valore di verità sono stati mentali che veicolano contenuti proposizionali, perché, per definizione, quegli enti che hanno valore di verità sono soltanto le proposizioni. La proposizione è una struttura di tipo linguistico dotata di senso alla quale è possibile attribuire un valore di verità. Nell’ottica rappresentazionale, il comportamento di un agente può essere spiegato attribuendo a quell’agente un particolare contenuto proporzionale e non un altro. Questo è rilevante quando si hanno casi di co-estensionalità: io posso spiegare il comportamento di Edipo attribuendogli un particolare contenuto proposizionale, ma non attribuendogliene un altro che sia co-referenziale e che abbia pertanto lo stesso valore di verità. Dunque, tirando in estremo, guardando oltre le conseguenze di un atteggiamento di tipo rappresentazionale, noi assumiamo che il comportamento di un agente sia comprensibile a partire da l’attribuzione di valori di verità ai suoi stati mentali. Questo è interessante perché apre una finestra su alcuni problemi che riguardano ambiti disciplinari affini alla filosofia della mente, la quale è legata a molti altri ambiti di ricerca: la ricerca sperimentale nell’ambito delle neuroscienze cognitive, come abbiamo visto, ma anche la linguistica. Una concezione rappresentazionale della mente permette, ad esempio, di comprendere che cos’è una credenza e come fa una credenza ad essere giustificata e vera. La teoria della mente rappresentazionale fornisce una buona ed elegante spiegazione di come fa una credenza ad essere giustificata e ad essere vera: una credenza è vera nel momento in cui si assume che i soggetti abbiano degli stati mentali che sono veicoli di contenuti proporzionali, ed essere veicolo di un contenuto proposizionale significa essere un veicolo materiale di qualche genere al quale è associato questo contenuto proposizionale. La giustificazione di una particolare credenza dipenderà dalla relazione, ad esempio di tipo logico (deduttivo, abduttivo, induttivo) con altre credenze. Ma questo è qualcosa che si può delineare a partire dall’attribuzione di valori di verità agli stati mentali. La teoria rappresentazionale della mente permette di cogliere la verofunzionalità degli stati mentali. Ma non solo: pensiamo alla teoria della responsabilità (tema caro alla morale): un soggetto è responsabile, secondo alcune letture, dal momento in cui ha certe credenze, ma non lo è nel momento in cui ne ha altre. Pensiamo di nuovo al caso di Edipo: se volessimo condannare o giudicare Edipo dal punto di vista morale, assumendo alcuni principi per cui non si sposa la propria madre, dovremmo dire che Edipo è responsabile delle proprie azioni se assumiamo un’interpretazione del suo comportamento attribuendogli la credenza “Giocasta è la madre di Edipo” ma non potremmo farlo se gli attribuissimo la credenza “Giocasta è la regina di Tebe”. La responsabilità dipende dai valori di verità e dai contenuti proposizionali che si attribuiscono alle credenze di un soggetto. Le rappresentazioni mentali: 1. Forniscono le ragioni per le azioni; 2. Indicano le cause delle azioni. Gli stati mentali, dunque, sembrano avere un duplice ruolo nella spiegazione di un comportamento: hanno un ruolo di tipo causale nel momento in cui io seguo le linee dell’analisi funzionalista; gli stati mentali sono elementi che determina causalmente un comportamento, cioè sono parti della catena causale che conduce ad un comportamento, e questo è permesso nel momento in cui io considero una teoria dell’identità di tipo materialista: se gli stati mentali sono stati materiali di qualche tipo, allora io ho la possibilità di descriverli come stai funzionali e associare ad un particolare stato mentale un particolare ruolo causale all’interno di un network che media tra lo stimolo e la risposta. Ma, se seguiamo quanto abbiamo appena descritto, cioè se seguiamo la concezione rappresentazionale della mente, se vi introduciamo l’intenzionalità e la leggiamo in termini di tipo semantico, allora possiamo individuare un altro impiego esplicativo degli stati mentali: l'impiego razionale degli stati mentali. Gli stati mentali, cioè, non solo permettono di spiegare il comportamento in termini causali, ma permettono di farlo anche in termini razionali - forniscono, cioè, spiegazioni per il comportamento, Sono due piani che sono in questo momento entrambi presenti all’interno della concezione del mentale che stiamo analizzando: il fornire le ragioni e l’indicare le cause di un comportamento. 22 contemporanee: io non sono sempre consapevole di tutti i miei ricordi, ma l’informazione è sempre conservata in una particolare area del mio sistema nervoso il quale ha proprio quel compito, quella funzione (quella di veicolare informazione). Lezione 10 17.11.2020 Il programma di naturalizzazione dell’intenzionalità Riprendendo in mano l’esempio di Edipo: abbiamo detto che possiamo spiegare il suo comportamento, ovvero il fatto che egli sposi Giocasta ad un certo punto della sua vicenda personale, in modo naturale e spontaneo, senza trovarlo misterioso, attribuendo ad Edipo una credenza del tipo “Giocasta è la regina di Tebe”. In questo modo, il comportamento di Edipo è spiegato in termini razionali, cioè attraverso una catena di inferenze. Assumiamo che Edipo, cioè, sia un agente intelligente dotato di ragione, che ha scelto di sposare Giocasta perché ha delle ragioni per farlo. Possiamo sbizzarrirci ad attribuire ragioni e credenze ad Edipo per la sua azione. Questo è il modo in cui noi razionalizziamo il comportamento di Edipo. Se avessimo attribuito ad Edipo la credenza “Giocasta è mia madre”, affinché il suo comportamento risultasse il prodotto di una scelta razionale, avremmo dovuto attribuire ad Edipo anche delle credenze del tutto peculiari - “Desidero sposare mia madre”. La storia, tuttavia, ha senso ed è interessante proprio perché Edipo è un agente moralmente accettabile e proprio perché non crede che Giocasta sia sua madre, bensì solo che ella sia la regina di Tebe, egli la sposa. Questo ci permette di fornire ragioni per il suo comportamento, ma ci permette anche di individuarne le cause: secondo l’argomento proposto da Davidson, infatti, affinché una ragione sia una spiegazione di un comportamento, occorre che quella ragione sia anche la causa di quel comportamento. Io posso infatti fornire molte ragioni per spiegare il comportamento di Edipo; del resto potrei anche descriverlo come il prodotto di una catena di inferenze nella quale son coinvolti il desiderio di sposare la propria madre, la credenza che Giocasta sia sua madre, e così via. Ma quale delle due è la catena inferenziale che effettivamente spiega il comportamento di Edipo? Quella in cui Edipo crede che Giocasta sia sua madre ed egli desidera sposarla o quella in cui Edipo crede che Giocasta sia la regina di Tebe ed egli desidera diventare il re di Tebe? Secondo Davidson, l’unico modo che abbiamo per scegliere la risposta effettivamente giusta è individuare se gli stati mentali (cioè gli stati fisici, materiali) che sono coinvolti nella determinazione causale del comportamento veicolano informazioni del tipo “Giocasta è mia madre” o informazioni del tipo “Giocasta è la regina di Tebe”. In ultima istanza, cioè, l’individuazione delle ragioni deve anche coincidere con l’individuazione della cause, perché una ragione è la spiegazione di un comportamento solo se ne è anche la causa. Questo modo di spiegare il comportamento degli agenti viene chiamato in vari modi all’interno del dibattito. Un modo abbastanza trasversale e comune per individuare questa strategia di spiegazione del comportamento è attraverso l’etichetta “atteggiamento intenzionale, espressione che indica quel particolare comportamento con il quale io, i quanto osservatore, attribuisco ad un agente che mi sta davanti degli stati mentali intenzionali, delle rappresentazioni al fine di fornire una spiegazione, in prima istanza razionale, ma anche causale, del comportamento di quell’agente. L’atteggiamento intenzionale è quell’atteggiamento che noi adottiamo tutte le volte che spieghiamo il comportamento di qualcuno (ma non solo) in termini di stati mentali, di rappresentazioni mentali, cioè nel momento in cui noi spieghiamo il comportamento di un agente attribuendo a quell’agente delle ragioni. Abbiamo fatto molti esempi per indicare questa particolare modalità: Mario che corre verso la stazione di domenica, ad esempio. L’atteggiamento intenzionale è un atteggiamento pervasivo, accompagna la nostra vita quotidiana. [Due video mostrati a lezione: l’apparente inseguimento di due uomini sulla spiaggia e la scena in cui un globulo bianco insegue e ingloba un batterio]. Siamo soliti, secondo il senso comune, attribuire intenzionalità ai soggetti umani ma non a soggetti non umani come, ad esempio, batteri o globuli bianchi, nel caso, ad esempio, ci troviamo di fronte ad una fenomeno di inseguimento. Ma proviamo ad andare oltre il senso comune. Se applicassimo l’atteggiamento intenzionale in entrambi i casi mostrati dai video, quello che avremmo sarebbe la descrizione di due inseguimenti in cui vi sono degli agenti che hanno come scopo l’inseguire qualcuno e degli altri agenti che hanno come scopo, invece, il fuggire da qualcuno. Sarebbe legittimo parlare di atteggiamento intenzionale in entrambi i casi? E invece non applicarlo in nessuno dei due? Vi sono differenze? Riflettiamoci. Entrami i casi potrebbero essere interpretati come casi di “repulsione” tra i due agenti - i due uomini o il batterio e il globulo bianco. Se accettiamo la concezione rappresentazionale della mente, non c’è in linea di principio una distinzione tra cause e ragioni, per cui l’aver scelto significa solo l’avere una particolare catena causale che determini, solo che quella catena causale non è una mera portatrice di informazioni, è anche una catena che determina, i cui elementi sono rappresentazioni del mondo e degli obiettivi che un agente ha. Affinché un agente si muova, sicuramente esiste una catena causale in cui sono anche coinvolti elementi di tipo neurale; ma, affinché io possa attribuire all’agente una scelta, occorre qualcosa in più: occorre sostenere che quei processi causali siano anche portatori di informazione, che alcuni degli elementi causali coinvolti in quel particolare processo siano veicoli di informazione. La descrizione di tipo informazionale deve potersi calare sopra descrizioni di tipo causale: devono poter stare insieme in qualche modo. Affinché noi possiamo anche spiegare il comportamento del globulo bianco o del batterio in termini di ragioni, non solo dobbiamo assumere che vi siano degli eventi di tipo causale che determinino il pattern di comportamento, ma dobbiamo anche accettare che vi siano delle rappresentazioni in gioco. In altre parole: se seguiamo quella sorta di istinto che è quasi immediato, naturale, che ci guida nel descrivere questo particolare pattern comportamentale come un inseguimento, non stiamo facendo 25 altro che giocare al gioco delle attribuzioni mentali ovvero, nel momento in cui descriviamo quello tra il globulo bianco e il batterio come un inseguimento, attribuiamo particolari credenze (o semplicemente delle rappresentazioni) a questi elementi. Rappresentazioni di che tipo? Proviamo a descrivere, attraverso una spiegazione dell’atteggiamento di tipo intenzionale, il comportamento del globulo bianco e del batterio: il globulo bianco descrive in un certo modo quel particolare ente che è un batterio, se lo rappresenta in un certo modo, ha delle rappresentazione riguardo agli scopi e ai fini e la combinazione di queste rappresentazioni determina le ragioni del suo comportamento, certo che queste ragioni sono a loro volta delle cause del comportamento, cioè vi sono degli enti materiali, all’interno dell’agente, che non solo veicolano delle informazioni, ma sono anche causalmente determinanti all’interno di quel meccanismo che guida le azioni della cellula. Questo è il modo implicito, la struttura implicita di quella serie di atteggiamenti intenzionali che noi usiamo per spiegare molti aspetti del mondo che ci circonda. Lo facciamo naturalmente, in modo istintivo, anche quando attribuiamo spiegazioni razionali al comportamento di animali domestici; ma lo facciamo anche con i computer o con altri oggetti, con i quali in certe situazioni ci capita di arrabbiarci in quanto essi non si prestano ai nostri fini - come se ci fossero delle circostanze materiali che intendono ostacolarci. È un modo, quello intenzionale, di rendere in qualche modo, attraverso l’utilizzo di ragioni, intelligibile il mondo che ci circonda. Le spiegazioni di tipo intenzionale non sono soltanto presenti all’interno della psicologia del senso comune, non le utilizziamo solo nella vita quotidiana. Se ascoltiamo biologi, scienziati, sentiremo che spesso si cade o si utilizza una descrizione di tipo intenzionale per tali enti, ad esempio: “Il virus intende moltiplicarsi svariate volte all’interno delle vostre cellule”, “Il sistema immunitario reagisce in modo spropositato causando una serie di conseguenze che possono essere fatali”. Queste sono descrizioni di tipo intenzionale: tendiamo ad attribuire rappresentazioni a questi enti. Nessuno mette in discussione che vi siano delle relazioni causali, ma il grande problema è capire in che modo esse possano essere affiancate a relazioni di tipo razionale. Comportamenti che possono essere spiegati su due livelli, quello causale e quello razionale, necessitano di un ponte, occorre capire in che modo possa aver senso spiegare il comportamento degli agenti sia dal punto di vista meccanico-causale, sia dal punto di vista razionale. Ha senso nel caso del primo video dire che sono in gioco sia processi di tipo meccanico-causale che processi di tipo razionale, di elaborazione delle informazioni? E nel caso del secondo? In altre parole: Le rappresentazioni mentali sono enti naturali? Quando parliamo di rappresentazioni mentali, cioè, stiamo parlando di qualcosa che effettivamente si trova negli agenti? Il problema è particolarmente rilevante, perché ci muoviamo all’interno di una concezione di tipo naturalistico, per cui gli stati mentali, affinché possano essere delle spiegazioni del comportamento di un agente, devono poter causare quel comportamento. Il modo più ovvio, più naturale, forse l’unico modo che conosciamo per poter connotare causalmente un processo è quello di identificarlo con un processo di tipo fisico; pertanto, affinché gli stati mentali possano essere elementi di una catena causale che determini il comportamento, devono essere descritti come stati fisici, dunque devono essere enti naturali. Ma, se gli stati mentali sono anche rappresentazioni, cioè veicoli di informazione, cioè se non sono soltanto ingranaggi all’interno di un meccanismo, ma sono anche quelle particolari condizioni che ci permettono di avere ragioni per il comportamento e ci permettono di formulare informazioni inferenziali, di descrivere il mondo in un certo modo (credenza), dunque se gli stati mentali sono stati intenzionali, allora deve essere possibile definire questo carattere rappresentazionale (l’intenzionalità del mentale) come una proprietà naturale, come una proprietà degli stati fisici. In altre parole, siamo di fonte ad un bivio: o è possibile concepire l’intenzionalità come una proprietà naturale oppure gli stati mentali non possono essere sia fisici che intenzionali e pertanto o la spiegazione razionale del comportamento non è una spiegazione naturalistica (altrimenti quale spiegazione?) oppure gli stati mentali non sono stati fisici (e allora non sono cause del comportamento). Il seguente schema riassume il problema e le relative conseguenze. Problema: - Se gli stati mentali sono stati fisici (dunque sono stati naturali); - Se gli stati mentali sono rappresentazioni (dunque sono stati intenzionali). Allora: - Deve essere possibile definire l’intenzionalità come una proprietà degli stati fisici. In altre parole: o è possibile naturalizzare l’intenzionalità o gli stati mentali non possono essere sia fisici, sia intenzionali. Se vogliamo continuare a spiegare il comportamento sia in termini razionali sia in termini causali, occorre un argomento per poter dire che gli stati che sono causalmente coinvolti nella determinazione di un comportamento sono anche veicoli di informazioni e occorre un criterio per attribuire una particolare informazione ad particolare stato. Quello che si cerca è ben descritto da Fodor, in un testo intitolato Psychosemantics. Ad un certo punto, in questo testo, Fodor descrive quello che è il programma di naturalizzazione dell’intenzionalità. Il programma di naturalizzazione dell’intenzionalità è essenzialmente una teoria naturalizzata del significato, della semantica. Scrive Fodor: “Io voglio una teoria naturalizzata del significato, una teoria che articoli, in termini non-semantici e non-intenzionali, le condizioni sufficienti affinché una parte del mondo “to be about” (esprima, rappresenti, sia vera di) un’altra parte del mondo.” Affinché possiamo continuare a parlare di rappresentazioni mentali all’interno di un contesto naturalistico, cioè affinché possiamo continuare a dire che ci sono delle credenze che hanno dei soggetti, i quali causano un comportamento, sono parte di una catena complessa di cause di un comportamento, ma allo stesso tempo sono ancora veicoli di informazioni, è 26 necessario naturalizzare l’intenzionalità, occorre una teoria naturalizzata del significato, occorre che io sia in grado di descrivere in termini naturalistici in che modo un veicolo, un particolare stato materiale esprime, si riferisce, rappresenta, è vero di qualcosa, cioè in che modo l’informazione si agganci a quel particolare stato materiale. E tutto ciò non può essere stabilito arbitrariamente, ma deve esserci una caratterizzazione, una spiegazione di tipo naturalistico, che non deve fare riferimento a sua volta ad un contesto intenzionale (non-intentional) o ad un contesto semantico (non-semantic), cioè deve essere una spiegazione puramente naturalizzata. Se io intendo naturalizzare l’intenzionalità, la semantica, quel particolare processo per cui qualcosa si riferisce a qualcos’altro (elemento comune tra intenzionalità e semantica), allora non posso far riferimento a contesti intenzionali o semantici, pena la circolarità! Vediamo tre esempi per capire cosa stanno cercando coloro che, come Fodor, aderiscono al programma di naturalizzazione dell’intenzionalità, che è uno dei programmi che ancora oggi è tra i più influenti non solo nel campo della filosofia della mente, ma anche in quello della linguistica, della filosofia del linguaggio, delle neuroscienze cognitive e della psicologia cognitiva. La domande è: in virtù di quale criterio è possibile attribuire un contenuto e un riferimento ad un simbolo? L’idea è che possiamo scegliere tra tre opzioni: 1. Criterio arbitrario: il contenuto del simbolo è stabilito liberalmente dagli interpreti e non esiste alcun vincolo naturale tra il simbolo e il suo contenuto descrittivo. Ad esempio: il linguaggio naturale, la segnaletica stradale, le forme d’arte; 2. Criterio convenzionale: esiste un vincolo naturale tra il simbolo e il suo contenuto ed il contenuto del simbolo è stabilito dagli interpreti. Ad esempio: la posizione della lancetta di un indicatore, le orme di un animale; 3. Criterio naturale: il contenuto del simbolo è stabilito dalle proprietà naturali del simbolo stesso ed esiste un vincolo naturale tra il simbolo ed il suo contenuto. Ad esempio: la danza delle api, il comportamento di alcuni batteri. Ai naturalisti, ovviamente, interessa il criterio naturale. Ma osserviamo meglio i tre criteri. Criterio arbitrario: ci sono molti modi per attribuire un riferimento ad un veicolo. Le rappresentazioni abitano il nostro mondo, noi siamo agenti linguistici che hanno costruito la propria forma di vita intorno al simbolo; ma i simboli hanno nature diverse. C’è un criterio arbitrario per poter identificare un simbolo: questo criterio è quel criterio per cui il contenuto del simbolo è stabilito del tutto liberalmente, del tutto arbitralmente, dagli interpreti: non esiste, cioè, alcun vincolo naturale tra il quel veicolo materiale e il suo riferimento. Si è semplicemente deciso, ad un certo puto, che vi è un nesso tra un verto simbolo e un certo contenuto descrittivo, come avviene per il linguaggio naturale, per la segnaletica stradale e per le forme d’arte. Dretske, uno dei primi filosofi della mente che si sono occupati di comprendere che cos’è una rappresentazione e, in particolare, cos’è una rappresentazione mentale e in che modo essa possa rapportarsi ad un contesto di tipo naturalistico, in Explaining Behavior. Reasons in a World of Causes (1988) spiega molto bene il criterio arbitrario. Criterio convenzionale: si tratta del caso in cui alcune proprietà di un sistema possono suggerire una o più relazioni con un contenuto o un riferimento. Il criterio convenzionale si applica in quelle circostanze in cui non vi sono particolari relazioni tra un supporto materiale e un particolare riferimento e si sceglie convenzionalmente, ovvero accordandosi, quale contenuto attribuire. Pensiamo ad un barometro che è anche un altimetro. Che cosa significa? Un barometro, per quelle che sono le condizioni definite dalle leggi di natura, permette di indicare qual è la pressione in un particolare punto del pianeta ma permette anche di indicare, date certe presupposizioni, qual è l’altezza rispetto al livello del mare. Per cui un barometro è sempre un altimetro. La posizione di una lancetta su un barometro, dunque, non solo indica la pressione, ma anche l’altezza rispetto al livello del mare. Quale siano i riferimenti di questo particolare veicolo dipende dalla nostra convezione: possiamo scegliere di leggere l’oggetto come un barometro ma anche come un altimetro. C’è effettivamente una relazione naturale tra la misura della pressione e la misura dell’altezza rispetto al livello del mare; questa relazione è naturale, è stabilita dalle condizioni con cui è costruito il barometro e dalle particolari circostanze in cui si trova ad agire l’oggetto. In questo criterio, però, vi è ancora un atteggiamento interpretativo, come nel caso precedente: occorre, cioè, che vi sia qualcosa, qualcuno che decida quale riferimento attribuire ad un veicolo. Ma questo fa sì che non si verifichi quello cui si riferiva Fodor, cioè una condizione di non-circolarità. Nel caso del criterio arbitrario e nel caso del criterio convenzionale, la relazione tra il veicolo e il contenuto è stabilita da un sistema di scelta: occorrono delle credenze per poter stabilire qual è il riferimento di questi veicoli, ma questo rende circolare la descrizione. Io spiego che il barometro è un barometro solo se ho certe credenze, certi desideri o certe assunzioni, dunque certe rappresentazioni; l’oggetto i questione è una rappresentazione della pressione solo se io mi rappresento quell’oggetto come un misuratore di pressione. Questo rende tutta la spiegazione della rappresentazionalità del barometro interna ad un atteggiamento di tipo intenzionale. Non sono in grado di spiegare indipendentemente la rappresentazionalità del barometro, se non facendo riferimento ad un’altra rappresentazione. Criterio naturale: è il criterio che cerca chi segue la strada del programma di naturalizzazione dell’identità. Si tratta di un criterio indipendente da atteggiamenti di tipo intenzionale, per cui la rappresentazionalità di qualcosa è stabilita, spiegata non arbitrariamente, non convenzionalmente, cioè indipendentemente da altri stati mentali, da altre rappresentazioni. È un’intenzionalità intrinseca alle cose, cioè il fatto che vi siano enti che si riferiscono a qualcos’altro, che veicolino informazione su qualcos’altro e lo facciano indipendentemente dal fatto che ci sia o meno un agente che interpreti, ovvero che con le sue credenze, con i sui desideri stabilisca qual è questo riferimento. Indipendente dall’esserci un agente intenzionale (questo è l’assunto del programma di naturalizzazione dell’intenzionalità), vi son enti naturali che hanno delle relazioni di significanza, delle relazioni intenzionali con qualcos’altro. Un esempio è quello della danza delle api: le api, quando tornano dopo una ricognizione all’alveare, eseguono una particolare serie di movimenti. Si è visto che questa serie di movimenti non è causale, ma che è in una relazione univoca con un particolare luogo, che le api hanno da poco visitato. In altre parole: le api eseguono una serie di movimenti che permettono di definire una relazione tra questi 27 un certo punto si stabilisce che un determinato pezzo di mondo si riesce ad un altro determinato pezzo di mondo, ma non c’è nessuna radice o implicazione di tipo naturalistico, c’è solo un mettersi d’accordo da parte di soggetti e questo tipo di criterio è sempre intenzionale (occorre che qualcuno abbia un intenzione di riferirsi a quel pezzo di mondo come intenzionalmente, a sua volta, rivolti verso qualcos’altro); quello convenzionale, in cui in alcuni casi sembra che ci sia una relazione di tipo naturale (la lancetta del barometro o quella di tipo analogico che, nelle macchine, indica il livello di carburante presente nel serbatoio), ma la relazione è interpretabile in più modi, ed è ancora necessario l’intervento di agenti dotati di intenzioni; quello naturalistico; naturalizzare l’intenzionalità significa, in ultima istanza, stabilire una relazione che sia stabilita esclusivamente da criteri di tipo naturalistico, in cui non entrano in gioco le intenzioni degli agenti, altri stati mentali intenzionali. Teoria causale del contenuto e teleosemantica C’è una tradizione, all’interno della filosofia occidentale, che prevede che i soggetti siano titolari di idee: pensiamo alle idee in Cartesio, nell’empirismo, in Kant. Locke, uno dei padri dell’empirismo, è chiarissimo nell’assumere che le idee siano rappresentazioni addirittura proporzionali, cioè rappresentazioni del mondo. Prima di parlare nel dettaglio di quali siano le strategie per parlare di pezzi di mondo che sono intenzionalmente rivolti ad altri pezzi di mondo in termini naturalistici, dobbiamo aver ben chiara l’importanza del problema. Il premio in palio è la giustificazione di certe pratiche esplicative che si ritrovano in contesti di vita quotidiana ma anche in contesti formalizzati come quello delle neuroscienze cognitive o quello della psicanalisi. In altre parole: l’attribuzione di stati mentali intenzionali (rappresentazioni mentali) è condizione necessaria affinché sia possibile fornire le ragioni di un comportamento. Ci sono due strade che si aprono: A) Il programma di naturalizzazione degli stati intenzionale ha successo, allora: è possibile includere la spiegazione razionale (intenzionale) di un comportamento all’interno del dominio delle conoscenze naturali. Una scienza naturale degli stati mentali intenzionali è possibile; B) Il programma di naturalizzazione degli stati mentali non ha successo, allora: nessuna scienza naturale degli stati intenzionali è possibile. Le spiegazioni razionali (intenzionali) del comportamento non sono spiegazioni naturalistiche. Se vale B), allora si pongono i seguenti problemi: (i) che cosa giustifica il ricorso a spiegazioni razionali (intenzionali) del comportamento? (ii) Che cosa giustifica l’attribuzione di rappresentazioni mentali a un agente? (iii) Gli agenti dono davvero titolari di credenze, desideri, emozioni quali rappresentazioni del mondo? Questo problema è rilevante non solo per fini di tipo teoretico filosofico, non solo per la psicologia e per le neuroscienze, ma anche perché, sulla base dell’attribuzione di credenze e desideri, noi abbiamo costruito il mondo in cui viviamo, certe pratiche di vita. Pensiamo in torno a noi quante volta l’invocare l’attribuzione di stati mentali determina le scelte: se prendiamo il nostro Codice Civile, troviamo svariati rimandi al ruolo delle credenze intenzionali per l’attribuzione di responsabilità. La responsabilità dipende dall’attribuzione al soggetto di determinate credenze o di determinati desideri, certe rappresentazioni del mondo: se il soggetto non ha determinate rappresentazioni, non è responsabile, altrimenti sì. Questo è un modo comune di giustificare una condanna. Ma cosa stiamo descrivendo nel momento in cui, ad esempio, sosteniamo che un soggetto desiderava uccidere una persona, credeva che quella persona, agendo in quel modo sarebbe morta? Pensiamo al caso in cui un giudice condanna un agente perché aveva l’intenzione di ferire, di star male, di uccidere. Se gli stati mentali non sono enti naturali, cosa stiamo descrivendo quando attribuiamo credenze e desideri ad un soggetto che verrà condannato o assolto in giudizio? Fodor, che aveva modi piuttosto diretti per indicare le proprie posizioni, sosteneva che se il grattarmi, quando qualche parte del mio corpo mi prude, non è determinato dal mio desiderio di grattarmi, allora il mondo per come lo conosco è finito. Se guardiamo a questa provocazione alla luce di quanto appena spiegato, ne comprendiamo il senso: se le mie rappresentazioni non determinano le mie azioni, allora tutto questo insieme di pratiche morali, sociali che abbiamo instaurato è privo di senso, non ha più una radice nel mondo naturale, ha perso il suo legame con la descrizione delle cose; non sto effettivamente descrivendo ciò che abita il mondo se desideri e credenze non sono naturalizzabili. Il programma di naturalizzazione dell’intenzionalità è stato uno dei grandi temi di discussione dalla fine degli anni ’70 fino alla fine degli anni ’90 dello scorso secolo e ha prodotto un dibattito molto ampio, con ricadute in cari contesti; oggi ha lasciato traccia anche all’interno delle stesse scienze cognitive, in quanto ha permesso lo sviluppo di programmi di ricerca specifici, come l’insieme dei programmi di ricerca che fanno a meno dell’obiettivo ultimo della naturalizzazione dell’intenzionalità. Il programma di naturalizzazione dell’intenzionalità può essere letto da due punti di vista diversi: il primo è quello del linguista o del filosofo del linguaggio. Si sono presentate, nel corso del Novecento, diverse proposte che hanno ispirato programmi di naturalizzazione della semantica intesa come scienza del significato del linguaggio. Citiamo, ma solo di passaggio, le teorie semantiche note come teorie causali del riferimento di Kripke e di Putnam. Secondo queste teorie, il riferimento dei nomi propri di enti naturali è determinato da una relazione causale con quell’ente specifico. Dall’altra parte c’è la prospettiva del filosofo della mente che guarda a quali sono le condizioni naturalistiche all’interno delle quali è possibile attribuire non solo un riferimento ma anche un contenuto rappresentazionale, cioè l’espressione di una particolare informazione, ad un veicolo materiale. All’interno di questa tradizione di filosofia della mente ci sono due proposte influenti: la teoria causale del contenuto e la teleosemantica. Queste due teorie si sono sviluppate in ordine: prima la teoria causale del contenuto e poi la teleosemantica, che è uno sviluppo della prima a partire da alcuni problemi che la hanno contraddistinta. 30 In altre parole: sono in gioco due modi di leggere il programma di naturalizzazione dell’intenzionalità. Quando io dicco che qualcosa si riferisce a qualcos’altro, nell’analisi più condivisa sto assumendo che vi siano un veicolo, un riferimento rispetto al quale questo veicolo è in relazione intenzionale o semantica e anche una modalità di determinazione di quel riferimento, cioè il contenuto. L’intenzionalità è intesa come una relazione-descrizione, è un taglio prospettico, con il quale l’oggetto di riferimento si manifesta con una descrizione, con una proposizione. Del resto le credenze sono “credenze che”, sono sempre stati preposizionali. Nel momento in cui cerchiamo di naturalizzare questa relazione, cercando di capire se esiste un modo di descriverla attraverso concetti esclusivamente naturalistici, senza coinvolgere soggetti che interpretino, io posso avere come obiettivo quello di spiegare in che modo si delinei la relazione tra il veicolo e il riferimento oppure quello di naturalizzare la modalità di determinazione di questa relazione, cioè il suo contenuto. Vi sono programmi di ricerca diversi,; in filosofia del linguaggio ha prevalso la tendenza ad eliminare in qualche modo l’elemento contenutistico, cioè l’elemento informazionale, per cercare quella che viene chiamata una relazione diretta tra il veicolo e il suo riferimento. Questa relazione diretta, nella semantica di Kripke e di Putnam, che sono ancora due modelli di semantica molto diffusi, sembra essere in grado di delineare la il nesso tra il veicolo e il contenuto attraverso i nomi propri. Nella filosofia della mente, invece, è risultato particolarmente interessante cercare di naturalizzare il modo in cui un veicolo determina il proprio riferimento, perché quello che è in gioco quando si usano gli stati mentali intenzionali per spigare il comportamento degli agenti riguarda l’informazione che io sto attribuendo ad un agente. Pensiamo al caso di Edipo: egli posa Giocasta perché determina il riferimento “Giocasta” con “la regina di Tebe”, questo ci permette di fornire una spiegazione del comportamento di Edipo coerente con la tradizione. Sono due, come dicevamo, le correnti prevalenti all’interno del programma di naturalizzazione dell’intenzionalità. La prima teoria ad essere stata particolarmente influente nel dibattito è la teoria causale del contenuto. Questa teoria è stata introdotta alla fine degli anni ’70 da Fred Dretske. Nell’articolo intitolato Causal Theories of Reference, pubblicato sul The Journal of Philosophy nel 1977, Dretske indica qual è, nella relazione causale, lo strumento per naturalizzare il contenuto semantico degli stati mentali, aprendo anche una parentesi di tipo epistemologico: perché la teoria causale? Perché la causalità è la relazione naturalistica per antonomasia, è quella relazione naturalistica che può essere delineata a tutti i livelli di descrizione naturalistica, indipendentemente dal fatto che noi agenti epistemici condividiamo una definizione di relazione causale. La relazione causale, secondo Dretske, viene indicata sempre come elemento esplicativo dagli esseri umani, anche nel caso in cui manchi una definizone comune. La teoria causale semplice è quella teoria secondo la quale il contenuto di uno stato mentale intenzionale è determinato dall’evento che ha causato tale stato mentale. L’ipotesi è la seguente: esistono in natura stati fisici che esprimono contenuti (proposizionali) in virtù di relazioni causali con l’ambiente. - Esempio 1: i batteri magnetotattici veicolano informazione riguardo alla direzione del campo magnetico terrestre perché il loro orientamento è causato dalla direzione del campo magnetico terrestre. Ma la domanda allora è: i batteri magnetotattici sono dunque sistemi intenzionali naturali? Chiaramente non viene attribuita ai batteri la capacità di concettualizzare il mondo; si tratta solo di un pezzo di mondo in grado di riferirsi ad un altro pezzo di mondo (definizione di Fodor), senza il bisogno di chiamare in gioco credenze o desideri. Abbiamo detto che, secondo la teoria causale del contenuto, uno stato è intenzionale se è determinato dall’evento che ha causato tale stato. Dunque, se l’orientamento del batterio è determinato causalmente da il campo magnetico, allora quel pezzettino di mondo che si orienta in quel particolare modo sarà in una relazione intenzionale con il campo magnetico che ha causalmente determinato quel comportamento e dunque si riferirà a quel campo magnetico proprio come l’esserci di un campo magnetico in quella direzione. - Esempio 2: l’attività elettrica delle aree della corteccia visiva primaria esprime informazioni sulle proprietà geometriche dell’ambiente perché causata da esse. La domanda allora è: le aree della corteccia visiva primaria sono dunque sistemi intenzionali naturali? 31 Ci sono dei problemi. Un problema, ad esempio, è quello dell’errore (detto anche problema della disgiunzione o della sotto-determinazione causale del contenuto): si riscontra che la stessa credenza, o meglio la stessa rappresentazione, può essere causata da eventi diversi. Una stessa rappresentazione, cioè, può esse causata in un agente da enti e circostanze diverse. Un contenuto rappresentazionale, cioè, è sotto-determinato causalmente, ovvero non è determinato univocamente da una causa, ma può essere determinato da cause diverse (attenzione: questo non significa che sai determinato da più cause concomitanti). Ad esempio: un’arancia sul tavolo può causare la cadenza che “c’è una mela sul tavolo”. Quando è che un’arancia causa la rappresentazione di un’arancia e quando quella di una mela? La teoria causale ammette, in altre parole, condizioni di ambiguità. Nel momento in cui cerchiamo un criterio di naturalizzazione dell’intenzionalità, la nostra esigenza è quella di individuare una giustificazione per poter attribuire valori di verità a certi veicoli quella di poter trattare in termini verofunzionali un veicolo in modo da poter applicare, così, regole di computazione logica. Se siamo di fonte a casi di ambiguità, non siamo in grado di attribuire univocamente un valore di verità ad una rappresentazione. In altre parole: notiamo che le rappresentazioni proposizionali sono tali perché hanno condizioni di soddisfazione (verità), ovvero per ogni rappresentazione deve essere possibile stabilire quali sono le sue condizioni di soddisfazione (quando la rappresentazione è vera e quando è falsa). Ma, se sono possibili casi ambigui, allora non è possibile stabilire quali sono le sue condizioni di soddisfazione (quando la rappresentazione è vera e quando è falsa). Occorre, allora, un criterio non ambiguo. Con la teoria causale del contenuto, dunque, siamo ora di fronte ad un problema: chi stabilisce effettivamente la condizione del mondo rispetto alla quale quel contenuto è in relazione? Chi stabilisce, in caso di ambiguità, se quando io ho una credenza del tipo “c’è una mela sul tavolo” io mi sto riferendo alle mele o solo a frutti che le somigliano? Come faccio a delirare univocamente una relazione con un particolare stato del mondo, in circostanze di ambiguità? C’è una relazione causale privilegiata tra tutte? Ruth Millikan, una delle filosofe della mente e del linguaggio viene più spesso citata come una di coloro che hanno risolto il problema di questo programma di ricerca, ha proposto una nozione, quella di teleosemantica, che si basa sulla definizione di funzione propria, che viene ripresa dalla Millikan all’interno dell’ambito biologico. La funzione propria è quella funzione per cui un tratto (un organo o una porzione di un sistema, come ad esempio un claster neurale) è stato biologicamente selezionato. Allora la funzione propria potrebbe essere una funzione di tipo rappresentazionale: certi claster neurali potrebbero aver la funzione di veicolare informazioni; ma quale funzione naturalistica? Quella di garantire una fitness, cioè quella funzione che garantisce una congruenza (fitness) con l’ambiente, dunque che garantisce anche la proliferazione. Riprendiamo il caso delle mele: qual è, tra le varie rappresentazioni causali, quella che permette una maggiore congruenza? Credere che ci sia una mela perché c’è una mela e determinare un comportamento a partire da questa conoscenza potrebbe garantire una buona congruenza. L’idea è che vi siano della funzioni che sono naturalisticamente, nel senso di evolutivamente, attribuite ai sistemi, in particolar modo a quelli cognitivi. Chiediamoci, ad esempio: qual è la funzione propria della danza delle api? La “danza” ha la funzione propria di descrivere la posizione di una fonte di nettare. La teleosemantica mira a stabilire in modo in qui è possibile attribuire la funzione propria ai comportamenti. In ultima istanza, la teleosemantica è una tesi secondo la quale gli stati mentali sono il prodotto di una evoluzione che ha permesso agli agenti che li possiedono di rappresentarsi il mondo in modo da ottenere una maggior fitness con l’ambiente che li circonda, dunque in modo da ottenere un premio dal punto di vista selettivo, evolutivo. È dunque possibile selezionare i contenuti di quegli stati rappresentazionali in base a criteri di tipo teleologico, cioè in base ai fini: che permette di fare quel contenuto? Che tipo di azioni permette di eseguire quel contenuto? La teoria dell’evoluzione è orientata verso particolari condizioni, che sono premianti, e non verso altre particolari condizioni, che non lo sono. Lezione 12 24.11.2020 Materialismo eliminativo Gli stati mentali intenzionali sono enti naturali? Questa domanda ce la possiamo porre nel momento in cui incontriamo atteggiamenti intenzionali come quelli che caratterizzano non solo la psicologia del senso comune, ma anche quelle più strutturate come la psicologia cognitiva, la linguistica computazionale, le neuroscienze cognitive, in cui figurano spiegazioni che utilizzano stati mentali intenzionali, rappresentazioni mentali. A questa domanda hanno provato a rispondere (positivamente), tra la fine degli anni ’70 e la fine degli anni ’00, diversi filosofi di orientamento naturalista. La loro risposta riguardo alla domanda sullo statuto ontologico degli stati mentali poggia sul programma di naturalizzazione dell’intenzionalità o naturalizzazione del contenuto mentale. I principali rivoli che si delineano sono due: la teoria causale del contenuto e la teoria teleosemantica. Secondo la prima, il contenuto di uno stato mentale è determinato dalla causa di quello stato mentale, e questo si può argomentare attraverso esempi che si ritrovano in altri contesti: gli stati mentali non sono qualcosa di eccezionale in natura, sono soltanto un particolare stato naturale che è in una certe reazione di causa ed effetto con un altro ente e, attraverso questa relazione causale, si instaura anche una relazione informazionale. Abbiamo visto che questa teoria ha dei problemi. La teleosemantica, che è oggi la teoria naturalistica concernente gli stati mentali intenzionali più diffusa, è un tentativo di fornire la risposta a questi problemi. La teleosemantica è un programma di ricerca a sua volta molto articolato, che viene adottato anche in biologia, in linguistica (ad esempio quando ci si domanda come può essere attribuito un significato ad un termine). È una spiegazione 32 anni ’80. Patricia Churchland ha tentato di colmare questo gap, di riempire la promessa dell’eliminativismo con dei risultati, che si ritrovano racchiusi in testi più o meno divulgativi, come la Neurobiologia della morale e L’io del cervello. La misura della validità di un argomento come quello eliminativista non sta tanto nell’indicare casi storici che potrebbero essere analoghi: certo, questo serve a farci rendere conto che la scienza è fallibile, che le credenze che caratterizzano il sapere scientifico sono rivedibili alla luce di difetti che posso, ad un certo punto riscontrare, di crisi che si delineano all’interno di paradigmi alla luce della scoperta di nuove discipline. La scienza è qualcosa che è per sua natura dinamica e rivedibile. Tuttavia, questi esempi non sono certo argomenti definitivi, che mi permettono di giustificare l’abbandono dell’atteggiamento intenzionale. Tale abbandono passa invece attraverso due risultati: uno è l’impossibilità di naturalizzare i contenuti e l’altro è la disponibilità di soluzioni alternative che io ritengo adeguate. Lezione 13 25.11.2020 L’azione nella visione Approfondiamo alcuni aspetti del rapporto tra cognizione e corporeità. Questo è un rapporto che ha sempre condizionato lo sviluppo delle scienze cognitive, che nascono intono alla seconda metà del Novecento e che sono associate alla caduta della tradizione comportamentista e ad un approccio al mentale di tipo informazionale. Le scienze cognitive classiche ruotano intorno ai presupposti del cognitivismo. La concezione classica, che ha contraddistinto le prime fasi di sviluppo delle scienze cognitive, prevedeva un’attenzione prevalente per i processi di mediazione, lasciando in disparte, in qualche modo, l’elemento della corporeità, intesa come quel sistema di proprietà (sia di tipo statico che dinamico) che contraddistinguono e definiscono il corpo dell’agente. Questo insieme di proprietà è stato messo da parte (non ignorato), per concedere un’attenzione prevalente ai processi di elaborazione e di mediazione tra stimolo e risposta. Soltanto in una fase successiva dello sviluppo delle scienze cognitive è stata spostata l’attenzione verso le proprietà dinamiche e morfologiche del corpo, quali elementi indispensabili per comprendere la natura dei processi cognitivi, ma anche per comprendere la natura delle informazioni che sono veicolate all’interno dei sistemi cognitivi. Noi analizzeremo alcuni aspetti di questo passaggio di concezioni. La seconda parte delle scienze cognitive prende il nome di scienze cognitive della mente incorporata, proprio a sottolineare il fatto che la cognizione è strettamente dipendente dalle proprietà morfologiche e dinamiche di un corpo. Stipuliamo un metodo sul lavoro che compieremo. Lasciamo da parte il dibattito sul mentale tra realisti ed eliminativisti. Adottiamo una cornice realista o, quantomeno, strumentalista: non chiediamoci niente sull’effettiva cogenza ontologica delle rappresentazioni mentali, non chiediamoci se gli stati mentali sono enti naturali. Osserviamo come si può lavorare attraverso il ricorso alla nozione di rappresentazione mentale, che ha come elemento teoretico che la definisce la nozione di intenzionalità, in modo da vedere che cose si può ricavare, con un focus sul rapporto tra la visione e l’azione. Secondo la teoria della mente più diffusa delle scienze cognitive odierne, gli stati mentali sono rappresentazioni e la cognizione un processo di trasformazione (elaborazione) di tali rappresentazioni (concezione cognitivista). La percezione 35 visiva, in quanto parte (periferica) dei processi cognitivi (è quel momento in cui si ha la prima elaborazione dello stimolo visivo) secondo la concezione standard, ha tre caratteristiche: 1. Rappresenta l’ambiente: fornisce informazioni sull’ambiente circostante al sistema cognitivo che contraddistingue un agente; 2. Modifica gli stati mentali epistemici (es. credenze) dell’agente: se un soggetto è dotato di credenze, la percezione visiva è in grado di modificarle; 3. Guida le azioni dell’agente: la percezione visiva, per quasi tutte le azioni che coinvolgono l’interazione del corpo con l’ambiente, svolge un ruolo fondamentale per guidare l’esecuzione dell’azione. Domandiamoci dunque: in che modo la percezione visiva assolve i compiti 1-3? Cerchiamo di comprendere in che modo è stata connotata la percezione visiva all’interno di quelle che sono le sciente cognitive contemporanee; per fare questo, è necessario fare un passo indietro. Facciamo riferimento ad una tradizione nobile, che ha caratterizzato soprattutto lo sviluppo della filosofia della percezione visiva occidentale: questa concezione può essere etichettata come concezione fotografica della visione. È un modo di caratterizzare la percezione visiva particolarmente affine al nostro modo di parlare di essa, segno che c’è, nella nostra cornice concettuale più naturale e immediato, un sedimentarsi di alcune assunzioni che riguardano proprio il modo in cui viene elaborata l’informazione visiva. Questa concezione fotografica della visione ha i suoi padri in alcune figure note non solo della storia filosofia, ma anche della storia della scienza: Keplero, in Ad Vitellionem Paralipomena (1604), scrive: “La visione si verifica quando un’immagine del mondo che è davanti all’occhio si riflette sulla superficie concava e rosseggia della retina. In che modo quest’immagine o questa raffigurazione si unisca agli spiriti visivi che risiedono nella retina e nel nervo, e se questa sia chiamata in giudizio interiormente dagli spiriti che risiedono nelle caverne del cervello - questo, dico, lo lascio ai filosofi naturali da stabilire.” Due sono gli aspetti interessanti di questo estratto: il primo è che ci sono immagini del mondo che si trovano, secondo Keplero, sulla superficie di una parte del nostro occhio. Quest’immagine è un oggetto che è al centro del processo di elaborazione della visione e si unisce a qualcos’altro, che Keplero chiama “spiriti visivi”, ovvero quelle capacità che contraddistinguono un agente intelligente e che permettono di acquisire e trasformare anche in conoscenza le immagini che si riflettono sulla retina. L’altro elemento interessante è che questa unione di immagini, ovvero gli spiriti visivi, permettano poi la formulazione del giudizio. Questa unione tra immagine e stati mentali, per Keplero, permette la formulazione dei giudizi. Keplero può descrivere come anatomicamente possono avvenire questi fenomeni, ma del modo in cui queste immagini si combinino con gli stati mentali è secondo lui compito dei filosofi. C’è, in altre parole, da fare un’ulteriore immagine per capire in che modo si combinino questi elementi per dar vita al giudizio. Tuttavia, al centro della percezione visiva, c’è sempre l’elemento dell’immagine che si riflette sulla retina. Sono tante le possibili citazioni che si possono trarre da questa fase della storia della percezione visiva. Cartesio, nella Diottrica (1635), formula una torria della visione, che riprende alcuni espetti già presenti in Keplero e che probabilmente circolavano nel contesto dei filosofi naturali all’interno del quale egli si muoveva. Scrive Cartesio: “Le immagini degli oggetti non si formano così così soltanto sul fondo dell’occhio, ma vanno ancora al di là, fin nel cervello, di là potrei trasportarle ancora fino ad una certa piccola ghiandola, posta all’incirca nel mezzo di due cavità, che è propriamente la sede del senso comune. […] Potrei andare oltre e mostrarvi come questa figura possa talvolta di là, attraverso le arterie di una donna incinta, raggiungere qualche organo determinato del bambino che essa porta nel suo grembo e formarvi quei segni di voglie che causano tanto stupore in tutti i dotti.” Cartesio va oltre quanto detto da Keplero: per lui è proprio l’immagine che viene trasportata, attraverso una serie di eventi di tipo meccanico, ovvero un sistema di vibrazioni (i nervi per Cartesio non sono altro che corde che vibrano). Questo modello, secondo Cartesio, permette di spiegare anche come certi altri fenomeni possono essere determinati, come l’origine delle voglie. Quello che è rilevante è la caratterizzazione iconica della visione o concezione fotografica di Cartesio. Il paragone con la macchina fotografica, ovviamente, a Cartesio mancava, ma noi siamo in grado di elaborare tale analogia. Possiamo pensare infatti che l’esperienza visiva non sia altro che il risultato dell’elaborazione e della messa in sequenza di una serie più o meno dettagliata di immagini, ognuna delle quali presenta il mondo da una particolare prospettiva o, come è più opportuno dire in questo caso, da un particolare punto di vista. Ricordiamo modelli di tipo sperimentale, come quello di Hubel e Wiesel, che oggi guidano gli studi in ambito cognitivo sull’elaborazione dell’informazione visiva. Questo modello si chiama elaborazione gerarchica dell’informazione visiva. Le assunzioni di fondo sono l’idea che la corteccia occipitale sia divisa in aree funzionali, gerarchicamente connesse, in cui si ha un’elaborazione, con gradi di complessità crescenti, dell’informazione visiva, che infine permette di ricostruire il percetto visivo in una fase alta della processazione visiva. Potremmo andare oltre e dire che il soggetto ha anche delle etichette semantiche da associare a questa rappresentazione complessa, riuscendo a elaborare concetti. In ultima istanza, con approssimazione, potremmo dire che questo modello è una sofisticazione della concezione che già si ritrovava in Keplero ed in Cartesio - una concezione di tipo fotografico, iconico della visione. Hubel e Wiesel, negli anni ’50 e ’60, lavoravano sulla percezione visiva, cercavano un modello per descriverla. Come modello animale, i due ricercatori utilizzavano i gatti. Attraverso una serie di elettrodi posti in prossimità della corteccia occipitale dell’agente, in questo caso il gatto, si rilevava l’attività elettrica a seguito della somministrazione di immagini al 36 soggetto. Leggendo il resoconto di questa scoperta, per la quale i due scienziati hanno vinto un Nobel, essi raccontano di essersi trovati inizialmente spaesati: non si capiva perché certi claster si attivassero. Ad un certo punto, inserirono male una diapositiva all’interno del proiettore e si presentò una linea diagonale sullo schermo: l’elettrodo iniziò a rimandare segnali particolari, che scomparvero subito dopo che la diapositiva venne rimessa al suo posto. Nasce l’ipotesi che ci fosse una sensibilità nella corteccia per imagini geometriche basilari. Da questo è scaturita la ricerca successiva, che ha confermato e raffinato questa ipotesi. In questo modello, che è il modello classico, il ruolo della corporeità, intesa come quel sistema di proprietà morfologiche e dinamiche dell’agente, sembra essere molto poco rilevante. Certo, è rilevante il fatto che il soggetto abbia degli occhi posti sul lato anteriore della nuca, ma tutto il resto, come l’avere cinque dita o il saper afferrare un oggetto sembrano del tutto irrilevanti rispetto alla percezione. Anzi: secondo questa concezione, è la percezione, semmai, che ci rende abili. Scopriremo invece che il processo è inverso, secondo le scienze cognitive odierne: è l’azione che guida la percezione e non viceversa. Lezione 14 25.11.2020 L’azione nella cognizione Abbiamo iniziato a descrivere una contrapposizione tra due modelli della cognizione, dell’elaborazione delle informazioni che sono utilizzate per spiegare il comportamento degli agenti all’interno delle scienze cognitive. Le scienze cognitive odierne, quasi sempre, adottano un paradigma di tipo rappresentazionale, che implica l’attribuzione di contenuti rappresentazionali, cioè informazioni (che sono anche cause delle azioni), a parti del sistema cognitivo. Questa è la teoria della mente rappresentazionale, anche detta cognitivismo classico. Ma non basta dire che i sistemi cognitivi sono elaboratori di informazioni: occorre anche stabilire quali sono queste informazioni, che formato abbiano, in che modo siano veicolate e quali parti del sistema siano coinvolte nella processazione dell’informazione per un certo task cognitivo (ovvero l’esecuzione di un particolare comportamento finalizzato al raggiungimento di una condizione finale che può essere interpretata come una soluzione di un problema, una condizione adattativa o altro). Ci siamo concentrati su un particolare ambito della cognizione: la visione. La visione è considerata uno dei possibili momenti iniziali del processo cognitivo, è il momento in cui la stimolazione viene ad essere tradotta in informazione. Nella concezione cognitivista classica si distinguono tre fasi: 1. La fase iniziale di input, in cui è presente anche il momento della traduzione. Dalla stimolazione dell’organo di senso che funge da recettore, occorre delineare una traduzione della stimolazione, che di solito è un processo meccanico o chimico, a seconda del sistema sensibile che si prende in oggetto; da questo momento si deve delineare un processo per tradurre in informazione, in rappresentazione. 2. La fase della processazione: all’interno del sistema cognitivo avviene una trasformazione dell’informazione, della rappresentazione, che permette in ultima istanza di determinare la terza fase. 3. La fase finale dell’output, dell’esecuzione dell’azione del comportamento particolare. Noi ci siamo concentrati sulla prima fase, quella iniziale. Abbiamo detto che c’è una tradizione, piuttosto remota e ancora presente all’interno del nostro modo di parlare della visione, che vede nella visione una sorta di processo di tipo fotografico. Cos’è la concezione fotografica della visione? All’interno di questa concezione, la visione è un processo di rappresentazione di tipo pittorico, cioè la visione è essenzialmente acquisizione ed elaborazione di immagini che, nel modello di Hubel e Wiesel, sono identificate con icone 37 soltanto motorie, ma sono anche legate a processi di tipo visivo. Si sono accumulate evidenze che mostrano come l’attivazione di aree della corteccia motoria e pre-motoria siano indotte dalla percezione visiva di oggetti dell’ambiente. Un Chao e Martin, nel 2000, hanno svolto un esperimento nel quale si somministravano stimoli visivi a soggetti che si trovavano all’interno di un scan, capace di rilevare la particolare attività di aree del sistema nervoso (una RMF o fMRI, una risonanza magnetica funzionale, che misura indirettamente la quantità di sangue che si trova in una particolare area; l’aumento del flusso di sangue in una particolare area del sistema nervoso centrale è interpretato come un aumento dell’attività di questa porzione del sistema nervoso, in quanto la molta attività richiede anche una molta ossigenazione, che giunge grazie al flusso di sangue). Al soggetto posto dello scan vengono, in particolare, mostrate immagini di oggetti manipolabili, afferrabili con la mano e utilizzabili, come una penna, un martello, una tazza, e oggetti non manipolabili, ovvero un volto o oggetti troppo grandi per essere afferrati. Si riscontra che, nell’osservazione di oggetti manipolabili, si hanno attivazioni somatotopiche delle aree della corteccia pre-motoria che regolano la funzione della mano, che sono le stesse aree che il soggetto utilizza quando afferra veramente quell’oggetto. Il sistema motorio, dunque, non è un sistema esclusivamente motorio, ma è un sistema che ha anche delle implicazioni nella percezione visiva. Un’altra evidenza, precedente a quella di Chao e Martin, è quella proposta da Murata e altri neuroscienziati, che ha portato alla scoperta dei neuroni canonici. I neuroni canonici sono gruppi di neuroni che si trovano nella corteccia pre-motoria dei macaco, che si attivano sia quando il soggetto esegue della azioni (ad esempio afferra qualcosa), sia quando il soggetto semplicemente osserva un oggetto, senza avere intenzione di eseguire azioni. Si tratta di neuroni di tipo viso-motorio. Ci sono poi molti modi di raffinire queste funzioni. Negli anni si sono aggiunti numerosi esperimenti sulle funzioni visive del sistema motorio. Nell’esperimento del 2011 di Cardellicchio (Lo spazio delle possibilità di azione), si misurano le attivazioni del sistema motorio periferico, in particolar modo legate ad una specifica parte della mano del soggetto, mentre il soggetto osserva. Le attivazioni della muscolatura di quella parte della mano sono collegate alle corrispondenti zone della corteccia. Il soggetto e fermo di fonte ad un tavolo, le sue mani sono ferme sul tavolo, c’è una misurazione dell’attività elettrica di quella particolare porzione della mano. Quando il soggetto osserva una situazione in cui è presente una tazza su un tavolo nello spazio vicino a lui, si ha un picco dell’attività elettrica. La tazza è nello spazio peripersonale, è vicina al soggetto, si trova nel suo spazio di azione. Quando la tazza si trova lontana dal soggetto, in una situazione come questa, non si ha alcuna attivazione. In questo caso la tazza è in uno spazio extrapersonale, lontana dalla possibilità di essere raggiunta. C’è una codifica, in ultima istanza, nell’attività elettrica del sistema motorio, dello spazio delle possibilità di azioni visive, distali! Come controllo è stato usato un oggetto non afferrabile, un cubo. Si mostra che quando questo cubo non afferrabile è nello spazio peripersonale non si ha nessun picco di attivazione elettrica, allo stesso modo in cui non si hanno nel caso in cui il cui è posto al di fuori dello spazio di azione. Questa distinzione tra spazio peripersonale e spazio extrapersonale è nota da molto tempo grazie allo studio sui primati. Lo spazio peripersonale è lo spazio che è definito dal raggio delle mie possibilità d’azione, lo spazio extra-personale è lo spazio al di fuori di questo mio raggio di possibilità di azione. Q u e s t a c o d i f i c a d e l l o s p a z i o è f a t t a simultaneamente dal punto di vista visivo e dal punto di vista motorio: vi sono congiunte insieme, cioè, informazioni di tipo visivo e informazioni di tipo motorio. Lo si è mostrato anche attraverso uno studio su alcuni macachi, del 1996, in cui Iriki e altri scienziati, mostravano come l’attività dei neuroni che sono predisposti alla manualità del macaco fossero sensibili alle possibilità visive di 40 azione nello spazio e come queste possibilità visive potessero essere manipolate attraverso l’utilizzo di attrezzo. L’esperimento si svolge in questo modo: il macaco viene posto di fronte a degli oggetti (di solito cibo) che si trovano nel suo spazio peripersonale. L’attività dei neuroni della corteccia motoria del macaco, che sono funzionalmente legati alla prensione, si attivano, perché la sola visione di questi oggetti nello spazio peripersonale sollecita l’attività motoria. Si sposta dunque il cibo e lo si pone al di fuori dello spazio peripersonale: ne consegue che non c’è più attività elettrica nei neuroni della mano del macaco. Si consegna allora al macaco uno strumento, un rastrellino da Croupier e si insegna al macaco ad utilizzarlo. Si prende dunque nuovamente il cibo e lo si pone nello spazio extrapersonale del macaco. Se il macaco ha in mano il rastrello, allora l’attività elettrica dei neuroni che rappresentano le abilità motorie della mano si attivano, senza che il macaco si muova, agisca. Se poi aggiungiamo che questo tipo di attivazione non è differita ma è molto rapida (entro i 1200 millisecondi), che significa che non è un’attività inferenziale, ma un’elaborazione strettamente congiunta alla processazione visiva, quello che se ne trae è che il sistema motorio è coinvolto nell’elaborazione visiva delle stimolazioni ambientali. Il modello che oggi è utilizzato per spiegare questo tipo di fenomeni è il modello di Goodale e Milner (1992), che prende il nome di modello a due vie. Nella visione, secondo questo modello duale della percezione visiva, esistono due grandi processi computazionali distinti: -La via ventrale, deputata alla rappresentazione concettuale dello spazio visivo. Questa va dalla corteccia occipitale fino alle aree temporali e poi prosegue nelle parti più frontali del sistema nervoso centrale. -La via dorsale, deputata alla rappresentazione motoria dello spazio visivo. Questa va dalla corteccia visiva fino al lobo partietale, fino alla corteccia motoria. Ci sono dunque due vie di elaborazione dell’informazione, che hanno funzioni diversi. Mentre la via ventrale è associata all’interpretazione delle stimolazioni visive in termini di tipo semantico, ed è chiamata la via del “cosa”, del riconoscimento dell’oggetto, la via dorsale è invece legata a funzioni di interpretazione motoria dello stimolo, ed è chiamata la via del “come”, intesto nel senso inglese del “how to do something”, del “come fare a”. Mentre la via ventrale somiglia, per caratteristiche, al modo in cui noi comunemente descriviamo la rappresentazione visiva, il riconoscimento di qualcosa (attribuzione di un’etichetta, di una caratterizzazione di tipo semantico all’oggetto, che permetta di fare inferenze su quell’oggetto), siamo invece meno avvezzi ad assumere che la percezione visiva sia di per sé, primariamente e indipendentemente dalla concettualizzazione, anche una via per elaborare pratiche di interazione con gli oggetti. Vedere un oggetto, all’interno della via dorsale, significa rappresentarselo come un sistema di azioni potenziali, di modi di interazione possibile. Come hanno fatto Goodale e Milner a sostenere che ci fossero due vie? Essi si sono basati su una serie di lavori che già dalla fine del Novecento avevano identificato alcuni elementi rilevanti per poter distinguere due canali di elaborazione dell’informazione. In questi casi si lavora sulla disponibilità, in prima battuta, di soggetti che presentano delle anomalie o dei danni nella corteccia che interessa esaminare. La dissociazione funzionale è un modo per poter comprendere quali sono le funzioni di aree della corteccia cerebrale. Si scopre ad esempio che una lesione alla via ventrale, in particolare modo alla sua parte iniziale, determina forme di agnosia visiva. L’agnosia visiva è una particolare patologia che ha questa caratteristica: il soggetto ha una compromessa capacità di riconoscere l’identità semantica degli oggetti, ma mantiene intatta la sua capacità sei interagire funzionalmente con essi. Soggetti che soffrono di agnosia visiva hanno un comportamento di questo tipo: se gli si pone davanti un oggetto di utilizzo comune che essi conoscevano prima di avere il danno, non sono in grado in nessun modo di dire che cos’è. Questi soggetti, è utile ricordarlo, non hanno nessun altro problema di tipo cognitivo: sono hanno problemi nella formulazione di ragionamenti inferenziali, nell’articolazione del linguaggio, sono in grado di parlare e di raccontare storie su di sé e sul mondo, ma non sono in grado di riconoscere semanticamente alcuni tipi di oggetto. Tuttavia, se gli si chiede di utilizzare quell’oggetto, sono in grado di farlo in modo consono: sanno interagire con l’oggetto, ne hanno una comprensione motoria. Un altro tipo di dissociazione riguarda il danno alla via dorsale. Il danno alla via dorsale, in particolar modo nell’area parietale, determina casi di atassia ottica, una particolare patologia in cui il soggetto ha un’intatta capacità di riconoscere identità semantica degli oggetti, ma ha una compromessa capacità di interagire funzionalmente con essi. Attenzione: anche in questo caso il paziente non è compromesso a livello scheletro-motorio. In altre parole: un soggetto che ha 41 un’inibizione nell’area parietale, in particolar modo in quell’area che interrompe il canale dorsale è in grado di nominare gli oggetti, di spiegare come funzionano, ma nel momento in cui gli si chiede di utilizzarli, di afferrarli, non è in grado di individuare possibilità di azione. Afferra l’oggetto con enorme ritardo, in modo molto goffo e del tutto innaturale. Il soggetto, cioè, non è in grado di associare lo stimolo all’esecuzione di un’azione. Il fatto che danni o inibizioni in punti diversi della corteccia producano effetti totalmente opposti, come l’agnosia e l’atassia, permette di inferire l’ipotesi che vi siano due modi indipendenti, almeno prima facie, di processare rappresentazioni dell’oggetto: una rappresentazione di tipo semantico (nella via ventrale) e una rappresentazione di tipo motorio (nella via dorsale). Osserviamo un ultima evidenza, che riguarda l’accesso fenomenico alla visione. Il riconoscimento semantico della via ventrale è anche di solito associato ad una consapevolezza fenomenica della stimolazione visiva, mentre la via dorsale, l’elaborazione di tipo motorio sembra essere priva di una consapevolezza di tipo fenomenico, di una manifestazione di tipo fenomenico: io non accedo fenomenicamente alle rappresentazioni motorie degli oggetti, ma accedo fenomenicamente alle rappresentazioni che mi permettono di categorizzare semanticamente gli oggetti. Come lo possiamo disamorare? Uno degli esperimenti più curiosi è quello proposto nel 1995 da Aglioti. A sinistra vediamo la famosa illusione di Ebbinghaus. La manifestazione fenomenica di questa stimolazione, il modo in cui descriviamo questa particolare scena è la seguente: alla nostra sinistra vediamo una pallina grande circondata da molte palline piccole, alla nostra destra una pallina piccola circondata da molte palline grandi e c’è una differenza di grandezza tra le due palline al centro, infatti la pallina di sinistra ci appare più piccola di quel la a destra. Questa è la nostra fenomenologia: la manifestazione fenomenica, i qualia che si manifestano sono che ci sono due pallini bianchi di dimensioni diversi. Questo è il modo in cui noi interpretiamo questa manifestazione fenomenica. Sappiamo però che questi due pallini, in realtà, hanno la stessa misura: il pallino di sinistra è identico a quello di destra. Siamo, per l’appunto, di fronte ad un’illusione. C’è una manifestazione qualitativa che è ingannevole. Aglioti e gli altri scienziati del suo team si sono chiesti: se abbiamo un inganno di tipo fenomenico legato al modo in ci appaiono queste cose, per cui descriviamo semanticamente questo fenomeno erroneamente, dobbiamo anche inferire che la nostra rappresentazione motoria di queste due palline sia ingannata? Tutti e due i nostri modi di intendere percettivamente, visivamente, sia quello semantico che quello motorio, sono ingannati? Gli scienziati hanno mostrato così che, nel momento in cui si chiede al soggetto di afferrare una versione 3D di questa illusione, il sistema motorio non è ingannato, l’agente che si muover per afferrare la pallina di sinistra e la pallina di destra compie lo stesso tipo di movimento cinematico. I modi e i tempi con cui apre le dita della mano, non sono diversi nei due casi e questo non è compatibile, invece, con la rappresentazione fenomenica consapevole che abbiamo di questi due pallini. Se l’azione fosse guidata dalla nostra rappresentazione fenomenica, si dovrebbe infatti misurare una variazione nei modi e nei tempi con cui il soggetto apre la mano: ma questo non si verifica. Dunque l’azione, in questo caso, non è guidata dalla consapevolezza, ma da una rappresentazione indipendente da quella di tipo semantico e consapevole: una rappresentazione di tipo motorio, che è veicolata dalla via dorsale della percezione visiva. Lezione 15 1.12.2020 La mente estesa I Abbiamo visto alcune evidenze sperimentali che riguardano il rapporto tra la cognizione visiva e alcune parti del sistema cognitivo che, in prima istanza, non sembrano in alcun modo avere a che fare con la processazione visiva. Se accettiamo una concezione fotografica (o pittorica) della percezione visiva, non vi sono ragioni per ipotizzare che il sistema motorio sia coinvolto nell’elaborazione dell’informazione visiva: prima facie, si tratta di due elementi distinti della cognizione. Difatti il modello classico della cognizione, all’interno del quale si trova anche la concezione fotografica della percezione 42 sono estesi ad un sistema che coinvolge sia stati cerebrali sia stati che cerebrali non sono (si potrebbe dire: il mondo inteso come una porzione dell’ambiente esterno). Per poter dire questo, i due filosofi hanno bisogno di un argomento. La domanda che essi si pongono inizialmente è proprio questa: dove finisce la mente e finisce i mondo? Clark e Charlmers prendono ad esempio tre casi di studi che vengono comparati, tre casi di problem solving. Il primo task mentale è un caso cognitivo semplice, elementare, rispetto al quale si misurano anche le attività mentali dei bambini - quello della rotazione mentale; per superarlo, occorre fare ipotesi riguardo alla relazione tra certi solidi, che sono disponibili nell’ambiente, e certi fori che sono presenti in questi solidi. La rotazione mentale è un processo cognitivo che viene eseguito, fin dall’infanzia, senza il bisogno di artefatti. Il secondo caso è quello della rotazione assistita, in cui si ha un’interazione con un sistema esterno. L’esempio scelto da Clark e Charlmers è quello del gioco del Tetris: come nel caso precedente, si deve essere in grado di far combaciare una figura con uno spazio, con una posizione che si delinea, una sorta di ambito nel quale la figura può o non può entrare. Per agevolare questo compito, dal momento che c’è anche un elemento di pressione temporale, il soggetto ha la possibilità di bypassare il processo di ipotesi o di immaginazione (il processo di rotazione mentale) premendo sul device uno tasto che fa il lavoro al posto suo, ovvero fa ruotare la figura in modo da delirare tutte le possibilità tra le quali scegliere e dunque far scegliere al soggetto quale si queste possibilità utilizzare. Questa è un’agevolazione molto rilevante nell’esecuzione del task. C’è una sorta di attribuzione di una funzione che, se nel primo caso veniva svolta all’interno del SN del soggetto, in questo caso vengono svolte nel device e non nel SNC. Il soggetto, solamente con un’interazione causale dovuta alla pressione del dito sul tasto, attiva le funzioni del device adibite all’elaborazione delle ipotesi che definiscono le relazioni tra spazio e figura. Il terzo caso è quello della rotazione artificiale: immaginiamo un soggetto con un deficit cognitivo, per cui quelle aree che soggiacciono alla processazione delle informazioni necessarie per eseguire una rotazione mentale sono danneggiate o non disponibili; ipotizziamo dunque di essere in grado di sostituire queste aree con delle neuro-protesi, capaci di formulare le ipotesi per poter delineare una relazione tra il solido e il foro. Qual è l’analisi di Clark e Charlmers? Nel primo caso sembra ovvio che il processo che permette la rotazione mentale sia un processo cognitivo. Si tratta di un processo svolto all’interno del SNC, dunque del sistema cognitivo naturale e nessuno avrebbe dubbi nel considerarlo un processo cognitivo. Nel terzo caso ci sono due intuizioni forti: qualcuno direbbe che questo non è un processo cognitivo, perché è svolto da qualcosa che non è un neurone. Questo, secondo i due filosofi, è un caso di siovinismo: l’unica ragione per negare al caso 3 una validità di tipo cognitivo è perché è di una materia diversa. Questa non è l’intuizione comune che si ha all’interno delle scienze cognitive: già a partire dalla comparsa del funzionalismo, la natura materiale del substrato diventa poco rilevante, quando invece è rilevante la funzione di questo substrato. Se si è funzionalisti, insomma, non si ha la tendenza a negare al terzo caso un valore di tipo cognitivo, perché sono le funzioni ad intricare gli stati mentali e i processi cognitivi e, se quella neuro-protesi svolge le stesse funzioni che avrebbe svolto un sistema neurale, allora non abbiamo ragione di distinguere tra cognizione artificiale e naturale, se non per il materiale che la implementa. Il caso 2, secondo i due studiosi, è il caso più interessante: il processo di computazione non è interamente svolto all’interno dei confini del corpo del soggetto, ma è demandato parzialmente ad una serie di eventi che accadono all’interno del device, che è in questo caso lo smartphone. Quello che accade all’interno del device e che implementa l’elaborazione dell’informazione necessaria per poter manifestare la rotazione delle figure è un processo cognitivo? 45 L’intuizione che hanno Clark e Charlmers è che sì, quello è un processo cognitivo e non possiamo non accettarlo se consideriamo il caso 3, ovvero quello della neuro-protesi, un processo cognitivo. Come abbiamo detto, se si è funzionalisti non si ha ragione di porre un vincolo di perimetro, nemmeno in questo caso. Un funzionalismo, che è la corrente che guida le scienze cognitive classiche, non ha come criteri di identificazione la localizzazione. Una conseguenza di questa impostazione, dunque, è che anche nel caso 2 abbiamo un’occorrenza di tipo cognitivo, che però non è elaborato all’interno del soggetto. Questo porta Clark e Charlmers a formulare il principio di parità. Il principio di parità è il cuore della teoria della mente estesa di Clark e Charlmers, recita: “Se una parte del mondo funziona come un processo che, se fosse eseguito all’intento del SNC, noi non avremmo esitazione a considerare come una parte del processo cognitivo, non dovremmo avere nessuna esitazione a considerare quella parte come una parte di un processo cognitivo.” Questo principio stabilisce una parità funzionale dei processi cognitivi: sono solo le funzioni ad essere rilevanti, non i materiali, non le dislocazioni spaziali dei processi cognitivi. Emergono alcune difficoltà in relazione ad un’estinzione come questa. La prima è di tipo intuitivo: la mia mente è qualcosa che abita il mondo, che vive fuori di me, che può essere osservata da e condivisa con altri. Se i miei processi cognitivi non sono nascosti dall’involucro del mio corpo, allora possono essere visti. Tuttavia, ormai da decenni i nostri processi cognitivi non sono più nascosti, secondo i due ricercatori: è solo il prodotto di un retaggio di tipo dualista, che tende a farci identificare i nostri processi cognitivi con una dimensione nascosta. Tuttavia, da quando ci sono tecnologie che permettono l’analisi dei processi materiali che avvengono all’interno del SN, è possibile fare inferenze riguardo ai processi cognitivi che occorrono all’interno di un agente e superare questa barriera. Un’altra contro-intuitività apparente riguarda la possibilità di separarsi da o di disattivare temporaneamente un processo cognitivo. Pensiamo al caso del device e del Tetris: se quello che accade all’interno del device è parte dei miei processi cognitivi, questo significa che io posso disattivare parte dei miei processi cognitivi spegnendo il device. In realtà, sebbene questo risulti contro-intuitivo, secondo Clark e Chalmers può accadere che spegniamo alcune parti del nostro sistema cognitivo naturale, ad esempio durante il sonno alcune parti del sistema cognitivo hanno un livello di funzionamento molto basso; in altri casi ci sono situazioni in cui possiamo incidentalmente danneggiare temporaneamente alcune parti del nostro sistema cognitivo, per poi riaccendere nuovamente a quelle funzioni e, inoltre, esistono casi di mutazioni delle funzioni, per i quali possiamo sostituire parti del sistema cognitivo con altri parti del sistema cognitivo, che assumono le stesse funzioni delle parti danneggiate. Ci sono dunque molte più analogie tra il funzionamento di sistemi cognitivi naturali e il funzionamento di processi esterni all’agente. Resta un caso particolarmente interessante quello della condivisione vera e propria dei processi cognitivi. Io posso, ad esempio, condividere il veicolo materiale di un processo cognitivo con qualcun altro, posso passare il device, all’interno del quale ho indicato la presenza di una parte del mio processo cognitivo, a qualcuno che su quello stesso veicolo implementa il proprio processo cognitivo. Le conseguenze di questo possono essere interessanti. Lezione 16 2.12.2020 La mente estesa II: teorie non rappresentazionali Dobbiamo guardare alla tesi della teoria della mente estesa cercando di capire se le sue basi teoriche sono solide, se esistono contro-argomenti, se possiamo aggirare questa tesi o dobbiamo invece farcene carico. La teoria della mente estesa è una sfida al senso comune; è interessante nel momento in cui si ha la possibilità di leggere e contestare gli argomenti che permettono di sostenere una tale tesi. Quello che noi dobbiamo fare è prendere ed esaminare le premesse della teoria della mente estesa, che sono due: 46 1. Funzionalismo; 2. Principio di parità. Le teoria della mente estesa è una teoria di tipo ontologico. Ha anche delle conseguente etiche, più o meno desiderabili: tuttavia, il nostro atteggiamento etico deve essere esso da parte dal momento in cui andiamo a giudicare la bontà o il disvalore di una teoria. L’equilibrio sta nella giustificazione delle motivazioni. Percorriamo a ritroso il percorso fatto fino a qui, attraverso le teorie dell’identità e, in particolar modo, la teoria funzionalista, e torniamo dunque ai presupposti della teoria della mente estesa. Se gli stati mentali sono elementi di un network causale e vale quel principio per cui se una parte del mondo, qualsiasi essa sia, svolge una particolare funzione all’interno di un processo causale che, se fosse dislocato all’interno della nostra scatola cranica, noi non esiteremmo a considerarlo come un processo cognitivo, dunque quella particolare funzione è una funzione cognitiva, allora non abbiamo ragione di negare l’etichetta di cognitivo anche a qualcosa che non è collocato all’interno della nostra scatola cranica ma svolge la stessa funzione all’interno di un processo che è teleologicamente orientato ad ottenere un determinato risultato. Un esempio utile a comprendere l’argomentazione di Clark e Chalmers è un esperimento mentale, il cosiddetto esperimento di Otto e Inga. Immaginiamo questa situazione: Inga è una donna sana, normodotata dal punto di vista cognitivo e viene a sapere che il giorno successivo, il 3 dicembre, si terrà, presso il MoMA di New York, una particolare mostra che a lei interessa molto; decide dunque di andarci; Otto, invece, è un soggetto affetto da una patologia per la quale non è in grado di ricordare i propri appuntamenti, di utilizzare le informazioni raccolte attraverso la sua esperienza in modo da determinare il proprio comportamento. Questa patologia potrebbe essere semplificata come una patologia che rende inutilizzabile la memoria di Otto. Anche Otto viene a sapere della mostra del giorno successivo e decide di andarci. Sapendo di essere malato, scrive su un taccuino l’indirizzo del MoMA e le indicazioni per raggiungerlo, passo per passo. Inga non scrive niente sul taccuino ma, in modo naturale, sfruttando i propri ricordi, il giorno successivo raggiunge il MoMA. Nel fare questo, le sue credenze e i suoi desideri riguardo al luogo in cui si trova il MoMA o riguardo alla mostra che lì si tiene hanno un ruolo funzionale nel guidare il suo comportamento. Otto fa la stessa cosa, raggiunge il MoMA, ma lo fa non sfruttando credenze o desideri realizzati dal suo SNC, ma utilizzando stati funzionali realizzati da alcune parti di un taccuino: sono istanziati da un foglio macchiato da inchiostro. Queste macchie sul taccuino svolgono lo stesso ruolo funzionale che hanno svolto i desideri e le credenze di Inga, guidando il comportamento di Otto e permettendogli di raggiungere il MoMA. Si delinea allora la tesi di Clark e Charlmers: nel caso di Inga, i processi cognitivi che hanno realizzato il suo comportamento, sono interni al SNC di Inga, dunque i suoi processi cognitivi sono identici ai suoi stati mentali; nel caso di Otto, invece, i processi cognitivi che hanno permesso di realizzare il suo comportamento sono esterni al suo SNC, ma non possiamo togliere l’etichetta di cognitivo a questi stati, perché hanno avuto la stessa funzione di orientamento che hanno avuto gli stati mentali di Inga. I processi cognitivi di Otto in che modo coinvolgono anche il taccuino? Lo fanno perché Otto ha modificato il taccuino una volta ricevute certe informazioni: la lettura di un manifesto, ad esempio, ha determinato la scrittura sul taccuino di alcune informazioni. c’è un processo circolare di interazione tra Otto e il taccuino che è lo stesso processo che avviene all’interno del corpo di Inga: Inga ha letto lo stesso manifesto che ha letto Otto, quella lettura ha determinato una modifica all’interno del suo SN e questa modifica ha poi determinato il suo comportamento. L’unica differenza è che gli elementi causali che hanno determinato il comportamento di Otto si trovano anche al di fuori di Otto, sul taccuino, mentre quelli di Inga si trovano esclusivamente all’interno del suo corpo. Per Clark e Chalmers, questo esperimento rende evidente come non vi sia alcuna differenza tra i processi cognitivi di Otto e Inga dal punto di vista funzionale; l’unica differenza è la diversa collocazione spaziale. Ma questo non ci può impedire di estendere la mente all’ambiente, almeno che non vogliamo accettare il pregiudizio sciovinista per cui la mente è identica al cervello. Sono le interazioni causali tra l’agente e l’ambiente a rendere possibile l’estensione della cognizione all’ambiente. Pessimo al caso del bastone del cieco. Questo caso era particolarmente interessante anche per Merleau-Ponty. Con l’utilizzo del bastone, il non vedente non sono è in grado di evitare un ostacolo, ma riesce anche a percepire l’ambiente: si tratta di un’estensione del suo corpo, in un certo senso. Pensiamo all’esperimento della scimmia e del rastrellino. Nel caso del bastone del non vedente la cosa è ancora più interessante: il suo spazio peripersonale si estende con l’utilizzo del bastone e questa diventa una componente estesa della sua capacità di percepire tattilmente il mondo. Privare il soggetto del bastone significa privare il soggetto di uno strumento utile per percepire il mondo. Ma, se vale la teoria della mente estesa, potremmo concludere che non solo stiamo privando il soggetto di uno strumento utile, ma stiamo facendo qualcosa di eticamente più saliente: lo stiamo privando di una parte della sua identità cognitiva, di un elemento che identifica i suoi processi cognitivi, come se privassimo qualcuno di un occhio o di una porzione del suo SN adibito all’elaborazione dell’informazione percettiva. C’è una tradizione, che ha le sue origini all’interno della concezione cartesiana, per cui i nostri stati mentali sono accessibili in modo privilegiato da noi che ne siamo legittimi titolari: possiamo accedere facilmente ai nostri stati mentali, diversamente dagli altri, per cui potremmo declinare una differenza: mentre io sono titolare dell’accesso ai miei stati mentali, mentre non lo sono a device esterni, come il taccuino o la memoria di un hard disk. Questo può essere un argomento contro la teoria della mente estesa. Ma davvero abbiamo un accesso privilegiato ai nostri stati mentali? Sì, ma solo se i nostri stati mentali sono stati non materiali; in caso contrario, i nostri stati mentali sono facilmente accessibili anche ad altri. Pensiamo alle neuro-protesi: si tratta di risultati di un’identificazione pubblica degli stati mentali di un agente. Se gli stati mentali sono veramente identici a veicoli materiali, la definizione di stato mentale come accesso privilegiato del soggetto cade. Un altro elemento interessante è il seguente: spesso noi ci inganniamo circa i nostri stati 47 La coscienza d’accesso è definita come l’insieme degli stati mentali del soggetto funzionante coinvolti nella guida dell’azione. La coscienza d’accesso è coinvolta nelle spiegazioni del comportamento indipendentemente dall’effetto qualitativo. Ad esempio, prendiamo il caso del “blind sight”: i soggetti con danni alle aree primarie della visione (V1, V2) non sono in grado di riportare gli effetti fenomenici di tipo visivo, tuttavia sono in grado di individuare la presenza di oggetti nell’ambiente. Analizziamo meglio la situazione: se si chiede di descrivere al soggetto cosa vede in quelle sezioni del campo visivo in cui egli ha subito danni, il soggetto non vede niente, non ha nessun accesso qualitativo a quella porzione del campo visivo; se chiediamo poi al soggetto di fare ipotesi, di buttarsi, di tirare a caso e dunque di affermare se in quella parte del campo visivo c’è qualcosa oppure no, il soggetto, con una statistica molto rilevante, risponde correttamente. Se poi si chiede a soggetto di descrivere anche cosa c’è, sempre attraverso una forma di ipotesi, il soggetto riesce a fornire informazioni statisticamente interessanti riguardo alla natura dell’oggetto che si trova nella sua “porzione cieca”, che è dal punto di vista fenomenica completamente oscura. Questo è molto interessante, perché pone di fronte allo sperimentatore una separazione tra un’informazione di tipo fenomenico e un’informazione che invece non sembra avere una connotazione fenomenica; tuttavia, l’informazione di tipo non fenomenico sembra poter guidare, determinare in qualche modo il comportamento degli agenti, anche nel caso del blind sight. Diversamente dalla coscienza d’accesso, la coscienza fenomenica è definita come l’insieme degli stati mentali a cui è associato un effetto qualitativo in prima persona. Gli stati mentali qualitativi sembrano essere coinvolti nelle risposte alle seguenti domande: - Che effetto fa vedere qualcosa di rosso? Qual è l’esperienza del rosso? - Che differenza c’è tra l’esperienza visiva del rosso e l’esperienza visiva del blu? - Che differenza c’è tra le esperienze degustatore di un Sassicaia 2012 prodotto nella tenuta dell’Ornellaia e uno prodotto nella tenuta di Tignanello? Qual è la differenza dal punto di vista dell’esperienza degustativa che forniscono le due bottiglie di vino? È, insomma, l’esperienza qualitativa ad essere in gioco. La coscienza fenomenica sembra avere un ruolo nel momento in cui poniamo questo tipo di domande. Domanda: che cos’è la coscienza qualitativa? La coscienza, come possibile esperienza, ha tre possibili definizioni: - La dimensione fenomenica vissuta dal soggetto in prima persona; - L’effetto che fa al soggetto ritrovarsi in un certo stato mentale; - Il carattere qualitativo dell’esperienza. Due caratteristiche definitorie della coscienza fenomenica sono: - Il carattere qualitativo (in opposizione al carattere quantitativo); - L’accesso privilegiato (o in prima persona, proprio del soggetto, in opposizione all’acceso pubblico). Ricordiamo che una dimensione qualitativa, almeno prima facie, sembra essere proprio quella dimensione dell’esperienza a cui io ho accesso in quanto titolare di quell’esperienza, ma rispetto alla quale altri soggetti non hanno accesso. Proviamo a vedere la contrapposizione che si delinea tra queste due caratteristiche definitorie della coscienza fenomenica e altre caratteristiche definitorie, ad esempio, di stati mentali non coscienziali, ma intesi in un senso fisicalista, materialista o altri enti naturali. Il carattere qualitativo, come dicevamo, si contrappone alla dimensione quantitativa, che è in gioco quando andiamo a misurare altri tipi di enti. Gli enti naturali, all’interno delle trattazioni dei contesti epistemici naturalistici, vengono individuati all’interno di relazioni spaziali e temporali che sono misurate quantitativamente, cioè è possibile matematizzare le coordinate spaziali e temporali e definire leggi che descrivono le dinamiche degli enti. La dimensione quantitative è alla base dello sviluppo delle scienze naturali. Il carattere qualitativo sembra opporsi a quello quantitativo: ciò che è qualitativo è indipendente, prima facie, dalla misurazione di tipo quantitativo. Sembrano due caratteristiche ortogonali, indipendenti. L’accesso privilegiato è un altro elemento che si contrappone ad una caratteristica definitoria degli enti naturali, che hanno un accesso pubblico: esperire o misurare un ente naturale, all’interno di un setting sperimentale, ad esempio, è un presupposto che permette lo sviluppo di una scienza empirica, sperimentale. Del resto, gli enti naturali ai quali ci riferiamo nella vita di tutti i giorni sono enti che hanno una manifestazione pubblica, su cui è possibile rivolgere uno sguardo insieme ad altri e dunque condividere giudizi. Un accesso privilegiato, lo abbiamo detto, rende impossibile lo sviluppo di una misurazione condivisa e, dunque, anche lo sviluppo di giudizi di tipo condiviso, è come una barriera rispetto alla collettivizzazione dei giudizi. Se queste sono le caratteristiche definitorie di una coscienza fenomenica, allora va da sé, seguendo anche l’impostazione che abbiamo dato alla discussione, che ci sia una sorta di scontro con un intento, un’intenzione che si è sviluppata in particolare modo dalla seconda metà dell’Ottocento, ovvero quell’intenzione di dar conto del mentale all’interno di un contesto naturalistico attraverso aka descrizione, l’identificazione degli stati mentali nell’alveo degli enti naturali e, dunque, di dar luogo a spiegazioni del mentale che siano consistenti con le spiegazioni delle scienze naturali. La domanda che possiamo porci è la seguente: è possibile una definizione naturalistica del concetto “coscienza fenomenica”, nonostante le sue caratteristiche definitorie? Il tema della coscienza fenomenica è uno dei grandi temi della filosofia della mente contemporanea. È un tema affascinante perché tocca uno degli elementi più sensibili della nostra definizone di mente, cioè quella particolare connotazione che rende interessante l’avere una mente di tipo fenomenico. Tuttavia, attorno alla definizione di coscienza fenomenica si gioca una partita molto complessa e articolata. Oggi si parla, come istituzione del problema, di “problemi difficili del mentale” indicando nella definizione stessa di coscienza fenomenica uno dei problemi principali della filosofia della mente. 50 Riguardo alla naturalizzazione della coscienza fenomenica, come dicevamo, si gioca una partita teoretica molto importante e si presentano alcune definizioni. 1. C’è, prima facie, una parte della comunità filosofica che risponderebbe sì alla domanda: “È possibile naturalizzare la coscienza fenomenica?” e, nel rispondere in tale modo, si delineano innanzitutto due diverse prospettive teoriche: una di tipo eliminativista e una che può essere chiamata dell’identità. La prospettiva eliminativista è quella prospettiva per la quale la coscienza fenomenica non esiste: parlare di coscienza fenomenica significa parlare di un costrutto teorico falso, ci stiamo illudendo attraverso la fiducia in una tradizione che si è ormai radicata all’interno della filosofia occidentale per cui ha senso parlare di effetti soggettivi, qualitativi, privati. È qualcosa che rimanda ad una sorta di mitologia, di fede, che si è talmente inserita all’interno della nostra cultura che ormai non ci rendiamo nemmeno più conto di illuderci di fronte a giudizi come quelli che riguardano la coscienza. In realtà, non c’è niente di qualitativo e privato, oppure siamo di fonte a mere convenzioni, che sono utili per identificarsi all’interno di una rete di relazioni con gli altri, perché ci sono pratiche primariamente di tipo linguistico che ci vincolano all’utilizzo di una terminologia che rimanda ad elementi di tipo qualitativo, ma in ultima istanza questi termini non catturano niente che abiti nel mondo. Pesiamo all’esempio del coleottero nella scatola di Wittgenstein! Sostituiamo al termine “coleottero” l’espressione “proprietà qualitative della coscienza”. Oltre a Wittgenstein, altri autori sostenitori di una teoria eliminativista della coscienza fenomenica sono Dennett e Frankish. Per questi autori, la coscienza fenomenica in ultima istanza è un termine che non ha un riferimento nell’ontologia naturalistica. 2. Dall’altra parte c’è una serie di teorie dell’identità, che sono teorie che postulano l’esistenza di qualcosa come identico a qualcos’altro, per cui in questo caso la coscienza fenomenica è qualcosa che esiste e che è identico a stati di tipo materiale che appartengono al soggetto che fa esperienza. Per semplificare, inizialmente possiamo assumere che la coscienza fenomenica sia identica ad una porzione del soggetto che fa quell’esperienza fenomenica e, per rendere la cosa ancora più intuitiva, possiamo dire che la coscienza fenomenica è identica ad una porzione del SNC - del resto ci sono tante evidenze che sembrano suggerirci questo (pensiamo al caso del “blind sight”). Le teorie dell’identità si distinguono ancora una volta in teorie riduzioniste e teorie funzionaliste. Tipi di teorie dell’identità: 1. Le teorie riduzioniste sono quelle teorie per cui la coscienza fenomenica è identica ad un particolare tipo di stato materiale. Lo sguardo, qui, è sulla dimensione fenomenica dello stato mentale, che è solitamente un particolare stato cerebrale. Già in articoli come quelli di Smart e di Place che abbiamo analizzato si prendeva in considerazione la mente fenomenica: si parlava infatti di dolore, ma anche di percezione qualitativa di tipo visivo. Portano avanti questa teoria autori come Smart, Place e Papineau. 2. Dall’altra parte, secondo le teorie funzionaliste la coscienza fenomenica è identica ad uno stato funzionale del sistema nervoso, ad un sistema di relazioni funzionali che descrivono un sistema cognitivo. Alcuni nomi più o meno noti che sostengono queste teoria sono quello di Tye, quello di Edelman e quello di Tononi. Analizziamo più nel dettaglio questi due tipi di teorie. Teorie riduzioniste della coscienza fenomenica, anche dette l’ipotesi del correlato neurale della coscienza (CNC). Particolari tipi di stati di coscienza fenomenica sono identici a particolari tipi di stati cerebrali (dati particolari stati cerebrali, il soggetto è titolare di particolari stati fenomenici e viceversa, è un se e solo se che lega questi due descrittori). 51 Quali sono gli argomenti che si usano per lavorare all’interno di questa cornice? I vantaggi attesi sono di quattro tipi e sono i seguenti: 1. Naturalismo: identificazione naturalistica degli stati di coscienza fenomenica; si può, cioè, dare accesso publico ad uno stato cerebrale, collocandolo all’interno di un’ontologia che è già condivisa, ovvero l’ontologia delle scienze naturali); 2. Semplicità: rispetto del rasoio i Occam (ovvero quell’argomento per cui, se devo spiegare un particolare fenomeno, scelgo quella spiegazione che mi impegna dal punto di vista ontologico di meno); 3. Euristica: sviluppo di una “scienza” della conoscenza. Se gli stati mentali fenomenici sono identici a stati cerebrali di un particolare tipo, infatti, si possono pensare settori delle neuroscienze pensati proprio per lo studio della coscienza fenomenica; 4. Spiegazione: controllo delle relazioni causali coscienza fenomenica - comportamento. È possibili dar conto di quei particolari casi in cui siamo convinti che sia la nostra esperienza fenomenica a guidare il comportamento. Alcuni esempi: - 40-hertz oscillations in thIntralaminar nuclei in the thalamus (Bogen 1995); - Extended reticular-thalamic activation system (Newman and Baars 1993); - Certain neurochemical levels of activation (Hobson 1997); - Certain neurons in inferior temporal cortex (Sheinberg and Logothetis 1997); - Visual processing within the ventral stream (Milner and Goodale 1995). La sfida, qui, è individuare quale sia effettivamente il correlato neurale della coscienza - se il correlato neurale sia una particolare aerea della coscienza o il comportamento, cioè un parametro di attivazione che coinvolge più di un’area, dunque se si tratti di porzioni ristrette o di sistemi di porzioni. Si deve, in altre parole, individuare quali siano i realizzatori attraverso lo studio delle funzioni della corteccia cerebrale. Questa teoria, negli scorsi decenni, è stata un po’ abbandonata perché ha risentito delle obiezioni che erano state già mirate contro le teorie dell’identità dei tipi del mentale (il problema della realizzabilità multipla e delle differenti caratteristiche dei SNC nel momento in cui attribuiamo a quei sistemi anche le stesse proprietà mentali). Le teorie riduzioniste hanno qualche difficoltà nel dar conto della differenza dei realizzatori. Il funzionalismo, invece, punta molto sulla possibilità di dar conto della realizzabilità multipla degli stati mentali e anche in questo caso, tra le caratteristiche che lo connotano nel dibattito, c’è quella di permettere la realizzabilità multipla di coscienze fenomeniche in soggetti diversi. Teorie funzionaliste della coscienza fenomenica o l’ipotesi della realizzazione funzionale della coscienza. Particolari tipi di stati di coscienza fenomenica sono identici a particolari tipi di stati funzionali (date particolari funzioni causali implementate dal sistema cognitivo, il soggetto è titolare di particolari stati fenomenici). Ciò che essenzialmente identifica la coscienza sono relazioni tra parti di tipo materiale, cioè sono relazioni causali tra elementi di un sistema. Queste relazioni causali permettono di identificare gli stati di coscienza fenomenica. Vantaggi attesi: 1. Naturalismo: identificazione naturalistica degli stati di coscienza fenomenica; 2. Semplicità: rispetto del rasoio di Occam; 3. Euristica: sviluppo di una «scienza» della coscienza; 4. Spiegazione: controllo delle relazioni causali coscienza fenomenica – comportamento; 5. Realizzabilità multipla: adattabilità a sistemi materiali diversi. 52 conformazione morfologica e dalle caratteristiche dinamiche che quel corpo possiede. In altre parole: un agente che percepisce l’ambiente individua nell’ambiente, attraverso queste relazioni motorie che si instaurano con esso, le possibilità di azione. Dunque per Gibson percepire significa essenzialmente interagire motoricamente con l’ambiente, la percezione è definita come una relazione di complementarietà tra l’individuo e l’ambiente all’interno del quale egli vive e si muove. La percezione visiva, in particolar modo, è funzionale alla possibilità del soggetto di interagire con l’ambiente per soddisfare le sue esigenze biologiche (l’ambiente è il complemento che permette al soggetto di dar corso alle sue esigenze biologiche, in qualche modo). Percepire le affordance è dunque un qualcosa che non implica rappresentazioni mentali; ma per Gibson non c’è nemmeno niente che possa essere chiamato coscienza o, quantomeno, la coscienza non è rilevante né nella definizone della percezione visiva né nella guida dell’azione che è, in qualche modo, connaturata alla funzione della percezione visiva. Dunque le affordance sono per definizione qualcosa del tutto privo di una caratterizzazione fenomenica: non c’è nessun effetto che fa percepire un’affordance, non è rilevante nella loro percezione l’effetto che fanno o la loro caratterizzazione di tipo qualitativo; nella guida dell’azione (e questo lo abbiamo visto anche con l’esperimento dell’illusione di Ebbinghaus) sembra che l’elemento fenomenico non sia determinante, in molti casi potremmo dire che, nel momento in cui concepiamo una possibilità di azione e diamo corso a quella azione, l’elemento qualitativo-fenomenico non è determinante. Questo apre una serie di interrogativi: se l’elemento qualitativo, l’effetto che fa percepire qualcosa, non è determinante nella guida dell’azione, allora l’elemento fenomenico non sembra essere rilevante causalmente nel determinare il comportamento. Ma allora la caratterizzazione qualitativa della percezione visiva è meramente epifenomenica, non guida l’azione in un senso causale, cioè non è la causa del nostro agire; ma allora sembra che la coscienza fenomenica, almeno quella legata alla percezione visiva, non ha un ruolo nel determinare il nostro comportamento e le nostre decisioni, perciò si può creare una definizione del libero arbitrio legata proprio alla coscienza fenomenica. Alla domanda: cosa guida l’azione? Funzionalismo, rappresentazionalismo ed eliminativismo forniscono una risposta in positivo. Introduciamo adesso un tema che negli ultimi 20 anni è stato al centro delle discussioni di filosofia della mente di natura ontologica. Che cos’è uno stato mentale? Questo problema si è presentato nella seconda metà del Novecento in diverse forme; verso la fine degli anni ’90 è stato proposto nuovamente da David Chalmers sotto la forma di un’interrogativo riguardante la natura degli stati mentali fenomenici e la loro identificabilità con stati materiali. Il contesto all’interno del quale questo problema si pone è un contesto delineato dall’assunto di tipo monista: un assunto materialista, per cui ai problemi legati al dualismo cartesiano si risponde in modo agevole e adeguato con l’assunzione di una cornice di tipo monista. Non basta definirsi monisti per risolvere il problema mente-corpo né dal punto di vista epistemico né da quello ontologico; il monismo si ramifica in varie posizioni, le distinzioni in alcuni casi sono sottili, in altre sono notevoli (pensiamo alle distinzioni tra eliminativismo e realismo). All’interno di questo clima fortemente materialista, si inserisce il dibattito intorno alla natura degli stati mentali fenomenici o qualità. C’è da dire che il tema della natura degli stati mentali fenomenici è stato accantonato in molti casi. Se leggiamo alcuni passi da un testo che è stato il riferimento per buona parte della filosofia della mente degli ultimi decenni del Novecento, The Language of Thought di Fodor, notiamo che non si affronta la connotazione fenomenica degli stati mentali, poiché si tratta di un tema molto delicato e difficile da trattare. Per una ripresa importante del tema, dobbiamo aspettare la fine degli anni ’90 del Novecento, quando esso esploderà, dando vita ad una serie sterminata di pubblicazioni focalizzate adesso attorno ad un problema specifico, ben tematizzato da Chalmers. Ricordiamo preliminarmente una distinzione ormai diventata standard: 1. Coscienza d’accesso: ovvero l’insieme di informazioni che permettono ad un agente di determinare il proprio comportamento, ovvero selezione gli obiettivi, le possibilità offerte dall’ambiente e dar corso così ad una serie di movimenti, di comportamenti che permettano di raggiungere i propri fini, tenendo in considerazione quelle le che sono le caratteristiche dell’ambiente; nel definire la coscienza d’accesso, cioè nel definire questa serie di informazioni, non sembra essere necessario far riferimento ad un altro aspetto della coscienza, che è la sua caratterizzazione fenomenica; 2. Coscienza fenomenica: si parla di coscienza fenomenica quando fa un certo effetto trovarsi in un particolare stato mentale, quando l’essere titolari di uno stato mentale determina, nel soggetto, un effetto di tipo qualitativo; dunque gli stati fenomenici sono stati informazionali connotati qualitativamente o, più in generale, quegli stati mentali di cui si può dire che fa un certo effetto trovarvisi. Nel dibattito degli ultimi trent’anni si è provato a dar conto all’aspetto fenomenico della coscienza all’interno di una cornice di tipo naturalistico, facendo ricorso essenzialmente a quelle concezioni che già abbiamo incontrato, ovvero alle teorie dell’identità, secondo le quali uno stato mentale (sia esso fenomenico o no) è identico, nel caso delle teorie riduzionistiche o teorie dell’identità dei tipi, ad un particolare tipo di stato materiale, nel caso delle teorie dell’identità delle occorrenze o funzionaliste, ad un qualche tipo di stato funzionale - per cui, nella sua versione funzionalista, la teoria dell’identità delle occorrenze prevede che la coscienza fenomenica sia identica ad una particolare funzione, ad un sistema di relazioni, ad esempio causali, che si instaurano all’interno di un sistema cognitivo. Questa trattazione è stata più o meno implicita all’interno del dibattito. Abbiamo fatto alcuni esempi di teorie dell’identità, sia di stampo riduzionista sia di stampo funzionalista, concernenti la coscienza fenomenica: in entrambi i casi i sostenitori di una concezione o di un’atra non erano propriamente filosofi, bensì neuroscienziati o, addirittura, biologi. Il tema della coscienza fenomenica, come abbiamo detto, per alcuni anni è stato un tema nascosto, trattato sottotraccia all’interno della filosofia della mente. Riguardo alle teorie dell’identità si individuano due strategie di discussione critica: 55 1. ARGOMENTI A POSTERIORI: la prima è una strategia a posteriori, ovvero una strategia di analisi che dipende da alcuni condizioni contingenti, meramente fattuali, che contraddistinguono quella particolare teoria dell’identità della quale si vuole discutere. Si può guardare criticamente alle teorie dell’identità ad esempio assumendo che le concezioni fisicaliste, le concezioni funzionaliste della coscienza fenomenica non sono in grado di cogliere e descrivere adeguatamente tutte le proprietà, tutte le caratterizzazioni, tutta la varietà fenomenologia che sono ascrivibili agli stati mentali fenomenici e che contraddistingue la nostra coscienza - ad esempio non sono in grado di dar conto di tutta la variabilità fenomenologica che contraddistingue il nostro vissuto di coscienza. Un’analisi fenomenologia della coscienza è enormemente più vasta e ricca di quelle differenze, di quelle caratterizzazioni (anche le più fini) che sono in grado di fornire le teorie dell’identità. Questo significa che vi è un gap, una distinzione di misura tra quelli che sono i fenomeni da spiegare (la nostra varietà di vissuti fenomenologici) e le possibilità esplicative che certe teorie sono in grado di fornire. Questo tipo di critica si basa appunto su una fotografia dello stato dell’arte attuale, ed è sicuramente un’analisi cogente nel momento in cui cristallizza un problema; tuttavia, come tutti gli argomenti a posteriori, è una critica rivedibile in funzione dei progressi della ricerca empirica delle neuroscienze, ma anche alla luce di una più fine definizione di coscienza e, dunque, anche in funzione di una più fine analisi teoretica. Gli argomenti a posteriori che si possono muovere contro una teoria dell’identità fisicalista della coscienza fenomenica sono argomenti che non impediscono lo sviluppo futuro di queste teorie, sono delle empasse che potrebbero essere aggirate nella futura analisi che si prospetta. 2. ARGOMENTI A PRIORI: diversamente, gli argomenti a propri sono argomenti che mostrano o tentano di dimostrare un’impossibilità di principio, legata ad un’intrinseca contradittorietà della tesi che si vuole verificare. Argomenti a propri avversi alle teorie dell’identità materialista-fisicalista della coscienza fenomenica sono essenzialmente teorie che tendono ad mostrare come come l’identificazione tra stati mentali fenomenici e stati fisici (sia essa una forma di riduzione oppure un teoria delle occorrenze di qualche genere) è inevitabilmente o inadeguata (cioè lascia sfuggire qualche aspetto della coscienza fenomenica) o addirittura intrinsecamente contraddittoria. Pertanto, l’analisi proposta dalle teorie dell’identità riguardo alla conoscenza fenomenica è inevitabilmente insoddisfacente. Si tratta di due strategie generalissime per contestare le teorie dell’identità. Noi ci concentreremo sugli argomenti a priori. I tre principali argomenti a priori che si sono delineati nella seconda metà del Novecento contro una identificazione materialista degli stati di coscienza (dunque contro una concezione di tipo riduzionista o funzionalista della coscienza) sono i seguenti: 1. L’argomento del pipistrello o dell’accesso (Thomas Nagel, 1974); 2. L’argomento di Mary o della conoscenza (Franz Jackson, 1982); 3. L’argomento degli zombie o della concepibilità (David Chalmers, 1996); è proprio quest’ultimo argomento quello che ha rilanciato il dibattito intorno allo statuto ontologico della coscienza fenomenica. Parliamo brevemente dell’utilizzo di esempi che possono apparire, almeno prima facie, stravaganti: si tratta di esempi che rientrano sotto il cappello degli esperimenti mentali. Gli esperimenti mentali sono uno strumento che serve al filosofo per indicare un problema all’interno di una particolare concezione. L’esperimento mentale non è altro che la richiesta al lettore di immaginare una particolare condizione e, sulla base del suo contenuto, valutare una particolare ipotesi - che potrebbe essere quella di una teoria che si intende verificare o confutare (in questo caso l’ipotesi dell’identificabilità di stati menali fenomenici con stati materiali); sulla base del materiale immaginato, è possibile formulare un giudizio riguardo ad una tesi filosofica. Nell’esperimento mentale del pipistrello, proposto da Thomas Nagel nel 1974 nell’articolo What Is It Like to Be a Bat? (che effetto fa essere un pipistrello?), l’autore prima di tutto fornisce una definizione di coscienza: fondamentalmente, dice, un organismo è titolare di stati mentali coscienti fenomenici se e solo se fa un certo effetto di tipo qualitativo essere quell’organismo; questo effetto di tipo qualitativo è proprio l’elemento che definisce la fenomenicità degli stati mentali fenomenici. Data questa definizione, l’autore ci chiede di immaginare qualcosa. Nagel assume che l’immaginazione sia il modo con cui noi possiamo accedere a particolari stati mentali fenomenici, variare la fenomenicità della nostra condizione 56 attuale, spostandoci attraverso i vari stati mentali. Poiché l’immaginazione è una via d’accesso alla dimensione qualitativa degli stati mentali, Nagel chiede di imaginare di essere dei pipistrelli. Sappiamo bene che i pipistrelli usano molto poco la vista per orientarsi nell’ambiente, si basano soprattutto su un sonar, onde sonore prodotte dal soggetto stesso che, rimbalzando nell’ambiente circostante, permettono al soggetto di rappresentarselo ed orientarsi in esso. Dobbiamo dunque chiederci: che cosa si prova ad essere un pipistrello? Che effetto fa? Nagel nota che, per quanto noi possiamo sforzarci di immaginare di essere dei pipistrelli, sulla base di quelle che sono le nostre conoscenze riguardo al funzionamento dell’apparato visivo-percettivo di un pipistrello, non siamo in grado di accedere all’effetto che fa essere un pipistrello. “Vorrei sapere che cosa si prova ad essere un pipistrello, essendo un pipistrello.” Il problema che si incontra quando ci si domanda che cosa si prova quando si immagina di essere un pipistrello, in particolare che cosa si prova a percepire il mondo come lo fa un pipistrello, deriva dal fatto che noi non abbiamo accesso a quella particolare modalità di interazione con l’ambiente che ha il pipistrello, pertanto non siamo in grado di immaginare quale sia l’effetto che fa percepire il mondo in quel modo. A questa inaccessibilità all’esperienza percettiva del pipistrello, secondo Nagel, io non posso trovare una soluzione cercando di perfezionare la mia attuale immaginazione, aggiungendo elementi fenomenici a questo mio tentativo di immaginazione, nemmeno segmentando, categorizzando diversamente questa mia immaginazione, perché vi è una radicale differenza tra il modo in cui io accedo fenomenicamente al mondo e il modo in cui lo fa il pipistrello e questo delinea uno sbarramento tra le due dimensioni fenomeniche. Nota ancora Nagel: questa non è una condizione “esotica”, particolarmente bizzarra: lo stesso problema si pone nel momento in cui, anziché domandarmi che cosa si prova ad essere un pipistrello, mi chiedo che cosa si provi ad essere un soggetto umano diverso da me - un soggetto non vedete, ad esempio. Questo tipo di inaccessibilità si ripropone ogni volta che io provo ad andare oltre i limiti della mia esperienza fenomenica possibile. Proviamo a strutture l’argomento dell’accesso in 9 punti: 1. Qualcosa è uno stato mentale fenomenico se e solo se “fa un certo effetto” essere in quello stato (questa è la definizione di stato mentale fenomenica condivisa nel dibattito); 2. Io sono titolare di uno stato fenomenico se e solo se “fa un certo effetto a me” essere in quello stato (definizione perfezionata di stato mentale fenomenica condivisa nel dibattito); 3. L’immaginazione permette di accedere all’effetto che fa essere in uno stato mentale fenomenico (immaginazione come strumento per esplorare l’effetto che fa essere in un particolare stato mentale); 4. La mia immaginazione è però vincolata all’ambito degli stati mentali fenomenici di cui posso essere titolare (il dominio qualitativo su cui opera lo strumento dell’immaginazione è limitato da quelli che sono gli stati fenomenici di cui il soggetto può essere titolare). Questa è un’assunzione fenomenologica compiuta da Nagel; 5. Per via di (4), posso immaginare l’effetto che fa essere in uno stato mentale fenomenico solo se posso essere titolare di quello stato mentale; 6. Per via di (4) non posso immaginare l’effetto che fa essere in uno stato mentale fenomenico di cui non posso essere titolare; 7. È tuttavia ipotizzabile che esistano individui che sono titolari di stati mentali fenomenici di cui io non posso essere titolare e di cui, pertanto, non posso immaginare l’effetto che fa essere in quello stato (è il caso del pipistrello: io posso continuare ad assumere che il pipistrello sia titolare di stati fenomenici, tuttavia io quegli stati fenomenici che contraddistinguono l’effetto che fa essere un pipistrello che percepisce il mondo non sono stati fenomenici ai quali io posso accedere e questa inaccessibilità non sembra essere eliminabile attraverso una maggiore conoscenza del funzionamento degli stati mentali del pipistrello o attraverso una migliore analisi dei miei stati mentali); 8. Nessuna ipotesi riguardo l’identificazione di stati mentali fenomenici con stati fisici è rilevante per (6); 9. Le ipotesi riguardo l’identificazione fisica degli stati mentali fenomenici non permette di accedere all’effetto che fa essere in uno stato mentale fenomenico. Una possibile obiezione all’argomento dell’accesso è la seguente (che potrebbe essere mossa da un materialista, da un teorico dell’identità tra stati mentali fenomenici e stati fisici): è vero, io adesso non sono in grado di dar conto dell’effetto che fa essere un pipistrello, ma questo potrebbe dipendere dal fatto che le mie attuali conoscenze riguardo al funzionamento dei sonar o al funzionamento in generale dell’apparato percettivo di un pipistrello non sono ben sviluppate; se conoscessimo nei minimi dettagli tutte le correlazioni tra stati mentali fenomenici e stati fisici, allora saremmo in grado di identificare “l’effetto che fa” essere in un particolare stato fisico, anche se non siamo o non possiamo essere in quello stato fisico. In altre parole, il problema di Nagel potrebbe essere un problema a posteriori, cioè un problema determinato da una condizione contingente, dal fatto che non ne sappiamo abbastanza. Proviamo a ridescriverlo in termini meno bizzarri: che cosa si prova ad essere qualcuno che non sono io? Una fisica o una neuroscienza completamente sviluppate ci permetterebbero di inferire “l’effetto che fa” trovarsi in un particolare stato fisico o neurale. Analizziamo adesso l’argomento di Mary o della conoscenza, esposto da Frank Jackson in un articolo intitolato Epiphenomenical Qualia nel 1982. Mary è una super-scienziata, una neuroscienziata che sa tutto delle neuroscienze (non solo quelle attuali, ma tutte le neuroscienze complete, dunque comprende tutte le relazioni funzionali che occorrono nel sistema nervoso); Mary tuttavia è cieca e non ha mai fatto esperienza qualitativa del rosso. Ad un certo punto, date le avanzate conoscenze del contesto in cui vive Mary, il problema di Mary alla vista viene risolto e lei incontra per la prima volta una rosa rossa, per la prima volta nella sua vita fa esperienza del rosso. Si domanda allora Jackson: nel momento in cui Mary fa esperienza del rosso ha aumentato la sua conoscenza oppure l’esperienza del rosso che ha fatto era qualcosa 57
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