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Controlli formali e sostanziali nel trasferimento di titoli esecutivi - Prof. Califano, Sbobinature di Diritto Processuale Civile

Sui controlli formali e sostanziali necessari per valere un titolo esecutivo. Il titolo esecutivo può essere giudiziale o stragiudiziale e richiede un adempimento formale aggiuntivo, noto come 'spedizione in forma esecutiva'. I controlli eseguiti dal cancelliere e dall'ufficiale giudiziario durante la spedizione in forma esecutiva, e le modalità di notificazione del titolo esecutivo e del precetto. Inoltre, viene discusso il principio di esecuzione specifica degli obblighi di fare e di non fare, e le opposizioni a precetto.

Tipologia: Sbobinature

2019/2020

In vendita dal 28/09/2020

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Scarica Controlli formali e sostanziali nel trasferimento di titoli esecutivi - Prof. Califano e più Sbobinature in PDF di Diritto Processuale Civile solo su Docsity! Sbobinatura corso diritto processuale seconda parte Manuale: diritto processuale civile. Volume 3. Processo di esecuzione. Procedimenti speciali. Verde. 1° giorno Tipi di esecuzione: esecuzione di espropriazione forzata, esecuzione in forma specifica La seconda parte del corso di Diritto processuale civile ha ad oggetto il processo esecutivo ed i procedimenti speciali disciplinati nei Libri III° e IV° del C.p.c. Quando parliamo di processo di esecuzione ci interessiamo ad una fase, ad una modalità di tutela giurisdizionale ben differenziata dalla cognizione; infatti, la tutela esecutiva, serve a garantire l’attuazione forzata di un diritto, ad esempio: Tizio ha ottenuto una sentenza di condanna con la quale Caio è stato condannato al pagamento di 10.000 €, Caio non intende adempiere spontaneamente a detto obbligo e allora Tizio può, essendo la sentenza di condanna titolo esecutivo (cioè un titolo col quale è possibile iniziare un’esecuzione forzata), promuovere un’attività di pignoramento dei beni di proprietà dello stesso Caio e, detti beni pignorati, saranno venduti forzatamente; ma in più, sul ricavato della loro vendita, Tizio troverà soddisfazione dell’originario credito per € 10.000. Questo tipo di esecuzione è detta esecuzione di espropriazione forzata e serve a soddisfare i crediti che hanno ad oggetto una somma di danaro. Questa, all’atto pratico, è l’utilità dell’esecuzione! Altro esempio: Caio si era impegnato a consegnare a Tizio il bene immobile “x” perché formava oggetto di un contratto di compravendita tra gli stessi, ma non adempie a questo suo obbligo; Tizio ottiene una sentenza di condanna, scade il termine prefissato ma Caio ancora non provvede alla consegna di detto bene, allora Tizio potrà decidere di mettere in esecuzione il suo titolo esecutivo e cioè la sentenza di condanna alla consegna del bene. Anche in questo caso, come in quello precedente, viene utilizzato uno strumento forzoso di soddisfazione del diritto ma, a differenza del primo esempio dove Tizio aveva interesse ad ottenere una somma di danaro, in questo secondo caso, Tizio non è interessato al pignoramento dei beni di Caio, non è interessato alla loro rivendita per recuperare il suo credito, il suo interesse è soddisfatto solo dalla prestazione specifica (il rilascio del bene immobile “x”) e quindi in tal caso opererà un tipo di esecuzione detta esecuzione in forma specifica. Rileva poi, la distinzione tra: esecuzione in forma specifica per consegna che ha ad oggetto un bene mobile; esecuzione in forma specifica per rilascio che ha ad oggetto un bene immobile. Possiamo dedurre che le forme dell’esecuzione forzata e cioè, le forme attraverso cui si può attuare forzatamente un diritto, non sono uniche anzi, ci sono più forme possibili, esistono più tipi di esecuzione. E allora, in prima approssimazione, possiamo eseguire la distinzione base tra: • a) esecuzione di espropriazione forzata che è di carattere generale e serve per soddisfare i crediti che hanno ad oggetto una somma di danaro. Quindi, se Tizio ha un credito per il pagamento di una somma di danaro, la forma di esecuzione che eventualmente utilizzerà per essere soddisfatto forzatamente, è detta “di espropriazione forzata”; • b) esecuzione in forma specifica che si distingue a sua volta in: • - esecuzione in forma specifica per consegna (nell’ipotesi di bene mobile); • - esecuzione in forma specifica per rilascio (nell’ipotesi di bene immobile); • - esecuzione in forma specifica degli obblighi di fare, Tizio doveva costruire un’opera ma non l’ha realizzata, viene tuttavia condannato a costruirla e nonostante questa condanna, non la costruisce; Caio, che attendeva questa prestazione da Tizio, potrà, a tal punto, ricorrere all’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di fare, dal momento che questo è un facere fungibile nel senso che, sebbene Tizio avesse un’impresa di costruzioni e sebbene non abbia provveduto alla realizzazione della costruzione richiesta, sarà possibile farla eseguire ad un’altra impresa di costruzioni e ovviamente per i costi si verificherà in che misura, il soggetto originario debitore, ne dovrà rispondere; - esecuzione in forma specifica degli obblighi di non fare, Caio vicino di casa di Tizio, ha sopraelevato il suo edificio anche se esisteva a favore dello stesso Tizio una servitù “altius non tollendi” sulla base della quale, Caio, non poteva sopraelevare; violando questo vincolo, il vicino, ha posto in essere un qualcosa che non avrebbe dovuto fare e Tizio, per soddisfare il suo originario diritto, dovrà far distruggere ciò che il vicino ha fatto in violazione di quell’obbligo di non fare e questo distruggere, si concretizza comunque in un fare. Ecco perché, per eseguire in forma specifica anche gli obblighi di non fare, si usa l’esecuzione in forma specifica degli obblighi di fare. Abbiamo specificato all’inizio, che ciò di cui stavamo parlando, riguardava un facere fungibile (nell’esempio precedente infatti, la realizzazione dell’opera poteva cioè, essere assegnata ad un’altra ditta); ma che cosa avviene se invece, un facere ha carattere infungibile? *Immaginiamo che la vincitrice del Festival, Emma Marrone, si sia impegnata, mediante contratto, ad eseguire un’esibizione canora non solo per l’inaugurazione dell’anno accademico della “Seconda università”, ma anche per l’anno successivo; cambia però idea e non intende più venire. Non presentandosi la prima volta, dà luogo ad un primo inadempimento in conseguenza del quale non sarà neanche possibile sostituirla con la seconda cantante classifica del Festival perché, che venga la prima o la seconda classificata, è ovvio che vi sia una differenza sostanziale perché si tratta di due prestazioni canore differenti, non sono cioè fungibili e di conseguenza non sarà possibile utilizzare lo strumento dell’esecuzione forzata che consentiva, sempre nell’esempio precedente, di sostituire un’impresa con un’altra per far costruire un’opera in quanto, nell’esempio ora in esame, non è possibile prendere materialmente la cantante e costringerla a cantare, né tanto meno è possibile sostituirla con un’altra, perché la sua prestazione è infungibile! E allora, per le prestazioni infungibili, l’ordinamento appresta lo strumento previsto dall’art. 614 bis C.p.c. che seve proprio per attuare il facere infungibile. Questo facere infungibile si attua ottenendo una condanna della cantante ad eseguire la prestazione dovuta e prevedendo contestualmente che, la stessa, per ogni successivo inadempimento (e quindi se non si presenta neanche la seconda volta), verrà condannata al pagamento di una somma di danaro il cui ammontare si determina tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione del danno quantificato o prevedibile o altri elementi valutabili (come il reddito delle persone). Questa minaccia del pagamento di una somma di danaro, si chiama misura compulsiva (e può essere legata ad un successivo inadempimento come nell’esempio precedente, ma anche ad un ritardo), ed è uno strumento che dovrebbe spingere l’inadempiente ad adempiere. Ricapitolando il tutto possiamo ora meglio affermare che l’esecuzione forzata è dunque un’espressione di genere perché, nell’ambito della stessa esecuzione forzata, è possibile distinguere più specie (sempre di esecuzione forzata), infatti: • • l’esecuzione forzata che si utilizza quando Tizio ha un credito per il pagamento di una somma di danaro, abbiamo detto essere la c.d. espropriazione forzata; • • l’esecuzione utilizzabile quando il credito di Tizio (e per credito non ci si riferisce solo alla prestazione di somme di danaro ma ci si può riferire anche al credito consistente in una prestazione di consegna, di rilascio, o di fare) ha appunto ad oggetto una prestazione di consegna, è la c.d. esecuzione in forma specifica di consegna; se ha ad oggetto il rilascio di un bene immobile, è la c.d. esecuzione in forma specifica per rilascio; se ha ad oggetto un fare o un non fare fungibile, è la c.d. esecuzione in forma specifica degli obblighi di fare e se, invece, questo fare ha carattere infungibile, non si ha propriamente una forma di esecuzione forzata, ma uno strumento compulsivo che può spingere il debitore ad adempiere attraverso la minaccia del pagamento di una somma di danaro per ogni violazione. Soggetti del processo esecutivo Fondamentale, nell’ambito dell’esecuzione forzata, è anche il concetto di giudice perché, mentre nel processo di cognizione, l’avvocato che deve proporre domanda a tutela di un diritto, o di un interesse legittimo del proprio assistito presenta domanda al giudice di pace (e rispettivamente allo stesso il Tribunale), o al Tribunale (e rispettivamente allo stesso la Corte di Appello) e quindi individua un giudice\persona fisica, singolo oppure in composizione collegiale, nel processo esecutivo non è così! • - rispetto ai beni mobili è poi necessario distinguere asseconda che detti beni si trovino presso il debitore esecutato, o addirittura presso un terzo; • - e se i beni oggetto di esecuzione forzata, siano di un terzo che abbia prestato garanzia per un debito contratto dal vero debitore. Sempre nell’ambito dell’espropriazione forzata (Titolo II° C.p.c.), è possibile notare anche come, nelle singole Sezioni, sembrano ripetersi degli argomenti! Ad esempio nel Capo I° relativo all’espropriazione forzata in generale, c’è una Sezione che si occupa “Del pignoramento” e una che si occupa anche “Dell’intervento dei creditori”; analizzando anche il Capo II° relativo invece, all’espropriazione mobiliare presso il debitore, anche qui vi è una Sezione sul pignoramento ed una sull’intervento dei creditori e così nei Capi successivi. Ci chiediamo: perché le Rubriche sono tutte uguali? Ebbene sono uguali perché queste, sono le fasi attraverso cui si sviluppa normalmente l’espropriazione forzata! Essa, infatti, inizia con un pignoramento (Sezione IIª) che è l’atto con cui si vincola il bene. Sostanzialmente, sul bene oggetto di pignoramento, si crea un vincolo di indisponibilità e il debitore potrebbe anche vendere questo bene ma poi, detto atto di alienazione, non sarà efficace nei confronti del creditore pignorante e di tutti i creditori che sono intervenuti nell’espropriazione forzata, si determina cioè l’inefficacia relativa. Abbiamo detto poi, che la medesima espropriazione forzata, aggredisce beni genericamente individuati e dunque, dovendo essere rispettato il principio della par condicio creditorum, è prevista la possibilità d’intervento dei creditori (Sezione IIIª) e che, siccome la loro finalità prioritaria non è possedere i beni del debitore mediante il pignoramento, ma è quella di ottenere dei soldi, si procederà alla loro vendita (Sezione IVª) in conseguenza della quale si provvederà alla distribuzione della somma ricavata (Sezione Vª). Ma perché è prevista, da un lato, una disciplina dell’espropriazione forzata in generale che detta principi generali (ad esempio in tema di pignoramento) e poi dall’altro lato, sono previste discipline specifiche dettate nell’ambito dei singoli tipi di espropriazione forzata che sulla base della disciplina generale introducono dei dettagli? Ebbene perché, le forme del pignoramento, saranno diverse asseconda del bene! Una cosa è pignorare un bene mobile, altra è pignorare un bene immobile; infatti, per pignorare un bene mobile, l’ufficiale giudiziario, sulla base di un titolo esecutivo, si recherà presso il debitore e se troverà, ad esempio, tre televisori, due quadri importanti, qualche orologio … ne farà oggetto del pignoramento, redigerà un elenco in cui indicherà i beni riscontrati e, detti beni, saranno immediatamente assoggettati ad indisponibilità, o meglio quei beni, pur trovandosi ancora presso il debitore, saranno comunque pignorati, saranno cioè beni che, prima o poi, dovranno essere venduti. Il pignoramento di un bene immobile è invece più complesso, dal momento che i beni immobili sono soggetti alle forme di pubblicità nei pubblici registri e cioè, gli atti relativi all’alienazione, alla disposizione di detti beni, sono trascritti in questi registri, ed anche il pignoramento, essendo l’atto che determina l’indisponibilità del diritto, dovrà essere trascritto nei pubblici registri. Ecco perché è prevista una disciplina particolare delle forme del pignoramento immobiliare. Anche nel caso in cui si sospetta che Tizio abbia un conto corrente in banca (e si sospetta perché magari in passato ha pagato con un assegno emesso dalla banca), è prevista una disciplina particolare del pignoramento! Difatti, l’ufficiale giudiziario, non potrà recarsi presso la banca e pretendere di vincolare il conto corrente di Tizio, dal momento che non è neanche certo che il debitore abbia un conto corrente presso quella banca visto che sono passati, ad esempio, 6 mesi dall’emissione dell’assegno e quindi può averlo chiuso, oppure non vi è depositato neanche più un euro. In tali casi, bisognerà chiedere alla banca di rendere una dichiarazione detta “dichiarazione di esistenza e quantità” con la quale, si viene a conoscenza se, effettivamente, Tizio ha un conto corrente presso quella banca oppure no. 3. 3. Titolo III° “Dell’esecuzione per consegna o rilascio”; 4. 4. Titolo IV° “Dell’esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare” (precisando che, il facere infungibile, è collocato nel Titolo IV° all’art. 614 bis C.p.c.). Ma partiamo dall’art. 474 C.p.c. rubricato “Titolo esecutivo”, il quale sancisce che: “L’esecuzione forzata non può avere luogo che in virtù di un titolo esecutivo per un diritto certo, liquido ed esigibile. Sono titoli esecutivi: 1. 1) le sentenze, i provvedimenti e gli altri atti ai quali la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva (ad esempio: le ordinanze decisorie, il decreto ingiuntivo, l’ordinanza di convalida di sfratto …); 2. 2) le scritture private autenticate, relativamente alle obbligazioni di somme di denaro in esse contenute, le cambiali, nonché gli altri titoli di credito ai quali la legge attribuisce espressamente la stessa efficacia; 3. 3) gli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge a riceverli … ”. Questo articolo, subito chiarisce qual è il possibile contenuto di un titolo esecutivo, perché afferma che: il titolo esecutivo deve rappresentare un diritto i cui attributi devono essere: o la certezza, e questo concetto non è univoco perché, il grado di certezza che manifesta una sentenza di condanna, è sicuramente diverso dal grado di certezza che manifesta una scrittura privata autenticata o anche un atto pubblico redatto dal notaio perché, la sentenza, è frutto di un processo, presuppone l’accertamento, ed è l’unico tra tutti i possibili titoli esecutivi elencati dall’art. 474 C.p.c. che è idonea addirittura a passare in giudicato, a divenire immutabile. Alla luce di ciò, possiamo affermare che il concetto di certezza è variabile, o meglio che, il grado di certezza sufficiente affinché il diritto rappresentato da un titolo esecutivo possa essere posto in esecuzione, è variabile ed è rimesso esclusivamente alla discrezionalità del legislatore. Per comprendere meglio quanto appena affermato, conviene tenere presente che fino al 2005, le scritture private autenticate, non erano titoli esecutivi ma poi, il legislatore, con la L. 80\2005 e con la L. 263\2005, ha modificato l’art. 474 C.p.c. prevedendo che: la scrittura privata autenticata è titolo esecutivo relativamente alle obbligazioni di somme di danaro in essa contenute. Ma questo cosa significa? Significa che la scrittura privata autenticata, non è in generale titolo esecutivo, essa è titolo esecutivo soltanto per le obbligazioni di somme di denaro in essa rappresentate (ai sensi del numero (2 dell’art. 474 C.p.c.) e noi sappiamo anche che, per le obbligazioni di somme di danaro, il tipo di esecuzione forzata utilizzata è l’espropriazione forzata e questo vuol dire che, la scrittura privata autenticata, è titolo esecutivo solo per iniziare l’espropriazione forzata. Ad esempio: Tizio vuole vendere il suo televisore al plasma a Caio e decide di procedere ad una scrittura privata autenticata avente quindi ad oggetto, un contratto di compravendita del televisore al plasma e nel quale si fa presente che Tizio, in adempimento del presente contratto, si obbliga a trasferire la proprietà del bene mediante consegna, in data “x”, e che Caio, al momento della consegna, si impegna a corrispondere a Tizio la somma di € 700,00. Immaginiamo che Caio paga il prezzo, ma che Tizio non consegna il bene. Ci chiediamo: quella scrittura privata autenticata, servirà a qualcosa? Purtroppo no! perché nell’esempio in esame, inadempiuta, è la prestazione di dare, di consegnare e abbiamo in precedenza visto come, la scrittura privata autenticata, non fosse titolo per l’esecuzione di consegna ma solo, come dice la norma, relativamente alle obbligazioni di somme di denaro in essa contenute. Proviamo ad invertire i ruoli e cioè ipotizziamo che Tizio consegna il televisore, ma che Caio non paga il prezzo; bene, in tal caso, Tizio potrà utilizzare la scrittura privata autenticata proprio perché essa è titolo esecutivo relativamente alle obbligazioni di somme di denaro in essa contenute e qui c’è l’obbligazione di pagare € 700,00 come prezzo del televisore. Quindi, mentre la sentenza di condanna è titolo esecutivo sia per l’espropriazione forzata, sia per l’esecuzione in forma specifica, la scrittura privata autenticata è titolo esecutivo soltanto per l’espropriazione forzata. Questa è la scelta che il legislatore ha, nella sua discrezionalità, adottato nel 2005 e con effetto dal 1° Marzo 2006. Ma con lo stesso intervento normativo (L. 80\2005 e L. 263\2005), ha posto in essere anche un’ulteriore modifica! Infatti, prima dell’entrata in vigore di queste due leggi, l’atto pubblico formato dal notaio o altro pubblico ufficiale, era già titolo esecutivo ma relativamente alle obbligazioni di somme di danaro in esso contenuto. Sostanzialmente, anteriormente al 1° Marzo 2006, l’atto pubblico era titolo esecutivo negli stessi limiti in cui oggi lo è la scrittura privata autenticata, ma con quell’intervento normativo, il legislatore, da un lato, ha riconosciuto come titolo esecutivo anche la scrittura privata autenticata limitatamente alle obbligazioni di somme di danaro e, dall’altro lato, ha dovuto riconoscere un qualcosa di più all’atto pubblico, che è il tipico atto formato dal notaio. E allora, nell’ultimo comma dell’art. 474 C.p.c., il legislatore ha sancito che: “… L’esecuzione forzata per consegna o per rilascio non può aver luogo che in virtù dei titoli esecutivi di cui ai numeri 1) e 3) del secondo comma …” e vediamo che non ha richiamato il numero 2) a conferma che, la scrittura privata autenticata, è titolo esecutivo solo per l’espropriazione forzata, solo cioè per somme di denaro; prevedendo poi che, a partire dal 1° Marzo 2006 (data dell’entrata in vigore degli interventi legislativi), l’atto ricevuto dal notaio o da altro pubblico ufficiale che si trova collocato nel numero 3), in virtù sempre del richiamo contenuto nell’ultimo comma dell’art. 474 C.p.c., è titolo esecutivo sì, per le obbligazioni di somme di danaro, ma anche per le obbligazioni per consegna o per rilascio, mentre non è titolo esecutivo per le prestazioni di fare. Ai sensi del numero 1) dell’art. 474 C.p.c., anche l’ordinanza decisoria è titolo esecutivo come la sentenza; ma c’è tuttavia qualche differenza tra le due? Ebbene sì! Perché l’ordinanza decisoria è provvisoria, può essere revocata con la sentenza, non passa in giudicato e se si estingue il processo conserva solo l’efficacia esecutiva. Questo ci serve a comprendere, ritornando al concetto di certezza, che il grado di certezza del diritto rappresentato dall’ordinanza decisoria, è inferiore al grado di certezza del diritto rappresentato da una sentenza! Perché quest’ultima può passare in giudicato mentre, l’ordinanza decisoria mai! Ancora minore sarà il grado di certezza del diritto rappresentato da un assegno bancario (quest’ultimo, in regola con i bolli, è titolo esecutivo, cioè con lo stesso il creditore può iniziare subito un’espropriazione forzata) perché nulla ci dice sul rapporto da cui è originata l’emissione di quell’assegno; stesso discorso con la cambiale. o La liquidità sta ad indicare che il diritto rappresentato dal titolo di credito, deve essere determinato. Sostanzialmente, il concetto di liquidità riferito a somme di danaro, sta a significare che la somma di danaro deve essere determinata nel suo ammontare o che deve essere facilmente determinabile in base a mere operazioni di calcolo (si pensi ad un contratto di locazione stipulato tra Tizio e Caio che prevede il pagamento di € 500,00 al mese come canone di locazione, Caio però non provvede al pagamento del canone per circa 20 mesi; in tal caso, il credito è liquido, perché è facilmente determinabile con mere operazioni di calcolo e cioè € 500,00 x 20 = 10.000 €, è il credito). Quando invece si tratta di un diritto alla consegna di una cosa mobile, il concetto di liquidità, si traduce nell’elemento della determinatezza e cioè, la cosa mobile a cui il creditore ha diritto, deve essere una cosa mobile individuata. o L’ esigibilità vuol dire che il diritto per il quale si vuole agire, non deve essere sottoposto a condizione sospensiva oppure a termine iniziale. Qualora vi fosse una condizione sospensiva, la stessa starebbe a significare che questo diritto che si vuol far valere, attualmente non esiste ancora, dal momento che la sua nascita è subordinata al verificarsi della condizione da cui dipende l’efficacia. Stesso discorso vale nel caso in cui la nascita del diritto, sia subordinata ad un termine inziale perché, fino a che non scade il termine, il diritto non esiste. Sulla base poi degli elenchi di cui ai numeri 1), 2) e 3) dell’art. 474 C.p.c., è possibile eseguire una distinzione di carattere generale classificando i titoli esecutivi in due categorie: titoli esecutivi giudiziali, quelli che si formano all’interno di un processo: sentenza, ordinanze decisorie, decreto ingiuntivo, ordinanza di convalida di sfratto … contro i quali il debitore può azionare i mezzi d’impugnazione; titoli esecutivi stragiudiziali, quelli che si formano al di fuori di un processo: assegno bancario, assegno circolare, cambiale, scrittura privata autenticata, atto pubblico formato da un notaio o altro pubblico ufficiale, verbale di conciliazione … contro i quali il debitore può proporre opposizione esecutiva. Questa distinzione è importante perché il titolo esecutivo giudiziale, ha un grado di certezza contenuto di quel contratto di compravendita e poi, come ci dice l’art. 480 C.p.c.: “… l’ufficiale giudiziario, prima della relazione di notificazione, deve certificare di avere riscontrato che la trascrizione corrisponde esattamente al titolo originario”. Sappiamo che titolo esecutivo e precetto devono essere notificati (anche separatamente) ma, in occasione della notifica, atto eseguito dall’ufficiale giudiziario, quest’ultimo dovrà scrivere una relazione di notifica del tipo: “io, ufficiale giudiziario addetto all’ufficio notifiche presso la Corte di Appello di Napoli, in data x, mi sono recato nel luogo x, dove ho consegnato il presente atto a mani del presente destinatario”, poi apporrà la data e la firma ma, prima di questa relazione, quando si tratti di titoli per i quali sia prescritta la trascrizione nel precetto, l’ufficiale giudiziario dovrà attestare che la trascrizione del titolo riportata nel precetto, è conforme al titolo originario, nel nostro esempio, dovrà accertare che, la trascrizione avvenuta degli estremi del contratto di compravendita del quadro, sia conforme a quel contratto di compravendita originario con sottoscrizioni autenticate che evidentemente, l’ufficiale giudiziario, ha potuto visionare. In sintesi possiamo allora dire che: per i titoli esecutivi stragiudiziali, è sempre prevista la trascrizione nel precetto, con l’unica eccezione rappresentata dagli atti ricevuti dal notaio o da altro pubblico ufficiale perché per gli stessi, l’art. 475, I° comma C.p.c., prevede la spedizione in forma esecutiva. Ma chi provvederà a questa spedizione? Per la sentenza e per i provvedimenti dell’autorità giudiziaria, sarà compito del cancelliere, quale ausiliario del giudice, provvedere al rilascio della copia con la formula esecutiva, ed è compito suo perché la sentenza, come gli altri provvedimenti del giudice, sono resi pubblici mediante il deposito nella loro cancelleria e a rilevare sarà proprio la data del deposito perché, a partire dalla stessa, le attività che si compiranno sulla sentenza o gli altri provvedimenti del giudice, non saranno più attività del giudice ma del cancelliere! Ecco perché il rilascio della formula esecutiva verrà fatta dallo stesso cancelliere. Se invece si tratta di atto formato dal notaio, alla spedizione provvederà lo stesso notaio. Quest’ultimo, tra i suoi obblighi, ha quello della conservazione dell’atto e, in caso di suo decesso oppure di cessazione dalle sue funzioni, l’atto sarà depositato negli archivi notarili. Tuttavia, avendo l’obbligo di custodire l’atto, il notaio, è l’unico legittimato a rilasciare copia dell’atto stesso con la formula esecutiva e con la precisazione che, la copia emessa con l’apposizione della formula esecutiva, è una copia conforme all’originale depositato presso di lui. Di ciò abbiamo anche conferma nell’ultimo comma dell’art. 474 C.p.c.: “Il precetto deve contenere trascrizione integrale ai sensi dell’articolo 480, secondo comma, delle scritture private autenticate di cui al numero 2) del secondo comma”. La norma in esame ci sta dicendo che per le scritture private autenticate, non è prevista la spedizione in forma esecutiva ma si applica la disciplina di cui all’art. 480, II° comma C.p.c., secondo cui, le stesse, devono essere trascritte integralmente nell’ambito del precetto. Quanto alla “spedizione”, la stessa, non deve essere letta secondo il suo tenore letterale, in realtà sta a significare che ci si reca presso la cancelleria e che si ottiene il “rilascio” della copia con la formula esecutiva. Ma quali sono i soggetti legittimati a richiedere il rilascio della copia con la formula esecutiva? Ovviamente lo sono il creditore e l’avente diritto! Ma cosa succede se ad esempio Tizio ha ottenuto la condanna di Caio al rilascio di un determinato terreno, ma nel frattempo di questo terreno non è più possessore Caio ma Sempronio? Tizio potrà mettere in esecuzione la sentenza di condanna originariamente pronunciata nei confronti di Caio, adesso nei confronti di Sempronio? Ebbene il legislatore ha stabilito che il titolo esecutivo per la consegna o per il rilascio ha un’efficacia c.d. ultra partes e cioè oltre le parti indicate nel titolo esecutivo. Ciò consente che se Tizio ha ottenuto una sentenza di condanna nei confronti di Caio, e poi per una qualsiasi ragione il possesso di quel fondo, di quel bene mobile è passato da Caio a Sempronio, potrà comunque ottenere il rilascio del bene anche da Sempronio e sulla base dello stesso titolo esecutivo. Se poi Sempronio vuole rivendicare valide ragioni a fondamento del suo possesso, lo potrà fare nel processo esecutivo con le opposizioni esecutive (nel caso di specie, dovrà proporre un’opposizione all’esecuzione). Tutto questo ci fa capire che il titolo esecutivo non ha un’efficacia limitata ai soggetti indicati in esso, ma ha un’efficacia ultra partes. Ma vediamo cosa ci dice l’art. 475, II° comma C.p.c. in merito: “La spedizione del titolo in forma esecutiva può farsi soltanto alla parte a favore della quale fu pronunciato il provvedimento o stipulata l’obbligazione (quindi, di principio, chi può ottenere il rilascio del titolo con la formula esecutiva, è il soggetto che nella sentenza, altro provvedimento o nell’atto stragiudiziale, è indicato come creditore o avente diritto), o ai suoi successori, con indicazione in calce (alla fine del titolo esecutivo) della persona alla quale è spedita” come vediamo, questo comma, si sta occupando del lato attivo del rapporto prevedendo che il titolo esecutivo in forma specifica, lo si può rilasciare al creditore o avente diritto, ovvero, in caso di suo decesso, ai suoi successori, i quali potranno porre in esecuzione quella sentenza di condanna ottenuta originariamente dal soggetto ormai defunto. Tuttavia, l’art. 475, II° comma C.p.c., non parla di “eredi” (per le successioni mortis causa) ma di “successori” (nel caso di atti inter vivos) e questo significa che, il principio appena enunciato, vale anche nell’ipotesi in cui il creditore, per un qualunque motivo, abbia alienato il suo diritto (cosa che può fare tranquillamente anche nell’ipotesi in cui il processo è pendente, ai sensi dell’art. 111 C.p.c.). Del lato passivo si occupa, invece, l’art. 477 C.p.c. rubricato “Efficacia del titolo esecutivo contro gli eredi” sembrerebbe che, detto articolo, si occupa solo di questa ipotesi, ma in realtà la giurisprudenza ammette lo stesso principio anche in caso di successione inter vivos. Tuttavia, l’art. 477 C.p.c., sancisce che: “Il titolo esecutivo contro il defunto ha efficacia contro gli eredi, ma si può loro notificare il precetto soltanto dopo dieci giorni dalla notificazione del titolo. Entro un anno dalla morte, la notificazione può farsi agli eredi collettivamente e impersonalmente, nell’ultimo domicilio del defunto”. In sostanza questo articolo ci dice che l’esecuzione che il creditore poteva intraprendere nei confronti del debitore defunto, la potrà comunque intraprendere contro i suoi eredi (e non in favore, ed è proprio questo che ci fa capire che, in tal caso, si tratta del lato passivo) e sulla base di quello stesso titolo esecutivo. Ma nel titolo esecutivo non sono indicati gli eredi, è indicato il de cuius! Ciò nonostante, il creditore, potrà intraprendere l’esecuzione nei confronti degli eredi con un’unica accortezza, rappresentata dal fatto che, in tal caso, il titolo esecutivo ed il precetto, non potranno essere notificati insieme ma bisognerà notificare agli eredi, prima il titolo esecutivo e, almeno dieci giorni dopo, il precetto e questo perché gli eredi si vedono chiamati a rispondere rispetto ad un’esecuzione di cui potrebbero non sapere nulla. Per lo stesso motivo, si notifica prima il titolo esecutivo, in modo tale che gli eredi possano avere conoscenza della situazione e viene concesso loro un minimo di tempo (almeno 10 giorni) affinché possano reperire del materiale; dopodiché, si potrà notificare il precetto, questa intimazione ad adempiere che comunque deve fissare un termine per l’adempimento non inferiore a 10 giorni. Sappiamo poi, che eredi non ci si diventa con la nascita in quanto, per esser tale, è necessario l’accettazione dell’eredità e lo stesso legislatore, all’art. 477, II° comma C.p.c. ha affermato che: “Entro un anno dalla morte del de cuius, la notificazione può farsi agli eredi collettivamente e impersonalmente, nell’ultimo domicilio del defunto”, questo che cosa sta a significare? Significa che il creditore, in realtà, può non sapere se il debitore deceduto ha dei figli, se si era sposato, se ha fratelli … insomma possibili eredi legittimi; e dunque il legislatore ha concesso al creditore, per tali ipotesi, il favor di cui al II° comma dell’art. 477 C.p.c. e cioè, lo stesso creditore, non dovrà mettersi alla ricerca dei possibili eredi, ma potrà notificare il titolo esecutivo ed il precetto, entro un anno dalla morte del debitore, nell’ultimo domicilio del defunto e non a Tizio, Caio, Sempronio (eredi del defunto) ma a tutti gli eredi (collettivamente) e senza indentificarli (impersonalmente); se poi questi soggetti avranno un qualcosa da ridire, ad esempio che hanno rinunciato all’eredità, lo dovranno dedurre o nel processo stesso, o con il sistema delle opposizioni producendo la rinuncia all’eredità. Vige poi, il principio dell’unicità del titolo con formula esecutiva con il quale si garantisce l’esistenza di un'unica azione esecutiva. Ad esempio: Tizio, erede del debitore defunto, va dal notaio e chiede il rilascio della copia con formula esecutiva, il notaio annota detta richiesta e rilascia copia; se poi anche Caio, altro erede del debitore defunto, richiede il rilascio della medesima copia con formula esecutiva, questo rilascio gli sarà negato! Perché bisogna partire dal presupposto che sia Tizio che Caio, agiscono come eredi, la loro posizione è unitaria, il diritto che intendono far valere è il medesimo e, per tale motivazione, deve essere iniziata un’unica azione esecutiva. L’art. 476 C.p.c. è appunto rubricato “Altre copie in forma esecutiva” e sancisce: “Non può spedirsi senza giusto motivo più di una copia in forma esecutiva alla stessa parte”, nell’esempio precedente dei due eredi, quest’ultimi, dal punto di vista sostanziale, sono un’unica parte, perché agiscono in qualità di eredi dello stesso de cuius anche se formalmente saranno Tizio e Caio. Diversa sarebbe l’ipotesi in cui, in un litisconsorzio facoltativo improprio, due lavoratori agiscono per ottenere il pagamento dello straordinario dalla società Alfa. Si ha un unico processo, ma più cause, all’esito del quale, i due lavoratori, ottengono la condanna della società Alfa al pagamento delle somme per straordinario non pagato; Tizio chiede il rilascio della copia della sentenza con formula esecutiva, ci chiediamo: Caio, l’altro lavoratore, la potrà chiedere? Certamente la potrà chiedere! Dal momento che, Tizio e Caio, non sono la stessa parte, il processo è cumulativo, nel litisconsorzio si sono dedotte più cause e, solo per ragioni di economia processuale, si è svolto un unico processo, ed è per questo che in tal caso ciascuna parte potrà ottenere la spedizione o il rilascio della copia in forma esecutiva. In certi casi è possibile inoltre, ottenere il rilascio di un'altra copia in forma esecutiva ma solo se vi sia un giustificato motivo; ad esempio: il lavoratore ha ottenuto la sentenza di condanna e il rilascio della copia in forma esecutiva, però vi è un problema! Il giudice ha sbagliato a statuire e cioè, invece di affermare che al lavoratore spettavano € 100.000, ha affermato che gliene spettavano 10.000. È chiaro che si tratta di un errore materiale e, il lavoratore, può chiedere la correzione di detto errore all’autorità giudiziale, viene disposta la correzione con un provvedimento e all’esito dello stesso, il lavoratore, potrà richiedere il rilascio di un’altra copia in forma esecutiva dello stesso titolo, dal momento che c’è un motivo che la giustifica e che si concreta nell’errore materiale nella precedente sentenza. Ma come si chiedono le ulteriori copie? A ciò ci risponde l’art. 476, II° comma C.p.c.: “Le ulteriori copie sono richieste dalla parte interessata, in caso di provvedimento con ricorso al capo dell’ufficio che l’ha pronunciato, e negli altri casi (ci si sta riferendo all’atto pubblico per il quale non c’è un ufficio giudiziario che lo ha pronunciato) al presidente del tribunale nella cui circoscrizione l’atto fu formato (ad esempio nella circoscrizione in cui ha sede il notaio che ha formato l’atto). Sull’istanza si provvede con decreto.” E cosa succede se il cancelliere o il notaio, erroneamente, rilasciano più copie in forma esecutiva? Ai sensi dell’ultimo comma dello stesso art. 476 C.p.c.: “Il cancelliere, il notaio o altro pubblico ufficiale che contravviene alle disposizioni del presente articolo è condannato a una pena pecuniaria da euro 1.000 a 5.000 …” e in più subiranno anche delle conseguenze di carattere disciplinare ad opera dei rispettivi ordini. Abbiamo visto poi che, quando è l’ufficiale giudiziario ad occuparsi della trascrizione del titolo esecutivo nel precetto, (nel caso di titoli esecutivi stragiudiziali), esegue solo un controllo di corrispondenza formale e cioè verifica se ciò che è stato trascritto corrisponde al titolo originario; ci chiediamo: ma il cancelliere, (per l’atto pubblico e i titoli esecutivi giudiziali), quando deve rilasciare la copia con la formula esecutiva, che tipo di controllo dovrà eseguire? Ad esempio: Tizio ha un titolo esecutivo che rappresenta un diritto di credito, ma se questo diritto di credito è subordinato ad una condizione sospensiva o a termine iniziale, l’ufficiale giudiziario che rilascerà il titolo con la formula esecutiva, sarà tenuto a controllare la scadenza del termine, oppure l’avveramento della condizione sospensiva? In realtà oggi, sia per l’atto giudiziale che per quello stragiudiziale, si attua l’art. 153 delle Disp. Att. C.p.c.: “Il cancelliere rilascia la copia in forma esecutiva a norma dell’articolo 475 del codice quando la sentenza o il provvedimento del giudice è formalmente perfetto” a conferma del fatto che il controllo eseguito dal cancelliere, è un controllo di mera regolarità formale, controlla cioè che siano ben indicate le parti, l’autorità giudiziaria e l’unico tipo di controllo “sostanziale” che pone in essere, si diritti onorifici, per la querela di falso, per l’esecuzione forzata …”, dunque è competente il tribunale in via esclusiva, non c’è nessun altro giudice competente! Ma ciò che rileva è il fatto che, in detto articolo, il legislatore abbia stabilito chiaramente che: “Il tribunale è esclusivamente competente per l’esecuzione forzata”! non ha cioè, affermato, che è competente in materia di esecuzione forzata, e questa sottile differenza terminologica è, in realtà, molto importante! Perché una cosa sono le cause “di” esecuzione forzata (e cioè i procedimenti di esecuzione forzata), altro sono invece, le cause “relative” all’esecuzione forzata! *Analizzando l’art. 17 C.p.c., risulta ancora più chiaro perché si distingue una competenza per l’esecuzione forzata (che è sempre del tribunale), dalla competenza per le cause relative all’esecuzione forzata, dal momento che, con quest’ultime, non ci stiamo riferendo al procedimento di esecuzione forzata, ma a quelle cause che possono essere originate dall’esistenza di un procedimento di esecuzione forzata e, dette cause di cognizione, sono: • - i giudizi di opposizione all’esecuzione, art. 615 C.p.c., ad esempio: dopo che si è formato il titolo esecutivo, il debitore afferma di aver pagato presentando così, opposizione all’esecuzione e iniziando un processo di cognizione piena; • - i giudizi di opposizione agli atti esecutivi, art. 617 C.p.c., ad esempio: il debitore riceve il titolo esecutivo, ma lo stesso è privo della spedizione in formula esecutiva e quindi fa valere i vizi che attengono alla regolarità formale, iniziando sempre un processo di esecuzione ed ugualmente, si tratta di una causa occasionata dall’esecuzione, ma non è esecuzione forzata; • - i giudizi di opposizione di terzo all’esecuzione, art. 619 C.p.c., ad esempio: si effettua un pignoramento su un bene ma il terzo afferma che, detto bene, è di sua proprietà e non di proprietà del debitore esecutato e allora, il terzo, potrà utilizzare a sua difesa uno strumento detto “opposizione di terzo all’esecuzione” al fine di dimostrare di avere la proprietà sul bene in questione. *Sostanzialmente, queste appena elencate, sono cause relative all’esecuzione forzata ma, in realtà, sono dei processi di vera e propria cognizione e proprio perché sono dei processi di cognizione, può darsi che per talune opposizioni si dovranno osservare i criteri generali di competenza. Dunque, mentre per l’esecuzione forzata è sempre competente il tribunale, per una causa di opposizione, è possibile avere anche una competenza non del tribunale, ma del giudice di pace! Perché, ad esempio, la causa rientra proprio nella competenza per valore del giudice di pace. E l’art. 17 C.p.c. si preoccupa di stabilire come si determina il valore delle cause relative all’esecuzione forzata sancendo che: “Il valore delle cause di opposizione all’esecuzione forzata si determina dal credito per cui si procede (ad esempio: Tizio procede per un credito di € 1.000, fa effettuare il pignoramento e il debitore propone opposizione all’esecuzione. Per le cause di valore pari a € 1.000 come somma di danaro, c’è la competenza non del tribunale, ma del giudice di pace); quello delle cause relative alle opposizioni proposte da terzi a norma dell’articolo 619, dal valore dei beni controversi (ad esempio: il terzo afferma che il bene “x” pignorato è di sua proprietà e non del debitore esecutato e, se detto bene “x” ha un valore pari a € 10.000, sarà competente per valore il tribunale, se invece il valore del bene fosse stato pari a € 3.000, competente per valore sarebbe stato il giudice di pace perché, relativamente ai beni mobili, la competenza per valore del giudice di pace è fino a € 5.000); quello delle cause relative a controversie sorte in sede di distribuzione, dal valore del maggiore dei crediti contestati (ma questa disposizione può essere reputata tacitamente abrogata per incompatibilità con una legge sopravvenuta, l’art. 512 C.p.c., il quale ha affermato che, le controversie distributive, si propongono oggi, sempre con ricorso al giudice dell’esecuzione che decide con ordinanza)”. È possibile constatare che, in quest’articolo, non v’è traccia dell’opposizione agli atti esecutivi! E la ratio è che, l’opposizione agli atti esecutivi, è sempre di competenza del giudice dell’esecuzione (e cioè del tribunale). Dunque, quando si deve stabilire l’autorità giudiziaria competente, si applicheranno detti principi. Residua però, la competenza per territorio; come facciamo a stabilire tra i tanti tribunali italiani, quello territorialmente competente per il processo esecutivo? Bisogna partire dal presupposto che, detto criterio di competenza territoriale, è variabile, perché varia in relazione al tipo di esecuzione forzata, o meglio: la natura del bene oggetto di esecuzione condiziona il criterio di competenza per territorio. E allora, come si individua il giudice territorialmente competente per i procedimenti esecutivi? Come già detto, dobbiamo distinguere in base alla natura del bene, art. 26 C.p.c. “Foro dell’esecuzione forzata”: “Per l’esecuzione forzata su cose mobili o immobili è competente il giudice del luogo in cui le cose si trovano (e questo tipo di competenza per territorio, siccome lo stesso I° comma si riferisce in generale all’esecuzione forzata e dunque al genus, si applicherà sia all’espropriazione forzata su beni mobili o immobili, sia all’esecuzione in forma specifica per consegna o per rilascio) … Per l’espropriazione forzata di crediti è competente il giudice (riferendosi al tribunale) del luogo dove risiede il terzo debitore (ad esempio: Tizio, debitore esecutato, risiede a Napoli ma ha un conto corrente in banca, ipotizzando per assurdo che detta banca abbia la sede legale a Roma e che questa sia l’unica sede operativa; il creditore intende pignorare questo credito che Tizio ha nei confronti della banca che ha sede a Roma e, per tanto, competente sarà il tribunale di Roma, dal momento che la sede del terzo debitore è quella). Per l’esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare è competente il giudice del luogo dove l’obbligo deve essere adempiuto (ad esempio: l’edificio doveva essere costruito a S. Maria C.V.? competente sarà il tribunale di S. Maria C.V.).” È fondamentale ricordare che, la competenza relativa all’esecuzione forzata, è una competenza inderogabile! Sappiamo infatti che, l’art. 28 C.p.c., consente alle parti di derogare mediante accordo ai criteri di competenza per territorio, ma tra le ipotesi di competenza territoriale inderogabile, rientrano anche le cause di esecuzione forzata. Pignoramento Individuato il giudice competente (e dunque individuato anche l’ufficio esecutivo competente) bisogna ora, comprendere come si introduce il processo esecutivo partendo, seguendo l’ordine contenuto nell’indice del codice, dall’espropriazione forzata. Nell’ambito della stessa espropriazione forzata, ci occupiamo subito dell’espropriazione forzata in generale e la nostra norma di riferimento sarà l’art. 491 C.p.c. “Inizio dell’espropriazione”: “Salva l’ipotesi prevista dall’articolo 502, l’espropriazione forzata si inizia col pignoramento”. Detto articolo, è la nostra norma di riferimento, proprio perché l’atto inziale dell’espropriazione forzata è il pignoramento, quindi, se vogliamo affermare che l’espropriazione è iniziata, bisogna vedere come si esegue un pignoramento e in cosa consiste. Partiamo quindi dal presupposto che il creditore abbia notificato il titolo esecutivo ed il precetto e che, il debitore, non abbia adempiuto nel termine indicato nel precetto; in una situazione del genere, il creditore, potrà procedere subito all’esecuzione forzata individuando il giudice competente e chiedendogli il pignoramento. Ma che cos’è il pignoramento? Esso è un vincolo di indisponibilità relativa che si pone su alcuni beni per effetto di un’ingiunzione (formulata dall’ufficiale giudiziario) che viene rivolta al debitore. Si parla di indisponibilità relativa perché, è vero che sui beni pignorati del debitore si pone un vincolo di indisponibilità, ma sono comunque beni ancora di proprietà del debitore, infatti, con il pignoramento, non si determina il trasferimento della proprietà dei beni pignorati dal debitore ai creditori in quanto, detto trasferimento di proprietà, si determina solamente attraverso l’atto finale della vendita forzata che è rappresentato dal decreto di trasferimento. Con il pignoramento, i beni sottoposti a vincolo, così come individuati, ad esempio, nel verbale redatto dall’ufficiale giudiziario nel caso di pignoramento mobiliare presso il debitore, sono, dal momento del pignoramento, destinati a soddisfare il creditore procedente (colui che appunto effettua il pignoramento) e gli eventuali creditori intervenuti (infatti abbiamo in precedenza visto come, nell’espropriazione forzata, si possa intervenire al fine di garantire la par condicio creditorum). E allora, qualora il debitore che conservi la proprietà dei beni pignorati dovesse compiere atti di disposizione su detti beni, questi atti di disposizione, che seppur sarebbero giuridicamente validi ed efficaci, sono tuttavia inefficaci (inopponibili) nei confronti del creditore pignorante e dei creditori intervenuti (i quali si avvalgono del vincolo di pignoramento determinato dal primo creditore). Questo, sostanzialmente, è il significato di “vincolo di indisponibilità relativa” o di “inefficacia relativa”; la stessa si manifesta cioè, solo nei confronti di alcuni soggetti: creditore procedente e creditori intervenuti! Secondo l’art. 491 C.p.c. “Inizio dell’espropriazione” abbiamo visto che: “Salva l’ipotesi prevista nell’articolo 502 (norma che si occupa della vendita o dell’assegnazione di beni che siano oggetto di pegno e in tali casi non c’è necessità del pignoramento proprio perché, le cose date in pegno, sono cose di cui il debitore non ha disponibilità), l’espropriazione forzata si inizia col pignoramento”, ora ci chiediamo: ma come si esegue lo stesso pignoramento? Ricorriamo all’art. 492 C.p.c. “Forma del pignoramento” dove, la rubrica di detto articolo, già ci lascia intuire che il pignoramento è un concetto generale che si concretizza nel vincolo sui beni e che deriva dall’ingiunzione di non disporre rivolta al debitore e che le forme attraverso cui lo stesso pignoramento si realizza, variano asseconda della natura del bene (mobile, immobile, bene mobile presso terzi …) ed infatti l’art. 492 C.p.c., si apre dicendo: “Salve le forme particolari previste nei capi seguenti …” e con ciò il legislatore ha voluto dire che per pignorare, in concreto, bisogna seguire le forme che si trovano nei capi singoli perché si è condizionati dal tipo di bene, dalla loro situazione giuridica, dal luogo in cui si trovano e che però, in generale, il pignoramento è un elemento presente in tutte queste forme speciali e cioè che: “… il pignoramento consiste in un’ingiunzione che l’ufficiale giudiziario fa al debitore di astenersi da qualunque atto diretto a sottrarre alla garanzia del credito esattamente indicato i beni che si assoggettano all’espropriazione e i frutti di essi”. Il debitore deve, per tanto, astenersi dal compiere atti in relazione ai beni pignorati, soprattutto dagli atti di disposizione giuridica ma non solo, in quanto il debitore, rispetto ai beni pignorati, diviene anche custode degli stessi, non deve cioè alterarli nella loro integrità materiale. A ciò va aggiunto che, non essendo sufficiente l’ordine di astensione del debitore, l’ordinamento ha disciplinato anche l’effetto originato dal fatto che il debitore, contrariamente all’ingiunzione, compia atti in relazione ai beni pignorati prevedendo cioè, la loro inefficacia nei confronti dei soggetti a favore dei quali operava l’ingiunzione: il creditore pignorante e i creditori intervenuti. Ma immaginiamo che il creditore abbia effettuato il pignoramento, abbia giovato dell’ingiunzione rivolta dall’ufficiale giudiziario, abbia giovato del vincolo di indisponibilità relativa ma che tuttavia, nel frattempo, il debitore abbia alienato il bene oggetto di pignoramento ad un terzo. Ebbene va detto che, il pignoramento, non è un vincolo senza limiti di tempo, infatti il suo termine di efficacia è di 90 giorni e cioè, da 90 giorni dal pignoramento, il creditore deve chiedere di presentare l’istanza di vendita; ma ci chiediamo: se non lo fa in quei termini, cosa succede relativamente ai beni pignorati che il debitore ha alienato? Il problema sorge ora perché abbiamo visto che, seppure il debitore dopo il pignoramento, compisse atti di disposizione sui beni oggetto di pignoramento (come ad esempio la loro alienazione), atti genericamente validi ed efficaci ma comunque atti inopponibili al creditore pignorante e ai creditori intervenuti, ha sì, alienato i beni pignorati, ma li ha alienati con il vincolo di indisponibilità che si concretizza appunto nell’inefficacia relativa di quegli stessi atti nei confronti dei soggetti a favore dei quali opera l’ingiunzione. La questione infatti cambia se, trascorsi i 90 giorni dal pignoramento, il creditore non presenta l’istanza di vendita dei beni pignorati! Infatti, in tal caso, il pignoramento diverrà inefficace, cadrà il vincolo e di conseguenza, quell’atto di disposizione che il furbo debitore aveva posto in essere dopo il pignoramento, purtroppo ora è divenuto opponibile anche al creditore pignorante e a quelli intervenuti. L’atto di disposizione sul bene pignorato quindi, intanto era inopponibile, in quanto c’era il pignoramento e l’atto successivo di istanza di vendita o di assegnazione. Il I° comma dell’art. 492 C.p.c. ci dice poi, anche qual è l’oggetto del pignoramento e, lo stesso, non consiste solo nel bene pignorato, ma riguarda anche i suoi frutti; se ad esempio sono state pignorate piante che producono agrumi, anche i mandarini, i limoni saranno parte dell’oggetto del pignoramento, i c.d. frutti naturali; se invece è stato pignorato un bene immobile oggetto di locazione, in tal caso, oggetto del pignoramento sarà sia il bene immobile pignorato, sia i canoni di locazione maturati di mese in mese, i c.d. frutti civili. Stesso discorso opera nel caso in cui il debitore particolarmente furbo sia riuscito a non far emergere che possedeva un conto corrente presso un altro istituto bancario (e abbiamo visto che l’art. 492 C.p.c. contiene l’invito al debitore a dichiarare anche il luogo in cui si trovano i suoi beni, o a dichiarare chi siano i terzi debitori come, ad esempio, un istituto bancario), anche in tal caso, il vincolo di pignoramento si determinerà sin dal momento in cui il debitore ha dichiarato che esistono somme di danaro presso quella determinata banca. Abbiamo però in precedenza detto che, la banca, è tenuta ad emettere una dichiarazione di esistenza e di quantità delle somme e allora ci chiediamo: la dichiarazione del debitore ai sensi del IV° comma dell’art. 492 C.p.c., con la quale indica all’ufficiale giudiziario quali siano i terzi debitori, va a derogare il regime per il quale il terzo, tenuto ad emettere una dichiarazione di esistenza e quantità delle somme (e cioè la banca), nel caso di sua dichiarazione positiva, perfeziona il pignoramento? No, non opera la deroga! Perché il legislatore ha affermato che, quando l’ufficiale giudiziario pignora beni insufficienti, o non riesce a recuperarli, ovvero sono di lunga liquidazione, fa l’invito al debitore e, quando il debitore dichiara l’esistenza dei suoi crediti verso terzi, dal momento in cui rende detta dichiarazione, il pignoramento si perfeziona nei confronti del debitore mentre, nei confronti del terzo, si perfezionerà nel momento in cui l’ufficiale giudiziario notificherà, allo stesso terzo, un atto con il quale si ingiunge, sempre al terzo, di non disporre di quei beni che si trovano, nel caso di specie, nel conto corrente. Comma V° dell’art. 492 C.p.c.: “Della dichiarazione del debitore è redatto processo verbale che lo stesso sottoscrive (come se fosse una confessione). Se sono indicate (dal debitore) delle cose mobili queste, dal momento della dichiarazione, sono considerate pignorate …” normalmente, per pignorare le cose mobili, è necessario l’accesso dell’ufficiale nel luogo in cui i beni si trovano, li individua e redige un verbale in cui elenca i beni che sottopone a pignoramento; ma nel caso in cui il processo di espropriazione sia già iniziato e stesso il debitore abbia dichiarato i suoi beni mobili, allora, sin dal momento della dichiarazione, si perfeziona il pignoramento e il debitore diventa custode di quei beni. Difatti, nel caso in cui sottragga questi beni al pignoramento, ne risponderà secondo le norme richiamate del codice penale e contenute nello stesso comma V° dell’art. 492 C.p.c.: “… Se sono indicati crediti o cose mobili che sono in possesso di terzi (ad esempio il conto corrente presso un istituto bancario) il pignoramento si considera perfezionato nei confronti del debitore esecutato dal momento della dichiarazione e questi è costituito custode della somma o della cosa (richiamando le norme del codice penale) quando il terzo, prima che gli sia notificato l’atto di cui all’articolo 543, effettua il pagamento o restituisce il bene”. Ad esempio: può accadere che il debitore abbia reso sì, la dichiarazione relativa al possesso di somme di denaro presso la banca, ma che magari, lo stesso giorno della dichiarazione, le sia andate a prelevare; ebbene, in tal caso, il suo comportamento non è neanche da considerare furbo perché, come già detto, a suo carico vi sono comunque gli obblighi di custode, anche quando, appunto, il terzo abbia effettuato il pagamento; oppure può accadere che il debitore possiede dei vasi pregiati custoditi presso un soggetto che svolge funzioni di custodia e che abbia sottratto alla procedura esecutiva, l’ufficiale giudiziario l’invita ha rendere la dichiarazione in esame e il debitore afferma di possedere un bene mobile presso un terzo (appunto i vasi) e, anche se questi beni si trovano presso un terzo, ai sensi sempre del V° comma, dal momento in cui il debitore rende la dichiarazione, il pignoramento si perfeziona nei confronti del debitore ed il terzo, che nulla sa di questo pignoramento perché ancora non gli è stato notificato l’atto con il quale gli si ingiunge di non restituire al debitore ciò che gli spetterebbe, se restituisce allo stesso debitore il bene, quest’ultimo, sarà costituito custode e ne risponderà secondo le norme del codice penale per violazione degli obblighi del custode. **Dal V° comma si deduce anche che il pignoramento si perfeziona nei confronti del terzo che possiede i beni del debitore esecutato, mediante la notifica dell’atto di cui all’art. 543 C.p.c. che abbiamo detto essere un atto contenente l’intimazione al terzo di non disporre di quel bene pignorato e cioè l’intimazione di non restituirlo al debitore qualora lo richiedesse; il terzo diviene, in tal caso, custode e con la notifica di questo atto, si completa la procedura esecutiva presso terzi. Si precisa poi, che quando il debitore abbia reso la dichiarazione circa l’esistenza di altri beni di sua proprietà presso un terzo, al terzo si chiederà soltanto di dare conferma di quanto il debitore ha dichiarato. Il debitore può anche indicare, nella dichiarazione, dei beni immobili ma, in tal caso, il pignoramento non si perfezionerà con la stessa dichiarazione perché, i beni immobili, hanno un regime particolare di pubblicità ed infatti, continuando nella lettura del V° comma dell’art. 492 C.p.c., è affermato: “Se sono indicati beni immobili il creditore procede ai sensi degli articoli 555 e seguenti” e cioè, l’ufficiale giudiziario ha ottenuto dal debitore solo la dichiarazione relativa all’esistenza del bene immobile, senza produrre alcun effetto di pignoramento; infatti bisognerà seguire gli art. 555 ss., le norme relative al pignoramento immobiliare. Dunque, l’ufficiale giudiziario, siccome con la dichiarazione, in tal caso, non ha ottenuto alcun effetto di pignoramento, dovrà attivarsi subito per la notifica dell’atto di pignoramento immobiliare e per farlo trascrivere nei pubblici registri. 4° giorno Vicende che attengono al pignoramento Nell’analizzare l’art. 492 C.p.c. abbiamo visto che vi sono dei meccanismi particolari attraverso i quali, l’ufficiale giudiziario, qualora i beni pignorati appaiano insufficienti oppure ne sia manifesta la non pronta liquidazione, può adottare un sistema quasi d’interrogazione del debitore, invitandolo ad indicare altri beni di sua proprietà utilmente pignorabili; ebbene, potremmo definire questo meccanismo di “estensione del pignoramento”. Va però ricordato che, l’ultimo momento a disposizione del debitore per poter evitare l’espropriazione, è il termine ad adempiere che gli viene concesso con il precetto; e ricordiamo anche che, titolo esecutivo e precetto, non sono atti con cui si inizia l’esecuzione forzata ma sono atti preparatori, il precetto è un atto di messa in mora, è un atto che ha natura sostanziale e per tanto interrompe la prescrizione ma non produce gli effetti che ha la domanda giudiziale e cioè l’effetto interruttivo\ sospensivo della prescrizione. Detto ciò, possiamo procedere nell’analisi di vicende che possono verificarsi col fine di delineare nuove possibili configurazioni del pignoramento. Pagamento nelle mani dell’ufficiale giudiziario Innanzitutto va detto che c’è la possibilità che, quando l’ufficiale giudiziario si presenti dal debitore, quest’ultimo richieda di non procedere al pignoramento perché disposto a corrispondere il denaro necessario e, detto istituto, è definito “Pagamento nelle mani dell’ufficiale giudiziario”; art. 494 C.p.c.: “Il debitore può evitare il pignoramento versando nelle mani dell’ufficiale giudiziario la somma per cui si procede e l’importo delle spese, con l’incarico di consegnarli al creditore” e quindi, il debitore, deve consegnare le somme per le quali vanta il credito il creditore procedente ed eventualmente, se vi è stato un loro intervento, deve corrispondere anche le somme dei creditori intervenuti ed in più le spese dell’esecuzione. Però, continua l’art. 494 C.p.c.: “… All’atto del versamento si può fare riserva di ripetere la somma versata” e l’ufficiale giudiziario ne dovrà dare atto nel verbale che è chiamato a compilare. Sostanzialmente, la norma si riferisce all’ipotesi in cui il debitore versa le somme evitando così, il pignoramento ma, in realtà, non si ritiene debitore e dunque si riserva di chiedere la restituzione di queste somme versate nelle mani dell’ufficiale giudiziario. Su questa figura, in dottrina e in giurisprudenza, si è aperto un dibattito rispetto ad un’ipotesi particolare: cosa succede se l’ufficiale giudiziario non consegna al creditore le somme ricevute, appropriandosene lui stesso? Il debitore che aveva pagato nelle mani dell’ufficiale giudiziario, sarà comunque libero dal suo debito oppure no? Secondo un primo orientamento, questa ipotesi del pagamento delle somme nelle mani dell’ufficiale giudiziario, è un’ipotesi che non evita l’espropriazione forzata ma che, in realtà, la rende definita attraverso forme semplificate perché, l’ufficiale giudiziario, si reca dal debitore, quest’ultimo evita il pignoramento con il pagamento delle somme, l’ufficiale giudiziario redige un verbale con cui dà atto delle ricezione delle somme e dell’eventuale riserva formulata dal debitore e, queste somme, andranno consegnate al creditore. In ciò consiste la forma semplificata! Difatti, l’espropriazione forzata, non è che non si realizza, essa si realizza in forma semplificata e la conferma ci è data anche dal fatto che l’ufficiale giudiziario, in tutte le operazioni compiute, redige un apposito verbale il quale, secondo la disposizione contenuta nell’art. 157 delle Disp. Att. C.p.c., dovrà essere depositato nella cancelleria del giudice dell’esecuzione, con copia della prova del versamento al creditore della somma ricevuta dal debitore. Quindi, come è possibile constatare, non c’è un’espropriazione forzata nelle sue forme classiche, ma un’espropriazione con forme molto semplificate restando, tuttavia, pur sempre un’esecuzione forzata. E per questo motivo si ritiene che, qualora l’ufficiale giudiziario non consegni le somme al creditore appropriandosene, siccome lo stesso ufficiale giudiziario deve essere comunque considerato come un soggetto autorizzato dalla legge a ricevere la somma, un “aieptus soluciones cause”, la ricezione vale a liberare il debitore. Contro questa tesi, secondo cui il pagamento nelle mani dell’ufficiale giudiziario libera il debitore, si è sostenuto che bisognerebbe fare una differenza asseconda che il debitore abbia, o meno, formulato riserva di restituzione delle somme consegnate. Si è infatti sostenuto che, quando il debitore consegna le somme all’ufficiale giudiziario e non si riserva di ottenerne la restituzione, in questa ipotesi si avrebbe espropriazione forzata con forme semplificate e quella consegna, nelle mani dell’ufficiale giudiziario, avrebbe effetto liberatorio per il debitore; qualora invece, il debitore formulasse la riserva di restituzione, avremmo una sorta di deroga all’esecuzione forzata e l’effetto sarebbe che, consegnando le somme nelle mani dell’ufficiale giudiziario, non si otterrebbe ancora l’effetto liberatorio e dunque, nell’ipotesi in cui l’ufficiale giudiziario non restituisca le somme al creditore, il debitore dovrà pagare nuovamente. Pignoramento di denaro in sostituzione del pignoramento di cose Ma oltre al pagamento nelle mani dell’ufficiale giudiziario, vi è anche una figura diversa, prevista nell’ultimo comma dell’art. 494 C.p.c. e si tratta del “Pignoramento di danaro in sostituzione del pignoramento di cose”. Mentre il I° comma dell’art. 494 C.p.c. sanciva: “Il debitore può evitare il pignoramento (riferendosi al pignoramento in generale)”, l’ultimo comma dello stesso articolo afferma: “Può altresì evitare il pignoramento di cose (e quindi in questo caso il debitore non è che voglia evitare il pignoramento, intende evitare il pignoramento di determinate cose, ad esempio: non vuole che l’ufficiale giudiziario sottoponga a vincolo di pignoramento quella determinata collezione di orologi e allora, in sostituzione, gli offrirà una somma di danaro da pignorare), depositando nelle mani dell’ufficiale giudiziario, in luogo di esse, come oggetto di pignoramento, una somma di denaro uguale all’importo del credito o dei crediti per cui si procede e delle spese, aumentato di due decimi”. Anche se il debitore vuole evitare il pignoramento di cose specifiche, essendogli riconosciuto in ciò un favor, è tenuto comunque a corrispondere somme di denaro non solo, sufficienti a soddisfare tutti i creditori, ma anche le spese dell’esecuzione e tutto deve essere aumentato di due decimi, perché potrebbero intervenire dei creditori nell’espropriazione forzata successivamente, ma anche perché si deve tener conto degli eventuali interessi maturati. Questi due istituti appena esaminati, ruotano attorno al pignoramento ma: 1. 1. il primo istituto, quello del pagamento nelle mani dell’ufficiale giudiziario, serve ad evitare il pignoramento; 2. 2. il secondo istituto, il pignoramento di somme in luogo del pignoramento di cose, non serve ad evitare il pignoramento in generale, ma serve ad evitare il pignoramento di cose. Conversione del pignoramento Ancora diversa da queste ipotesi, è l’istituto della “conversione del pignoramento”. Esso si riferisce al caso in cui il pignoramento abbia avuto ad oggetto delle cose, dei beni, ma poi il debitore, in un secondo momento, chiede di sostituire a quelle cose pignorate una somma di danaro. La conversione del pignoramento, potrebbe apparentemente sembrare simile al pignoramento di somme in luogo del pignoramento di cose, ma non è così! Infatti, la differenza tra questa figura e quella precedente, è che: nel pignoramento di somme in luogo di cose, il debitore, sin dall’inizio evita proprio che delle cose vengano pignorate corrispondendo, come oggetto del pignoramento, somme di liberazione di quei beni per i quali aveva richiesto la conversione del pignoramento, in quanto quei beni resteranno vincolati, dal momento che, per svincolarli, doveva pagare tutto. E in più: “Il giudice dell’esecuzione, su richiesta del creditore procedente o creditore intervenuto munito di titolo esecutivo, dispone (in tali casi) senza indugio la vendita di questi ultimi. Con l’ordinanza che ammette la sostituzione (e questo significa che il debitore ha provveduto a versare tutte le somme o che ha pagato fino all’ultima rata), il giudice dispone che le cose pignorate siano liberate dal pignoramento e che la somma versata vi sia sottoposta in loro vece. I beni immobili sono liberati dal pignoramento con il versamento dell’intera somma. L’istanza può essere avanzata una sola volta, a pena di inammissibilità” dunque, se dopo la prima istanza di conversione, il debitore non ha versato il saldo, non potrà riproporla nuovamente e, se ugualmente avanzasse l’istanza, la stessa sarà dichiarata inammissibile. Riduzione del pignoramento Altro momento cognitivo si ha nell’ipotesi della “Riduzione del pignoramento”, art. 496 C.p.c.: “Su istanza del debitore o anche d’ufficio, quando il valore dei beni pignorati è superiore all’importo delle spese e dei crediti di cui all’articolo precedente, il giudice, sentiti il creditore pignorante e i creditori intervenuti, può disporre la riduzione del pignoramento”; in questo caso, si è pignorato troppo rispetto ai crediti e quindi bisognerà ridurre l’estensione del pignoramento ma, affinché il giudice possa stabile se si è pignorato troppo o meno, dovrà eseguire una possibile valutazione dei beni pignorati e dovrà verificare a quanto ammontano i crediti del creditore procedente e di quelli intervenuti, dunque ancora atti preliminari e ancora un momento cognitivo. Pignoramento su istanza di più creditori e pignoramento successivo Altra vicenda relativa al pignoramento, è il “pignoramento su istanza di più creditori”. Questa, è un’ipotesi che si riferisce al caso in cui più creditori, insieme, presentino istanza di pignoramento. Infatti, l’art. 493 C.p.c. sancisce: “Più creditori possono con unico pignoramento colpire il medesimo bene”, dunque ci sarà un unico processo esecutivo ed il pignoramento sarà uno, sebbene sia fatto su istanza di più creditori. Distinto dal pignoramento su istanza di più creditori, è l’istituto del pignoramento successivo, art. 493, II° comma C.p.c.: “… Il bene sul quale è stato compiuto un pignoramento può essere pignorato successivamente su istanza di uno o più creditori”. Questo II° comma, si riferisce all’ipotesi che già sia stato effettuato il pignoramento di un bene e che successivamente, ad istanza di uno o più creditori, venga richiesto un nuovo pignoramento sullo stesso bene. In questo caso, ci dice l’ultimo comma dell’art. 493 C.p.c.: “Ogni pignoramento ha effetto indipendente, anche se è unito ad altri in unico processo”. Proviamo a fare un esempio per comprenderci meglio: Tizio e Caio sono creditori di Sempronio, Tizio inizia un’espropriazione forzata mobiliare nei confronti di Sempronio e Caio (altro creditore), poiché questa espropriazione forzata è già stata iniziata da Tizio, decide di intervenire nel processo di espropriazione forzata iniziato da Tizio e dunque, l’intero processo, sarà retto dal titolo esecutivo di Tizio (creditore procedente o pignorante). Ma se per un qualunque motivo dovesse emergere che il credito di Tizio non esisteva, e quindi venisse accolta l’opposizione all’esecuzione, allora cadrà l’intero processo esecutivo e, di conseguenza, cadrà anche la posizione di Caio interventore. Ma se Caio invece di intervenire nell’espropriazione iniziata da Tizio contro Sempronio, avesse proposto istanza di pignoramento successivo sullo stesso bene mobile di grosso valore allora, qualora il pignoramento proposto da Tizio, per un qualunque motivo dovesse venir meno, resterà comunque in piedi il pignoramento successivo determinato da Caio e così si andrà avanti con l’espropriazione forzata, sostanzialmente non si correrà il rischio che Caio subisca atti di alienazione avuti dopo il pignoramento successivo. Infatti, se Caio ha posto in essere l’intervento nel processo iniziato da Tizio, gioverà della data del pignoramento effettuato dal creditore procedente (Tizio); se invece Caio proponesse istanza di pignoramento successivo, in tal caso, la data che rileverà, sarà quella del giorno in cui Caio ha effettuato il pignoramento e dunque potrà correre il rischio che, tra il primo pignoramento (quello iniziato da Tizio) ed il secondo pignoramento (quello iniziato da lui), subisca eventuali alienazioni. Possiamo allora concludere affermando che, il pignoramento successivo, serve a tutelare il creditore contro il rischio che il pignoramento effettuato per primo, per una qualunque ragione, venga dichiarato caducato. Forme particolari del pignoramento: espropriazione mobiliare presso il debitore Viste le vicende del pignoramento, ora ci chiediamo: ma come si esegue il pignoramento? Ce lo chiediamo perché l’art. 492, I° comma C.p.c. sanciva: “Salve le forme particolari previste nei capi seguenti, il pignoramento …”. Ma quali sono queste forme particolari? Sappiamo già che le forme variano asseconda della natura del bene, della situazione giuridica in cui si trovano e del luogo in cui si trovano. In primo luogo viene esaminata l’espropriazione mobiliare presso il debitore, art. 513 C.p.c. “Ricerca delle cose da pignorare”: “L’ufficiale giudiziario, munito di titolo esecutivo e del precetto, può ricercare le cose da pignorare nella casa del debitore e negli altri luoghi a lui appartenenti (ad esempio: il box auto dello stesso debitore; ma anche cose di cui non per forza il debitore abbia la proprietà ma, ad esempio, abbia una relazione di fatto, come il luogo in cui normalmente lavora e cioè l’ufficio). Può anche ricercarle sulla persona del debitore, osservando le opportune cautele per rispettarne il decoro”. Un’ipotesi particolare si ha quando, i beni destinati al pignoramento, si trovano in un luogo che non appartengono al debitore, ma dei quali lui stesso può disporre liberamente (ad esempio: la cassetta di sicurezza presso la banca è considerata luogo non di appartenenza del debitore perché lui, con quel luogo, ha solo una relazione di fatto costante, ha la chiave, vi accede e vi deposita cose, quindi è un luogo in cui il debitore può accedere direttamente e può disporne liberamente, ma non di sua appartenenza, dal momento che la cassetta di sicurezza è in realtà della banca) ebbene, in tali casi, affinché l’ufficiale giudiziario possa accedere al luogo che non appartiene al debitore ma di cui quest’ultimo può disporre liberamente, l’art. 513, III° comma C.p.c. richiede che: “Il presidente del tribunale o un giudice da lui delegato, su ricorso del creditore, può autorizzare con decreto l’ufficiale giudiziario a pignorare cose determinate che non si trovino in luoghi appartenenti al debitore, ma delle quali egli può direttamente disporre”. È possibile poi, che presso un terzo, il debitore abbia delle cose di sua proprietà e che lo stesso terzo, di sua iniziativa, le esibisca all’ufficiale giudiziario mettendogliele cioè a disposizione. In tal caso, l’ufficiale giudiziario, potrà direttamente procedere al pignoramento utilizzando lo strumento del pignoramento mobiliare presso il debitore, infatti, non dovrà avvalersi del pignoramento presso terzi! Anzi bisogna fare attenzione a non confondere le due ipotesi! Perché, del pignoramento presso terzi, ci si avvale quando si presume che il debitore presso il terzo abbia, ad esempio: il conto corrente ma non se ne ha la certezza ed è per questo che poi si provvederà a chiedere al terzo di rendere la dichiarazione di esistenza e quantità del credito ed il terzo, in tal caso e a differenza del pignoramento mobiliare presso il debitore, non metterà subito a disposizione il bene (nel caso di specie le somme di danaro). IV° comma, art. 513 C.p.c.: “In ogni caso l’ufficiale giudiziario può sottoporre a pignoramento, secondo le norme della presente sezione, le cose del debitore che il terzo possessore consente di esibirgli”, appunto il c.d. pignoramento mobiliare presso il debitore. 5° giorno Cose pignorabili e cose impignorabili Nell’ambito del pignoramento mobiliare acquista rilevanza la distinzione tra: cose pignorabili e cose impignorabili (cioè: beni mobili pignorabili e beni mobili impignorabili). Il significato reale di questa distinzione attiene ad un altro istituto, l’istituto dell’opposizione all’esecuzione e cioè, l’opposizione che si utilizza non solo, quando si vuole andare a contestare che esiste il diritto del creditore di procedere all’esecuzione forzata, ma anche quando si vuole contestare la pignorabilità di alcuni beni; infatti, se è stato pignorato un bene che invece non era pignorabile, non sottoponibile a quel vincolo, si farà valere questo vizio attraverso l’opposizione all’esecuzione. Il codice distingue tra: beni che sono assolutamente impignorabili, cioè beni che non potranno mai essere pignorati e detti beni, sono elencati nell’ambito della disciplina relativa al pignoramento mobiliare. Art. 514 C.p.c. “Cose mobili assolutamente impignorabili”: “Sono impignorabili in via assoluta: 1. 1) le cose sacre e quelle che servono all’esercizio del culto; 2. 2) l’anello nuziale, la biancheria, i vestiti, i letti, i tavoli per la consumazione dei pasti con le relative sedie, gli armadi guardaroba, i cassettoni, il frigorifero, le stufe ed i fornelli da cucina anche se a gas o elettrici, la lavatrice …” sostanzialmente, tutto ciò che serve alla vita minima quotidiana ma e chiaro che, se il debitore pignorato possiede due tavoli di cui uno ha particolare pregio, gli verrà pignorato quest’ultimo. Continuando nell’analisi del numero (2 dell’art. 514 C.p.c., rileva il fatto che esso fa riferimento al concetto che vigila su questa impignorabilità e cioè: “… l’indispensabilità dei beni al debitore ed alle persone della sua famiglia con lui conviventi …” e difatti, per le stesse ragioni, non potranno essere pignorati: 1. 3) “… i commestibili e i combustibili necessari per un mese al mantenimento del debitore e delle altre persone indicate nel numero precedente; 2. 4) le decorazioni al valore, le lettere, i registri e in genere gli scritti di famiglia …”; beni relativamente impignorabili e con ciò si fa riferimento soprattutto, all’ipotesi in cui il bene possa essere pignorato soltanto in parte oppure, pignorato soltanto in determinate circostanze. Ad essi si riferisce l’art. 515 C.p.c. “Cose mobili relativamente impignorabili”: “Le cose, che il proprietario di un fondo vi tiene per il servizio e la coltivazione del medesimo, possono essere pignorate separatamente dall’immobile soltanto in mancanza di altri beni mobili; tuttavia il giudice dell’esecuzione, su istanza del debitore e sentito il creditore, può escludere dal pignoramento, con ordinanza non impugnabile, quelle tra le cose suindicate che sono di uso necessario per la coltura del fondo, o può anche permettere l’uso, sebbene pignorate, con le opportune cautele per la loro conservazione e ricostruzione”. Permettendo l’uso del bene sebbene pignorato, si dà luogo ad una deroga al principio generale perché, il bene pignorato, non può normalmente essere oggetto di utilizzazione da parte del debitore. Ma la relativa impignorabilità si manifesta sia, in un criterio di relatività, nel senso che può essere pignorato quel bene quando il pignoramento abbia ad oggetto anche altri beni, tanto è vero che, gli strumenti che servono per la coltivazione di un fondo possono essere sì pignorati, ma solo se è stato pignorato anche il fondo, sia in un criterio quantitativo ai sensi dell’art. 515 C.p.c. ultimo comma, relatività nel senso di limitazione quantitativa: “Gli strumenti, gli oggetti e i libri indispensabili per l’esercizio della professione, dell’arte o del mestiere del debitore possono essere pignorati nei limiti di un quinto, quando il presumibile valore del realizzo degli altri beni rinvenuti dall’ufficiale giudiziario o indicati dal debitore (art. 492 C.p.c.) non appare sufficiente per la soddisfazione del credito …” pensiamo ad un avvocato che ha una grande libreria piena di libri, avendo un valore, quegli oggetti, saranno pignorabili ma non è possibile però, impedire all’avvocato l’esercizio della sua professione e così, probabilmente, gli verranno lasciati i codici commentati e quei beni indispensabili per l’esercizio della sua professione ma, in ogni caso, si dovrà rispettare un pignoramento che non superi il limite indicato di un quinto e comunque, la possibilità di pignorare questi strumenti, è subordinata al fatto che non è possibile realizzare una somma sufficiente a soddisfare il creditore con gli altri beni pignorabili. Art. 516 C.p.c., II° comma “Cose pignorabili in particolari circostanze di tempo”: “I bachi da seta possono essere pignorati solo quando sono nella maggior parte sui rami per formare il bozzolo”. Il concetto che in realtà deve essere compreso è che, il bene impignorabile, è un bene che è dichiarato tale o perché c’è da rispettare un valore costituzionale (ad esempio: la libertà di culto), o per garantire la dignità minima per il sostentamento minimo delle persone con la loro famiglia, per garantire l’esercizio dell’arte, del mestiere e della professione; però è chiaro che questi valori, hanno una graduazione diversa anche per la Costituzione e cioè, una cosa è garantire il sostentamento delle persone e perciò si tratterà di beni assolutamente impignorabili (infatti non è possibile pignorare viveri se non oltre il mese di sostentamento e basti pensare ad una persone che abbia una grande riserva di Ma se il creditore teme che l’ufficiale giudiziario perda tempo nel provvedervi, allora, l’art. 555, III° comma C.p.c., sancisce: “… Le attività previste nel comma precedente possono essere compiute anche dal creditore pignorante, al quale l’ufficiale giudiziario, se richiesto, deve consegnare gli atti di cui sopra”. Nasce un problema! Abbiamo visto in precedenza che, nel pignoramento mobiliare, l’ufficiale giudiziario si recava presso il luogo di appartenenza del debitore, pignorava il bene, ne faceva una descrizione e poi vedeva come custodirlo asseconda della natura del bene stesso; nel pignoramento immobiliare, invece, l’ufficiale giudiziario notifica l’atto di pignoramento e questo stesso atto deve essere trascritto ma allora ci chiediamo: il pignoramento, in quest’ultimo caso, si realizza con la notifica al debitore dell’atto di pignoramento, oppure si perfezione solo con la trascrizione dell’atto nei registri immobiliari? Su questo tema c’è un dibattito in dottrina ma, la giurisprudenza, è chiara nell’affermare che il pignoramento immobiliare si perfeziona già con la notifica al debitore dell’atto di pignoramento mentre, invece, la trascrizione nei registri immobiliari, ha solo un’efficacia dichiarativa del pignoramento, serve cioè per andare ad opporre l’avvenuto pignoramento ai terzi che si siano resi acquirenti del bene immobile pignorato soltanto a partire dalla data di avvenuta trascrizione dei registri immobiliari. Parte della dottrina ritiene invece che il pignoramento immobiliare, si perfeziona con la trascrizione dell’atto di pignoramento, ritenendo dunque che la trascrizione abbia efficacia costitutiva del pignoramento stesso. Altro istituto è il cumulo dei mezzi di espropriazione. Sostanzialmente, sappiamo che il patrimonio di un presunto debitore può essere variegato (si compone di beni mobili, beni immobili, crediti …) e quindi è chiaro che il creditore in tal caso potrà utilizzare più mezzi di espropriazione forzata (espropriazione mobiliare, immobiliare, presso terzi) ed è ovvio che, ciascuna di essa, seguirà le sue forme. Ed ecco perché l’art. 556 C.p.c. si occupa dell’“espropriazione dei beni mobili insieme all’immobile in cui sono contenuti” e ci dice che, in questo caso, si potrà fare un’espropriazione unitamente (beni mobili e immobili) ma, l’ufficiale giudiziario, formerà atti separati per l’immobile e per i mobili anche perché le forme sono diverse pure se poi si svolgerà un processo esecutivo unico, tant’è che l’ufficiale giudiziario, depositerà i suddetti atti insieme nella cancelleria del giudice dell’esecuzione, vale a dire del tribunale. Fatta questa premessa, ritorniamo alla differenza tra pignoramento mobiliare e immobiliare ed analizziamo l’art. 557 C.p.c. “Deposito dell’atto di pignoramento”: “L’ufficiale giudiziario che ha eseguito il pignoramento deve depositare immediatamente (e non più entro ventiquattro ore come nel caso dei beni mobili) nella cancelleria del tribunale competente per l’esecuzione l’atto di pignoramento e, appena possibile, la nota di trascrizione restituitagli dal conservatore dei registri immobiliari” questi, sono gli adempimenti dell’ufficiale giudiziario ma il II° comma, ci dice anche quali sono gli adempimenti che spettano al creditore e cioè: “Il creditore pignorante deve depositare il titolo esecutivo e il precetto entro dieci giorni dal pignoramento e, nell’ipotesi di cui all’articolo 555, ultimo comma (e cioè qualora sia stato lui stesso a far effettuare la trascrizione), la nota di trascrizione appena restituitagli dal conservatore dei registri immobiliari. Il cancelliere al momento del deposito dell’atto di pignoramento forma fascicolo dell’esecuzione” il fascicolo d’ufficio, si forma per effetto del deposito dell’atto di pignoramento ad opera dell’ufficiale giudiziario e, nello stesso fascicolo, verranno inseriti titolo esecutivo e precetto depositati dal creditore che ne avrà richiesto la notifica e poi la nota di trascrizione nei registri immobiliari. Quindi, in tal caso, l’atto di pignoramento viene notificato al debitore mentre, il titolo esecutivo ed il precetto notificati, li ha ancora il creditore tant’è vero che l’art. 557, II° comma C.p.c., ci dice che lo stesso creditore li dovrà depositare entro 10 giorni nella cancelleria del giudice dell’esecuzione per essere inseriti nel fascicolo dell’esecuzione. Ma chi provvede alla custodia dei beni pignorati quando si tratta di pignoramento immobiliare? Negli artt. 559 e 560 C.p.c., il criterio è opposto a quello che abbiamo riscontrato nell’ambito del pignoramento mobiliare nel quale, il debitore, poteva essere nominato custode solo con il consenso del creditore ed infatti, ai sensi dell’art. 559 C.p.c. “Custodia dei beni pignorati”: “Col pignoramento il debitore è costituito custode dei beni pignorati e di tutti gli accessori, comprese le pertinenze e i frutti, senza diritto a compenso” e questa è la regola generale per il pignoramento dei beni immobili ma, il II° comma, prevede che: “Su istanza del creditore pignorante o di un creditore intervenuto, il giudice dell’esecuzione, sentito il debitore, può nominare custode una persona diversa dallo stesso debitore. Il giudice (in ogni caso) provvede a nominare (custode) una persona diversa quando l’immobile non sia occupato dal debitore” e allora il principio è che sì, normalmente, il custode dell’immobile pignorato è il debitore esecutato ma solo, se e quando, l’immobile stesso sia occupato dal debitore, infatti, se non fosse questa la circostanza, sarà nominata custode dell’immobile una persona diversa dallo stesso debitore. Ovviamente, è preferibile che l’immobile non sia occupato dal debitore perché, l’immobile medesimo, dovrà essere sottoposto a visione e cioè, qualora vi fossero possibili soggetti interessati a fare offerte nella vendita, questi stessi soggetti normalmente, vorranno prima visionare l’immobile e spesso, quando il debitore è custode, pone una serie di ostacoli alla possibilità di accedere all’immobile per visionarlo. Tuttavia, il legislatore, volendo anche tutelare quei principi costituzionali tra cui quello di garantire un’abitazione al debitore con la sua famiglia, prevede che custode possa essere lo stesso debitore qualora occupi l’immobile. Ma anche se è il debitore ad occupare l’immobile, il creditore procedente o anche intervenuto, ai sensi del II° comma, possono chiedere che custode sia nominato un soggetto diverso dal debitore, ed in tal caso, prima di provvedere, il giudice dell’esecuzione dovrà sentire anche il debitore. Ci sono poi delle circostanze in cui, o il giudice dell’esecuzione deve provvedere a sostituire quale custode il debitore con un altro soggetto a causa di alcuni inadempimenti del debitore stesso (ad esempio il fatto che non consenta l’accesso all’immobile) e a prescindere da qualsiasi consenso, oppure c’è un momento in cui normalmente, viene comunque disposta la sostituzione quale custode del debitore con un altro soggetto. La prima ipotesi è disciplinata al III° comma dell’art. 559 C.p.c.: “Il giudice provvede alla sostituzione del custode in caso di inosservanza degli obblighi su di lui incombenti”; ma il debitore è sostituito anche quando il giudice provvede all’autorizzazione della vendita forzata ai sensi del comma IV°: “Il giudice, se custode dei beni pignorati è il debitore e salvo che per la particolare natura degli stessi ritenga che la sostituzione non abbia alcuna utilità, dispone, al momento in cui pronuncia l’ordinanza con cui è autorizzata la vendita o disposta la delega delle relative operazioni, che custode dei beni medesimi sia la persona incaricata delle dette operazioni o l’istituto vendite giudiziarie” la ratio della sostituzione consiste proprio nel fatto che si vuole evitare che i soggetti, sapendo che custode è il debitore e che lo stesso pone ostacoli, alla fine si disinteressino della procedura e non facciano offerte nella vendita all’incanto e pertanto, il giudice dell’esecuzione, può decidere di delegare lo svolgimento della vendita del bene ad un notaio, ad un commercialista, oppure ad un avvocato. E quando avvengono ipotesi del genere, e cioè ipotesi di delega delle operazioni di vendita ad un professionista, questo professionista, dopo che il giudice abbia emesso l’ordinanza con cui autorizza la vendita e delega anche il professionista, diviene anche custode del bene immobile e quindi curerà lui stesso l’accesso di eventuali interessati all’immobile per visitarlo ma, oltre cha ad un professionista, la vendita forzata, può essere affidata all’istituto vendita giudiziaria ed è ovvio che in tal caso, custode, sarà quest’ultima. Art. 559, comma VI° C.p.c.: “I provvedimenti di cui ai commi che precedono sono pronunciati con ordinanza non impugnabile” e cioè, quando il giudice dell’esecuzione vuole sostituire il debitore o comunque il custode con un altro soggetto, lo fa con ordinanza non impugnabile e quest’ultima è importante perché è un titolo esecutivo! Infatti, ci dice il III° comma dell’art. 560 C.p.c.: “Il giudice dell’esecuzione dispone, con provvedimento non impugnabile, la liberazione dell’immobile pignorato, quando non ritiene di autorizzare il debitore a continuare ad abitare lo stesso, o parte dello stesso, ovvero quando revoca la detta autorizzazione (se il custode non adempie ai suoi obblighi di custodia), se concessa in precedenza, ovvero quando provvede all’aggiudicazione o all’assegnazione dell’immobile”; e che cosa vuol dire? Il giudice dell’esecuzione, deve fare in modo che il soggetto che venga ad offrire in una vendita all’incanto, per acquistare il bene pignorato poi dopo, non abbia il problema di andare a conseguire il possesso del bene perché il debitore non vuole liberarlo e quindi, il giudice, emette l’ordinanza non impugnabile con la quale ordina al debitore di liberare l’immobile e nomina custode un altro soggetto. Quest’ordinanza non impugnabile è dunque, titolo esecutivo per il rilascio. Ma chi si avvale di questo titolo esecutivo per il rilascio? Comma IV°: “Il provvedimento costituisce titolo esecutivo per il rilascio ed è eseguito a cura del custode anche successivamente alla pronuncia del decreto di trasferimento nell’interesse dell’aggiudicatario o dell’assegnatario se questi non lo esentano” dunque, il titolo esecutivo per il rilascio, può essere azionato dal custode e cioè lo stesso custode, che deve sostituirsi al debitore, curerà l’esecuzione per rilascio nei suoi confronti. Per comprenderci l’ipotesi è che: l’immobile pignorato è occupato dal debitore, con ordinanza è nominato custode il notaio, alla procedura esecutiva per ottenere il rilascio dell’immobile dal debitore può provvedere lo stesso notaio e quindi lo stesso custode diverso dal debitore. Quest’ultimo, sarà dunque sottoposto a due procedure esecutive: quella originaria, mossa dal creditore procedente e che aveva ad oggetto, evidentemente, una somma di danaro; e all’esecuzione per rilascio, al fine di ottenere la sostituzione a lui della custodia del bene da parte di un altro soggetto. Espropriazione presso terzi Passiamo ora all’espropriazione presso terzi e ci chiediamo: la situazione del pignoramento presso terzi, quando ricorre? Bisogna partire dal presupposto che: • - il concetto di creditore, bisogna intenderlo in una concezione più ampia e cioè si è creditori non solo di una somma di danaro, ma anche della consegna, del rilascio di un bene; • - quando parliamo di espropriazione presso terzi, il terzo, può trovarsi nel possesso o nella detenzione di un bene del debitore esecutato, possesso o detenzione che può essere costituito, o da un bene mobile diverso dal danaro, o dallo stesso danaro e, in entrambi i casi, il terzo è un debitor debitoris (un debitore del nostro debitore). E proprio perché il terzo è il debitor debitoris, proprio perché la garanzia patrimoniale generica può essere costituita da somme di danaro, beni mobili, immobili … è necessario uno strumento che consenta di aggredire anche i beni del debitore che si trovino presso il terzo e questo strumento è, appunto, l’espropriazione presso terzi! Il suo campo di applicazione l’abbiamo individuato quando abbiamo analizzato l’art. 513 C.p.c. che faceva capire che, se i luoghi erano di appartenenza del debitore o erano luoghi in cui egli poteva liberamente accedere allora, il creditore, poteva utilizzare il pignoramento mobiliare presso il debitore (e non presso il terzo) ed eventualmente, nell’ultimo caso, facendosi autorizzare dal Presidente del tribunale. È possibile utilizzare l’espropriazione presso il debitore, nelle ipotesi in cui il terzo, spontaneamente, offre di mettere a disposizione dell’ufficiale giudiziario quei beni del debitore che si trovano presso di lui. Ma allora, quando si ricorre all’espropriazione presso terzi? Innanzitutto quando non ricorre alcuna di queste ipotesi e quando non si è certi che presso il terzo sicuramente ci siano i beni del debitore. E allora, quando c’è l’incertezza che presso il terzo ci siano i beni del debitore, il procedimento da seguire è sicuramente l’espropriazione presso terzi, disciplinata all’art. 543 C.p.c. rubricato “Forma del pignoramento”, il quale si ricollega strettamente all’art. 492, I° comma C.p.c. che, nel dire che il pignoramento consiste nell’ingiunzione, faceva salve le forme previste nei capi seguenti. Tra queste forme abbiamo già analizzato le forme del pignoramento mobiliare, le forme del pignoramento immobiliare ed ora analizziamo le numerose forme del pignoramento presso terzi. Le forme, in quest’ultimo caso, sono numerose perché la circostanza che il bene del debitore si trovi presso un terzo, onera il creditore ad una serie di attività. Nell’espropriazione presso terzi, il titolo esecutivo ed il precetto, vanno notificati solo al debitore esecutato perché solo lui è soggetto passivo dell’esecuzione. Occorre precisare che invece, nell’espropriazione contro il terzo proprietario che il processo di cognizione (i 90 giorni) e quindi, tra la data in cui il terzo riceve la notifica dell’atto di cui all’art. 543 C.p.c. e l’udienza, devono decorrere almeno 90 giorni. Dunque la raccomandata non è citata perché, l’udienza, innanzitutto è un evento successivo ma poi abbiamo detto in precedenza che, raccomandata e udienza, sono in realtà comportamenti alternativi e quindi il legislatore ha considerato l’ipotesi in cui, il terzo, non intervenga con la raccomandata ricorrendo all’ultima chance dell’udienza e pertanto ha preso in esame soltanto quest’ultima. Può inoltre accadere che il debitore riceva l’atto di precetto notificato con il quale c’è l’intimazione ad adempiere e che poi dopo, il terzo, riceva l’atto di cui all’art. 543 C.p.c. Ora immaginiamo che il terzo sia la banca, la quale, una volta ricevuto l’atto di cui all’art. 543 C.p.c., dichiara a mezzo raccomandata (tenendo dunque conto della situazione che esisteva in quei dieci giorni), che sul conto corrente del debitore vi sono, ad esempio, € 2.000 ma il credito per il quale si procede è pari a € 5.000. Sappiamo che fino all’udienza passeranno dei mesi, e allora ci chiediamo: e se sullo stesso conto corrente in quei mesi venissero accreditati dei nuovi soldi? Di certo gli stessi non potranno essere sottratti perché vi è l’intimazione e allora cosa dovrà fare la banca? Dovrà presentarsi in udienza e dichiarare che, nel frattempo, il credito è aumentato? Ebbene si! Infatti si ritiene che la banca, avendo l’obbligo di custodire le somme e dovendo muoversi nell’interesse della procedura esecutiva, poiché il termine ultimo per rendere la dichiarazione è l’udienza, qualora sopravvenissero delle somme fino alla data dell’udienza, dovrà rendersi diligente, comparire all’udienza e rendere questa nuova dichiarazione integrativa. Questo è un altro motivo per il quale l’art. 548 C.p.c. tiene conto solo della data dell’udienza e delle ipotesi in cui il terzo abbia reso la dichiarazione, a mezzo raccomandata, dell’esistenza di crediti non sufficienti a soddisfare il creditore e non compare all’udienza nonostante il fatto che il creditore sia a conoscenza delle sopravvenienze positive giunte sul conto del debitore, oppure compare all’udienza ma rende una dichiarazione negativa, oppure si rifiuta di rendere la dichiarazione integrativa. In queste due ultime ipotesi, il pignoramento non si perfeziona perché manca l’oggetto; nella prima ipotesi, invece, dichiarando comunque l’esistenza di un credito, qualora il creditore non contesti la somma, il pignoramento si avrebbe per quella quantità anche se non è sufficiente a soddisfare il creditore. Tuttavia, di fronte a queste condotte, il creditore può, alla stessa udienza, chiedere che si apra un giudizio di accertamento dell’obbligo del terzo che seguirà le forme indicate nel Libro secondo, il quale disciplina il processo di cognizione. Quindi si aprirà un processo di cognizione piena che avrà ad oggetto l’accertamento dell’obbligo del terzo e cioè, verificherà se il terzo è debitore del nostro debitore, o meglio, accerterà se esiste un credito del nostro debitore nei confronti del terzo. A questo processo di cognizione (che pertanto non sarà seguito dal tribunale quale giudice dell’esecuzione ma dal giudice, appunto, di cognizione) parteciperanno, quali litisconsorti necessari, sia il creditore procedente, sia il terzo, sia il debitore esecutato e si concluderà con una sentenza vera e propria che passerà in giudicato. Ma nel frattempo, cosa succede al processo esecutivo? Ebbene lo stesso verrà sospeso e questa, è una delle rare ipotesi in cui è prevista una sospensione ex lege del processo esecutivo, non c’è cioè, alcuna discrezionalità del giudice in quanto automaticamente, per legge, il processo esecutivo si sospenderà in attesa che si svolga il giudizio di accertamento dell’obbligo del terzo. Il processo esecutivo si sospende dunque, perché bisogna attendere gli esiti del giudizio di accertamento degli obblighi del terzo al fine di capire se, il pignoramento, si sia o meno perfezionato; infatti, se la sentenza accerta l’obbligo del terzo, il pignoramento si perfeziona in relazione all’oggetto che sarà stato accertato con la sentenza, se invece la sentenza accerta che non esiste l’obbligo, in tal caso, il pignoramento non si perfeziona e tutti gli atti fino ad allora compiuti cessano di avere efficacia, vengono caducati. Ecco perché nell’ipotesi di pignoramento presso terzi si parla di procedimento! Perché, addirittura, nell’ambito degli atti, vi può rientrare persino un giudizio di accertamento fatto in un processo a cognizione piena ma pur sempre finalizzato ad individuare l’oggetto del pignoramento. Art. 549 C.p.c. “Accertamento dell’obbligo del terzo”: “Con la sentenza che definisce il giudizio di cui all’articolo precedente, il giudice, se accerta l’esistenza del diritto del debitore nei confronti del terzo, fissa alle parti un termine perentorio per la prosecuzione del processo esecutivo” questo articolo è una sintesi di tutto quello appena detto e cioè: si attende una sentenza ma è chiaro che, detta sentenza, determinerà il perfezionamento del pignoramento solo se sia accertato che il terzo è il debitore del debitore e nei limiti in cui è avvenuto l’accertamento dal punto di vista quantitativo; inoltre, la norma, affermando che il processo deve “proseguire”, lascia intendere che lo stesso è stato sospeso automaticamente e che il giudice, chiamato a decidere, fisserà un termine in cui le parti, qualora ancora interessate, dovranno riattivare il processo esecutivo. Ma il terzo, cosa ha da guadagnare e cosa ha da perdere nel rendere o non rendere la dichiarazione? Se il terzo si rifiutasse di rendere la dichiarazione, oppure la rendesse ma falsa e ciò venisse accertato nel processo di cognizione piena che il creditore ha avviato, il terzo verrebbe condannato al pagamento delle spese del processo, oltre ad avere conseguenze civilistiche perché, questo, è l’istituto della tutela aquiliana del credito a cui si ricorre nel caso in cui, un terzo, (dunque in via extra contrattuale) leda un diritto altrui, nel caso di specie, il diritto di credito del creditore procedente. Pignoramento contro il terzo proprietario Abbiamo già precisato che questo tipo di pignoramento (presso terzi) è differente dal pignoramento contro il terzo proprietario. Quest’ultimo, è disciplinato all’art. 602 C.p.c. e si riferisce al caso in cui si va ad aggredire il bene che appartiene al terzo; mentre, nell’espropriazione presso terzi, il bene si trova sì, presso il terzo, ma appartiene al debitore. È possibile aggredire il bene di appartenenza del terzo, o perché lo stesso ha garantito con un bene proprio un debito altrui, o perché si è reso acquirente di un bene del debitore ma, l’acquisto di detto bene, è stato revocato con l’azione revocatoria perché è stato fatto proprio con l’intento di frodare i creditori. Difatti, l’azione revocatoria, consente di ottenere come utilità, se si vince, quella della dichiarazione di inefficacia dell’atto di alienazione nei confronti del creditore che ha agito in revocatoria (infatti produce effetti solo nei confronti di chi agisce, dell’attore) e quindi, rendendo inefficace l’atto di alienazione, per il creditore è come se quel bene fosse del debitore e quindi può pignorarlo. Art. 602 C.p.c. “Modo dell’espropriazione”: “Quando oggetto dell’espropriazione è un bene gravato da pegno o da ipoteca per un debito altrui, oppure un bene la cui alienazione da parte del debitore è stata revocata per frode, si applicano le disposizioni contenute nei capi precedenti, in quanto non siano modificate dagli articoli che seguono”. Per questo tipo di espropriazione, sono previsti solo tre articoli perché è un continuo rinvio agli articoli che riguardano le singole forme di espropriazione in quanto, l’espropriazione contro il terzo proprietario, dipende dal tipo di bene; infatti l’articolo si riferisce all’ipoteca (che si prescrive sui beni immobili), al pegno (che si esegue sui beni mobili o i crediti) e all’azione revocatoria (che riguarda l’alienazione generale dei beni). Allora possiamo dire che questo tipo di espropriazione è particolare, perché avviene su beni che appartengono ad un terzo ma le forme da seguire in concreto, sono determinate dalla natura e dalla tipologia del bene (mobile, immobile, crediti). La particolarità consiste nel fatto che, nell’espropriazione contro il terzo proprietario, il bene appartiene al terzo che non è un debitor debitoris ma è un responsabile senza debito, tuttavia, rispetto alla procedura esecutiva, egli è considerato come soggetto passivo dell’esecuzione sia pure limitatamente ai beni che sono oggetto della garanzia ipotecaria, del pegno oppure sono stati revocati con l’azione revocatoria e quindi, limitatamente ai quei beni coi quali ha prestato garanzia, è come se fosse debitore esecutato. Dunque, soggetti attivi dell’esecuzione, saranno il creditore procedente e i creditori intervenuti che abbiamo titolo esecutivo; soggetti passivi, saranno il debitore esecutato ed il terzo ma, quest’ultimo, limitatamente ai beni coi quali ha prestato garanzia. Da ciò discende che il titolo esecutivo ed il precetto, che vanno notificati normalmente al soggetto passivo dell’esecuzione (e per questa stessa ragione non sono notificati al terzo nell’ipotesi di espropriazione presso terzi, in quanto non è soggetto passivo), nell’ipotesi di espropriazione contro il terzo proprietario, invece, vanno notificati anche a questo terzo, ai sensi dell’art. 603 C.p.c. “Notificazione del titolo esecutivo e del precetto”: “Il titolo esecutivo e il precetto debbono essere notificati anche al terzo. (Ma la particolarità è che ...) Nel precetto deve essere fatta espressa menzione del bene del terzo che si intende espropriare” e cioè, poiché la responsabilità del terzo è legata a beni specificatamente individuati, è necessario che, già nel precetto, si indichi quali sono i beni del terzo che si vogliono sottoporre alla procedura esecutiva. In più, il debitore esecutato, essendo un soggetto che non paga (ed è proprio per questo che poi si procede a questa espropriazione forzata), non può rendersi acquirente del bene pignorato nel caso di vendita all’asta, invece, il terzo, non ha questo divieto; il terzo proprietario che ha prestato garanzia può, in sede di vendita forzata, rendersi acquirente del suo bene ai sensi dell’art. 604 C.p.c. “Disposizioni particolari”: “Il pignoramento e in generale gli atti d’espropriazione si compiono nei confronti del terzo, al quale si applicano tutte le disposizioni relative al debitore (quindi il terzo è pienamente equiparato al debitore esecutato), tranne il divieto di cui all’articolo 579 primo comma. Ogni volta che a norma dei capi precedenti deve essere sentito il debitore, è sentito anche il terzo”. Pignoramento di beni indivisi Concludendo il tema del pignoramento, passiamo ora all’espropriazione di beni indivisi. L’ipotesi è che, il bene immobile, non sia di proprietà esclusiva di Tizio ma sia di proprietà anche delle sue due sorelle; il creditore che procede è però, creditore del solo Tizio (proprietario dell’immobile pro quota) e quindi deve poter pignorare anche questa quota di cui Tizio è proprietario, in quanto rientra comunque nel suo patrimonio; però il creditore, nel farlo, deve osservare delle accortezze e cioè è necessario che avverta anche gli altri comproprietari (ma sia nel caso in cui si tratti di beni mobili, sia nel caso in cui si tratti di beni immobili). Come nell’espropriazione contro il terzo proprietario, anche nell’espropriazione di beni indivisi, si fa riferimento alla titolarità dei beni da pignorare e, le forme da seguire, saranno quelle determinate dalla tipologia del bene (mobile, immobile). Art. 599 C.p.c. “Pignoramento”: “Possono essere pignorati i beni indivisi anche quando non tutti i comproprietari sono obbligati verso il creditore. In tal caso del pignoramento è notificato avviso, a cura del creditore pignorante, anche agli altri comproprietari, ai quali è fatto divieto di lasciare separare dal debitore la sua parte delle cose comuni senza ordine del giudice”. Questa regola opera soprattutto quando la cosa comune sia separabile in natura (ad esempio: Tizio, Caio e Sempronio, sono comproprietari di sei orologi identici, quindi è possibile dividerli in natura perché sono due orologi a testa; con la notifica dell’avviso agli altri comproprietari, a loro è fatto divieto di consentire la divisione, assumendo quindi l’obbligo di custodia). Ma cosa succede se invece, il bene non è separabile in natura? Basti pensare all’ipotesi in cui, il bene comune, sia un enciclopedia prestigiosa che non può essere divisa perché altrimenti se ne perderebbe il valore; ebbene, in tali casi, è possibile o vendere la propria quota, o l’intera enciclopedia e dividersi il denaro. Art. 600 C.p.c. “Convocazione dei comproprietari”: “Il giudice dell’esecuzione, su istanza del creditore pignorante o dei comproprietari e sentiti tutti gli interessati, provvede, quando è possibile, alla separazione della quota in natura spettante al debitore. Se la separazione in natura non è chiesta o non è possibile, il giudice dispone che si proceda alla divisione a norma del codice civile, salvo che ritenga probabile la vendita della quota indivisa ad un prezzo pari o superiore al valore della stessa”; abbiamo detto che se il bene comune non è divisibile in natura, allora il debitore può decidere di vendere la propria quota oppure, tutti i comproprietari, possono decidere di vendere l’intero bene e dividersi il ricavato; ma il legislatore, con questo art. 600 C.p.c., ha manifestato chiaramente che la vendita della quota è un’ipotesi sussidiaria perché, di solito, quando si vende la singola quota, si ricava di meno di quanto si sarebbe ricavato dalla vendita unitaria del bene comune. Per questo motivo il legislatore, ha sancito che, normalmente, se si deve procede alla vendita giudiziaria, si procede alla vendita unitaria del bene, salvo che si preveda che, la vendita della quota, sia in grado di far ottenere una somma pari o superiore a quella che si otterrebbe dalla vendita unitaria del bene. Una seconda ipotesi (e la prima si ha con il giudizio di accertamento dell’obbligo del terzo) in cui il processo esecutivo si sospende automaticamente ex lege, si ha anche in tal caso; infatti, se il giudice deve provvedere alla divisione giudiziaria del bene, poiché il giudizio di divisione è un giudizio di cognizione, si sospenderà il processo esecutivo in attesa che si definisca il giudizio di divisione ai comparizione davanti a sé del debitore e dei creditori intervenuti privi di titolo esecutivo, disponendone la notifica a cura di una delle parti. Tra la data dell’ordinanza e la data fissata per l’udienza non possono decorrere più di sessanta giorni”; quest’udienza è dunque preparata dalla notificazione al debitore esecutato, dell’atto di intervento dei creditori sforniti di titolo esecutivo. Ma cosa succede all’udienza? Comma VI°: “All’udienza di comparizione il debitore deve dichiarare quali dei crediti per i quali hanno avuto luogo gli interventi egli intenda riconoscere in tutto o in parte, specificando in quest’ultimo caso la relativa misura (è chiaro che ci si sta riferendo ai creditori sforniti di titolo esecutivo perché, se i creditori avessero un titolo esecutivo, il debitore non dovrebbe poi indicarne la misura in quanto, la stessa, emergerà dal medesimo titolo esecutivo). Se il debitore non compare, si intendono riconosciuti tutti i crediti per i quali hanno avuto luogo interventi in assenza di titolo esecutivo. In tutti i casi il riconoscimento rileva comunque ai soli effetti dell’esecuzione. I creditori intervenuti i cui crediti siano stati riconosciuti da parte del debitore partecipano alla distribuzione della somma ricavata per l’intero ovvero limitatamente alla parte del credito per la quale vi sia stato riconoscimento parziale. I creditori intervenuti i cui crediti siano stati viceversa disconosciuti dal debitore hanno diritto, ai sensi dell’articolo 510, terzo comma, all’accantonamento delle somme che ad essi spetterebbero, sempre che ne facciano istanza e dimostrino di aver proposto, nei trenta giorni successivi all’udienza di cui al presente comma, l’azione necessaria affinché essi possano munirsi del titolo esecutivo” quindi le ipotesi sono: o che il debitore ha riconosciuto i crediti, ed in tal caso i creditori, anche se sforniti di titolo esecutivo, parteciperanno alla distribuzione delle somme; o che tacendo, li ha ugualmente riconosciuti e quindi, i creditori, parteciperanno alla distribuzione; oppure che li ha riconosciuti soltanto in parte e quindi il creditore avrà diritto a partecipare alla distribuzione delle somme soltanto nei limiti del riconoscimento; o, infine, che li ha disconosciuti e di conseguenza i creditori non avranno diritto a partecipare alla distribuzione però, qualora proponessero istanza, potrebbero chiedere che le somme che spetterebbero loro (somme che risultano dai loro atti di intervento), vengano accantonate in attesa che gli stessi creditori sforniti di titolo esecutivo si muniscano di un titolo esecutivo ed anzi, essi, dovranno dimostrare di aver iniziato, entro trenta giorni da quando hanno richiesto l’accantonamento, un procedimento volto alla formazione di un titolo esecutivo. Ricordiamo che questo accantonamento non può avere un tempo superiore a tre anni. Ma in concreto cosa avviene? Immaginiamo che si siano venduti i beni pignorati e che, da questi beni, si siano ricavati € 10.000; i creditori procedenti e quelli intervenuti, nel loro complesso, hanno però un credito pari a € 12.000, quindi i crediti superano quanto ricavato dalla vendita. Ora immaginiamo che di questi creditori, due, siano sforniti di titolo esecutivo e che in più, il loro credito, non sia stato riconosciuto dal debitore; questi due creditori non hanno così diritto a partecipare alla distribuzione (e questo sarebbe un bene per gli altri creditori perché, se il credito vantato dai due creditori sforniti di titolo esecutivo fosse di € 1.000 a testa, avremmo sempre € 10.000 di ricavato, ma non più € 12.000 di crediti, piuttosto, € 10.000) tuttavia, questi due creditori non titolati, possono chiedere l’accantonamento delle somme e questo significa che, quando si andrà a distribuire le somme, nella distribuzione, si dovrà considerare anche il credito dei due creditori sforniti di titolo esecutivo, con la conseguenza che non sarà possibile soddisfare tutti i creditori integralmente ma, in modo proporzionale (ad esempio: chi aveva un credito da € 1.000, avrà soltanto l’80% del suo credito, così come chi aveva un credito da € 2.000) perché non si può superare il ricavato che ammonta ad € 10.000. La richiesta di accantonamento condiziona, dunque, la distribuzione, perché se non fosse stata proposta istanza, vi sarebbe stata corrispondenza tra i crediti ed il ricavato e quindi i creditori sarebbero stati pienamente soddisfatti invece, con l’istanza, per il momento, gli stessi creditori, avranno solo l’80% del loro credito in quanto, la restante parte, andrà accantonata in attesa che gli altri creditori si muniscano di titolo esecutivo dal momento che hanno iniziato un procedimento per decreto ingiuntivo, o hanno iniziato un processo di cognizione per ottenere una sentenza. Ma una volta ottenuto il titolo esecutivo, si riaprirà la distribuzione del ricavato e, a questa distribuzione, parteciperanno sia i creditori che non erano stati soddisfatti, sia i creditori che erano stati soddisfatti soltanto in parte perché, se all’esito risultasse che, effettivamente, quei due creditori non titolati avevano un credito di 1.000 €, allora non ci sarà nulla da fare, nel senso che tutti avranno avuto l’80% del proprio credito in quanto il ricavato era inferiore all’ammontare dei crediti; ma se invece, dopo la formazione del titolo esecutivo, risultasse che quei crediti non erano crediti da 1.000 € ma crediti da 100 € ciascuno, è chiaro che saranno avanzati anche dei soldi in quanto l’accantonamento era stato fatto per crediti pari 2.000 €, dunque saranno avanzati € 1.800 che dovranno essere distribuiti tra gli altri creditori che avevano avuto un soddisfacimento non integrale, essendo dell’80%. Questo vuol dire diritto all’accantonamento e riapertura della distribuzione del ricavato! Art. 500 C.p.c. “Effetti dell’intervento”: “L’intervento, secondo le disposizioni contenute nei capi seguenti e nei casi ivi previsti, dà diritto a partecipare alla distribuzione della somma ricavata, a partecipare all’espropriazione del bene pignorato e a provocarne i singoli atti” sostanzialmente, si distingue l’attività di distribuzione della somma dall’attività espropriativa perché, quest’ultima, è una fase dell’espropriazione forzata che si chiude con la vendita o con l’assegnazione mentre, la fase distributiva, è una fase successiva a ciò. Certamente, i creditori forniti di titolo esecutivo, possono compiere tutti gli atti dell’esecuzione quindi, sia quelli della fase espropriativa, sia quelli della fase distributiva; invece il diritto dei creditori sforniti di titolo esecutivo di partecipare alla fase distributiva, è subordinato al riconoscimento del credito. Da collegare all’ultimo comma dell’art. 499 C.p.c., è una norma dettata nell’ambito della vendita e cioè l’art. 510 C.p.c. “Distribuzione della somma ricavata”: “Se vi è un solo creditore pignorante senza intervento di altri creditori, il giudice dell’esecuzione, sentito il debitore, dispone a favore del creditore pignorante il pagamento di quanto gli spetta per capitale, interessi e spese (e questo è chiaro, perché se vi è un solo creditore pignorante, non ci si pone il problema della “distribuzione” che ha luogo quando invece, ci sono più creditori). In caso diverso (quando quindi vi è stato l’intervento anche di altri creditori, oppure se vi è stata l’unione di pignoramenti, oppure il pignoramento ad istanza di più creditori) la somma ricavata è dal giudice distribuita tra i creditori a norma delle disposizioni contenute nei capi seguenti, con riguardo alle cause legittime di prelazione (cioè se vi sono più creditori, la somma è distribuita tenendo conto se gli stessi creditori abbiano un titolo di prelazione; quindi, se sul bene venduto Tizio aveva l’ipoteca, dovrà essere soddisfatto per primo; ovvero, se Tizio è un creditore chirografario ed è intervenuto tempestivamente, avrà diritto ad essere soddisfatto prima di Caio, creditore chirografario ma intervenuto tardivamente perché, abbiamo detto che, qualora il creditore intervenga tempestivamente, si matura un titolo di prelazione di origine processuale, precisando infine, che tra i creditori che hanno un titolo di prelazione di natura sostanziale come il pegno, l’ipoteca e quelli che hanno un titolo di origine processuale, verranno soddisfatti per primi i creditori che possiedono titoli di natura sostanziale) e previo accantonamento delle somme che spetterebbero ai creditori intervenuti privi di titolo esecutivo i cui crediti non siano stati in tutto o in parte riconosciuti dal debitore (perché, qualora fossero stati riconosciuti, avrebbero diritto di partecipare immediatamente alla distribuzione). L’accantonamento è disposto dal giudice dell’esecuzione per il tempo ritenuto necessario affinché i predetti creditori possano munirsi di titolo esecutivo e, in ogni caso, per un periodo di tempo non superiore a tre anni. Decorso il termine fissato, su istanza di una delle parti o anche d’ufficio, il giudice dispone le comparizioni davanti a sé del debitore, del creditore procedente e dei creditori intervenuti, con l’eccezione di coloro che siano già stati integralmente soddisfatti (quindi, quest’ultimi, non parteciperanno alla riapertura della fase distributiva), e dà luogo alla distribuzione della somma accantonata tenuto conto anche dei creditori intervenuti che si siano nel frattempo muniti di titolo esecutivo. La comparizione delle parti per la distribuzione della somma accantonata è disposta anche prima che sia decorso il termine fissato (dal giudice, per l’accantonamento) se vi è istanza di uno dei predetti creditori e non ve ne siano altri che ancora debbano munirsi di titolo esecutivo. Il residuo della somma ricavata, dopo l’ulteriore distribuzione, è consegnato al debitore o al terzo che ha subito l’espropriazione (nel caso di espropriazione contro il terzo proprietario).” Ritornando alla distinzione tra creditori tempestivi e creditori tardivi, analizziamo l’art. 528 C.p.c. che si occupa dell’espropriazione mobiliare e rubricato “Intervento tardivo”: “I creditori chirografari che intervengono successivamente ai termini di cui all’articolo 525, ma prima del provvedimento di distribuzione, concorrono alla distribuzione della parte della somma ricavata che sopravanza dopo soddisfatti i diritti del creditore pignorante, dei creditori privilegiati e di quelli intervenuti in precedenza (riferendosi, in quest’ultimo caso, ai creditori chirografari intervenuti tempestivamente). I creditori che hanno un diritto di prelazione sulle cose pignorate (quindi i creditori non chirografari), anche se intervengono a norma del comma precedente, concorrono alla distribuzione della somma ricavata in ragione dei loro diritti di prelazione (quindi, nel caso di creditore non chirografario intervenuto tardivamente, il problema non si pone, perché comunque concorrerà alla soddisfazione del suo credito in ragione proprio dell’intero credito, perché verrà soddisfatto il suo diritto di prelazione sostanziale)”. Ma come si fa a stabile se l’intervento del creditore è tardivo o tempestivo? Allora, nell’espropriazione mobiliare, ai sensi dell’art. 525 C.p.c. “Condizioni e tempo dell’intervento”, sono creditori intervenuti tempestivamente quelli intervenuti: “ non oltre la prima udienza fissata per l’autorizzazione della vendita o per l’assegnazione” sostanzialmente si sta riferendo all’udienza indicata all’art. 530 C.p.c. e quindi, se il creditore chirografario interviene non oltre l’udienza fissata per l’autorizzazione alla vendita, il suo intervento sarà tempestivo e l’effetto sarà che, in sede di distribuzione, i creditori intervenuti tardivamente, verranno soddisfatti dopo quelli intervenuti tempestivamente; invece, gli intervenuti tempestivamente, verranno soddisfatti dopo i creditori che hanno un titolo di prelazione sostanziale (creditori non chirografari) perché, quest’ultimi, sia che intervengano tempestivamente o tardivamente, non subiscono alcun pregiudizio venendo sempre soddisfatti in modo pieno. C’è però un’eccezione nell’espropriazione mobiliare, essa è detta “piccola espropriazione mobiliare”; art. 525, II° comma C.p.c.: “Qualora il valore dei beni pignorati, determinati a norma dell’articolo 518, non superi 20.000 euro, l’intervento di cui al comma precedente deve aver luogo non oltre la data di presentazione del ricorso (riferendosi all’istanza per l’assegnazione o la vendita del bene), prevista dall’articolo 529”. Analizziamo allora l’art. 529 C.p.c. “Istanza di assegnazione o di vendita”: “Decorso il termine di cui all’articolo 501 (quest’ultimo si occupa del c.d. “termine dilatorio dal pignoramento” secondo cui, normalmente, l’istanza di vendita o di assegnazione non può essere proposta prima che siano decorsi 10 giorni dal pignoramento, quindi decorso questo termine …) il creditore pignorante e ognuno dei creditori intervenuti muniti di titolo esecutivo possono chiedere la distribuzione del danaro e la vendita di tutti gli altri beni”; quindi, riallacciandoci all’art. 525, II° comma C.p.c., possiamo dire che, quando si tratta di piccola espropriazione mobiliare (ed è piccola espropriazione mobiliare quando il valore dei beni pignorati non superi € 20.000), per stabilire se l’intervento è tardivo o tempestivo, non si avrà riferimento all’udienza fissata per l’autorizzazione della vendita o per l’assegnazione, ma alla data di presentazione del ricorso (disciplinato all’art. 525 C.p.c.) con cui si chiede la vendita o l’assegnazione. Quindi, a differenza dell’espropriazione mobiliare dove l’intervento dei creditori è tempestivo se avvenuto non oltre l’udienza fissata per la vendita o l’assegnazione, nella piccola espropriazione mobiliare, viene anticipato il momento in relazione al quale si stabilisce se l’intervento è stato tempestivo o tardivo perché si farà riferimento alla data di presentazione del ricorso con cui si chiede la vendita o l’assegnazione e solo dopo, si fissa l’udienza per l’autorizzazione alla stessa. Ma cosa cambia nell’espropriazione mobiliare presso terzi? Esiste una precisa norma in merito, l’art. 551 C.p.c. che contiene la disciplina dell’intervento dei creditori nell’espropriazione mobiliare presso terzi e, per tutto ciò che non è espressamente previsto, si fa capo alla disciplina dell’espropriazione mobiliare, come ad esempio, per le modalità della vendita. L’art. 551 C.p.c., al primo comma, richiama le disposizioni di cui agli artt. 525 e ss. C.p.c. ma, al secondo comma, sancisce che, per sapere se l’intervento è tempestivo o tradivo, bisogna far riferimento alla data dell’udienza di comparizione delle parti; sostanzialmente, nell’espropriazione presso terzi, l’intervento dei creditori, per essere tempestivo, deve avere luogo non oltre l’udienza fissata per la comparizione delle parti. Ma di quale udienza si tratta? Si tratta dell’udienza per la dichiarazione del terzo, o per l’integrazione della dichiarazione dello stesso terzo. Queste due modalità sono degli strumenti alternativi, è possibile cioè scegliere o l’uno o l’altro e questo vale, in particolare, rispetto alla vendita nell’espropriazione mobiliare dove, a scegliere uno dei due strumenti, è il giudice; nell’espropriazione immobiliare invece, non si può procedere alla vendita all’incanto se prima non si è tentata la vendita senza incanto perché si pensa (ed è così), che la vendita senza incanto, poiché non determina la partecipazione dei soggetti all’asta, possa evitare quelle pressioni che sono conoscenza comune delle vendite all’asta. La vendita forzata, normalmente, viene effettuata dall’ufficio esecutivo dunque, sotto la direzione del giudice dell’esecuzione; è consentito però, per i beni mobili registrati e per i beni immobili, la delega delle operazioni di vendita ad un professionista (avvocato, commercialista, notaio) a cui viene attribuito il compito di procedere alla vendita che potrà avvenire o con l’incanto, o senza incanto e sempre rispettando i criteri appena esaminati e cioè che, per la vendita mobiliare, è possibile indifferentemente scegliere tra i due strumenti (incanto o senza incanto), per la vendita immobiliare, il professionista non potrà procedere alla vendita all’incanto se prima non ha provato la vendita senza incanto. L’assegnazione E assegnazione cosa significa? In primo luogo c’è da chiarire che l’assegnazione, quale concetto, fa riferimento alla possibilità che i beni pignorati, vengono assegnati ad un creditore (procedente o intervenuti, e sempre subordinatamente alla loro richiesta), però: *nell’espropriazione mobiliare, non è prevista l’assegnazione se non in certi casi determinati; ad esempio: per i beni il cui valore risulti da listini di borsa o di mercato e l’assegnazione, in tal caso, avrà luogo sempre per un valore pari a quello che risulta dai listini di borsa o di mercato, oppure per gli oggetti preziosi quando non sia stato possibile procedere alla vendita e, per l’oro, l’argento … l’assegnazione avrà luogo per il loro valore intrinseco dato attraverso la quotazione di quel metallo prezioso (ad esempio: in base al calcolo dell’oro a grammo); nell’espropriazione immobiliare, l’assegnazione è possibile soltanto dopo che sia stato esperito il tentativo di vendita senza incanto e poi di vendita all’incanto perché, se anche la vendita all’incanto non andasse bene, allora, il creditore, potrà ottenere l’assegnazione del bene immobile; nell’ambito dell’espropriazione presso terzi invece, l’assegnazione è lo strumento che normalmente si utilizza per i crediti. Ad esempio: Tizio ha somministrato merci a Caio e, quest’ultimo, gli deve € 5.000, però Tizio è a sua volta debitore di Sempronio per € 5.000. Sempronio inizia nei confronti di Tizio un’espropriazione forzata presso terzi perché, il suo fine, è quello di pignorare il credito che Tizio ha, a sua volta, di € 5.000 per la somministrazione di merci. Trattandosi di un credito relativo a somme di denaro, è ovvio che non si procederà alla vendita dello stesso ma, piuttosto, all’assegnazione del credito verso il terzo, al creditore procedente. Quindi possiamo dire che l’assegnazione, è uno strumento normale nell’espropriazione presso terzi quando, la stessa, abbia ad oggetto crediti del debitore esecutato nei confronti di un terzo. Nell’ambito dell’assegnazione ci può essere non solo, il creditore procedente, ma anche altri creditori intervenuti; e allora cosa succede? Immaginiamo che, nell’espropriazione forzata immobiliare, ci sia Tizio creditore procedente e che poi siano intervenuti: Caio, creditore munito di diritto d’ipoteca sull’immobile e Sempronio, creditore chirografario (quindi privo di titolo di prelazione), munito di titolo esecutivo. Premesso che l’immobile in questione vale € 100.000, Tizio ha un credito di € 30.000, Caio ha un credito di € 60.000, Sempronio ha un credito di € 30.000 per un totale di € 120.000 dunque è evidente che, il valore del bene, non è in grado di soddisfare tutti. Tra questi soggetti, dovendo distribuire le somme, deve essere preferito innanzitutto Caio, perché è intervenuto ed è munito di titolo di prelazione d’ipoteca sul bene; a chiedere l’assegnazione del bene immobile è sì, Sempronio, ma Tizio ha maturato il titolo di prelazione processuale nei suoi confronti, quindi i creditori dovranno essere soddisfatti in questo ordine: Caio, Tizio e Sempronio. Il bene immobile viene assegnato a Sempronio; abbiamo detto che il valore del bene era di € 100.000 e che il credito di Sempronio era pari a € 30.000. L’assegnazione del bene a Sempronio, non potrà mai essere un’assegnazione satisfattiva e cioè un’assegnazione con cui si potrà soddisfare anche il suo credito di € 30.000, ma si chiamerà assegnazione\vendita, perché in pratica Sempronio opera come se fosse l’acquirente del bene in quanto, l’immobile, aveva un valore di € 100.000 ma ci sono dei soggetti che hanno diritto di essere soddisfatti prima di Sempronio (e cioè Tizio e Caio), con crediti complessivi che ammontano a € 90.000 e quindi, di quel valore del bene (€ 100.000), Sempronio dovrà corrispondere € 90.000 (di cui € 30.000 a Caio, più € 30.000 a Tizio) ed in concreto lui verrà soddisfatto solo per € 10.000 (residuo del valore del bene € 100.000 – 90.000 = 10.000 €), perché ci sono dei creditori che hanno diritto di prelazione anteriore a lui stesso e che quindi devono essere soddisfatti. Ma se il bene avesse avuto un valore pari a € 120.000, quell’assegnazione sarebbe stata al contempo anche un’assegnazione\satisfattiva perché, Sempronio, avrebbe avuto, con quell’assegnazione, il soddisfacimento anche del suo credito di € 30.000 pur dovendo corrispondere € 90.000 agli altri creditori in quanto, in tal caso, € 120.000, sarebbe il valore del bene, da sottrarre poi, ad € 90.000, credito complessivo che vanterebbero Tizio e Caio e quindi, i restanti € 30.000, sarebbero diretti a soddisfare il credito di Sempronio. Dunque, quando il valore del bene non è in grado di garantire il soddisfacimento di tutti i creditori, che hanno un titolo ad essere soddisfatti anteriore a quello dell’assegnatario, si parla di assegnazione\ vendita, in cui l’assegnatario non vede soddisfatto il suo credito, ma semplicemente acquista il bene. Tutto quanto appena detto, è sintetizzato all’art. 506 C.p.c. “Valore minimo per l’assegnazione”: “L’assegnazione può essere fatta soltanto per un valore non inferiore alle spese di esecuzione e ai crediti aventi diritto a prelazione anteriore a quello dell’offerente. Se il valore eccede quello indicato del comma precedente, sull’eccedenza concorrono l’offerente e gli altri creditori, osservate le cause di prelazione che li assistono”; al I° comma, è disciplinata l’assegnazione\vendita; al II° comma, l’assegnazione\satisfattiva perché ci sta dicendo che, quando si procede ad un’assegnazione in cui vi siano più creditori, fermo che comunque devono essere soddisfatte prima le spese dell’esecuzione, l’assegnazione deve essere fatta in modo tale da considerare i crediti dei creditori che hanno diritto ad essere soddisfatti prima dell’assegnatario e se il valore del bene assegnato è in grado di soddisfare solo quest’ultimi allora, l’assegnatario, non troverà soddisfazione del suo credito su quel bene perché l’assegnazione sarà un’assegnazione\vendita (ad esempio nel caso in cui i crediti anteriori erano pari a € 90.000 e il valore del bene era di € 90.000); soltanto se c’è un’eccedenza di valore, e cioè soltanto se il valore del bene è superiore all’ammontare dei crediti che devono essere soddisfatti prima, sull’eccedenza, si andranno a soddisfare il creditore assegnatario e gli altri creditori a lui subordinati. Vendita forzata e disposizioni generali Ma vediamo ora, le norme che si occupano della vendita forzata nell’ambito dell’espropriazione forzata in generale. Art. 501 C.p.c. “Termine dilatorio del pignoramento”: “L’istanza di assegnazione o di vendita dei beni pignorati non può essere proposta se non decorsi dieci giorni dal pignoramento, tranne che per le cose deteriorabili, delle quali può essere disposta l’assegnazione o la vendita immediata”. Abbiamo detto che il pignoramento, normalmente, è sempre necessario, tranne che si tratti di beni soggetti ad ipoteca e a pegno perché, in tali casi, si salterà il pignoramento e si passerà direttamente a chiedere la vendita perché, l’individuazione del bene, è stata già operata attraverso l’ipoteca (relativa ad un bene immobile e di essa si dà atto anche nei pubblici registri) così come per il pegno, che comporta il trasferimento del bene dato in pegno, dal debitore al creditore e quindi anche in tal caso l’individuazione del bene è già operata perfettamente. Pertanto, l’art. 502 C.p.c, richiama la disciplina del pegno e dell’ipoteca e le discipline del codice civile perché sono istituti che attengono a titoli di prelazione di origine sostanziale, e ci dice che: “… per l’espropriazione delle cose date in pegno e dei mobili soggetti ad ipoteca (ossia beni mobili registrati) si seguono le norme del presente codice, ma l’assegnazione o la vendita può essere chiesta senza che sia stata preceduta da pignoramento. (E allora è chiaro che …) In tal caso il termine per l’istanza di assegnazione o di vendita decorre dalla notificazione del precetto” quindi, l’unica ipotesi in cui non si avrà pignoramento, è quella in cui vi siano beni mobili registrati sottoposti a pegno o ad ipoteca e non si avrà un termine di 90 giorni dal pignoramento per presentare l’istanza di assegnazione o di vendita, ma di 90 giorni dal precetto. Poi, nei modi della vendita forzata, le disposizioni generali distinguono tra vendita con incanto e vendita senza; art. 503 C.p.c. “Modi della vendita forzata”: “La vendita forzata può farsi con incanto o senza, secondo le forme previste nei capi seguenti” però, abbiamo in precedenza visto come, questa alternatività prevista in via generale, non sia valida in via assoluta perché, nella vendita immobiliare, prima si procede alla vendita senza incanto e poi a quella con incanto. Art. 504 C. p.c. “Cessazione della vendita forzata”: “Se la vendita è fatta in più volte o in più lotti, deve cessare quando il prezzo già ottenuto raggiunge l’importo delle spese e dei crediti menzionati nell’articolo 495 primo comma (norma sulla conversione del pignoramento)” la vendita dunque cessa, nel momento in cui il ricavato è in grado di soddisfare tutti i creditori. Art. 505 C.p.c. “Assegnazione”: “Il creditore pignorante può chiedere l’assegnazione dei beni pignorati, nei limiti e secondo le regole contenute nei capi seguenti” *(infatti … vedi pag. 69 delle sbobinature). “Se sono intervenuti altri creditori, l’assegnazione può essere chiesta a vantaggio di uno solo o di più, d’accordo fra tutti” non è cioè escluso che, dei creditori, chiedano l’assegnazione insieme. Art. 507 C.p.c. “Forma dell’assegnazione”: “L’assegnazione si fa mediante ordinanza del giudice dell’esecuzione contenente l’indicazione dell’assegnatario, del creditore pignorante, di quelli intervenuti, del debitore, ed eventualmente del terzo proprietario, del bene assegnato e del prezzo di assegnazione (bisogna capire per che valore si sta assegnando il bene cosicché dopo, è possibile stabilire se si tratta di un’assegnazione\vendita o di un’assegnazione\satisfattiva)”. Effetto purgativo della vendita forzata Dalla vendita forzata deriva poi, un effetto detto < purgativo >, nel senso che i titoli di prelazione che gravano sui beni (pegno, ipoteca), per effetto della vendita, vengono meno. Questo spiega anche perché il giudice dell’esecuzione, prima di poter autorizzare la vendita, verifica che il creditore procedente abbia dato avviso, della stessa vendita, ai c.d. creditori iscritti, i creditori che risultino dai pubblici registri come ad esempio, il creditore ipotecario perché, se quest’ultimo una volta notiziato volesse intervenire nell’espropriazione forzata, lo potrebbe fare, in caso contrario, il bene verrebbe venduto e, con l’effetto purgativo, lui perderebbe l’ipoteca sul bene. L’eccezione a questo effetto purgativo, si ha soltanto nell’ipotesi dell’art. 508 C.p.c. “Assunzione di debiti da parte dell’aggiudicatario o dell’assegnatario”: “Nel caso di vendita o di assegnazione di un bene gravato da pegno o da ipoteca, l’aggiudicatario o assegnatario, con la autorizzazione del giudice dell’esecuzione, può concordare col creditore pignoratizio o ipotecario l’assunzione del debito con le garanzie ad esso inerenti, liberando il debitore” e cioè, l’unico caso in cui non si ha l’effetto purgativo, si ha quando il soggetto che si rende assegnatario o acquirente nella vendita forzata, dichiara di voler assumere il debito che era del debitore esecutato, debito garantito con ipoteca o pegno. Ad esempio: l’acquirente acquista un bene immobile dal valore di € 100.000, ma non libero dall’ipoteca perché, questo soggetto che va ad acquistare il bene immobile gravato da ipoteca, assumendo il debito che era del debitore esecutato (ad esempio di € 50.000), ottiene l’assegnazione o acquista il bene immobile per un importo pari al valore dell’immobile (€ 100.000) meno il debito che si è assunto (€ 50.000) ed il creditore ipotecario conserva così, il suo diritto di ipoteca su quel bene, solo che il debitore adesso, è l’acquirente o l’assegnatario. Contenuto dell’ordinanza con la quale il giudice autorizza alla vendita o all’assegnazione nella vendita mobiliare e regime degli atti del professionista delegato Dopo aver esaminato nell’espropriazione forzata le norme generali che si occupano della vendita forzata, analizziamo ora, quelle specifiche nell’ambito dell’espropriazione mobiliare che si riferiscono, appunto, alla vendita mobiliare. Art. 529 C.p.c. “Istanza di assegnazione o di vendita”: “Decorso il termine di cui all’articolo 501, il creditore pignorante e ognuno dei creditori intervenuti muniti di titolo esecutivo, possono chiedere la distribuzione del danaro e la vendita di tutti gli altri beni. provvede con decreto. Le parti e gli interessati possono proporre reclamo avverso il predetto decreto ed avverso gli atti del professionista con ricorso allo stesso giudice, il quale provvede con ordinanza” e cioè, avverso gli atti del professionista delegato, è possibile presentare direttamente un reclamo al giudice dell’esecuzione che decide con ordinanza; avverso detta ordinanza, è possibile proporre impugnazione con l’opposizione agli atti esecutivi; inoltre, se sorgono delle difficoltà nel corso della delega delle operazioni delegate, lo stesso professionista, ha la possibilità di rivolgersi al giudice dell’esecuzione per avere un aiuto e lo fa mediante ricorso , sullo stesso ricorso, decide il giudice dell’esecuzione mediante decreto ; il decreto del giudice dell’esecuzione, può essere impugnato mediante reclamo dalle parti ed il reclamo è deciso con ordinanza ; l’ordinanza è impugnabile con l’opposizione agli atti esecutivi. Contenuto dell’ordinanza con la quale il giudice autorizza alla vendita o all’assegnazione nella vendita immobiliare Vediamo ora, nell’ambito della vendita immobiliare, che contenuto abbia l’ordinanza con cui il giudice autorizza la vendita o l’assegnazione. L’art. 569 C.p.c. rubricato “Provvedimento per l’autorizzazione della vendita”, è un articolo complesso che al suo interno prevede una sorta di calendario della vendita, nel senso che prevede sia ciò che immediatamente si deve fare, sia ciò che si deve fare se si verificano determinati eventi evitando così, di ricorre nuovamente al giudice. Ricordiamo che l’art. 530 C.p.c., nell’ambito della vendita mobiliare, indica il contenuto dell’ordinanza con cui il giudice dell’esecuzione autorizza la vendita o l’assegnazione mentre, nell’ambito della vendita immobiliare, il contenuto dell’ordinanza con cui il giudice dell’esecuzione autorizza la vendita o l’assegnazione, ci è indicato dall’art. 569 C.p.c. ed entrambi, vanno integrati con gli artt. 534 bis e 591 bis perché, con quella stessa ordinanza, si possono delegare le operazioni di vendita. Art. 569 C.p.c.: “A seguito dell’istanza di cui all’articolo 567 (istanza di vendita o di assegnazione) il giudice dell’esecuzione, entro trenta giorni dal deposito della documentazione di cui al secondo comma dell’articolo 567 (della documentazione ipocatastale, ossia la documentazione che, da un lato, fornisce gli elementi per identificare il bene immobile ma, dall’altro, fornisce le visure ipotecarie. Questo, perché interessa sapere se ci siano creditori iscritti ai quali bisogna dare avviso dell’istanza di vendita, altrimenti, il giudice non emetterà l’ordinanza con cui autorizza la vendita o l’assegnazione proprio perché poi, ci sarebbe il famoso effetto purgativo della vendita forzata. Presentato il ricorso con cui si chiede l’autorizzazione alla vendita o all’assegnazione, si hanno 120 giorni di tempo per depositare questa documentazione ipocatastale), nomina (sempre) l’esperto convocandolo davanti a sé per prestare il giuramento (e nel caso di vendita immobiliare, è sempre necessario ottenere una relazione di stima dell’immobile; quest’ultima, come tutte le norme tecniche, è disciplinata nelle Disposizioni di attuazione del C.p.c. e, nelle stesse, rileva l’art. 173 bis che riguarda l’individuazione dell’esperto per la formazione della relazione di stima dell’immobile, utile non solo per l’individuazione del bene immobile, ma anche per essere a conoscenza dello stato in cui si trova l’immobile stesso, chi lo ha in possesso, se ci sono vincoli, ad esempio ipoteche, o vincoli di natura condominiale, se ci sono regolarità dal punto di vista edilizio ed urbanistico, nonché la dichiarazione di agibilità del bene) e fissa l’udienza per la comparizione delle parti e dei creditori di cui all’articolo 498 che non siano (già) intervenuti (si riferisce ai creditori iscritti che devono ricevere l’avviso). Tra la data del provvedimento e la data fissata per l’udienza non possono decorrere più di centoventi giorni. All’udienza le parti possono fare osservazioni circa il tempo e le modalità della vendita, e debbono proporre, a pena di decadenza, le opposizioni agli atti esecutivi, se non sono già decadute dal diritto di proporle. Se non vi sono opposizioni o se su di esse si raggiunge l’accordo delle parti comparse, il giudice dispone con ordinanza la vendita, fissando un termine non inferiore a novanta giorni, e non superiore a centoventi, entro il quale possono essere proposte offerte d’acquisto ai sensi dell’articolo 571 (si tratta di offerte di vendita senza incanto che si depositano in cancelleria o presso il professionista delegato). Il giudice con la medesima ordinanza stabilisce le modalità con cui deve essere prestata la cauzione (abbiamo già visto come, chi intende presentare delle offerte, debba anche prestare una cauzione così da garantire la serietà delle intenzioni a partecipare), fissa, al giorno successivo alla scadenza del termine (per le offerte), l’udienza per la deliberazione sull’offerta (cioè si aprono le buste e si vedono le offerte fatte e, se ci sono più offerte, si può aprire la gara tra gli offerenti per vedere chi fa l’offerta più alta) e per la gara tra gli offerenti di cui all’articolo 573 e provvede ai sensi dell’articolo 576 (norma che contiene la disciplina della vendita con incanto), per il caso in cui non siano proposte offerte d’acquisto entro il termine stabilito, ovvero per il caso in cui le stesse non siano efficaci ai sensi dell’articolo 571, ovvero per il caso infine, in cui la vendita senza incanto non abbia luogo per qualsiasi altra ragione” quindi, in tutte queste ipotesi, si potrà avere la vendita all’incanto ma senza andare nuovamente davanti al giudice perché è tutto stabilito, come programma, in questa ordinanza. 9° giorno Integrazioni sulla vendita mobiliare Nella vendita mobiliare l’ipotesi tipica è quella in cui la vendita viene effettuata mediante commissionario (la commissione è contratto tipico che si concretizza nel mandato a vendere qualcosa). L’art. 532 C.p.c., nell’ambito della vendita mobiliare, si occupa della “Vendita a mezzo di commissionario”: “Il giudice dell’esecuzione può disporre la vendita senza incanto o tramite commissionario dei beni pignorati. Le cose pignorate devono essere affidate all’istituto vendite giudiziarie, ovvero, con provvedimento motivato, ad altro soggetto specializzato nel settore di competenza, affinché proceda alla vendita in qualità di commissionario. Nello stesso provvedimento di cui al primo comma il giudice, dopo avere sentito, se necessario, uno stimatore dotato di specifica preparazione tecnica e commerciale in relazione alla peculiarità del bene stesso, fissa il prezzo minimo della vendita e l’importo globale fino al raggiungimento del quale la vendita deve essere eseguita, e può imporre al commissionario una cauzione. Se il valore delle cose risulta dal listino di borsa o di mercato, la vendita non può essere fatta a prezzo inferiore al minimo ivi segnato”. Ciò che a noi interessa di questo è articolo, è soprattutto il II° comma perché, quando abbiamo analizzato la vendita immobiliare, abbiamo visto che in quel caso, il giudice dell’esecuzione, nomina sempre l’esperto che redige poi la famosa relazione richiamata anche nelle disposizioni di attuazione, invece, nella vendita mobiliare, la nomina di un esperto è soltanto eventuale e la finalità della nomina attiene alla determinazione del prezzo minimo di vendita però il problema, in concreto, si pone quando il prezzo minimo non risulti da listini di borsa o di mercato. A questo II° comma dell’art. 532 C.p.c., si deve aggiungere la disposizione dell’art. 538 C.p.c. perché ci chiediamo: e se poi il bene resta invenduto, che cosa succede? Perché, mentre nella vendita immobiliare si segue un ordine per le modalità di vendita e cioè: senza incanto, con incanto e se l’incanto non va a buon fine allora è prevista la possibilità per uno dei creditori munito di titolo esecutivo di presentare istanza di assegnazione; nella vendita mobiliare invece, l’assegnazione non c’è, tranne che si tratti di beni d’oro, d’argento … e allora tornando alla domanda di cui sopra, analizziamo l’art. 538 C.p.c. “Nuovo incanto”: “Quando una cosa messa all’incanto resta invenduta, il soggetto a cui è stata affidata l’esecuzione della vendita fissa un nuovo incanto ad un prezzo base inferiore di un quinto rispetto a quello precedente” E quindi il punto è che, se la vendita mobiliare senza incanto non è andata a buon fine, allora si procederà con la vendita all’incanto ma se come prima modalità è stata scelta la vendita all’incanto, allora si seguirà quanto disposto dall’art. 538 C.p.c. e cioè si fisserà un nuovo incanto ma la differenza è che il prezzo base d’asta verrà ridotto di un quinto rispetto al prezzo precedente. Interessa quest’articolo perché anch’esso è stato modificato a seguito di quelle modifiche che hanno avuto effetto a partire dal 1° Marzo 2006, infatti in passato non era prevista la fissazione della riduzione di un quinto del prezzo base d’asta ma si prevedeva un nuovo incanto con un’aggiudicazione a qualsiasi prezzo e ciò comportava che i beni, una volta andato male il primo incanto, potessero essere aggiudicati a prezzi davvero molto bassi, e proprio per evitare ciò, fu aggiunto l’art. 538 C.p.c. Passiamo ora all’art. 540 bis C.p.c. “Integrazione del pignoramento”, norma che non riguarda più la fase del pignoramento ma una vicenda relativa alla vendita forzata: “Quando le cose pignorate risultano invendute a seguito del secondo o successivo esperimento (cioè se è stata fatta la vendita all’incanto e non è andata bene e se poi si è proceduto al secondo esperimento dell’incanto e cioè ad una vendita all’incanto ma ridotta di un quinto in base all’art. 538 C.p.c. e se poi, ne è stato fatto ancora un altro di esperimento ma risultano comunque invenduti i beni) ovvero quando la somma assegnata, ai sensi degli articoli 510, 541 e 542 (cioè a seguito della distribuzione), non è sufficiente a soddisfare le ragioni dei creditori, il giudice, ad istanza di uno di questi, provvede a norma dell’ultimo comma dell’articolo 518” quest’ultimo articolo si occupa in generale della forma del pignoramento e richiede l’eventuale nomina di uno stimatore quando ci sia la necessità di sottoporre a pignoramento nuovi beni ma soprattutto si occupa dell’integrazione del pignoramento e infatti all’ultimo comma afferma: “Su istanza del creditore, da depositare non oltre il termine per il deposito dell’istanza di vendita, il giudice, nominato uno stimatore quando appare opportuno, ordina l’integrazione del pignoramento se ritiene che il presumibile valore di realizzo dei beni pignorati sia inferiore a quello indicato nel primo comma. In tale caso l’ufficiale giudiziario riprende senza indugio le operazioni di ricerca dei beni” anche qui si parla di integrazione del pignoramento, ma chi la dispone? Ebbene ce lo dice lo stesso ultimo comma dell’art. 518 C.p.c., è il giudice a disporre l’integrazione del pignoramento ed essa riguarda l’ipotesi di espropriazione mobiliare. Questo istituto dell’integrazione del pignoramento, così come quello dell’espansione del pignoramento di cui agli artt. 492 e 499 C.p.c., consente di ampliare l’oggetto del pignoramento rispetto a quello che ha posto in essere il creditore procedente ma occorre notare che, l’ipotesi di cui all’ultimo comma dell’art. 518 C.p.c., non è relativa all’estensione del pignoramento, in quanto quest’ultima avveniva su istanza essenzialmente del creditore, piuttosto si riferisce all’integrazione del pignoramento. La stessa integrazione, avviene quando il giudice dell’esecuzione riceve l’istanza dell’autorizzazione della vendita o dell’assegnazione e il giudice prevede che i beni da vendere non siano sufficienti per soddisfare i creditori, allora, in tal caso, sarà lo stesso giudice ad ordinare l’integrazione del pignoramento col fine di vedere se ci sono dei beni utilmente pignorabili e quindi da sottoporre alla vendita forzata. L’integrazione del pignoramento la chiede il creditore al giudice dell’esecuzione non oltre il termine per il deposito dell’istanza di vendita (cioè non oltre 90 giorni dal pignoramento). Vi è tuttavia un’importante differenza tra l’art. 540 bis C.p.c. e l’art. 518 C.p.c. Difatti, l’art. 540 bis C.p.c. è rubricato “Integrazione del pignoramento” ma è collocato in un momento completamente diverso da quello dell’art. 518 C.p.c. e cioè nella fase della vendita forzata successiva alla stessa vendita. Ciò lo deduciamo dal fatto che, lo stesso art. 540 bis C.p.c., si riferisce ad una vendita che ormai non è riuscita a far raggiungere il risultato sperato quando dice: “Quando le cose pignorate risultano invendute a seguito del secondo o successivo esperimento (quindi già è stato posto in essere il tentativo di vendita) ovvero quando la somma è assegnata (e cioè addirittura si è fatto il piano di distribuzione), non è sufficiente a soddisfare le ragioni dei creditori, il giudice, ad istanza di uno di questi, provvede a norma dell’ultimo comma dell’articolo 518”. Invece, l’art. 518 C.p.c., prevede ugualmente l’integrazione del pignoramento ma la prevede prima della vendita, tant’è che l’istanza (sempre nell’ipotesi di cui all’art. 518 C.p.c.), deve essere depositata non oltre il termine per il deposito dell’istanza di vendita. Sostanzialmente, il legislatore consente che, sia entro il termine per l’istanza di vendita (art. 518 C.p.c.), sia dopo la vendita o addirittura al momento della distribuzione nell’espropriazione mobiliare (art. 540 bis C.p.c.), si provveda ad una integrazione del pignoramento. L’utilità dell’art. 540 bis C.p.c., consiste nel fatto che, all’esito del tentativo di vendita infruttuoso oppure difronte all’insufficienza dei beni per soddisfare tutti i creditori, quest’ultimi, presentano istanza al giudice dell’esecuzione per far integrare il pignoramento e, se a seguito vengono rinvenute nuove cose, il giudice dispone direttamente la vendita senza che vi sia necessità di una nuova istanza di vendita, dunque la finalità consiste nell’accelerare il tutto; se invece non vi sono altri beni, il giudice, dichiara l’estinzione della procedura esecutiva. Integrazione nella vendita immobiliare Nella vendita immobiliare, importante è l’art. 568 C.p.c. “Determinazione del valore dell’immobile”. Esso sancisce: “Avvenuto il versamento del prezzo (ma in realtà prima di emettere il decreto di trasferimento), il giudice dell’esecuzione può disporre la sospensione della vendita quando ritiene che il prezzo offerto sia notevolmente inferiore a quello giusto (se ricorre questa ipotesi relativa appunto, all’ingiustizia del prezzo perché ad esempio il prezzo dell’immobile è troppo inferiore a quello di mercato, il giudice sospende la vendita nonostante il prezzo sia stato già versato. Qui è possibile evidenziare anche la differenza tra questo istituto di cui all’art. 586 C.p.c. e quello relativo all’offerta dell’aumento di un quinto perché, con l’offerta dell’aumento di un quinto, non si prevede già l’avvenuto versamento del prezzo ma l’aggiudicazione provvisoria e solo quando siano trascorsi i dieci giorni per l’offerta e l’aggiudicazione sia divenuta definita allora, l’aggiudicatario definitivo, provvederà al versamento del prezzo. Ma continuando nell’analisi dell’art. 586 C.p.c., il giudice, in alternativa può, qualora il prezzo sia ritenuto giusto, …) pronunciare decreto col quale trasferisce all’aggiudicatario il bene espropriato ripetendo la descrizione contenuta nell’ordinanza (la quale contiene la descrizione degli elementi dati catastali dell’immobile) che dispone la vendita e (effetto purgativo) ordinando che si cancellino le trascrizioni dei pignoramenti e le iscrizioni ipotecarie, salvo che non vi sia stata l’assunzione del debito ai sensi dell’articolo 508. Il giudice con il decreto ordina anche la cancellazione delle trascrizioni dei pignoramenti e delle iscrizioni ipotecarie successive alla trascrizione del pignoramento (quindi non tutte le iscrizioni ma solo quelle successive! Perché, gli atti compiuti prima del pignoramento, erano opponibili ai pignoranti e restano opponibili anche all’aggiudicatario acquirente) …”. E allora in questo comma, sono contenuti tutti gli esiti possibili in quanto ci dice che: il giudice deve valutare l’equità del prezzo perché, qualora non fosse equo, sospende l’esecuzione e dunque, in concreto, non provvede all’aggiudicazione e si svolgerà una nuova vendita; oppure se il prezzo è equo, provvede al decreto di trasferimento l’effetto purgativo opera salvo il limite rappresentato da quegli atti compiuti prima del pignoramento che siano opponibili anche al creditore pignorante in quanto opponibili anche all’aggiudicatario acquirente. Il decreto di trasferimento è l’atto con cui si costituisce la proprietà dell’aggiudicatario e cioè, quando quest’ultimo dovrà dimostrare qual è il suo titolo d’acquisto, mostrerà il decreto di trasferimento. Ma una volta ottenuto il decreto di trasferimento, bisognerà liberare l’immobile e cioè l’aggiudicatario deve poterne avere il possesso ed ecco perché: “… Il decreto contiene l’ingiunzione al debitore o al custode di rilasciare l’immobile venduto. Esso costituisce titolo per la trascrizione della vendita sui libri fondiari (così da rendere l’evento opponibile pure nei confronti dei terzi anche se, questa tutela, era avvenuta già con la trascrizione del pignoramento) e titolo esecutivo per il rilascio”. Ma con quale altro titolo esecutivo, il decreto di trasferimento, concorre? Allora, il comma III° dell’art. 560 C.p.c. sancisce: “Il giudice dell’esecuzione dispone, con provvedimento non impugnabile, la liberazione dell’immobile pignorato quando … provvede all’aggiudicazione o all’assegnazione dell’immobile” e poi il comma IV° dello stesso articolo ci dice che questo provvedimento (ordinanza) con cui il giudice dispone la liberazione: “… costituisce titolo esecutivo per il rilascio *ed è eseguito a cura del custode anche successivamente alla pronuncia del decreto di trasferimento nell’interesse dell’aggiudicatario o dell’assegnatario se questi non lo esentano”. Dunque, abbiamo in precedenza visto, che il decreto di trasferimento era titolo esecutivo per il rilascio, ma anche l’ordinanza con la quale il giudice dispone la liberazione dell’immobile ai sensi dell’art. 560 C.p.c., è titolo esecutivo per il rilascio! Hanno dunque la stessa utilità e allora come si conciliano i due strumenti? Il decreto di trasferimento immobiliare abbiamo detto essere titolo esecutivo per il rilascio ma il soggetto legittimato a farlo valere e solo l’aggiudicatario, invece l’ordinanza con cui il giudice dispone la liberazione dell’immobile ai sensi dell’art. 560, IV° comma C.p.c., è titolo esecutivo per il rilascio ma il soggetto che la fa valere è il custode * (vedi la norma sopra). Ma una volta che l’aggiudicatario abbia ottenuto il decreto di trasferimento, potrebbe provvedere ad ottenere il rilascio dell’immobile lo stesso aggiudicatario e allora sorge un problema! Come si fa per evitare la sovrapposizione con il custode? Ebbene si afferma che il custode, se già si è avuto il decreto di trasferimento immobiliare, può comunque azionare come titolo esecutivo l’ordinanza per la liberazione ma opera come un sostituto processuale infatti, il IV° comma dell’art. 560 C.p.c., precisa che il custode agisce per la liberazione ma: “… nell’interesse dell’aggiudicatario salvo che questi lo abbia esentato”. In conclusione potremmo affermare che, lo strumento con cui si ottiene la liberazione dell’immobile, non è tanto il decreto di trasferimento ma l’ordinanza! L’aggiudicatario non ha sostanzialmente voglia di iniziare l’esecuzione per consegna o per rilascio e quindi è preferibile che se la veda il custode che agisce per la liberazione dell’immobile non sulla base del decreto di trasferimento (perché è il titolo esecutivo che può usare solo l’aggiudicatario), ma sulla base dell’ordinanza di liberazione dell’immobile di cui all’art. 560 IV° comma C.p.c. e lo fa nell’interesse dell’aggiudicatario che quindi beneficerà della liberazione dell’immobile. Questo è il coordinamento tra l’art. 586, ultimo comma C.p.c. e l’art. 560, IV° comma C.p.c.! Cosa succede nella vendita immobiliare qualora l’incanto non vada bene? Nella vendita mobiliare abbiamo detto che in una situazione del genere viene fissato un nuovo incanto con la riduzione del prezzo; ebbene, nella vendita immobiliare, non si inserisce tra l’incanto andato male e l’incanto nuovo, la possibilità dell’istanza di assegnazione del bene. L’art. 588 C.p.c. “Esito negativo dell’incanto” ci chiarisce dove si colloca precisamente l’istanza di assegnazione e cioè quando viene formulata e per quale acquisto: “Ogni creditore, nel termine di dieci giorni prima della data dell’incanto, può presentare istanza di assegnazione a norma dell’articolo 589 per il caso in cui la vendita all’incanto non abbia luogo per mancanza di offerte”. L’art. 591 C.p.c. “Provvedimento di amministrazione giudiziaria o di nuovo incanto” ci dice che se non è andato bene il tentativo di vendita all’incanto, il giudice può fissare un nuovo incanto ma la condizione è che non vi sia stata un’istanza di assegnazione, infatti detto articolo sancisce: “Se non vi sono domande di assegnazione o se decide di non accoglierle, il giudice dell’esecuzione dispone l’amministrazione giudiziaria a norma degli articoli 592 e seguenti (ad esempio: quando oggetto di vendita è un immobile la cui vendita, per condizioni di mercato, non è conveniente, è possibile sottoporre l’immobile all’amministrazione giudiziaria e cioè, sostanzialmente, l’immobile verrà locato e i proventi della locazione verranno attratti sempre alla procedura esecutiva, ma se non si sceglie la via dell’amministrazione giudiziaria perché magari si preferisce attendere condizioni migliori di mercato …), pronuncia nuova ordinanza ai sensi dell’articolo 576 perché si proceda a nuovo incanto. Il giudice può altresì stabilire diverse condizioni di vendita e diverse forme di pubblicità, fissando un prezzo base inferiore di un quarto a quello precedente. Il giudice, se stabilisce nuove condizioni di vendita o fissa un nuovo prezzo, assegna altresì un nuovo termine non inferiore a sessanta giorni, e non superiore a novanta, entro il quale possono essere proposte nuove offerte d’acquisto”. Quali sono le differenze con la vendita mobiliare? Nella vendita immobiliare, in realtà, dalla formulazione della norma, noi ricaviamo che l’art. 591 C.p.c. deve essere coordinato necessariamente con l’art. 588 C.p.c. in quanto, la fissazione di un nuovo incanto, è subordinata al fatto o che non ci siano state istanze di assegnazione, o che non siano state accolte e che il giudice non voglia disporre l’amministrazione giudiziaria del bene. Stando sempre alla formulazione della norma, non sembra che la fissazione di un nuovo incanto per forza debba prevedere nuove condizioni ma potrebbe anche lasciare immutate le condizioni precedenti tuttavia, fissato il nuovo incanto, il giudice stabilisce un prezzo base inferiore di un quarto del prezzo precedente; invece, nella vendita mobiliare, il prezzo base è inferiore di un quinto del prezzo precedente. Distribuzione del ricavato Passiamo ora alla distribuzione del ricavato. Il ricavato non è detto che provenga solo dalla vendita del bene in quanto può provenire da vari eventi come: il pignoramento di somme di danaro (non soggette dunque a vendita), il pagamento nelle mani dell’ufficiale giudiziario, la conversione del pignoramento, l’indicazione di danaro come oggetto di pignoramento in luogo di cose, le cauzioni acquisite alla procedura esecutiva, i frutti civili, i frutti naturali … Ma non è detto che questi soldi ricavati siano sufficienti a soddisfare tutti e pertanto sarà necessario procedere ad un piano di distribuzione. In ogni caso, il progetto di distribuzione deve contenere: le spese dell’esecuzione, la graduazione dei crediti e l’individuazione delle quote che a ciascuno saranno assegnate. La graduazione dei crediti avviene tenendo conto dei titoli di prelazione e abbiamo già visto che ci possono essere dei titoli di prelazione di origine sostanziale e dei titoli di origine processuale; in primis, ci sono i titoli di prelazione di origine sostanziale e quindi i creditori con ipoteca, privilegi … poi i creditori chirografari intervenuti tempestivamente ed eventualmente, prima di loro, il creditore procedente che abbia maturato un titolo di prelazione nei confronti dei creditori chirografari intervenuti tempestivamente i quali non abbiano voluto, in concreto, far estendere il pignoramento. Una volta graduati i crediti e sulla base di ciò che si ha in cassa, si determineranno le quote spettanti a ciascun creditore, il quale potrà essere soddisfatto al 100%, ma anche del solo 30 o 40%. Per i crediti con titolo di prelazione di origine sostanziale (esempio: vi è l’ipoteca sull’immobile, lo stesso immobile vale 100 mentre il credito è di 80), è chiaro che il creditore titolare di questo titolo di prelazione di origine sostanziale, verrà soddisfatto interamente (e cioè per tutti i suoi 80) mentre, gli altri creditori, si potranno soddisfare soltanto sui residui. Il progetto di distribuzione è dunque la fase finale dell’espropriazione forzata, invece, il decreto di trasferimento, è l’atto finale del subprocedimento di vendita forzata e cioè, la vendita forzata, si colloca nell’ambito del procedimento di espropriazione forzata che termina poi, con questa distribuzione del ricavato. Ma nella distribuzione del ricavato, bisogna tener conto anche dei crediti per i quali abbia avuto luogo il c.d. accantonamento, ai sensi dell’art. 510 C.p.c. che ci diceva per quanto tempo aveva luogo l’accantonamento (tre anni) e che cosa succedeva dopo i tre anni o, comunque, una volta scaduto il termine inferiore fissato dal giudice, oppure quando tutti avessero raggiunto il titolo esecutivo (sostanzialmente, si ha la riapertura della distribuzione). Ed infatti, detto articolo, nell’ambito dell’espropriazione forzata in generale, è una norma collocata nell’ambito delle norme sulla distribuzione della somma ricavata. L’art. 509 C.p.c. ci dice proprio di cosa si compone la somma da distribuire, infatti è rubricato “Composizione della somma ricavata”: “La somma da distribuire è formata da quanto proviene a titolo di prezzo o conguaglio delle cose vendute o assegnate (come nel caso di assegnazione\vendita parzialmente satisfattiva dove quindi resta da consegnare solo una parte dei soldi), di rendita o provento delle cose pignorate, di multa e risarcimento di danno da parte dell’aggiudicatario (nel caso del suo inadempimento)”. Ovviamente, un progetto di distribuzione, non è necessario se c’è solo un creditore, in quanto non c’è da distribuire ma solo da attribuire ed infatti, l’art. 510 C.p.c. “Distribuzione della somma ricavata” al I° comma ci dice: “Se vi è un solo creditore pignorante senza intervento di altri creditori, il giudice dell’esecuzione, sentito il debitore, dispone a favore del creditore pignorante il pagamento di quanto gli spetta per capitale, interessi e spese. In caso diverso la somma ricavata è dal giudice distribuita tra i creditori a norma delle disposizioni contenute nei capi seguenti (che poi sono le disposizioni che ritroviamo solo nell’espropriazione mobiliare e quella immobiliare), con riguardo alle cause legittime di prelazione e previo accantonamento delle somme che spetterebbero ai creditori intervenuti privi di titolo esecutivo i cui crediti non siano stati in tutto o in parte riconosciuti dal debitore …”. Bisogna a questo punto distinguere le modalità secondo cui, nella disciplina dell’espropriazione mobiliare e immobiliare, si procede alla distribuzione. Ci sono innanzitutto alcuni elementi da differenziare, infatti: nell’espropriazione mobiliare, il piano di distribuzione, può essere fatto sia d’accordo tra i creditori e quindi si parla di distribuzione amichevole o concordata, oppure è fatto dal giudice e quindi si tratta della c.d. distribuzione giudiziale; nell’espropriazione immobiliare, invece, si riscontra solo la distribuzione giudiziale. Procediamo per gradi! Art. 541 C.p.c. “Distribuzione amichevole”: “Se i creditori concorrenti chiedono la distribuzione della somma ricavata secondo un piano concordato (derogando così anche alle cause di prelazione), il giudice dell’esecuzione, sentito il debitore, provvede in conformità” e quindi se sono d’accordo i può accadere poi, che sui beni pignorati siano stati creati dei vincoli di indisponibilità del bene e allora ci chiediamo: questi vincoli saranno opponibili? Ebbene opera sempre lo stesso discorso! E cioè che sono opponibili se sono stati trascritti prima del pignoramento. Se, ad esempio, vi è un’ipoteca iscritta sul bene immobile ma iscritta dopo il pignoramento, non sarà opponibile e non sarà possibile tenerne conto nella distribuzione del ricavato; altra ipotesi: Tizio ha un credito nei confronti del debitore esecutato che ha delle somme di danaro in banca; effettuato il pignoramento, si estingue il debito perché ad esempio si consente di prelevare tutto dal conto corrente e si chiude il conto; questa è un ipotesi in cui l’estinzione dell’obbligazione ha avuto luogo dopo il pignoramento e c’è una norma specifica, l’art. 2917 c.c. “Estinzione del credito pignorato”, la quale ci dice che: “Se oggetto del pignoramento è un credito, l’estinzione di esso per cause verificatesi in epoca successiva al pignoramento non ha effetto in pregiudizio del creditore pignorante e dei creditori che intervengono nell’esecuzione”, in concreto quel terzo debitore, resta ancora debitore nei confronti del creditore procedente e dei creditori intervenuti. Effetti della vendita forzata Vediamo ora, gli effetti della vendita forzata. Una volta acquistato un bene a titolo derivativo e non originario, quali sono gli eventi che possono verificarsi per un compratore? Quali garanzie? Garanzia per vizi e garanzia per evizione e, queste garanzie, nella vendita forzata entro certi limiti, operano nel senso che viene riconosciuta la garanzia per evizione ma non quella per vizi perché si acquista il bene nello stesso stato in cui si trova al tempo del pignoramento. L’art. 2922 c.c. “Vizi della cosa. Lesione” sancisce: “Nella vendita forzata non ha luogo la garanzia per i vizi della cosa. Essa non può essere impugnata per causa di lesione (non si può chiedere, ad esempio, la rescissione del contratto per lesioni ultra dimidium perché ci si è resi acquirenti del bene conoscendo il prezzo base e quindi proponendo la propria offerta con massima consapevolezza)”. Abbiamo detto che invece è riconosciuta la garanzia per evizione e anche questo ci fa capire che non si tratta di un acquisto a titolo originario. Art. 2921 c.c. “Evizione”: “L’acquirente della cosa espropriata, se ne subisce l’evizione, può ripetere il prezzo non ancora distribuito, dedotte le spese (per comprenderci: Tizio acquista il bene dal debitore Caio ma arriva Sempronio e informa Tizio che il bene che ha acquistato non era del debitore ma il suo; a questo punto opera la garanzia per evizione e quindi, Tizio acquirente, può chiedere la restituzione del prezzo pagato se non è stato già distribuito), e, se la distribuzione è già avvenuta, può ripeterne da ciascun creditore la parte che ha riscossa e dal debitore l’eventuale residuo, salva la responsabilità del creditore procedente per i danni e per le spese (quindi, se la distribuzione già è avvenuta e dunque se tutti i creditori hanno avuto quanto gli spettava, Tizio acquirente, ha azione di ripetizione nei confronti di ciascun creditore e nei confronti del debitore che abbia avuto il residuo e a ciò poi si aggiunge un’azione di risarcimento dei danni nei confronti del creditore procedente perché casomai, quest’ultimo, che aveva l’onere di depositare la documentazione ipocatastale, con dolo è andato a far fare il pignoramento; per questo risulta fondamentale la relazione di stima)”. Ma il vero rischio delle vendite forzate, è la garanzia per l’evizione perché, se il prezzo non è stato ancora distribuito, allora si ha ancora qualche speranza per recuperarlo ma se è stato già distribuito ai creditori, l’acquirente, dovrà intraprendere le azione di cui sopra. Pensiamo ora ad un’ipotesi di locazione e cioè: se viene venduto il bene con la vendita forzata e se questo bene è un bene locato, le locazioni, saranno opponibili all’acquirente o all’assegnatario? L’art. 2923 c.c. “Locazioni” sancisce: “Le locazioni consentite da chi ha subito l’espropriazione sono opponibili all’acquirente se hanno data certa anteriore al pignoramento, salvo che, trattandosi di beni mobili, l’acquirente ne abbia conseguito il possesso in buona fede. (In ogni caso, anche se le locazioni hanno data certa anteriore al pignoramento …) Le locazioni immobiliari eccedenti i novi anni che non sono state trascritte anteriormente al pignoramento non sono opponibili all’acquirente, se non nei limiti di un novennio dall’inizio della locazione” e cioè, se si ha un contratto di locazione per dodici anni, questo contratto di locazione per essere opponibile all’acquirente deve essere stato trascritto prima del pignoramento e se non è stato trascritto non è che non vale, ma vale nei limiti di nove anni. Per concludere, analizziamo l’art. 2929 c.c. “Nullità del processo esecutivo”. Questo articolo deve essere coordinato con gli artt. 530 e 569 C.p.c., i quali stabilivano che nell’udienza in cui il giudice fissava l’autorizzazione della vendita o l’assegnazione dovevano essere presentate, a pena di decadenza, le opposizioni agli atti esecutivi ed infatti, l’art. 2929 c.c., sancisce che: “La nullità degli atti esecutivi che hanno preceduto la vendita o l’assegnazione non ha effetto riguardo all’acquirente o all’assegnatario, salvo il caso di collusione con il creditore procedente. Gli altri creditori non sono in nessun caso tenuti a restituire quanto hanno ricevuto per effetto dell’esecuzione”. Questa norma serve a garantire la c.d. stabilità della vendita forzata o dell’assegnazione forzata. In pratica abbiamo detto che ci sono dei vizi che si possono verificare nel processo esecutivo e che questi vizi li si fa normalmente valere con l’opposizione agli atti esecutivi. Abbiamo anche visto come, questi vizi, possano riguardare il procedimento di vendita, ad esempio quando si svolge una vendita senza effettuare le forme di pubblicità che il giudice aveva richiesto e questo, è un tipo di vizio del subprocedimento di vendita forzata che si fa valere appunto con l’opposizione agli atti esecutivi (e con quest’ultima, si può anche impugnare il decreto di trasferimento). Ma quello che la norma in esame ci dice, è che non si può far valere la nullità degli atti che hanno preceduto la vendita o l’assegnazione e cioè, una volta autorizzata la vendita o l’assegnazione e una volta fatta la stessa vendita, ed ecco anche perché c’è la decadenza in quell’udienza della possibilità di proporre le opposizioni agli atti esecutivi, non sarà più possibile lamentare ancora i vizi anteriori alla vendita e questo serve anche per tutelare l’aggiudicatario o l’assegnatario. A tutto ciò però, si aggiunge un dato importante e cioè che le opposizioni agli atti esecutivi devono essere proposte entro 20 giorni! Ma il problema è che la nullità di un atto determina la nullità dell’atto conseguente che ne è dipendente e quindi, se il primo atto è nullo, si trasferisce la nullità anche all’atto successivo e allora, per garantire l’aggiudicatario o l’assegnatario, si prevede che le nullità anteriori non possano essere opposte per farle valere al fine di invalidare la vendita, mentre è certamente possibile dedurre i vizi propri del subprocedimento di vendita. L’unica eccezione all’impossibilità di dedurre vizi anteriori alla vendita, è data dall’ipotesi che ci sia una collusione e cioè un accordo fraudolento tra il creditore procedente e il debitore esecutato, o tra il creditore procedente e l’assegnatario o aggiudicatario; dunque, in tal caso, sarà possibile proporre l’opposizione anche per vizi anteriori alla vendita. In ogni caso, per effetto di questa collusione tra creditore e aggiudicatario o assegnatario, non subiscono pregiudizi gli altri creditori, i quali conserveranno quanto hanno ricevuto per effetto della distribuzione e perciò si parla anche di stabilità degli effetti della distribuzione del ricavato. 10° giorno Esecuzione in forma specifica L’esecuzione in forma specifica, si distingue in: 1. 1. esecuzione in forma specifica per rilascio rispettivamente artt. 605 ss. C.p.c. 2. 2. esecuzione in forma specifica per consegna 3. 3. esecuzione in forma specifica degli obblighi artt. 612 ss. C.p.c. ma, a di fare e di non fare questi articoli, bisogna aggiungere la disposizione dell’art. 614 bis C.p.c. introdotta nel 2009 che si occupa dell’esecuzione in forma specifica degli obblighi di fare infungibili Sappiamo che qualunque tipo di esecuzione (e dunque anche quella in forma specifica), deve essere preceduta dalla notificazione del titolo esecutivo e del precetto ma in più, nell’esecuzione in forma specifica, avendo essa ad oggetto una prestazione specifica, non ha luogo l’intervento dei creditori e quindi non c’è l’esigenza di garantire la par condicio creditorum dal momento che non si agisce sul patrimonio genericamente considerato del debitore. Va precisato poi, che nella stessa esecuzione in forma specifica, non si parla più di creditore ma di avente diritto. Esecuzione in forma specifica per consegna o per rilascio Iniziamo ad analizzare l’esecuzione in forma specifica per consegna o rilascio. Anch’essa è preceduta, ovviamente, dalla notificazione del titolo esecutivo e del precetto ma occorre una piccola integrazione dell’art. 480 C.p.c. (norma che ci dice qual è il contenuto del precetto, gli elementi previsti a pena di nullità ed elementi la cui mancanza non determina la nullità), dall’art. 605 C.p.c. il quale, rispetto al precetto per consegna e rilascio, ci dice anche che lo stesso precetto, nell’esecuzione per consegna o rilascio, deve contenere l’indicazione sommaria dei beni perché, in questo caso, si sta individuando un bene preciso. Inoltre bisogna integrare il precetto considerando la possibilità che il titolo esecutivo preveda un termine ben preciso per la consegna o il rilascio del bene. Ad esempio: si stipula un contratto di compravendita avente ad oggetto la vendita di un quadro; nello stesso contratto è indicata la data precisa per la consegna ma il soggetto non vi ha provveduto; se nel titolo esecutivo risultava una data precisa per la consegna, la stessa data sarà menzionata nel precetto altrimenti, il termine per la consegna, verrà fissato con lo stesso precetto. Fatta questa precisazione relativa all’integrazione dell’art. 480 C.p.c.; ci chiediamo: ma quali sono le modalità per l’esecuzione per consegna o rilascio? Quando inizia l’esecuzione per consegna o per rilascio? A noi interessa sapere ciò per due utilità: 1. 1. perché il precetto ha un termine di efficacia di 90 giorni; 2. 2. perché vi è comunque il problema degli effetti della domanda giudiziale (artt. 2943 e 2945 c.c., l’effetto interruttivo o sospensivo della prescrizione è determinato non solo dalla domanda giudiziale con cui si inizia un processo di cognizione, ad esempio l’atto di citazione, ma anche dalla domanda esecutiva e quindi è importante sapere quand’è che la domanda esecutiva è stata proposta, quand’è che inizia l’esecuzione). Anche se l’esecuzione per consegna e quella per rilascio sono disciplinate insieme, in realtà, l’atto iniziale dei due procedimenti è differente. Infatti, l’esecuzione per consegna inizia con l’accesso dell’ufficiale giudiziario nel luogo in cui il bene si trova al fine di ottenerne la consegna e quindi, la data in cui l’ufficiale giudiziario si presenta nel luogo in cui il bene si trova per ottenerne la consegna, rappresenta il momento iniziale dell’esecuzione per consegna; invece, nell’esecuzione per rilascio, fino a poco tempo fa si discuteva di quale fosse l’atto iniziale e lo si individuava, anche in questa ipotesi, con l’accesso dell’ufficiale giudiziario nel luogo in cui il bene immobile si trovava per ottenerne il rilascio, ma l’art. 608 C.p.c. (a seguito delle modifiche entrate in vigore il 1° marzo 2006), è stato modificato e oggi contiene una precisa norma che individua il momento in cui inizia l’esecuzione per rilascio e questa norma anticipa il momento di inizio dell’esecuzione per rilascio. Art. 608 C.p.c. “Modi del rilascio”: “L’esecuzione (per rilascio) inizia con la notifica dell’avviso con il quale l’ufficiale giudiziario comunica almeno dieci giorni prima alla parte, che è tenuta a rilasciare l’immobile, il giorno e l’ora in cui procederà”. Confrontiamolo con l’art. 606 C.p.c. “Modo della consegna”: “Decorso il termine indicato nel precetto (quindi il termine per adempiere), l’ufficiale giudiziario, munito del titolo esecutivo e del precetto, si reca sul luogo in cui le cose si trovavano e le nell’ipotesi di esecuzione per rilascio, invece, “... l’ufficiale giudiziario avvisa del giorno e dell’ora in cui procederà all’esecuzione …”. E dunque, nell’esecuzione per rilascio o per consegna, l’intervento del giudice dell’esecuzione è meramente eventuale ed è subordinato all’ipotesi in cui sorgano delle difficoltà nel corso dell’esecuzione ai sensi dell’art. 610 C.p.c. “Provvedimenti temporanei”: “Soltanto quando sorgono delle difficoltà nel corso dell’esecuzione che non ammettono dilazione (e quindi vanno risolte subito), in questo caso è prevista la possibilità che ciascuna parte chieda al giudice dell’esecuzione, anche verbalmente, i provvedimenti temporanei occorrenti”. Vi sono poi, delle ipotesi particolari come il caso in cui, oggetto di consegna, siano delle cose che però sono anche oggetto di pignoramento e allora cosa si farà in tal caso? Art. 607 C.p.c. “Cose pignorate”: “Se le cose da consegnare sono pignorate, la consegna non può avere luogo, e la parte istante deve fare valere le sue ragioni mediante opposizione a norma degli articoli 619 e seguenti (e cioè mediante opposizione di terzo all’esecuzione con la quale il terzo dovrà dimostrare che ha un titolo di acquisto di data certa anteriore al pignoramento)”. Rileva poi, anche la disciplina delle “Spese dell’esecuzione” (spesso abbastanza elevate) di cui all’art. 611 C.p.c.: “Nel processo verbale l’ufficiale giudiziario specifica tutte le spese anticipate dalla parte istante. La liquidazione delle spese è fatta dal giudice dell’esecuzione (dunque, per le spese, la competenza è proprio del giudice dell’esecuzione, il quale dovrà emettere a tal fine un decreto ed il …) decreto (di liquidazione) costituisce titolo esecutivo” ma costituisce titolo esecutivo per quale tipo di esecuzione? Stiamo parlando di un decreto di liquidazione di somme di danaro e per tanto sarà titolo esecutivo per l’espropriazione forzata. Esecuzione in forma specifica degli obblighi di fare e di non fare Il principio rispetto all’esecuzione degli obblighi di fare o di non fare, è opposto a quello appena esaminato nell’esecuzione per consegna o rilascio perché, l’esecuzione in forma specifica degli obblighi di fare o di non fare (e parliamo di facere fungibile, quello che cioè ammette la nomina di un soggetto che ponga in essere l’attività in luogo dell’originario obbligato), richiede necessariamente la partecipazione del giudice dell’esecuzione, tant’è che questo procedimento di esecuzione forzata inizia con il ricorso al giudice dell’esecuzione (che è il tribunale) preceduto sempre dalla notificazione del titolo esecutivo e del precetto. Art. 612 C.p.c. “Provvedimento”: “Chi intende ottenere l’esecuzione forzata di una sentenza di condanna per violazione di un obbligo di fare o di non fare, dopo la notificazione del precetto, deve chiedere con ricorso al giudice dell’esecuzione che siano determinate le modalità dell’esecuzione” questa norma ci sta dicendo che è necessario il ricorso al giudice dell’esecuzione ma ci dice anche qual è il titolo esecutivo e cioè la sentenza di condanna. Saremmo indotti a credere che quindi, per l’esecuzione in forma specifica degli obblighi di fare o di non fare, è titolo esecutivo soltanto la sentenza di condanna. In realtà bisogna partire dal presupposto che si riteneva, ma si ritiene ancora tutt’oggi (e di questo si è occupata anche la Corte costituzionale), che quando si tratta di prestazioni di facere, proprio perché il facere indicato dagli artt. 612 ss. C.p.c. è un facere fungibile, il giudice, all’atto della condanna a fare qualcosa, deve eseguire preventivamente il controllo sulla fungibilità della prestazione perché, se la prestazione è infungibile, non è ammessa la condanna al facere in quanto non è ammessa l’esecuzione in forma specifica e ancora, rispetto all’ipotesi di distruzione di quanto fatto in violazione di un obbligo di non fare, esiste una previsione espressa del codice civile che ci impone che la distruzione non arrechi pregiudizio all’economia nazionale. Questi due controlli si ritiene che debbano essere fatti per forza dal giudice. Pertanto, l’esecuzione degli obblighi di fare e di non fare, può essere essenzialmente iniziata soltanto sulla base di una sentenza di condanna e quindi, il titolo per l’esecuzione degli obblighi di fare e di non fare fungibili, è la sentenza di condanna e la ragione consiste in quei controlli che il giudice, al momento del processo di cognizione, deve fare per valutare se effettivamente vi siano le condizioni (ossia facere fungibile e, nel caso di distruzione di qualcosa, che esso non arrecasse pregiudizio all’economia nazionale) affinché vi sia un’esecuzione in forma specifica. Alla Corte costituzionale è stata rimessa la questione di legittimità costituzionale dell’art. 612 C.p.c. proprio nella parte in cui limita l’efficacia del titolo esecutivo per le prestazioni di fare e di non fare alle sentenze di condanna e non prevede neanche (diceva la Corte) il verbale di conciliazione giudiziale e cioè il verbale redatto quando le parti nel corso del processo riescono a trovare un accordo (è detto giudiziale proprio perché si è formato nel processo ed è ben distinto dal verbale di conciliazione stragiudiziale che, ad esempio, si ottiene in sede di procedimento di mediazione). La Corte costituzionale ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 612 C.p.c. perché, con una sentenza interpretativa di rigetto, ha ritenuto che l’interpretazione dell’art. 612 C.p.c. deve essere compiuta nel senso che: esso sia idoneo a comprendere come titolo esecutivo oltre alla sentenza di condanna, anche il verbale di conciliazione giudiziale perché, quest’ultimo, in quanto formato sotto la direzione del giudice, consente allo stesso giudice di fare ancora quei controlli (fungibilità della prestazione, non contrarietà della distruzione all’economia nazionale) che avevano giustificato la scelta del legislatore di limitare i titoli esecutivi per le esecuzioni di fare alla sentenza di condanna. Concludendo, possiamo allora afferma che l’art. 612 C.p.c., per effetto dell’intervento della Corte costituzionale, va letto nel senso che titolo esecutivo per le prestazioni di fare o di non fare non è soltanto la sentenza di condanna, ma anche il verbale di conciliazione giudiziale. Ma perché nell’esecuzione in forma specifica degli obblighi di fare e di non fare è necessario presentare ricorso al giudice dell’esecuzione? Ebbene ci si rivolge al giudice dell’esecuzione affinché determini, con ordinanza, le modalità secondo cui si dovrà provvedere all’esecuzione in forma specifica (ad esempio, il giudice stabilisce chi si dovrà occupare dei lavori per eseguire un’opera o per distruggerla). Art. 612 C.p.c.: “Chi intende ottenere l’esecuzione forzata di una sentenza di condanna per violazione di un obbligo di fare o di non fare, dopo la notificazione del precetto, deve chiedere con ricorso al giudice dell’esecuzione che siano determinate le modalità dell’esecuzione. Il giudice dell’esecuzione provvede sentita la parte obbligata. Nella sua ordinanza designa l’ufficiale giudiziario che deve procedere all’esecuzione e le persone che debbono provvedere al compimento dell’opera non eseguita o alla distruzione di quella compiuta”. Questa ordinanza del giudice dell’esecuzione, finché si limita ad indicare l’ufficiale giudiziario che dirige l’esecuzione, l’impresa, o le altre persone che si occuperanno delle opere, è un’ordinanza legittima, è cioè atto del processo esecutivo e come ogni atto del processo esecutivo qualora vi siano dei vizi dell’ordinanza si faranno valere attraverso lo strumento dell’opposizione agli atti esecutivi. Tuttavia, qualora quest’ordinanza del giudice dell’esecuzione non si limitasse ad indicare le modalità dell’esecuzione perché piuttosto con la stessa ordinanza, il giudice, ha egli stesso inciso sul contenuto della prestazione dovuta dando dei dettagli alla stessa prestazione non previsti, né necessari (e questo in genere si verifica nelle prestazioni di fare, per esempio: la sentenza di condanna non aveva determinato che tipo di costruzione doveva essere fatta se, ad esempio, doveva essere fatta in muratura semplice oppure in cemento armato; in base alla scelta cambieranno ovviamente i costi, cambierà il lavoro di progettazione …) allora, in tal caso, il giudice dell’esecuzione ha emesso sì, un’ordinanza, ma in realtà ha emesso un provvedimento dal contenuto sostanzialmente decisorio perché è andato ad integrare il merito della prestazione (non ha indicato solo le modalità: chi è l’impresa che se ne deve occupare), ha inciso sul tipo di prestazione rendendola significativamente diversa da quella che appariva in base alla sentenza. Proprio per questo, questo tipo di ordinanza, può essere considerata non legittima in quanto ha ecceduto il suo limite, ed essendo un provvedimento sostanzialmente decisorio, può essere impugnato non con l’opposizione agli atti esecutivi, ma con l’appello e cioè con il mezzo d’impugnazione che si utilizza contro le sentenze perché, questo, è uno di quei casi in cui vi è discordanza tra la forma e la sostanza del provvedimento (processuale civile 1) e il principio è che, a prevalere, è la sostanza e dunque, essendo questa un’ordinanza dal contenuto decisorio equivalente essenzialmente ad una sentenza, verrà impugnata con mezzo d’impugnazione proprio della sentenza, che è l’appello. Art. 613 C.p.c. “Difficoltà sorte nel corso dell’esecuzione”: “L’ufficiale giudiziario può farsi assistere dalla forza pubblica e deve chiedere al giudice dell’esecuzione le opportune disposizioni per eliminare le difficoltà che sorgono nel corso dell’esecuzione. Il giudice dell’esecuzione provvede con decreto” quindi, se sorgono delle difficoltà nel corso dell’esecuzione specifica degli obblighi di fare o di non fare, è l’ufficiale giudiziario che si rivolge al giudice dell’esecuzione; invece, nell’esecuzione in forma specifica per rilascio o consegna, ai sensi dell’art. 610 C.p.c., era ciascuna parte a poter chiedere l’intervento del giudice dell’esecuzione. Vi è questa differenza perché si ritiene che nell’esecuzione degli obblighi di fare e di non fare, una volta iniziata la procedura esecutiva con la domanda al giudice dell’esecuzione, tutto il dominio sia lasciato all’ufficiale giudiziario, tant’è vero che con l’ordinanza il giudice dell’esecuzione individua proprio l’ufficiale giudiziario che se ne deve occupare. Art. 614 C.p.c. “Rimborso delle spese”: “Al termine dell’esecuzione o nel corso di essa, la parte istante presenta al giudice dell’esecuzione la nota delle spese anticipate vistata dall’ufficiale giudiziario, con domanda di decreto d’ingiunzione …” qui i costi sono molto elevati perché si deve costruire o far distruggere un’opera e gli stessi costi sono anticipati dall’istante; “Il giudice dell’esecuzione, quando riconosce giustificate le spese denunciate, provvede con decreto a norma dell’articolo 642 (cioè un decreto ingiuntivo dotato anche di efficacia esecutiva)” e quindi, da un lato l’istante ottiene l’esecuzione in forma specifica della prestazione ma, dall’altro, se vuole recuperare le spese, deve munirsi di questo decreto ingiuntivo dotato di efficacia esecutiva e se il soggetto non esegue il decreto ingiuntivo, purtroppo, l’istante non avrà altra scelta che iniziare l’espropriazione forzata. Esecuzione specifica degli obblighi di fare e di non fare infungibili Il “non fare” è per definizione infungibile perché non è possibile sostituire a me qualcuno nel non fare qualcosa ed ecco perché, l’art. 614 bis C.p.c. (norma introdotta recentemente con la L. 69\2009), si occupa dell’“Attuazione degli obblighi di fare infungibili e di non fare”. È significativo che non parli di <esecuzione> ma di <attuazione> perché, non stiamo parlando di un titolo esecutivo per una prestazione da eseguire forzatamente, ma stiamo parlando di uno strumento che serve a spingere il soggetto obbligato a tenere il comportamento dovuto che può consistere in un fare o in un non fare. Art. 614 bis C.p.c.: “Con il provvedimento di condanna il giudice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento. Il provvedimento di condanna costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o inosservanza. Le disposizioni di cui al presente comma non si applicano alle controversie di lavoro subordinato pubblico e privato e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’articolo 409 (cioè non si applica alla materia lavoro perché vi sono delle norme speciali che vi provvedono). Il giudice determina l’ammontare della somma di cui al primo comma tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile” questa è la norma che introduce, per la prima volta nel nostro ordinamento, una misura coercitiva di carattere generale cioè la si può usare sempre. Infatti, il campo di applicazione di detto articolo, è qualunque provvedimento emesso dal giudice purché sia un provvedimento che passi per un giudizio di accertamento (e cioè il giudice deve accertare delle cose circa la controversia). Analizziamo il meccanismo. Abbiamo una prestazione di fare infungibile e classico esempio è quello della prestazione canora da parte dello specifico cantante (vedi pag. 2 sbobinature). Ma se dopo la notifica del titolo esecutivo e del precetto e dopo lo scadere del termine ad adempiere, il cantante inadempiente, non corrisponde la somma di danaro, il creditore della prestazione dovrà iniziare un processo di espropriazione forzata. Ma è già in possesso del titolo esecutivo? Ebbene sì, perché ci dice l’art. 614 bis C.p.c., che quello stesso provvedimento di condanna che condanna il cantante ad eseguire la prestazione specifica a non fare e che contiene anche previamente la liquidazione, è anche titolo per il pagamento della stessa. Tuttavia, qualora il cantante avesse qualcosa da ridere, lo farà o contestando vizi di forma con l’opposizione agli atti esecutivi, oppure contestando il diritto di procedere all’esecuzione forzata con l’opposizione all’esecuzione con la quale potrà anche dedurre dei fatti che giustifichino il suo inadempimento (ad esempio, il creditore della prestazione, avendo già il titolo esecutivo, lo pone in esecuzione ma il cantante afferma di non essersi presentato perché non gli è stato garantito quanto dell’opposizione”: “Quando si contesta il diritto della parte istante a procedere ad esecuzione forzata e questa non è ancora iniziata, si può proporre opposizione al precetto con citazione davanti al giudice competente per materia o valore e per territorio a norma dell’articolo 27. Il giudice, concorrendo gravi motivi, sospende su istanza di parte l’efficacia esecutiva del titolo” è quindi possibile ottenere la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo in caso di opposizione a precetto, come sancito dal I° comma dell’art. 615 C.p.c . mentre, non è prevista nell’opposizione ex art. 617, I° comma C.p.c. “Quando è iniziata l’esecuzione, l’opposizione di cui al comma precedente e quella che riguarda la pignorabilità dei beni si propongono con ricorso al giudice dell’esecuzione stessa. Questi fissa con decreto l’udienza di comparizione delle parti davanti a sé e il termine perentorio per la notificazione del ricorso e del decreto”. Art. 616 C.p.c. “Provvedimenti sul giudizio di cognizione introdotto dall’opposizione”: “Se competente per la causa è l’ufficio giudiziario al quale appartiene il giudice dell’esecuzione (perché la causa non la decide il giudice dell’esecuzione ma il giudice della cognizione e cioè il tribunale come giudice della cognizione e non come giudice dell’esecuzione) questi fissa un termine perentorio per l’introduzione del giudizio di merito…altrimenti rimette la causa dinanzi all’ufficio giudiziario competente assegnando un termine perentorio per la riassunzione della causa”; si tratta del c.d. meccanismo della translatio iudicii (trasferimento del giudizio) che non esiste nel caso dell’opposizione agli atti esecutivi infatti, al II° comma dell’art. 618 C.p.c., è stabilito che: “All’udienza (il giudice dell’esecuzione) dà con ordinanza i provvedimenti che ritiene indilazionabili ovvero sospende la procedura. In ogni caso (vediamo che non dice: se competente) fissa un termine perentorio per l’introduzione del giudizio di merito … La causa è decisa con sentenza non impugnabile”. Art. 619 C.p.c. relativo all’opposizione di terzi: “Il terzo che pretende avere la proprietà o altro diritto reale sui beni pignorati può proporre opposizione con ricorso al giudice dell’esecuzione, prima che sia disposta la vendita o l’assegnazione dei beni (altrimenti il bene verrà venduto e il terzo potrà, in tal caso, ottenere solo il ricavato della vendita). Il giudice fissa con decreto l’udienza di comparizione delle parti davanti a sé e il termine perentorio per la notificazione del ricorso e del decreto. Se all’udienza le parti (creditore, debitore e terzo, che sono i litisconsorti necessari) raggiungono un accordo il giudice ne dà atto con ordinanza, adottando ogni altra decisione idonea ad assicurare, se del caso, la prosecuzione del processo esecutivo ovvero ad estinguere il processo, statuendo altresì in questo caso anche sulle spese (ed il processo si estingue quando il bene pignorato è soltanto uno e si verifica che lo stesso appartiene al terzo e quindi, una volta raggiunto l’accordo e stabilito che il bene appartiene al terzo, il processo esecutivo cade; se invece vi sono più beni pignorati, il pignoramento resta in piedi e viene meno solo su quel bene che si è verificato essere di proprietà del terzo); altrimenti (e cioè se non si raggiunge l’accordo) il giudice provvede ai sensi dell’articolo 616 (e cioè: se è competente il tribunale, fissa il termine per introdurre il giudizio di merito altrimenti, fissa il termine per riassumere la causa dinanzi al giudice di pace) tenuto conto della competenza per valore (invece l’art. 616 C.p.c., oltre al valore tiene conto anche della competenza per materia; tuttavia, il valore si determina in base al valore del bene controverso anche se, la giurisprudenza, in alcuni casi, applica anche qui oltre il criterio del valore pure il criterio della competenza per materia). 11° giorno Opposizioni esecutive (continuo) Abbiamo detto che l’opposizione all’esecuzione è l’opposizione con cui si contesta il diritto a procedere all’esecuzione forzata; ma perché è possibile contestare ciò? Ebbene innanzitutto perché manca il titolo esecutivo! Infatti, il principio <nulla executio sine titulo>, comporta che il titolo esecutivo deve sussistere per tutto il tempo della procedura esecutiva, ma può darsi il caso che, il titolo esecutivo, per una vicenda successiva venga meno, ad esempio: se il giudice di appello riforma la sentenza di primo grado che aveva riconosciuto un credito per € 1.000, si applica il c.d. effetto espansivo esterno e cioè, la riforma o la cassazione, si estende agli atti o i provvedimenti che dipendono dalla sentenza riformata o cassata e quindi, se era iniziato un processo esecutivo, viene riformata anche quella sentenza di primo grado che aveva riconosciuto un credito per € 1.000 dal momento che, la sentenza di secondo grado, è andata a negare questo credito e allora, il titolo esecutivo rappresentato dalla sentenza di primo grado, verrà meno in quanto la sentenza di appello ha carattere sostitutivo e pertanto sarà possibile proporre opposizione all’esecuzione. Oppure è possibile proporre opposizione all’esecuzione perché manca il titolo se, ad esempio, si inizia una procedura esecutiva sulla base di un atto che io affermo essere un titolo esecutivo ma che, in realtà, non lo è; ad esempio: la sentenza di accertamento non è titolo esecutivo in quanto è una sentenza che si limita solo ad accertare se un diritto esiste o non esiste. O ancora, si proporre opposizione all’esecuzione perché manca il titolo, se si inizia un’esecuzione in forma specifica per consegna o rilascio sulla base di una scrittura privata autenticata, anche in questo caso non si ha titolo esecutivo perché abbiamo detto che la scrittura privata autenticata non è titolo esecutivo per la consegna o rilascio e quindi, a tal punto, ci si difenderà con l’opposizione all’esecuzione. Bisogna però precisare che vi è una differenza tra l’opposizione all’esecuzione avverso titoli esecutivi giudiziali e l’opposizione all’esecuzione avverso titoli esecutivi stragiudiziali perché, quando si tratta di titoli esecutivi giudiziali (come la sentenza), per far valere i vizi della sentenza, si hanno a disposizione le impugnazioni; se invece si vogliono far valere i vizi dell’atto pubblico o di una scrittura privata autenticata, non si hanno a disposizione le impugnazioni ma gli strumenti negoziali, ad esempio: l’atto pubblico rappresenta un contratto di compravendita e quindi sarà possibile chiedere che sia dichiarata la nullità oppure che sia dichiarato l’annullamento per violenza, per dolo o per errore. Per questo motivo, dal momento che l’opposizione all’esecuzione è uno strumento residuale e cioè che si utilizza quando non ci sono altri rimedi, la giurisprudenza costantemente afferma che qualora si voglia dedurre un motivo di lamentela, un vizio avverso un titolo esecutivo giudiziale (ad esempio avverso la sentenza), se questo vizio lo si poteva far valere già con l’impugnazione, allora non sarà poi possibile farlo valere con l’opposizione all’esecuzione e si determina dunque una preclusone. Proviamo a fare un esempio per comprenderci meglio: vi è una sentenza che condanna Caio a pagare € 1.000 a Tizio, Caio però in questo giudizio aveva eccepito il fatto di aver già provveduto al pagamento della somma, il giudice rigetta questa eccezione e condanna comunque Caio a pagare questi € 1.000 ; ora Caio, se avesse voluto lamentarsi, avrebbe dovuto proporre impugnazione della sentenza nella parte in cui il giudice ha rigettato la sua eccezione di pagamento ma, se non lo ha fatto, non potrà poi far valere la sua eccezione di pagamento attraverso l’opposizione all’esecuzione, in quanto si matura una preclusione. Passiamo a qualche esempio relativo al titolo esecutivo stragiudiziale. Vi è un atto pubblico da cui risulta il credito di Tizio di € 1.000 nei confronti di Caio, ora Caio non ha modo di dedurre questo pagamento (non può ricorre all’impugnazione per dedurre che già ha pagato la somma) se non quando Tizio pretende nei suoi confronti, in via esecutiva e sulla base dell’atto pubblico, il pagamento di € 1.000, solo allora Caio potrà, con l’opposizione all’esecuzione, dedurre il pagamento già effettuato. Quindi, per i titoli esecutivi stragiudiziali, a differenza dei titoli esecutivi giudiziali (per i quali si hanno a disposizione gli strumenti rappresentati dalle impugnazioni), non si manifesta la preclusione perché, l’unico momento in cui il debitore può far valere quei motivi di doglianza, è quello in cui il creditore inizia nei suoi confronti la procedura esecutiva. Una volta presentata l’opposizione all’esecuzione con ricorso al giudice dell’esecuzione, lo stesso, fisserà con decreto un’udienza e, questo decreto insieme al ricorso, dovrà essere notificato alle altre parti per realizzare il contraddittorio. Ma ciò che a noi interessa è che quest’udienza è molto particolare in quanto segue le forme dei procedimenti in camera di consiglio; questi procedimenti sono “speciali” e sono disciplinati negli artt. 737 ss. C.p.c. Nell’udienza abbiamo detto che il giudice dovrà verificare se è o meno competente (e se non lo è, fisserà un termine per la riassunzione) ma prima di fare questo, in caso di opposizione all’esecuzione, dovrà valutare se vi siano degli estremi per sospendere il processo perché, una delle ipotesi in cui si può ottenere la sospensione del processo esecutivo, è data appunto dall’ipotesi in cui l’istante presenta ricorso per opposizione all’esecuzione in conseguenza della quale, il giudice dell’esecuzione, con ordinanza, potrà decidere se sospendere o negare la sospensione del processo. Infatti, mettendo a confronto l’art. 616 C.p.c. e l’art. 618 C.p.c., è possibile notare che quest’ultimo espressamente parla di <sospensione della procedura> invece, l’art. 616 C.p.c. non vi fa riferimento perché, la norma che in questo caso si applica, è un’altra e cioè l’art. 624 C.p.c. “Sospensione per opposizione all’esecuzione”: “Se è proposta opposizione all’esecuzione a norma degli articoli 615 e 619, il giudice dell’esecuzione, concorrendo gravi motivi, sospende, su istanza di parte, il processo con cauzione o senza”. E allora da questo sistema ricaviamo che: • - il provvedimento di sospensione dell’esecuzione del processo, compete al giudice dell’esecuzione; • - la norma 624, I° comma C.p.c., si riferisce all’opposizione all’esecuzione proposta ovviamente dopo l’inizio dell’esecuzione perché, della sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo prima dell’inizio dell’esecuzione, si occupa già l’art. 615, I° comma C.p.c.; • - l’art. 624 C.p.c. si riferisce anche all’opposizione di terzo all’esecuzione la quale, per la sua disciplina, rinvia all’art. 616 C.p.c. e cioè rinvia alla disciplina dell’opposizione all’esecuzione. Tuttavia, qualora venisse disposa la sospensione del processo esecutivo, quest’ultimo verrebbe riattivato dopo la definizione del giudizio di opposizione. Ma come si definisce questo giudizio di opposizione? Ebbene la definizione dello stesso dipende dal tipo di opposizione: • o l’opposizione all’esecuzione e l’opposizione di terzo all’esecuzione, sono decisi con sentenza appellabile; • o l’opposizione agli atti esecutivi è decisa con sentenza non impugnabile il che vuol dire che, la sentenza che decide l’opposizione agli atti esecutivi, non può essere impugnata con l’appello ma con il ricorso straordinario per Cassazione previsto dall’art. 111 comma VII° Cost. Altra differenza tra l’opposizione agli atti esecutivi e l’opposizione all’esecuzione, è che la prima ha un momento preclusivo (i famosi 20 giorni decorsi dalla conoscenza dell’atto) e, comunque, tenendo sempre conto del fatto che la nullità di un atto esecutivo si trasmette anche agli atti successivi dipendenti e quindi, se si sono superati i 20 giorni per proporre opposizione agli atti esecutivi avverso il primo atto e casomai si è in termini per proporre opposizione agli atti esecutivi avverso l’atto successivo a cui si è trasmessa la nullità, si porrà alla base della dichiarazione di nullità proprio il vizio da cui era affetto l’atto presupposto (ad esempio, quando vi è un vizio che attiene alla formazione della vendita forzata, del tipo che non sono stati dati gli avvisi per la vendita forzata, oppure il giudice ha autorizzato la vendita senza verificare che fosse stato dato avviso della stessa vendita ai creditori iscritti, passano i 20 giorni, ma l’atto di vendita successivo continua ad essere viziato a causa della assenza dell’avviso). C’è poi anche un limite più ampio nell’opposizione agli atti esecutivi e cioè, l’udienza per l’autorizzazione della vendita o l’assegnazione in cui vi è la preclusione alla possibilità di dedurre vizi per tutti gli atti che fossero precedenti all’autorizzazione della vendita o dell’assegnazione (artt. 530 e 569 C.p.c.). L’opposizione all’esecuzione invece, non ha un momento preclusivo infatti, la possibilità di proporre opposizione all’esecuzione, si esaurisce con la chiusura del processo esecutivo. Presentate queste opposizioni, si apre il processo di cognizione definito con sentenza. Ma una volta che l’opposizione viene accolta, cosa succede? Dipende! Nel caso di opposizione all’esecuzione, siccome con la stessa si contesta il diritto di procedere all’esecuzione, se viene accolta cade tutto il processo esecutivo ma, nell’ipotesi che però l’opposizione all’esecuzione sia fondata sull’impignorabilità del bene, se il bene è uno solo, allora cade Anche l’art. 512 C.p.c. è una prova dell’applicabilità dell’art. 617 C.p.c. come valvola di sicurezza del sistema. Sulla base di questo meccanismo e di questa natura delle controversie distributive, possiamo allora dire che, le stesse controversie distributive, in realtà rimangono divise dall’opposizione all’esecuzione in quanto quest’ultima, dà luogo automaticamente ad un processo di cognizione piena, deciso con sentenza, passa in giudicato e invece, la decisione del giudice dell’esecuzione sulla controversia distributiva emessa con ordinanza, non passa in giudicato ma ha un’efficacia limitata al processo d’esecuzione in corso. Da qui l’esigenza di coordinare l’art. 512 C.p.c. con l’art. 499, ultimo comma C.p.c. Quest’ultimo si occupa dell’intervento, in particolare, dei creditori sforniti di titolo esecutivo e si occupa dell’udienza in cui il debitore deve dichiarare se riconosce o non riconosce i crediti; se poi lo stesso debitore non compare, si intendo riconosciuti tutti i crediti per i quali hanno avuto luogo interventi senza titolo esecutivo oppure, se compare e li riconosce, i crediti saranno riconosciuti nella misura del riconoscimento. Ora, lo stesso art. 499, ultimo comma C.p.c. ci dice: “In tutti casi il riconoscimento rileva comunque ai soli effetti dell’esecuzione” e questo cosa vuol dire? Ebbene vuol dire che il debitore ha riconosciuto il credito ma, questo riconoscimento, vale solo per far partecipare il creditore all’esecuzione e per avere la distribuzione del ricavato, ma ciò non toglie che non è un riconoscimento con una sentenza passata in giudicato e cioè, se il debitore si è sbagliato, dopo la distribuzione del ricavato, ben potrà, nei confronti del creditore, fare un’azione di ripetizione dell’indebito. Il dubbio è questo: abbiamo detto che le controversie distributive possono essere proposte anche dal debitore e mettiamo caso che lo stesso debitore voglia andare a contestare la sussistenza oppure l’ammontare del credito; ma se il debitore ha prima già riconosciuto il credito del creditore sfornito di titolo esecutivo, come può poi proporre una controversia distributiva per dire che invece, quel credito non esiste o che non è quello l’ammontare? Si ritiene (anche per il prof. Verde) che se il debitore ha in quella famosa udienza di cui all’art. 499, comma VI° C.p.c. fatto già il riconoscimento del credito del creditore sfornito di titolo esecutivo, poi non possa nel processo sollevare controversia distributiva perché, l’art. 499, ultimo comma C.p.c., ci dice che quel riconoscimento ha valore ai soli fini dell’esecuzione e quindi dovrebbe coprire tutta l’esecuzione. Altri ritengo che il debitore possa invece proporre controversia distributiva perché, quando l’art. 499, ultimo comma C.p.c. dice che il riconoscimento ha effetto limitatamente all’esecuzione, non si riferisce a tutta l’esecuzione ma alla fase espropriativa (quella che cioè si chiude con la vendita) mentre, le controversie distributive, si collocano nella fase distributiva e quindi, secondo questa tesi, non ci sarebbe alcuna preclusione nata dall’ultimo comma dell’art. 499 C.p.c. perché, il debitore, potrebbe ben proporre controversia distributiva anche se in fase espropriativa aveva già riconosciuto il credito e il suo ammontare. Altro motivo utile ad escludere, almeno in parte, la sovrapposizione della disciplina relativa alle controversie distributive con quella relativa, invece, all’opposizione all’esecuzione, è che: con le controversie distributive si può contestare la controversia di qualunque credito e cioè quello del creditore fornito o sfornito di titolo esecutivo mentre, con l’opposizione all’esecuzione, si contesta il diritto di procedere all’esecuzione e, all’esecuzione forzata, può procedere solo il creditore munito di titolo esecutivo pertanto, l’opposizione all’esecuzione, la si può proporre solo nei confronti dei creditori muniti di titolo esecutivo ed infatti, nei confronti di quelli sforniti di titolo esecutivo, si utilizza l’art. 617 C.p.c. Ma questa distinzione tra creditori muniti e sforniti di titolo esecutivo, sappiamo che ha rilevanza nella fase espropriativa perché attiene al potere di far compiere gli atti dell’esecuzione, nella fase distributiva infatti, tutti i creditori sono equiparati ed ecco perché le controversie distributive riguardano genericamente la sussistenza del credito munito o sfornito di titolo esecutivo. Riassumendo la distinzione tra opposizione all’esecuzione e controversia distributiva possiamo dire che: Opposizione all’esecuzione Controversie distributive L’opposizione all’esecuzione può essere Le controversie distributive si collocano proposta solo dal debitore esecutato e solo nella fase distributiva, non aprono dal terzo proprietario e si può proporre processi di cognizione, non si chiudono per tutto il corso dell’esecuzione. con una decisione che passa in giudicato L’opposizione all’esecuzione origina un (almeno in prima battuta) e si possono processo di cognizione piena, viene decis o proporre anche nei confronti dei creditori con sentenza e può essere proposta, sforniti di titolo esecutivo. Prima della fase poiché si contesta il diritto di procedere distributiva, se il debitore avesse qualcosa all’esecuzione forzata, solo nei confronti da dire sul credito del creditore sfornito di dei creditori forniti di titolo esecutivo titolo esecutivo, lo potrà fare attraverso l’opposizione agli atti esecutivi che è la valvola di sicurezza. In prima battuta, le controversie distributive, non aprono processi di cognizione, e sono decise con ordinanza; in seconda battuta, e cioè quando avverso l’ordinanza sia proposta eventualmente opposizione agli atti esecutivi, diventano processi di cognizione che hanno ad oggetto: sussistenza, ammontare, collocazione del credito e vengono decise con sentenza che può passare in giudicato salvo l’impugnazione con il ricorso straordinario per Cassazione Ma una volta proposta la controversia distributiva, si sospende la distribuzione del ricavato? Il testo vigente dell’art. 512, ultimo comma C.p.c. e modificato dalle riforme 2005\2006, dice: “Il giudice può, anche con l’ordinanza di cui al primo comma, sospendere, in tutto o in parte, la distribuzione della somma ricavata” quindi c’è possibilità di sospensione lasciata alla scelta del giudice dell’esecuzione. Una particolare ipotesi di controversia distributiva è determinata dalla fattispecie di cui all’art. 511 C.p.c., il quale prevede l’ipotesi della c.d. “Domanda di sostituzione”; sostanzialmente, il debitore di Tizio ha diritto di partecipare al ricavato nell’ambito di un’espropriazione forzata e si è utilmente collocato per soddisfarsi nella procedura esecutiva, ora, Tizio (suo creditore), può chiedere di essere sostituito al suo debitore nella distribuzione del ricavato? Art. 511 C.p.c.: “I creditori di un creditore avente diritto alla distribuzione possono chiedere di essere a lui sostituiti proponendo domanda a norma dell’articolo 499, secondo comma (e cioè depositano nella cancelleria del giudice dell’esecuzione un ricorso, come se si trattasse di un intervento con il quale il creditore volesse essere sostituito al debitore che, in realtà, è a sua volta creditore nei confronti dell’esecutato). Il giudice dell’esecuzione provvede alla distribuzione anche nei loro confronti, ma le contestazioni relative alle loro domande non possono ritardare la distribuzione tra gli altri creditori concorrenti” che cosa vuol dire? Allora l’ipotesi è che, il creditor creditoris (creditore del creditore), ha il suo debitore che non lo paga però, lo stesso debitore, sta recuperando il suo credito in una procedura espropriativa ed ha il diritto di partecipare alla distribuzione del ricavato; il creditor creditoris, prepara allora ricorso con i contenuti dell’art. 499, II° comma C.p.c. e lo deposita nella cancelleria del giudice dell’esecuzione e chiede di essere sostituito al suo debitore (che è a sua volta creditore), in qualità di creditor creditoris, nella soddisfazione in fase distributiva. In tal caso, se il creditor creditoris viene sostituito, allora effettivamente i pagamenti verranno effettuati a lui e non al suo debitore, oppure, quest’ultimo, si duole dell’intervento del creditore e apre una controversia distributiva. All’inizio abbiamo detto che questa era un’ipotesi di controversia distributiva “particolare” perché ha ad oggetto la domanda di sostituzione effettuata dal creditor creditoris e ci dice l’art. 511, II° comma C.p.c., che in questo caso se nasce una controversia distributiva, la lite tra il creditore che partecipa all’espropriazione e il creditor creditoris, non può ritardare la distribuzione per gli altri e quindi, è un caso in cui la distribuzione verrà sospesa solo in parte e cioè solo per la parte relativa al credito per il quale c’è stata la domanda di sostituzione. Ma il creditor creditoris che interviene, si sostituisce al suo debitore avvalendosi del titolo esecutivo del suo debitore, oppure deve possedere lui stesso un titolo esecutivo? La tesi più diffusa è che, il creditor creditoris, non agisce come un sostituto, non agisce con una sorta di azione surrogatoria perché il suo debitore, in realtà, non è un soggetto inerte, in quanto sta comunque ponendo in essere una procedura espropriativa e dunque si ritiene che il creditor creditoris, per essere legittimato a fare la domanda di sostituzione, debba essere già in possesso di un titolo esecutivo nei confronti del suo debitore a cui si vuole sostituire. Sospensione (continuo) Abbiamo detto che la sospensione del processo esecutivo la può disporre la legge, il giudice dell’impugnazione e il giudice dell’esecuzione. Ma in particolare, quand’è che il giudice dell’esecuzione può disporre la sospensione del processo esecutivo e come? Lo può fare nel caso di opposizione all’esecuzione, agli atti esecutivi e opposizione di terzo ed ordina la sospensione con ordinanza nell’udienza che segue le forme del procedimento in camera di consiglio. Ma questa ordinanza che sospende il processo esecutivo e la distribuzione del ricavato, si può impugnare? Art. 624, II° comma C.p.c. “Sospensione per opposizione all’esecuzione”: “Contro l’ordinanza che provvede sull’istanza di sospensione è ammesso reclamo ai sensi dell’articolo 669-terdecies (e cioè, se il giudice sospende o nega la sospensione, la parte interessata può proporre reclamo ai sensi del sopra citato articolo 669terdecies che prevede, appunto, il reclamo contro i provvedimenti cautelari e questo perché, il legislatore, ha equiparato il provvedimento di sospensione ad un provvedimento che ha sostanzialmente natura cautelare; tuttavia, il reclamo contro i provvedimenti cautelari, si propone ad un giudice diverso da quello che ha emesso il provvedimento, quindi, siccome in tal caso il provvedimento lo ha emesso il giudice dell’esecuzione, ossia il tribunale in composizione monocratica, il reclamo verrà proposto al tribunale in composizione collegiale di cui non può far parte il giudice che aveva emesso la decisione e solitamente c’è un termine di 15 giorni). La disposizione di cui al periodo precedente (cioè la possibilità di proporre reclamo) si applica anche al provvedimento di cui all’articolo 512, secondo comma (e cioè si applica anche in caso di sospensione della distribuzione del ricavato)”. Una volta che però il processo esecutivo viene sospeso, non si possono compiere atti durante l’esecuzione; gli atti compiuti sono nulli salvo che si tratti di atti indifferibili ed urgenti di cui il giudice dell’esecuzione autorizzi comunque il compimento. Ma se l’opposizione all’esecuzione o l’opposizione agli atti esecutivi viene proposta quando è stato effettuato il pignoramento ma ancora non è stata fatta l’istanza di vendita, vi è il problema relativo al termine di efficacia del pignoramento (90 giorni) e l’art. 628 C.p.c. “Sospensione del termine di efficacia del pignoramento” ci dice: “La opposizione ai singoli atti esecutivi (ma lo stesso vale anche Invece, il procedimento per convalida di sfratto (che è sempre un procedimento sommario), è un procedimento sommario non perché parziale, ma perché superficiale. Ad esempio: Tizio (locatore) proprietario di un appartamento in affitto, siccome non riceve più il canone mensile di locazione dal conduttore, inizia nei suoi confronti un procedimento di convalida di sfratto per morosità. Questo procedimento inizia con un atto che è l’atto di citazione e pertanto verrà notificato alla controparte realizzando così, il contraddittorio e allora non possiamo affermare che si tratta di un procedimento sommario perché parziale, ma sommario perché superficiale, in quanto il giudice provvederà ad emettere o meno quest’ordinanza di convalida di sfratto, in base ad una cognizione che non è piena, ma appunto è una cognizione di tipo superficiale. Allora possiamo dire che vi sono: 1. 1. procedimenti sommari perché parziali e superficiali (vedi appunto il procedimento monitorio); o 2. 2. procedimenti sommari superficiali ma non parziali (vedi il caso del procedimento per convalida di sfratto). Il procedimento sommario si distingue dal processo a cognizione piena, non solo perché fondato su una cognizione di tipo semplificato ma, altresì, perché il provvedimento finale non è detto che abbia la stessa autorità di una sentenza. Soprattutto in dottrina ci si chiede: se il decreto ingiuntivo è stato emesso sulla base di una cognizione superficiale, perché gli si deve riconoscere la stessa autorità della sentenza passata in giudicato? E così, in dottrina, a volte si è distinto, dal punto di vista dell’efficacia, tra l’autorità di giudicato, che è propria solo della sentenza, e la c.d. efficacia di preclusione pro iudicato, che caratterizza il decreto ingiuntivo. La differenza si concretizza in ciò: se si ha una sentenza passata in giudicato, la stessa fa stato tra le parti, gli eredi e gli avanti causa, può essere utilizzata anche in successivi processi tra le stesse parti e può esplicare un’efficacia riflessa, ad esempio, in relazione a dei rapporti dipendenti da quello deciso; il concetto di preclusione pro iudicato, che parte della dottrina utilizza per descrivere l’efficacia del decreto ingiuntivo divenuto immutabile (cioè non più impugnabile), è solo in parte assimilabile al concetto di cosa giudicata perché si dice che, un decreto ingiuntivo divenuto immutabile, è assistito da un’efficacia di preclusione pro iudicato nel senso che il giudicato si forma solo sul diritto fatto valere con il decreto ingiuntivo ma non si estende ai c.d. antecedenti logici\necessari della pronuncia. Ad esempio: Tizio e Caio stipulano un contratto di compravendita ma Caio non paga il prezzo di questo contratto di compravendita, allora Tizio potrà agire in giudizio con un’azione di condanna al pagamento del prezzo. Quest’azione di condanna, produrrà una sentenza di condanna che passa in giudicato. Ci chiediamo: ma questa sentenza di condanna, determina la formazione del giudicato soltanto sul diritto di Tizio al pagamento del prezzo, oppure il giudicato si estende anche all’accertamento dell’esistenza e validità del contratto su cui si fondava il diritto di Tizio al pagamento del prezzo? Ebbene, il giudicato, si estende anche al contratto! Questi sono i famosi antecedenti logici\necessari della pronuncia! Se Tizio ha diritto al pagamento del prezzo, il presupposto di questo diritto è che ci sia stato effettivamente il contratto di compravendita e che, lo stesso contratto, sia esistente e valido. Quindi, estensione dell’autorità di giudicato, non solo al singolo diritto al pagamento del prezzo, ma anche agli antecedenti logici\necessari (ossia esistenza e validità del contratto). Se invece ci spostiamo nel campo del decreto ingiuntivo, per ottenere il pagamento del prezzo, Tizio potrà anche utilizzare il procedimento monitorio (detto anche per decreto ingiuntivo) che abbiamo detto essere un procedimento sommario, dunque: Tizio ottiene il decreto ingiuntivo per il pagamento del prezzo del contratto di compravendita, il decreto ingiuntivo non viene impugnato (non viene cioè opposto) e a questo punto diviene immutabile. Ma se il decreto ingiuntivo ha l’autorità di giudicato, questo, che cosa vuol dire? Vuol dire che il decreto ingiuntivo divenuto immutabile, accerta sia il diritto al pagamento del prezzo, sia l’esistenza e la validità del contratto su cui si fonda il diritto al pagamento del prezzo. Coloro che invece sostengono che non ha autorità di giudicato ma che invece produce una diversa autorità (detta preclusione pro iudicato) affermano che, il decreto ingiuntivo divenuto immutabile, determina, per effetto di questa preclusione pro iudicato, la formazione del giudicato soltanto sul diritto fatto valere (nel nostro esempio era il diritto al pagamento del prezzo) e quindi il giudicato non si estenderebbe anche agli antecedenti logici\necessari (esistenza e validità del contratto). Ma la differenza tra giudicato e preclusione pro iudicato, non è una differenza qualitativa, cioè dal punto di vista della qualità dell’accertamento, ma è una differenza quantitativa perché, nell’autorità di giudicato, dal punto di vista della quantità, il giudicato copre sia il diritto al pagamento del prezzo, sia gli antecedenti logici\necessari invece, nel concetto di preclusione pro iudicato, il giudicato copre solo il diritto fatto valere ma non si estende agli antecedenti logici\necessari. Questa tesi che forma una distinzione tra giudicato e preclusione pro iudicato (affermando, come appena visto, che i provvedimenti sommari e soprattutto il decreto ingiuntivo sarebbero assistiti non dall’autorità di giudicato ma dall’efficacia di preclusione pro iudicato) è una tesi però sostenuta solo dalla dottrina perché, se esaminiamo la giurisprudenza, questa equipara perfettamente l’autorità della sentenza all’autorità del decreto ingiuntivo divenuto immutabile, cioè afferma che anche un decreto ingiuntivo divenuto immutabile, produce autorità di giudicato e quindi estensione del giudicato sia al diritto fatto valere, sia agli antecedenti logici\necessari della pronuncia. Il procedimento monitorio (anche detto procedimento di ingiunzione, procedimento per decreto ingiuntivo), è disciplinato agli artt. 633 ss. C.p.c. ed è uno dei procedimenti più diffusi nella pratica perché è un procedimento che si ottiene celermente. Detto procedimento si propone con ricorso ed esso, è un procedimento che viene emesso in audita altera parte e cioè senza aver ascoltato la controparte tant’è che, il contraddittorio, viene differito (spostato cioè, in un secondo momento perché, nel nostro ordinamento, non vi possono essere procedimenti senza contraddittorio altrimenti sarebbero violati gli artt. 111 e 24 Cost.). Ma per quali diritti è possibile chiedere un decreto ingiuntivo? Per ottenere un decreto ingiuntivo, che cosa deve essere provato? Diritto da far valere e prova del diritto, sono elementi che attengono alle c.d. condizioni di ammissibilità del decreto ingiuntivo. Si parla di condizioni di ammissibilità perché, quando la parte presenta ricorso per decreto ingiuntivo, il giudice, sulla base della sussistenza delle condizioni di ammissibilità, emette il decreto ingiuntivo. Ecco perché il giudice pone in essere una cognizione superficiale, perché in sostanza si limita a verificare che esistano queste condizioni di ammissibilità e cioè che il diritto sia uno dei diritti per cui è possibile ottenere un decreto ingiuntivo, e che ci sia una prova scritta del diritto. Se ci sono questi elementi, il giudice emette il decreto ingiuntivo, quest’ultimo viene notificato alla controparte e, qualora la controparte avesse qualcosa da ridire, lo potrà fare con l’opposizione al decreto ingiuntivo. Quindi il contradditorio si inizia a realizza quando il ricorso, con il decreto ingiuntivo, vengono notificati alla controparte ma, in concreto, le parti saranno in contraddittorio tra loro solo se, il c.d. intimato (il soggetto passivo), presenta una opposizione. Difatti si dice che il contradditorio è differito (ha luogo dopo la pronuncia del decreto) e che ha anche carattere eventuale perché dipende dal fatto se l’intimato presenta o meno opposizione al decreto ingiuntivo. I diritti per i quali è possibile ottenere un decreto ingiuntivo sono espressamente previsti dall’art. 633, I° comma C.p.c. Questo articolo prevede tassativamente che, oggetto del decreto ingiuntivo, possa essere: o una somma di danaro (e ovviamente si deve trattare di una somma liquida cioè determinata nel suo ammontare), oppure una cosa mobile determinata (quel quadro, quell’orologio …), oppure una quantità determinata di cose fungibili (100 quintali di grano saraceno). Se questi sono i possibili oggetti del decreto ingiuntivo, lo stesso, fa le veci dell’azione di condanna e cioè, il decreto ingiuntivo è in realtà lo strumento che si può utilizzare soltanto quando si voglia ottenere una condanna; invece, il procedimento sommario di cognizione (artt. 702 bis ss. C.p.c.), è un procedimento che si può utilizzare per qualsiasi tipo di azione (di condanna, di accertamento, costitutiva). Tuttavia, ritornando al procedimento monitorio, presentata la domanda da parte del creditore, ci dice l’art. 633, I° comma C.p.c.: “… il giudice competente pronuncia ingiunzione di pagamento o di consegna (se vi sono i seguenti elementi\condizioni di ammissibilità): 1. se del diritto fatto valere si dà prova scritta (la prova scritta è ciò che è in grado di dare sicurezza in ordine all’esistenza del diritto e gli elenchi che troviamo negli artt. 634 e 635 C.p.c., non sono elenchi tassativi circa le prove scritte, ma hanno carattere esemplificativo. Occorre a tal punto precisare che, nell’ambito del procedimento monitorio, è possibile assumere solo questa distinzione e cioè quella tra, un procedimento monitorio c.d. puro e un procedimento monitorio documentale. Il procedimento monitorio puro , si fonda sull’affermazione dell’esistenza del diritto proveniente dallo stesso soggetto che si afferma titolare del diritto. Vale a dire: io mi affermo titolare del diritto? Allora produco, come prova di questo diritto, una fonte di prova che proviene da me stesso, ad esempio: l’avvocato vuole recuperare i suoi onorari, emette una parcella con cui li liquida e quindi, la prova del credito, è una prova che forma lo stesso avvocato, o ancora: immaginiamo che un imprenditore fonda il suo credito sulle risultanze delle scritture contabili, scritture che detiene lo stesso imprenditore e quindi, anche in tal caso, è lui stesso a formare la prova del suo diritto. In entrambi i casi si tratta di procedimento monitorio puro proprio perché, la prova, proviene dallo stesso soggetto che afferma essere titolare del diritto. Altro esempio di procedimento monitorio puro, ci è dato dall’art. 635 C.p.c., secondo il quale sono prove scritte anche i libri o registri della pubblica amministrazione purché regolarmente tenuti e cioè, se la pubblica amministrazione vanta un credito nei confronti di Tizio, prova questo diritto di credito con i libri o i registri che sono della stessa pubblica amministrazione purché siano regolarmente tenuti e così vidimati dal funzionario o dal notaio. Altro esempio di procedimento monitorio puro, lo si riscontra nell’art. 634, II° comma C.p.c. in base al quale: “I crediti relativi a somministrazioni di merci e di danaro o prestazioni di servizi fatte da imprenditori a persone che esercitino attività commerciale, o anche a persone diverse, sono altresì prove scritte idonee ad ottenere un decreto ingiuntivo” in particolare poi, questo comma, ci ricorda che i registri tenuti dall’imprenditore sono prova del credito non solo, quando il credito risultante dalle scritture contabili dell’imprenditore sia vantato nei confronti di un altro imprenditore, ma sono prova del credito anche quando il credito è vantato nei confronti di un altro soggetto che non faccia l’imprenditore e questa è dunque una norma speciale che si applica solo nel procedimento monitorio. Ma il nostro ordinamento prevede anche le ipotesi di procedimento monitorio documentale che sono ipotesi in cui la fonte della prova non proviene dallo stesso soggetto che si afferma titolare del diritto. Ad esempio: Tizio vuole il pagamento del prezzo di un contratto di compravendita stipulato per atto pubblico; l’atto pubblico non proviene dallo stesso soggetto titolare del diritto in quanto è atto formato dal notaio e quindi, in tal caso, si parla di procedimento monitorio documentale perché vi è effettivamente un documento che proviene da un soggetto estraneo a chi si afferma creditore, un documento eteroformato, formato appunto da un soggetto diverso); 2. 2. se il credito riguarda onorari per prestazioni giudiziali o stragiudiziali o rimborso di spese fatte da avvocati, procuratori, cancellieri, ufficiali giudiziari o da chiunque altro ha prestato la sua opera in occasione di un processo (e questa è un’ipotesi di procedimento monitorio puro, in quanto, il soggetto stesso, va a liquidare il suo onorario); 3. 3. se il credito riguarda onorari, diritti o rimborsi spettanti ai notai a norma della loro legge professionale, oppure ad altri esercenti una libera professione o arte, per la quale esiste una tariffa legalmente approvata (proprio perché, essi, liquidano onorari in base alle tariffe previste per gli avvocati, o per i notai. Infatti, con il sistema della liberalizzazione, l’avvocato può stipulare un accordo con il cliente proprio all’atto del conferimento; l’avvocato redige cioè, un preventivo per la causa che viene sottoscritto dal cliente, ma se un domani lo stesso cliente non provvede al pagamento, l’avvocato potrà utilizzare il preventivo accettato e firmato dal cliente come prova scritta del suo diritto. In tal caso non si tratta più di una liquidazione fatta dal solo avvocato, perché si tratta di una sorta di Ad esempio, la sentenza di condanna sappiamo che è immediatamente dotata di efficacia esecutiva provvisoria; ci chiediamo: il decreto ingiuntivo, una volta emesso, è dotato sempre di efficacia esecutiva provvisoria? No! E le norme che a noi interessano, sono gli artt. 642, 647, 648 e 649 del C.p.c. Quando si parla di efficacia esecutiva, si distingue tra: • • l’efficacia esecutiva provvisoria e cioè quando il decreto ingiuntivo sia dotato di efficacia esecutiva sin dal momento in cui esso viene emesso dal giudice, o ancora quando è dotato di efficacia esecutiva in pendenza del giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo; e • • l’efficacia esecutiva definitiva che il decreto ingiuntivo può acquistare solo quando diviene immutabile, ed esso diviene tale o perché non è stata presentata l’opposizione, o perché il giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo si è estinto, ovvero si è concluso con una sentenza che ha rigetto l’opposizione. I casi in cui il decreto ingiuntivo può essere emesso dal giudice, su istanza di parte, sin dall’inizio munito di efficacia esecutiva provvisoria, sono disciplinati all’art. 642 C.p.c. “Esecuzione provvisoria”: “Se il credito è fondato su cambiale, assegno bancario, assegno circolare, certificato di liquidazione di borsa, o su atto ricevuto da notaio o altro pubblico ufficiale autorizzato, il giudice, su istanza del ricorrente, ingiunge al debitore di pagare o consegnare senza dilazione, autorizzando in mancanza l’esecuzione provvisoria del decreto e fissando il termine ai soli effetti dell’opposizione”. Ci sono dunque, dei casi in cui come prova scritta, si hanno cambiali, assegni bancari, assegni circolari … tutte ipotesi in cui la prova scritta di per sé considerata costituisce titolo esecutivo e quindi, in tali casi, il ricorrente, nel suo ricorso, potrà presentare anche al giudice istanza di concessione di una provvisoria esecuzione o esecutorietà del decreto ingiuntivo e, se il giudice accoglie questo ricorso, emette il decreto ingiuntivo già dotato di efficacia esecutiva ma, lo stesso decreto ingiuntivo, deve essere notificato per consentire la realizzazione del contradditorio, alla controparte, che avrà il termine di 40 giorni per presentare opposizione al decreto ingiuntivo, opposizione con la quale si faranno valere i vizi o del decreto, o questioni attinenti al rapporto sostanziale. Tuttavia, ciò che a noi interessa precisare, è che il termine dei 40 giorni, è un termine fissato solo per l’opposizione, non è anche il termine decorso il quale, in mancanza di opposizione, il decreto acquista efficacia esecutiva in quanto, l’efficacia esecutiva, c’è l’ha già in via immediata. Ecco perché l’art. 642, I° comma C.p.c. ci dice che: “… autorizzando, in mancanza (del pagamento immediato o della consegna immediata) l’esecuzione provvisoria del decreto e fissando il termine (per l’opposizione) ai soli effetti dell’opposizione”. Ci sono altre ipotesi in cui può essere concessa l’efficacia esecutiva provvisoria? Si! Come previsto dal II° comma dell’art. 642 C.p.c.: “L’esecuzione provvisoria può essere concessa anche se vi è pericolo di grave pregiudizio nel ritardo, ovvero se il ricorrente produce documentazione sottoscritta dal debitore, comprovante il diritto fatto valere; il giudice può imporre al ricorrente una cauzione” l’ipotesi è che, se si attende il tempo dei 40 giorni, vi è il pericolo di un grave pregiudizio nel ritardo ad esempio, dovuto alla condizione del creditore che magari ha necessità di quel bene, di quella somma di danaro, ma può essere un pericolo di pregiudizio determinato anche dallo stesso debitore perché, magari, il creditore ha timore che il debitore possa nel tempo sottrarre il bene e allora, una volta ottenuto il decreto ingiuntivo, sarà preferibile utilizzare subito lo strumento del pignoramento con cui si crea il vincolo di indisponibilità su quel bene. Altra ipotesi in cui è concessa l’efficacia esecutiva provvisoria, si ha quando Tizio ha, ad esempio, una scrittura privata che proviene dal suo debitore e con la quale lo stesso debitore riconosce il diritto che Tizio vanta. Tizio produce questa scrittura come prova scritta posta a fondamento del ricorso per decreto e, in questo caso, il giudice concede l’efficacia esecutiva provvisoria. In tutte queste ipotesi, il decreto ingiuntivo, acquista efficacia esecutiva sempre provvisoria, perché non si sa ancora se il decreto ingiuntivo diverrà immutabile o meno in quanto c’è ancora il termine per l’opposizione ma, questa efficacia esecutiva provvisoria, il decreto ingiuntivo l’acquista sin dal momento in cui esso è emesso, pronunciato dal giudice. L’art. 648 C.p.c. “Esecuzione provvisoria in pendenza di opposizione”, concerne l’ipotesi che venga presentata opposizione al decreto ingiuntivo ma il creditore, nonostante l’opposizione, chiede comunque la concessione dell’efficacia esecutiva provvisoria. Ma quando ciò è possibile? Ce lo dice lo stesso art. 648 C.p.c.: “Il giudice istruttore, se l’opposizione non è fondata su prova scritta o di pronta soluzione, può concedere, con ordinanza non impugnabile, l’esecuzione provvisoria del decreto, qualora non sia stata già concessa a norma dell’articolo 642 (ci riferiamo all’ipotesi di decreto ingiuntivo che non sia stato già dotato fin dall’inizio di efficacia esecutiva provvisoria). Il giudice concede l’esecuzione provvisoria parziale del decreto ingiuntivo opposto (quando ci sia una contestazione sulle somme dovute ma la contestazione sia solo parziale e cioè, Tizio aveva ottenuto un decreto ingiuntivo per € 5.000, ma Caio contesta con l’opposizione il credito di € 5.000 sostenendo che invece il credito fosse di € 3.000, in tal caso il giudice può concedere l’efficacia esecutiva provvisoria ma …) limitatamente alle somme non contestate (nel nostro esempio, limitatamente a € 3.000), salvo che l’opposizione sia proposta per vizi procedurali (e cioè, se non si contesta semplicemente l’ammontare del credito ma, con l’opposizione, si va a dedurre che il decreto ingiuntivo è stato emesso quando non poteva essere emesso perché ad esempio, mancava la prova scritta, oppure perché il diritto non è uno dei diritti previsti dall’art. 633, allora in tal caso si stanno contestando vizi anche di tipo procedurale e quindi il giudice non potrà proprio concedere l’esecuzione provvisoria). Deve in ogni caso concederla, se la parte che l’ha chiesta (se cioè il creditore, di fronte all’opposizione) offre cauzione per l’ammontare delle eventuali restituzioni, spese e danni (vale a dire: il creditore subisce l’opposizione al decreto ingiuntivo ma chiede al giudice di concedergli ugualmente l’esecuzione provvisoria, versa una cauzione al fine di garantire la controparte per eventuale risarcimento del danno, per le spese qualora il decreto ingiuntivo venga annullato in quanto accolta l’opposizione al decreto ingiuntivo, in tal caso, il giudice deve concedere l’esecuzione provvisoria).” Questa norma è stata tuttavia dichiarata costituzionalmente illegittima perché, la Corte costituzionale nel 1984, l’ha dichiarata illegittima nella parte in cui prevede che quando il creditore di fronte all’opposizione offre cauzione, il giudice deve e non semplicemente può concederla. Oggi la norma deve essere letta nel senso che, quando il creditore di fronte all’opposizione offre cauzione, il giudice può concedere efficacia esecutiva, non, deve. Secondo la disposizione precedente, il giudice veniva vincolato perché, la stessa disposizione, rimetteva semplicemente la valutazione di tipo economico alla scelta del giudice di concederla o meno, invece la Corte costituzionale, con il suo intervento, ha voluto evitare questo meccanismo. Ma questa ipotesi prevista dall’ultimo comma dell’art. 648 C.p.c., è un’ipotesi autonoma e pertanto deve essere scissa da quelle previste nei commi precedenti (e cioè: dall’opposizione non fondata su prova scritta o di pronta soluzione). Quelle fino ad ora esaminate, sono ipotesi di efficacia provvisoria del decreto ingiuntivo concesse a favore del creditore; alla luce di ciò sorge spontanea una domanda: ma come si bilancia la posizione del debitore? Ebbene, per bilanciare la posizione del debitore, bisogna riferirsi all’ipotesi di “Sospensione dell’efficacia esecutiva provvisoria” art. 649 C.p.c., il quale concerne l’ipotesi che il debitore si trovi di fronte un decreto ingiuntivo dotato di efficacia esecutiva provvisoria e, secondo lo stesso articolo, il debitore può chiederne, nel giudizio di opposizione, la sospensione dell’efficacia esecutiva. Infatti la norma sancisce che: “Il giudice istruttore, su istanza dell’opponente (del convenuto in senso sostanziale), quando ricorrono gravi motivi, può, con ordinanza non impugnabile, sospendere l’esecuzione provvisoria del decreto concessa a norma dell’art. 642”. La norma, testualmente, si riferisce al caso in cui l’esecuzione provvisoria sia stata concessa sin dall’inizio e quindi ai sensi dell’art. 642 C.p.c. però, l’interpretazione più ricorrente, è nel senso che l’art. 649 C.p.c., si possa applicare anche ad altre ipotesi di concessione dell’efficacia esecutiva e in particolare il problema si pone sia rispetto all’ipotesi dell’art. 648 C.p.c. (e cioè quando l’efficacia esecutiva sia stata concessa in pendenza di opposizione e poi il giudice, con un provvedimento successivo, l’abbia sospesa), sia rispetto all’ipotesi dell’art. 647 C.p.c., norma che non si occupa più dell’ipotesi dell’efficacia esecutiva provvisoria, ma dell’efficacia esecutiva che ormai appare definitiva: “Se non è stata fatta opposizione nel termine stabilito (dunque il decreto ingiuntivo è divenuto immutabile), oppure l’opponente non si è costituito, il giudice che ha pronunciato il decreto, su istanza anche verbale del ricorrente, lo dichiara esecutivo. Nel primo caso il giudice deve ordinare che sia rinnovata la notificazione, quando risulta o appare probabile che l’intimato non abbia avuto conoscenza del decreto. Quando il decreto è stato dichiarato esecutivo a norma del presente articolo, l’opposizione non può essere più proposta né proseguita, salvo il disposto dell’art. 650, e la cauzione eventualmente prestata è liberata”. Questo art. 647 C.p.c., si riferisce, come già detto, ad un’efficacia esecutiva definita perché ci dice che il decreto ingiuntivo viene dichiarato esecutivo dal giudice che lo ha emesso, o nel caso in cui siano passati i 40 giorni senza che sia stata presentata opposizione e quindi lo stesso decreto è divenuto immutabile, oppure quando sia stata presentata opposizione ma poi l’opponente non si è costituito e dunque in tal caso è come se si verificasse un’ipotesi di estinzione del giudizio e il decreto ingiuntivo viene dotato di efficacia esecutiva definitiva. Se però il potenziale intimato non ha presentato opposizione, il giudice, prima di andare a dichiarare esecutivo il decreto, deve controllare che il decreto ingiuntivo sia stato notificato in maniera regolare perché può essere che non vi è stata opposizione proprio perché la notifica non era valida e se è avvenuto un vizio della notifica, dovrà ordinare la rinnovazione della medesima notifica e non dichiarare l’efficacia esecutiva; questo problema non si pone quando il soggetto abbia presentato opposizione e proprio perché se ha presentato l’opposizione è perché ha ricevuto il decreto ingiuntivo. Invece, se il decreto è diventato immutabile, sempre l’art. 647 C.p.c., ci dice che si fa salva l’ipotesi di cui all’art. 650 C.p.c. il quale disciplina l’istituto dell’opposizione tardiva al decreto ingiuntivo e cioè l’opposizione che viene presentata quando ormai sono decorsi i termini per fare opposizione e ciò è possibile perché si tratta di un’ipotesi di rimessione in termini. Art. 650 C.p.c. “Opposizione tardiva”: “L’intimato (il debitore) può fare opposizione anche dopo scaduto il termine fissato nel decreto (i 40 giorni, ai sensi dell’art. 641 C.p.c.), se prova di non averne avuta tempestiva conoscenza per irregolarità della notificazione o per caso fortuito o per forza maggiore (e in più, la Corte costituzionale, ha aggiunto che si può presentare opposizione tardiva al decreto ingiuntivo, anche quando il soggetto ha avuto conoscenza tempestiva del decreto ingiuntivo ma per caso fortuito o per forza maggiore non ha potuto fare opposizione nei termini fissati dal decreto, sempre di 40 giorni). In questo caso l’esecutorietà può essere sospesa a norma dell’articolo precedente (e cioè: si è fatta opposizione tardiva ma intanto è arrivato il decreto ingiuntivo esecutivo e quindi, questo secondo comma, ci dice che in tal caso è possibile ottenere la sospensione dell’efficacia esecutiva del decreto richiamando l’art. 649 C.p.c.; ma questo articolo, si riferisce solo all’ipotesi dell’esecuzione provvisoria del decreto concessa a norma dell’art. 642 C.p.c. e anche se è possibile estenderlo all’art. 648 C.p.c., il nostro caso è differente! Perché si tratta di un caso in cui si presenta opposizione tardiva al decreto ingiuntivo e, l’efficacia esecutiva, è dichiarata ai sensi dell’art. 647 C.p.c. in quanto quella è un’ipotesi in cui l’efficacia esecutiva la si chiede per mancata opposizione, e non ai sensi dell’art. 642 C.p.c. Allora il problema è: si può ottenere la sospensione dell’efficacia esecutiva in caso di opposizione tardiva al decreto ingiuntivo anche quando l’efficacia esecutiva sia stata dichiarata, non ai sensi dell’art. 642 C.p.c., ma ai sensi dell’art. 647 C.p.c.? Si tende a dare risposta affermativa e cioè si ritiene che, in caso di opposizione tradiva al decreto ingiuntivo, si possa ottenere la sospensione dell’efficacia esecutiva sia se la concessione sia avvenuta ai sensi dell’art. 642 C.p.c., sia che sia avvenuta ai sensi dell’art. 647 C.p.c.). L’opposizione (al decreto ingiuntivo tardiva) non è più ammessa decorsi dieci giorni dal primo atto di esecuzione (dall’inizio dell’esecuzione e cioè, se sono decorsi 10 giorni dal pignoramento, oppure se nell’esecuzione per consegna sono decorsi 10 giorni dall’atto di accesso dell’ufficiale giudiziario, non sarà più possibile proporre l’opposizione tardiva al decreto ingiuntivo)”. Restano da analizzare i possibili esiti del giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo e dunque, l’opposizione, ovviamente, può essere accolta, rigettata o accolta parzialmente. Art. 653 C.p.c. “Rigetto o accoglimento parziale dell’opposizione”: “Se l’opposizione è rigettata con sentenza passata in giudicato o provvisoriamente esecutiva (come ad esempio le sentenze di credito; infatti il presupposto è che vi deve essere • - fumus boni iuris è dato dalla probabile una controversia sulla proprietà o il esistenza del diritto cautelato e cioè del possesso di un bene; diritto di credito; - fumus boni iuris consiste nell’accertamento - periculum essenzialmente dato dal rischio di della probabile esistenza del diritto sottrazione di beni. cautelato (il diritto di proprietà su un bene); - periculum rappresentato dal rischio di distruzione, alterazione materiale del bene. Quindi i provvedimenti cautelari sono tipici, perché tipico è il diritto a cautela del quale essi possono essere chiesti ed è tipico il periculum che essi fronteggiano; l’unico tipo di provvedimento cautelare per il quale non si ha riferimento specifico ad un diritto cautelato o a un determinato periculum fronteggiato, è il provvedimento d’urgenza, cioè il provvedimento previsto dall’art. 700 C.p.c. Il provvedimento d’urgenza è infatti caratterizzato dalla c.d. atipicità; atipico è il diritto cautelato (può essere infatti qualsiasi diritto), così come atipico è il periculum fronteggiato. Si parla di atipicità perché, il provvedimento ex art. 700 C.p.c. è, in realtà, una valvola di sicurezza del nostro sistema e cioè serve per fornire al singolo cittadino la tutela cautelare quando non ci sia un provvedimento cautelare tipico, proprio perché, con il provvedimento d’urgenza, non c’è un diritto preciso da cautelare, né c’è un periculum specifico da fronteggiare ma si può adattare, di volta in volta, alle esigenze del caso concreto. I suoi presupposti sono sempre il fumus boni iuris, senza però specificare qual è il diritto, ed il periculum che non consiste più nel semplice pericolo nel ritardo, ma come rischio di un pregiudizio imminente ed irreparabile (periculum maggiore). Ma questi provvedimenti cautelari (sia quelli tipici che quello atipico) come si chiedono? E a chi si chiedono? Qual è la forma del provvedimento? Tutti i provvedimenti cautelari (sia tipici che atipico) si chiedono seguendo un unico procedimento ed ecco perché si parla di procedimento cautelare uniforme (si applica cioè a tutti i tipi di provvedimenti cautelari) disciplinato negli artt. 669 bis e ss. C.p.c. Se analizziamo infatti l’art. 700 C.p.c. notiamo che, nello stesso articolo, non vi è la disciplina di come si chiede il provvedimento d’urgenza, o qual è la forma del provvedimento ma, semplicemente, è previsto un richiamo al procedimento cautelare uniforme. Art. 700 C.p.c. “Condizioni per la concessione (dei provvedimenti d’urgenza)”: “Fuori dei casi regolati nelle precedenti sezioni di questo capo (casi che prevedono tutti, le ipotesi di provvedimenti cautelari tipici previsti dal codice di procedura. Quindi ci sta dicendo che, se non si ha un provvedimento cautelare tipico, si può ricorrere all’art. 700 C.p.c. che appunto, prevede un provvedimento atipico ed ha il carattere della residualità, si usa appunto se non ci sono provvedimenti cautelari tipici), chi ha fondato motivo di temere che durante il tempo occorrente per far valere il suo diritto in via ordinaria (il problema consiste nel fatto che il processo ha comunque una durata), questo sia minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile, può chiedere con ricorso al giudice i provvedimenti d’urgenza, che appaiono, secondo le circostanze, più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito”. Vediamo che l’articolo nulla dice sul procedimento e proprio perché, per tutti i provvedimenti cautelari, opera il procedimento cautelare uniforme. Provvedimenti cautelari ante causam e in corso di causa e gli effetti sulla competenza Abbiamo detto che il provvedimento cautelare si richiede con ricorso però, bisogna fare una profonda distinzione perché, l’esigenza cautelare, può nascere sia prima dell’inizio del giudizio di merito, sia dopo l’inizio del giudizio di merito. Per comprenderci: Tizio ha un diritto di credito di € 5.000 nei confronti di Caio, quindi deve chiedere la condanna di Caio al pagamento di questi € 5.000 ma Tizio, inizialmente, non ha timore che Caio faccia sparire i suoi beni e quindi non teme che l’eventuale condanna resti infruttuosa. Pertanto inizia il processo di merito senza chiedere, prima dell’inizio dello stesso, il sequestro dei beni. Ci chiediamo: in una simile circostanza, Tizio, potrà comunque chiedere il sequestro dopo l’inizio del processo di merito? Ebbene sì! Infatti i provvedimenti cautelari possono essere chiesti sia prima dell’inizio del giudizio di merito e allora saranno provvedimenti cautelari emessi ante causam , sia dopo l’inizio del giudizio di merito e allora saranno provvedimenti cautelari emessi in corso di causa . Questa distinzione incide sulla competenza infatti, i provvedimenti cautelari ante causam, art. 669 ter C.p.c. “Competenza anteriore alla causa”, vanno chiesti al giudice che <sarebbe> competente per il merito (sarebbe perché al momento non c’è un giudice investito del merito); se invece la richiesta cautelare è presentata in corso di causa, la competenza spetta al giudice investito del merito (perché, in tal caso, già c’è un giudice investito del merito), art. 669 quater C.p.c. “Competenza in corso di causa”. Vi sono tuttavia delle eccezioni! Infatti l’art. 669 ter, I° comma C.p.c., sancisce: “Prima dell’inizio della causa di merito la domanda si propone al giudice competente a conoscere del merito”; se ad esempio la domanda è di un credito per € 4.000, la stessa domanda cautelare dovrebbe essere presentata (ai sensi del I° comma dell’art. 669 ter C.p.c.), al giudice di pace, ma qui opera un limite! Perché lo stesso giudice di pace, non è munito di competenza cautelare e dunque, competente ad emettere provvedimenti cautelari, è il giudice che sarebbe competente per il merito quando è chiesto il provvedimento cautelare ante causam, oppure il giudice investito del merito, quando è chiesto il provvedimento cautelare in corso di causa. II° comma: “Se competente per la causa di merito è il giudice di pace, la domanda si propone al tribunale”. Altra eccezione al legame normale tra giudice della cautela e giudice del merito, si riscontra nel comma III° dell’art. 669 ter C.p.c.: “Se il giudice italiano non è competente a conoscere la causa di merito, la domanda si propone al giudice, che sarebbe competente per materia o valore, del luogo in cui deve essere eseguito il provvedimento cautelare” l’ipotesi è che, per il merito, sia competente un giudice straniero; in tal caso è possibile chiedere un provvedimento cautelare in Italia? Ebbene sì, ma sarà competente il giudice del luogo in cui quel provvedimento, emesso all’estero, dovrebbe avere esecuzione in Italia. Art. 669 quater C.p.c.: “Quando vi è causa pendente per il merito la domanda deve essere proposta al giudice della stessa. Se la causa pende davanti al tribunale la domanda si propone all’istruttore oppure, se questi non è ancora designato o il giudizio è sospeso o interrotto, al presidente, il quale provvede ai sensi dell’ultimo comma dell’articolo 669-ter. Se la causa pende davanti al giudice di pace, la domanda si propone al tribunale. In pendenza dei termini per proporre l’impugnazione la domanda si propone al giudice che ha pronunziato la sentenza. Se la causa pende davanti al giudice straniero, e il giudice italiano non è competente a conoscere la causa di merito, si applica il terzo comma dell’articolo 669-ter. Il terzo comma dell’articolo 669-ter si applica altresì nel caso in cui l’azione civile è stata esercitata o trasferita nel processo penale”. Vediamo ora l’ultimo comma dell’art. 669 ter C.p.c.: “A seguito della presentazione del ricorso il cancelliere forma fascicolo d’ufficio e lo presenta senza ritardi al presidente del tribunale il quale designa il magistrato cui è affidata la trattazione del procedimento”; a questo punto bisogna fare un po’ di ordine! Premesso tutto ciò che abbiamo detto in precedenza sulla competenza ante causam e in corso di causa, va aggiunto che vi sono delle eccezioni che attengono in senso stretto alla competenza in corso di causa ma, in realtà, non sono delle vere e proprie eccezioni, in quanto si disciplina l’ipotesi che sia stata già emessa una sentenza in primo grado, il processo è sempre pendente perché ci sono i termini per appellare e comunque, il processo, pende fino a che non passa in giudicato e allora ci si chiede: ma nel tempo in cui pendono i termini per impugnare, il provvedimento cautelare, a chi si chiede? Al giudice cha ha emesso la sentenza di primo grado, o all’eventuale giudice di appello? Ebbene, l’art. 669 quater, IV° comma C.p.c. ci dice che: “In pendenza dei termini per proporre l’impugnazione, la domanda si propone al giudice che ha pronunziato la sentenza (quindi al giudice di primo grado)”. Può essere che il processo poi, si trovi in uno stato di sospensione o di interruzione; in questi casi, a chi si chiede il provvedimento cautelare? Trattandosi di provvedimento cautelare in corso di causa, sappiamo, in base al criterio generale, che competente è il giudice investito del merito, in particolare, si rivolge la richiesta cautelare al giudice istruttore (ai sensi dell’art. 669 quater, II° comma C.p.c.) ma può capitare, come già detto, che però il processo sia sospeso o interrotto e allora, in tali casi, se già è stato designato un giudice istruttore, ci si rivolgerà allo stesso ma, se il giudice istruttore non è stato ancora designato, applicando la disciplina generale prevista all’art. 669 ter, ultimo comma C.p.c., il ricorso sarà presentato al presidente del tribunale che provvederà alla designazione del giudice che dovrà decidere sulla domanda cautelare. Provvedimenti cautelari anticipatori e conservativi e la loro strumentalità Ma la distinzione tra i provvedimenti cautelari ante causam e quelli in corso di causa, ci ricorda un’altra distinzione: quella tra provvedimenti cautelari anticipatori e provvedimenti cautelari conservativi. Abbiamo visto che il provvedimento cautelare serve, appunto, a cautelare ed è legato strettamente al giudizio di merito infatti, il provvedimento cautelare, o precede il giudizio di merito, o viene chiesto nel suo corso; quindi, poiché la tutela cautelare viene data appunto in via cautelare ed in vista del giudizio di merito, è normale che ci sia un legame tra provvedimento cautelare e giudizio di merito, legame detto strumentalità del provvedimento cautelare rispetto alla tutela di merito del diritto. Ma come si manifesta questo legame? In più modi: se viene emesso un provvedimento cautelare ante causam (quindi il processo di merito ancora non c’è), si ha poi l’onere di iniziare il giudizio di merito entro un termine perentorio fissato dal giudice non superiore a 60 giorni e, se non si rispetta l’onere, il provvedimento cautelare diviene inefficace; se nel corso del giudizio di merito, il diritto che si era chiesto di cautelare viene dichiarato inesistente, il provvedimento cautelare perde efficacia (sia nell’ipotesi di provvedimento ante causam, sia nell’ipotesi di provvedimento ottenuto in corso di causa); se il giudizio di merito si estingue, il provvedimento cautelare diventa inefficace (sia nell’ipotesi di provvedimento ante causam, sia nell’ipotesi di provvedimento ottenuto in corso di causa). Sulla base di questo schema generale e, rispetto a questo rapporto di strumentalità e alle cause di inefficacia, è possibile inquadrare una differenza tra provvedimenti cautelari anticipatori e provvedimenti cautelari conservativi? Ebbene la differenza c’è! Perché i provvedimenti cautelari anticipatori, sono caratterizzati da una strumentalità attenuata mentre, i provvedimenti cautelari conservativi, sono caratterizzati da una strumentalità piena. Ma in che cosa si manifesta questa strumentalità piena? Si manifesta nel fatto che: se si ottiene il provvedimento ante causam, si ha il termine per iniziare il processo di merito fissato dal giudice (altrimenti sono 60 giorni) e, se non si inizia il giudizio di merito, il provvedimento conservativo diventa inefficacia; se invece il giudizio di merito si estingue, il provvedimento conservativo diventa inefficace; se viene dichiarato inesistente il diritto, il provvedimento conservativo diviene inefficace. Questi sono aspetti che sono conseguenza di una strumentalità piena. Invece la strumentalità attenuta si applica, come già detto, ai provvedimenti cautelari anticipatori e si manifesta nel fatto che: se viene chiesto il provvedimento cautelare anticipatorio ante causam, anche se non si inizia il giudizio di merito, il provvedimento cautelare non perde efficacia; se il processo di merito si estingue, il provvedimento cautelare anticipatorio (emesso ante causam, o in corso di causa) non perde efficacia; il provvedimento cautelare anticipatorio perde efficacia soltanto se viene dichiarato inesistente, nel corso del processo, il diritto cautelato. Art. 669 octies C.p.c. “Provvedimento di accoglimento”: “L’ordinanza di accoglimento, ove la domanda sia stata proposta prima dell’inizio che, nel caso in cui il giudice si sia dichiarato appunto incompetente, non ci sarà nessuna preclusione per le parti nel riproporre la domanda al giudice competente; sia per ragioni di merito e il merito consiste nell’esaminare il fumus boni iuris ed il periculum in mora. Immaginiamo che il giudice abbia rigettato la domanda cautelare perché ha ritenuto che non esisteva il fumus boni iuris in quanto non gli sembrava probabile che l’istante avesse il diritto di proprietà o il diritto di credito, oppure immaginiamo che il giudice abbia rigettato la domanda cautelare perché non gli sembrava probabile il periculum in mora in quanto, non gli sembra che ci sia un pericolo di distruzione, di sottrazione delle cose. Ebbene, in queste ipotesi, le parti non potranno ripresentare liberamente l’istanza cautelare. E allora, quando c’è un provvedimento negativo per ragioni di incompetenza, la parte può riproporre l’istanza cautelare al giudice competente, se invece il provvedimento negativo è fondato sull’inesistenza dei presupposti del provvedimento cautelare (mancanza del fumus o del periculum), si potrà riproporre la domanda cautelare soltanto se si verificano mutamenti nelle circostanze o vengono dedotte nuove ragioni di fatto e di diritto a sostegno del diritto di cui si chiede cautela. C’è dunque, in quest’ultimo caso, una piccola preclusione! Con lo stesso provvedimento con cui il giudice rigetta la domanda, o per ragioni di incompetenza o per mancanza di fumus o per carenza di periculum, poiché in questo caso si chiude il processo cautelare (non c’è un giudizio di merito), il giudice liquiderà anche le spese del provvedimento cautelare. Abbiamo poi detto che, normalmente, si provvede sull’istanza cautelare con ordinanza però, c’è un caso in cui il giudice della tutela cautelare può provvedere non con ordinanza ma con decreto (e cioè senza aver ascoltato la controparte), soltanto che, questo decreto, dovrà essere dallo stesso giudice: confermato, modificato o revocato, in contraddittorio con la controparte con un provvedimento che, a quel punto, avrà la forma dell’ordinanza. La situazione che spinge ad emettere un provvedimento cautelare non con ordinanza ma con decreto, consiste nel fatto che se, ad esempio, la controparte sa che Tizio sta per chiedere un provvedimento cautelare (tipo un sequestro conservativo) nei suoi confronti, e ne è conoscenza proprio perché è stato convocato da Tizio, è chiaro che subito cercherà di far sparire tutti i beni pregiudicando così l’attuazione del provvedimento, perché quando poi Tizio andrà ad attuare il sequestro conservativo, finirà col non trovare più i beni e allora, l’art. 669 sexies C.p.c., sancisce: “Quando la convocazione della controparte potrebbe pregiudicare l’attuazione del provvedimento (si gioca il fattore sorpresa! In quanto il giudice, invece di provvedere con ordinanza …) provvede con decreto motivato assunte ove occorra sommarie informazioni. In tal caso fissa, con lo stesso decreto, l’udienza di comparizione delle parti davanti a sé (per garantire il contraddittorio) entro un termine non superiore a quindici giorni (dall’emanazione del decreto motivato) assegnando all’istante (cioè al soggetto che ha ottenuto il decreto motivato) un termine perentorio non superiore a otto giorni per la notificazione del ricorso e del decreto. A tale udienza il giudice (alla luce del contraddittorio), con ordinanza, conferma, modifica o revoca i provvedimenti emanati con decreto.” Ipotesi di inefficacia del provvedimento cautelare L’art. 669 novies C.p.c. lo abbiamo già in gran parte esaminato, ma leggendolo sarà possibile notare che ci sono altre cause di inefficacia. In realtà, ciò che interessa, è il procedimento attraverso cui il giudice dichiara l’inefficacia di un provvedimento cautelare. Art. 669 novies C.p.c. “Inefficacia del provvedimento cautelare”: “Se il procedimento di merito non è iniziato nel termine perentorio di cui all’articolo 669-octies, ovvero se successivamente al suo inizio si estingue, il provvedimento cautelare perde la sua efficacia (tranne nei casi di cui all’art. 669 octies, VI° comma C.p.c.). In entrambi i casi, il giudice che ha emesso il provvedimento, su ricorso della parte interessata, convocate le parti con decreto in calce al ricorso, dichiara, se non c’è contestazione, con ordinanza avente efficacia esecutiva, che il provvedimento è divenuto inefficace e dà le disposizioni necessarie per ripristinare la situazione precedente”. Ma chi la dichiara questa inefficacia? E se poi il provvedimento cautelare è stato attuato, ci vogliono anche i provvedimenti per il ripristino dello status coante (il ripristino cioè della situazione precedente); e allora come si farà? Normalmente, se la causa di estinzione è costituita dal mancato inizio del giudizio di merito nel termine perentorio, oppure in caso di estinzione del processo di merito, la dichiarazione di inefficacia va chiesta al giudice che ha emesso il provvedimento cautelare il quale, se tra le parti non c’è controversia sul fatto che si sia verificata la causa di inefficacia, provvederà con una ordinanza avente efficacia esecutiva e questa ordinanza dichiarerà che il provvedimento cautelare è divenuto inefficace e conterrà anche disposizioni per ripristinare lo status coante. “In caso di contestazione (sull’esistenza della causa di inefficacia) l’ufficio giudiziario al quale appartiene il giudice che ha emesso il provvedimento cautelare (che non può essere che il tribunale) decide con sentenza provvisoriamente esecutiva, salva la possibilità di emanare in corso di causa i provvedimenti di cui all’articolo 699-decies” e cioè, se nasce una contestazione sull’esistenza o meno di una causa di inefficacia, a quel punto si deve aprire proprio un processo di cognizione sull’esistenza dell’inefficacia del provvedimento e infatti, viene deciso con sentenza. E allora possiamo dire che, il procedimento per dichiarare l’inefficacia, varia, perché: se non ci sono contestazioni, quando si verificano le due cause di inefficacia di cui al I° comma dell’art. 669 novies C.p.c., lo dichiara il giudice che ha emesso il provvedimento cautelare con ordinanza esecutiva che anche dispone sul ripristino della situazione precedente; se invece ci sono contestazioni, allora non il giudice, ma l’ufficio giudiziario a cui lui appartiene (che è pur sempre il tribunale), provvede ad istruire un processo che si chiuderà con sentenza la quale, asseconda dei casi, attesterà o meno che si sia verificata la causa di inefficacia. Altre cause di inefficacia, III° comma dell’art. 669 novies C.p.c.: “Il provvedimento cautelare perde altresì efficacia se non è stata versata la cauzione di cui all’articolo 669-undecies, ovvero se con sentenza, anche non passata in giudicato, è dichiarato inesistente il diritto a cautela del quale era stato concesso. In tal caso i provvedimenti di cui al comma precedente sono pronunciati nella stessa sentenza o, in mancanza, con ordinanza a seguito di ricorso al giudice che ha emesso il provvedimento”. In pratica, l’emissione di un provvedimento cautelare, può essere subordinata dal giudice della cautela al versamento di una cauzione e la cauzione, in tal caso, è vista come causa che consente al provvedimento cautelare di continuare a produrre i suoi effetti e quindi, se la cauzione non è versata, il provvedimento cautelare diventa inefficace; sostanzialmente, il mancato versamento della cauzione, è visto come causa di inefficacia. E allora, se la cauzione non è versata o, se nel processo di merito il diritto è dichiarato inesistente, il provvedimento cautelare sarà dichiarato inefficace. Ma come si fa a dichiarare questa inefficacia? Normalmente è lo stesso giudice che emette la sentenza con cui dichiara inesiste il diritto, a dichiarare inefficace anche il provvedimento cautelare, ma se lui se ne dimentica, oppure se ricorre l’ipotesi del mancato versamento della cauzione, la dichiarazione di inefficacia va chiesta allo stesso giudice che ha emesso il provvedimento cautelare provvedendo con ordinanza. Altri casi particolari di inefficacia del provvedimento cautelare, si hanno quando la causa di merito spetta ad un giudice straniero, oppure in caso di arbitrato italiano o estero; infatti il VI° comma dell’art. 669 novies C.p.c. sancisce che: “Se la causa di merito è devoluta alla giurisdizione di un giudice straniero o ad arbitrato italiano o estero, il provvedimento cautelare, oltre che nei casi previsti nel primo e nel terzo comma, perde altresì efficacia: 1. 1) se la parte che l’aveva richiesto non presenta domanda di esecutorietà in Italia della sentenza straniera o del lodo arbitrale entro i termini eventualmente previsti a pena di decadenza dalla legge o dalle convenzioni internazionali; 2. 2) se sono pronunciati sentenza straniera, anche non passata in giudicato, o lodo arbitrale che dichiarino inesistente il diritto per il quale il provvedimento era stato concesso. Per la dichiarazione di inefficacia del provvedimento cautelare e per le disposizioni di ripristino si applica il secondo comma del presente articolo”. Vicende successive all’emanazione del provvedimento cautelare Il provvedimento cautelare emesso con ordinanza o comunque divenuto ordinanza se pur inizialmente emesso con decreto, può avere delle vicende successive. La strumentalità (che abbiamo già analizzato), deve imporre anche un’adeguatezza permanente tra il provvedimento cautelare e il diritto da cautelare, o meglio, la situazione da cautelare, è la situazione di riferimento per stabilire il tipo di provvedimento cautelare. Nel tempo però, questo rapporto può variare, possono mutare le circostanze, possono sopravvenire circostanze nuove, sostanzialmente, vi possono essere nuovi eventi che rendono inadeguato il provvedimento cautelare. Allora cosa si farà in tal caso? Abbiamo già visto che il giudice, già nella famosa ordinanza in cui traduce il decreto motivato, valutava se confermare, modificare o revocare il provvedimento cautelare; e allora possiamo dire che la revoca, la modifica, la conferma del provvedimento cautelare, sono eventi che si possono verificare in tutta la sua vita attraverso due istituti: 1. “Revoca e modifica” del provvedimento cautelare, art. 669 decies C.p.c. È uno strumento di controllo sul provvedimento cautelare che va chiesto al giudice istruttore e questo vuol dire che si può chiedere la revoca o la modifica del provvedimento cautelare quando c’è già il giudizio di merito, viceversa non si potrebbe chiedere ante causam. Tuttavia, anche se l’art. 669 decies C.p.c. fa riferimento al giudice istruttore, a volte può anche essere che un giudice istruttore non ci sia (e solitamente non c’è quando si tratta di provvedimenti cautelari emessi ante causam a contenuto anticipatorio perché, in tal caso, non è detto che si sia dato inizio ad un giudizio di merito) e allora ci chiediamo: in un contesto del genere, non sarà possibile chiedere il ricorso o la modifica del provvedimento cautelare? Ebbene sarà possibile presentare il ricorso al presidente del tribunale, il quale designerà un giudice che si occuperà di decidere sull’istanza di revoca o di modifica. Ma per quali motivi è possibile chiedere la revoca o la modifica del provvedimento cautelare? Ebbene l’art. 669 decies C.p.c., fa riferimento al <mutamento delle circostanze>, vale a dire al cambiamento della situazione rispetto a quella esistente al momento in cui si è ottenuto il provvedimento cautelare ma, il legislatore, consente di chiedere la revoca o la modifica anche quando si tratti di circostanze non nuove, ma esistenti già prima del provvedimento cautelare ma di cui il soggetto istante, o anche la controparte, ha avuto conoscenza solo dopo l’emanazione del provvedimento cautelare (dandone sempre prova), non potendo neanche dedurle in udienza. *La revoca e la modifica, in parte, si sovrappongono con il campo di applicazione del reclamo perché, anche per quest’ultimo, il provvedimento del giudice è un provvedimento di conferma, modifica o di revoca e in più il reclamo si può far valere anche di fronte a fatti sopravvenuti. E allora la differenza tra revoca e modifica e reclamo, consiste nel fatto che i motivi del reclamo sono più ampi perché, con lo stesso, è vero che si possono dedurre anche fatti sopravvenuti (il che determina una possibile sovrapposizione con la revoca e la modifica), ma con il reclamo si può dedurre anche l’esistenza di vizi originari del provvedimento cautelare, vizi cioè presenti già quando lo stesso provvedimento è stato emesso (ad esempio: se si vuol far valere che il giudice che ha emesso il provvedimento cautelare era incompetente, se si vuol far valere che mancavano i presupposti del provvedimento cautelare: fumus boni iuris e periculum in mora, non si ricorrerà alla revoca o alla modifica, ma al reclamo). E allora, la sovrapposizione possibile, è solo circa la possibilità di dedurre anche i fatti sopravvenuti in sede di reclamo. E come si disciplina questo rapporto? Poiché il reclamo va proposto nel termine di 15 giorni dalla comunicazione o notificazione del provvedimento cautelare, il legislatore, consente di proporre istanza di revoca o modifica solo se non è stato già proposto il reclamo. Art. 669 decies C.p.c.: “Salvo che sia stato proposto reclamo ai sensi dell’articolo 669-terdecies (ecco il problema della sovrapposizione parziale in quanto riguarda solo i fatti sopravvenuti rispetto al tempo dell’emanazione del provvedimento cautelare), nel corso dell’istruzione il giudice istruttore della causa di merito può, su istanza di parte, modificare o revocare con ordinanza
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