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sbobine complete di storia dell'arte moderna Giometti, Appunti di Storia dell'Arte Moderna

sbobine complete del corso di storia dell'arte moderna del 2020/2021 tenuto dal prof. Cristiano Giometti presso l'Università degli studi di Firenze.

Tipologia: Appunti

2020/2021

In vendita dal 15/11/2021

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Scarica sbobine complete di storia dell'arte moderna Giometti e più Appunti in PDF di Storia dell'Arte Moderna solo su Docsity! Sbobine totali Giometti Lezione 1 Storia dell’arte moderna 22.02.2020 Il corso si concentrerà sulla diffusione della scultura barocca al di fuori di Roma, in tutto il Mediterraneo. Vedremo come il gusto romano che si impone a Roma comincia a diventare un gusto transnazionale, molto richiesto anche al di fuori della Roma del tempo, vedremo come viene recepito in Spagna, in Francia (quando Bernini si trasferisce a Parigi per lavorare sotto l’egida di Luigi XIV, come i committenti, dopo essere stati a Roma, esportano pezzi di quella cultura nelle loro dimore. Parleremo del ruolo e della funzione delle botteghe, e di come si otteneva e trasportava il marmo dalle cave. vedremo che ci sono pezzi di barocco in posti impensabili, ad esempio Malta, dove il ricco ordine dei Cavalieri di Malta nel corso del ‘600 si fa fare moltissimi monumenti funebri che si trovano nella concattedrale di Malta, proprio da scultori romani. Gli arredi vengono tutti da Roma, quindi creare una scultura, trasportarla a Malta, poi rimontarla, richiedeva la presenza di operai specializzati e sicuramente non era banale, c’è dietro un’industria intera, quella che Jennifer Motta, grande studiosa di scultura barocca, chiama industria lapida, in realtà infatti le botteghe di scultura barocca sono delle vere e proprie industrie. Approfondiremo il ruolo delle botteghe, ad esempio Bernini, che tutti conosciamo, non avrebbe mai potuto, da solo, portare a termine la grandissima quantità di lavori a lui attribuiti. Da considerare quindi è il ruolo delle botteghe, di collaboratori selezionati che siano capaci di tradurre lo stile di Bernini, ma in alcuni casi Bernini non le ha mai toccate, le ha ideate, disegnate, fatto i modelli e ha poi delegato la creazione ai collaboratori, motivo per cui Jennifer Motta parla di Bernini's caltures (immagini) not by Bernini, perché la mano di Bernini, fisicamente sull’opera, non c'è. Vedremo come questa grande industria dell’arte si diffonde, portando un gusto tipicamente barocco, della Roma dei Barberini e dei Chigi, in giro per tutta Europa. Programma d'esame: - A. Angelini, La scultura del Seicento a Roma, Milano 2005, da leggere integralmente in quanto dà uno sguardo totalizzante sull'argomento della scultura barocca. Per quanto riguarda gli aspetti europei della scultura barocca: Catalogo della mostra Da Bernini a Caravaggio Parti europee: Catalogo della mostra di Madrid, Da Caravaggio a Bernini capolavori del Seicento italiano solo parti importanti, quelle indicate: crocifissi, e schede indicate. Schede 31, 32, 34, 36, 37, e le pagine 200 — 206; 210-221 C. Giometti, Domenico Guidi 1625 — 1701. Uno scultore barocco di fama europea, Roma 2010. Solo alcune schede selezionate che sono sulla pagina del docente alla voce insegnamenti, su moodle. Pagine 49 — 55; 77 — 87; schede 35.8, 36.8, 38.8, 39.8, 42.8. L. Lorizzo L'altare della cappella Filomarino ai Santi Apostoli di Napoli alla luce di nuovi documenti romani, in Richerche sul ‘600 napoletano, 2001 (2002), pagine 62 - 75 K. Sciberras, Roman Baroque Sculpture for the Knights of Malta, Malta 2012 pp. 101 — 152; 175 — 207. T.L.M. Vale, Scultura barocca italiana in Portogallo, pp. 35 - 55, 93 — 127. Federico Zuccari, disegno. Taddeo Zuccari parte per Roma accompagnato dagli angeli custodi. Roma è una calamita per gli artisti, dal rinascimento in avanti ancora di più. Questo perché dopo la cattività avignonese il papa è potente e può attirare grandi artisti: da Botticelli a Perugino, arrivati a Roma per la prima decorazione della Sistina, vi si trasferiscono. Roma è uno scrigno dei tesori dell'antico, ma anche e della maniera moderna. Ogni giovane artista, per la carriera, doveva per forza andare a Roma. Molti dei grandi maestri di cui parleremo a Roma vi arrivano, non sono di lì, come Caravaggio o Annibale Carracci per la pittura, grandi innovatori che non vengono da Roma, o Bernini per la scultura, un fiorentino che nasce a Napoli da famiglia fiorentina e a Roma arriverà con il padre Gian Lorenzo, Algardi arriva da Bologna ha studiato presso l'Accademia degli Incamminati dei Carracci, Francois Duquesnoy dalle Fiandre e verrà a Roma. Roma è una calamita, artisti vengono a Roma per poco per studiare e poi tornano nelle città di provenienza o a Roma fanno carriera. Iniziamo da qui perché in questi disegni Federico raccontata la storia di Taddeo, suo fratello maggiore. In questa scena vediamo Taddeo, accompagnato dagli angeli custodi, che sta lasciando la famiglia a Firenze per andare a Roma. Il piccolo Federico qui è attaccato alla gonnella della madre, e Taddeo parte. Federico Zuccari, Taddeo Zuccari giunge a Roma; Taddeo copia una scultura antica Questi disegni mostrano il cursus honorum di Taddeo, raccontato dal fratello minore Federico. A sinistra Taddeo arriva a Roma sotto l'egida di Minerva, sullo sfondo, sotto il braccio del ragazzo vediamo la colonna traiana, quindi l’inizio della scoperta del nuovo mondo che avviene in vari anni. Taddeo infatti rimane a Roma, nell'altro disegno è rappresentato sotto un fornice a studiare l'antico, nello sfondo con palazzo romano decorato a monocromo come faceva Polidoro da Caravaggio, allievo di Raffaello. Federico poi contestualizza il lavoro del fratello attraverso non soltanto la rappresentazione dell’antico ma anche scegliendo in modo appropriato lo sfondo, quello di un palazzo a monocromo di Polidoro. Sono disegni che testimoniano un cursus honorum istituzionalizzato, Roma è il momento formativo di chiusura per l'artista, se non vai a Roma non puoi essere un artista. Alcuni tornano in patria altri rimangono a Roma. Nel disegno a sinistra, sul bordo della veste c'è scritto Taddeo Zuccari, hanno intento didattico, si deve capire, sono tipo dei fumetti, anche nel primo disegno c’è scritto Taddeo sulla veste, sono fatti per far capire la storia. Pianta di Roma redatta dal Falda nell’inizio del 1700 Gli artisti a Roma hanno una loro sede privilegiata tra Piazza di Spagna e Piazza del Popolo, nel così detto tridente, che faceva parte della Parrocchia di Sant'Andrea delle Fratte, parrocchia che investiva strade importanti, come Via del Babbuino o Viale Margutta, che sono strade degli artisti ancora ora. Via Margutta era ancora una via importante nella Roma della dolce vita, infatti tra gli anni 50 e 60 molti artisti avevano studi qui, perché era strada degli artisti sin dalla fine del 1500. Gli artisti formano delle congregazioni, si riuniscono, e formano confraternite soprattutto quelli di provenienza straniera per ritrovare i propri connazionali, non hanno statuto, sono nate per il confronto. Una confraternita molto conosciuta è quella dei Bentvueghels Peter Van Laer, Bentvueghels in una taverna romana, Berlino | Bentvueghels erano una confraternita di artisti fiamminghi che si riunivano sotto una lega. Hanno come tutelare è Bacco, quindi non erano proprio gran filosofi ma facevano discussioni sull'arte accompagnati da cibo e bevande cospicue. In questo disegno di Peter Van Laer (conosciuto come il Bamboccio), vediamo proprio un incontro nelle osterie, dove gli artisti si scambiavano disegni e composizioni disegnando anche sul muro. Questi gruppi sono stati fondamentali per accogliere i giovani che arrivavano da lontano per essere istruiti nella Roma del 1600, per capire come muoversi, cosa fare, dove andare e come comportarsi. Questo vale per pittori, scultori ecc. Gli scultori venivano spesso da zone di produzione del marmo, marmo che a Roma non c'è, quindi devono ricercate per le collezioni private ma non potevano essere esposte senza restauro, non era concepibile esporre un’opera frammentaria, quindi se si trovava solo il torso la si doveva completare. Nel 1600 siamo lontani dall’interpretazione filologica che arriverà con Winkelmann e il neoclassicismo, spesso si sono avuti restauri molto fantasiosi, con gestualità non attinenti, ma dovevano essere completate per essere esposte. Boselli nel testo racconta come fare il restauro e quali trucchi usare per anticare il marmo, la pelle del marmo antico di età imperiale è diverso dal marmo che arriva dalla cava, quindi è necessario armonizzare gli interventi nuovi con il marmo antico, come fare le stuccature ecc. tra gli espedienti tecnici dà anche sue impressioni, dicendo che negli anni 60 non ci sono più restauratori come Algardi, Bernini o Duquesnoy, nel momento in cui scrive Bernini è l’unico ancora vivo ma non restaura più perché è un lavoro da giovani, per arrotondare. Dà poi nozioni su come scegliere il maestro, spesso scelto dal genitore che magari era artista e trovava bottega dove voleva. Nella più rosea delle ipotesi dice che "non si può senza scorta camminare per le vie difficili", infatti anche Federico Zuccari, nel disegno della partenza del fratello Taddeo, questi è aiutato e accompagnato dagli angeli. Non si può intraprendere un percorso senza una guida. Porta anche esempi eruditi: la Sibilla guidò Enea, e Virgilio guidò Dante. Mostra grande erudizione, non era banale conoscere la Divina Commedia o l’Eneide. “Ci vuole buon maestro che per prima cosa insegni a disegnare.” Quindi alla base di tutto dice che bisogna imparare il disegno. “Il buon maestro è quello che ha timore di dio, e che ha buona maniera di operare, e che non ponga altri esemplari davanti li studiosi che le incomparabili statue”, quindi un maestro che parta dalle cose importanti, imprescindibili, ovvero le sculture antiche e Raffaello. Prendendo il disegno di Zuccari “Taddeo copia una scultura antica”, possiamo chiudere il cerchio, infatti Boselli dice che bisogna studiare Raffaello e la facciata sullo sfondo del palazzo, decorata a policromo, è di Polidoro da Caravaggio, che era allievo di Raffaello. Federico cinquanta anni prima aveva già stabilito quello che poi avrebbe detto Orfeo Boselli, bisogna studiare l'antico e la pittura di Raffaello, non importa la provenienza o il lavoro successivo. Entrare nella bottega di un bravo maestro quindi era fondamentale, talvolta il maestro non si sceglie e quindi analizzare il percorso dei giovani artisti per noi è estremamente didattico. Capiamo la diversità di trattamento, tra chi è nella bottega del padre e ha un trattamento diverso da chi aveva, ad esempio, il padre notaio. Pittore romano da Carlo Maratti, Ritratto di Ercole Ferrata, 1690 — 1700 ca., Scaria Questo è accaduto ad esempio a Ercole Ferrata, uno dei grandi scultori della Roma barocca. Ferrata nasce nella Val d’Intelvi, sopra Como. Lo vediamo in una riproduzione pittorica dove è anziano, presso il museo di Arte Sacra di Scaria. Ferrata non era figlio di scultore e il padre lo mette in bottega presso Tommaso Orsolino che lavora a Genova, quindi Ferrata si trasferisce in Liguria. Orsolino in questi anni stava lavorando alla decorazione scultorea della Certosa di Pavia, interamente decorata con marmi ricchissimi. Tommaso Orsolino aveva bisogno di giovani per fare tutto quel lavoro e quindi accoglie Ferrata volentieri. Queste informazioni molto precise sulla formazione di questo artista le abbiamo perché Ferrata successivamente si sposta a Napoli e poi a Roma, dove sarà allievo di Algardi e Bernini e aprirà poi una sua bottega. Nel 1677 il Granduca Cosimo III trasferisce da Roma a Firenze le tre sculture antiche più importanti della sua collezione che teneva a Villa Medici al Pincio: i lottatori, la Venere de Medici e l’arrotino. Vuole portarle a Firenze per metterle in tribuna e creare così un luogo adatto alle opere più importanti. Per il trasporto chiede aiuto a Ferrata, gli chiede di organizzare tutto, creare le casse, e anche di spostarsi a Firenze per l’arrivo delle opere in modo da potervi intervenire come restauratore in caso di danneggiamento durante il trasporto. Ferrata giunge a Firenze e incontra Baldinucci, storiografo e scrittore di biografie di artisti che ne approfitta per conoscere dal Ferrata le storie della sua vita e farne una biografia dopo la morte dello scultore (1687). Da qui arrivano informazioni di prima mano, raccontate direttamente da Ferrata. Ferrata racconta che nello studio dell'Orsolino si disegnava per due ore e poi si aiutava il maestro in lavori di fatica per tutto il resto della giornata, e a stento mangiavano. Il Ferrata poi doveva anche pagare l'affitto della stanza, facendo lavori extra come piccole riproduzioni in marmo delle sculture del maestro, e poi le vendeva a mercanti francesi e spagnoli per pagarsi la retta. Un tale apprendistato non era facile, si lavorava costantemente e si poteva iniziare anche intorno a 12 anni, trovandosi quindi a fare lavori di fatica già da quando si è piccoli. Quando Ferrata, dalla bottega di Orsolino, sa che a Napoli cercano scultori, dopo tanti anni di fatica coglie l’occasione e parte per Napoli alla ricerca di una carriera autonoma. la bottega di Orsolino era cospicua, ha bottega a Genova anche se lavora a Pavia, ma sceglie Genova perché c'è il porto, quindi l’arrivo del marmo da Carrara era molto facilitato. Quindi tra uno scultore giovane che entra in bottega senza precedenti artistici, ed uno che arriva in bottega come figlio di scultore o pittore, come accade a Gian Lorenzo Bernini, quest’ultimo risulta enormemente avvantaggiato. Gian Lorenzo Bernini, Autoritratto maturo, 1638 — 1640, Roma, Galleria Borghese Autoritratto di Bernini, un autoritratto maturo aveva circa 40 anni essendo nato nel 1598, autoritratto che evidenzia l’importanza del disegnare e del dipingere, anche se per lui la pittura sarà più un divertimento. Aneddoto sul padre di Bernini che capisce che il figlio è molto in gamba e non lo inibisce o avvia una competizione, ma anzi lo valorizza, gli dà strumenti straordinari. Bernini stesso lo racconta quando va in Francia ed è accompagnato da un maestro di cerimonie, Paul Fréart de Chantelou, che redige un diario molto preciso che ci racconta tutto quello che accadde durante quell’anno di permanenza. Ricordando il padre Bernini racconta di come sia stato il suo primo sponsor, e racconta di quando Papa Urbano VIII (all’epoca ancora cardinale Maffeo Barberini), si reca in bottega da Pietro e vede Gian Lorenzo che stava scolpendo, Gian Lorenzo dice di aveva 8 anni, ma diciamo che poteva averne 10 o 12. Barberini vede l'opera e dice a Pietro di stare attento, che questo ragazzo è molto abile e addirittura potrebbe superare il suo maestro, ma Pietro risponde dicendo: “non me ne curo niente, sappia Sua Eccellenza, che in quel gioco chi la perde, la vince”, quindi che è bene che il figlio lo superi perché non è una sconfitta ma una vittoria, un trionfo del mio insegnamento e una prosecuzione migliore del mio lavoro, della mia tecnica, della mia idea di scultura. Storia dell’arte Moderna Prof.re Cristiano Giometti 24/02/2021 Lezione 2 Slide 1 > Riprendiamo da dove eravamo rimasti la scorsa volta e cioè dall’apprendistato nella bottega e avevamo analizzato due diverse forme di apprendistato e cioè l’apprendistato in una bottega, che non era quella familiare ma una bottega alta che veniva scelta in base alla vicinanza, alla prossimità, alla contingenza del momento da uno dei familiari, e la differenza invece di una bottega dove il giovane poteva studiare sotto la tutela auspicabilmente del padre, un congiunto, con qualcuno con cui aveva familiarità. Questo naturalmente cambiava e cambia molto le carte in tavola per i giovani artisti e avevamo visto un esempio particolarmente eclatante come era quello di Gian Lorenzo Bernini che ha avuto la fortuna di lavorare di studiare nella bottega paterna di Pietro prima a Napoli e poi soprattutto Pietro si trasferisce a lavorare a Roma. Avevamo visto come questo aspetto della contingenza della familiarità tra padre e figlio, quindi tra docente e discente, da un lato è senz'altro estremamente favorevole per il giovane allievo, proprio per la familiarità che aveva con il padre, ma dall’altro da un punto di vista nostro, di storici dell’arte che dobbiamo in qualche maniera affrontare lo studio delle opere e quindi cercare fin dove è possibile senza arrivare a livelli di ossessione a cui gli ultimi studi ci hanno provato a discernere le diverse mani, le diverse competenze, il famoso “chi ha fatto cosa” e avevamo visto e c'eravamo fermati proprio su quest'opera che è una delle opere di collaborazione tra padre e figlio e avevamo visto quando fosse complesso cercare di capire qual'era l'intenzione di Pietro e qual era invece l’apporto del giovane Gian Lorenzo. Avevamo visto anche in relazione alla tecnica di Pietro come Pietro fosse un virtuoso del marmo e dunque come si producesse in una serie straordinaria di trafori del marmo, guardate questa natura morta di uva e frutti, di mele cotogne quanto è veramente un pezzo di tecnica sopraffina perché veramente Pietro con il trapano a violino riesce a creare tutte piccolissimi foglie sottili, addirittura i buchi nella parte bassa delle mele, creando questa varietà di superfici e varietà anche di cromatismo perché vediamo parti più chiare e parti più scure che danno un senso di realtà straordinaria a questa natura morta. Pensate poi a quale virtuosismo Pietro consegna a Gian Lorenzo, pensate ai fogliami della Dafne quanto sono sottili, delicati e traslucidi e sapete benissimo dove abbia imparato Gian Lorenzo a realizzare queste straordinarie finezze del marmo. Però in questo caso, in quest'opera, anche nell'ultimo catalogo della mostra di Bernini, la grande mostra che c'è stata poco prima del lockdown alla Galleria Borghese di Roma dove quest'opera che stava al Metropolitan Museum era esposta, anche in quel catalogo nella dotta scheda realizzata da Andrea Bacchi l'attribuzione è una attribuzione a Pietro e a Gian Lorenzo e, pur con tutta la filologia possibile non si arriva a definire “chi ha fatto cosa”. Quasi certamente certi passaggi: la lustratura dei corpi, la finezza delle ciocche della barba del fauno sono probabilmente opera di Pietro, così come le striature sul tronco. Vi avevo parlato di questa modalità di fare il tronco volutamente rugoso cioè con una serie di linee soprammesse fatte con la gradina quindi una linea più sporgente e una più incavata che poi troveremo come tecnica assai adusa per Gian Lorenzo, anche per esempio lo vedremo bene nel San Longino per la crociera vaticana. Ma al di là di queste piccole differenze tecniche per esempio sull’invenzione siamo ancora a brancolare nel buio, questa torsione così spasmodica del fauno ci potrebbe sembrare una invenzione di Gian Lorenzo, ma su questo non possiamo metterci certamente la mano sul fuoco. Slide 2 + Così come vi ho messo altri due dettagli bellissimi di queste quattro stagioni, ci sono quattro statue, sculture anche queste sempre attribuite a Pietro e a Gian Lorenzo, anche queste esposte alla ultima mostra della Galleria Borghese datate all'incirca nel 1620 quindi quando Gian Lorenzo era poco più che vent’enne e stava spiccando il volo come autore autonomo per i grandi gruppi borghesiani tanto per intenderci, però lui collaborava ancora con il padre. Pensate che queste due sculture di cui vi ho messo l'autunno e la primavera, guardate che bella la primavera, ha un cespo di fiori straordinario di rose che tiene in mano, ed è una natura morta in scultura di una rarità assoluta, una cosa del genere non si è mai vista e difficilmente si vedrà anche nei secoli a venire e qui la vedete la primavera disposta alla mostra alla galleria Borghese. Riconoscete lo sfondo della galleria Borghese, riconoscete in alto quel cavallo che si sta gettando. Lo vedete quel pezzo di cavallo sul sovrapporta? Ebbene quella è un’altra opera di Pietro Bernini che in realtà fa un'operazione straordinariamente interessante, quella è un’opera antica quindi è un restauro che Pietro fa per il cardinale Scipione. È un Curzio Rufo che si getta tra le fiamme e lui lo monta sopra questa sovrapporta con questo cavallo che come vedete sta cadendo proprio e sopra il cavallo c'è la figura di Curzio Rufo. Quindi riadatta l'antico in un contesto contemporaneo con una invenzione straordinario quindi è anche bello vedere come all'allestimento della mostra borghesiana Pietro Bernini dialoga con sé stesso e con Gian Lorenzo attraverso l'esposizione nella stessa sala della bellissima primavera. Slide 2 +Ma ritorniamo alle due delle quattro allegorie. Queste due sculture furono riconosciute per la prima volta e attribuite a Pietro Bernini nel 1966, non tanto recente però dal punto di vista storiografico è una riscoperta assai recente per cui furono riscoperte da Federico Zeri, grande storico dell’arte del secolo scorso, grande connoisseur con un occhio veramente straordinario. Zeri riconosce in questo tour de force tecniche perché non possiamo che definirlo così, guardate che bello questo drappo di frutta dell'autunno di cui si vede la peluria sotto l'ascella, altro dettaglio straordinariamente raffinato e questo altrettanto straordinario tour de force della primavera. Chiaramente è una tecnica difficilissima che noi tutti per affezione vorremmo attribuire a Gian Lorenzo, ma Gian Lorenzo se li avesse veramente fatti lui sarebbe debitore alla tecnica del padre e quindi è un lavoro diciamo di equipe, di famiglia. Mentre sul volto della primavera riconosciamo le fattezze, le modalità più tipiche di Pietro, sulle due nature morte possiamo riconoscere anche la mano di Gian Lorenzo ma è una mano ancora profondamente intrisa dell’insegnamento del padre. Zeri su questo cesto di fiori lo definisce una delle più spettacolari esplosioni di forza vitale che offre l’arte della scultura. Chiaramente quindi Bernini impara l’arte sopraffina del padre e poi la porta a dei livelli di invenzione e di ulteriore raffinatezza che tutti noi conosciamo. Abbiamo anche visto come però essere a contatto con uno dell'accademia, ma li sceglie talvolta anche per delle necessità del suo granducato uno di questi è Massimiliano Soldani Benzi. Slide 4 + Uno dei più grandi bronzisti della fine del 600. La tecnica della fusione in bronzo soprattutto per gruppi di medie dimensioni e quindi gruppi da studiolo sostanzialmente, non per opere monumentali, ma per opere di media grandezza, è una produzione tipicissima della plastica toscana tra fine 600 e inizi del 700. Infatti una delle ultime grandi produzioni dell’arte granducale sarà quella serie di bronzi fatti per l’elettrice palatina, quei 12 meravigliosi bronzi fatti per l’elettrice palatina dai più grandi artisti bronzisti fiorentini della fine 600 che furono esposti lo scorso anno in quella bella mostra plasmato dal fuoco che è stata allestita a Palazzo Pitti in cui potete visionare il corposo catalogo a cura di Riccardo Gennaioli che è un grande esperto di bronzistica e lavora all’opificio delle Pietre Dure. Tra questi giovani artisti che diventano degli esperti del bronzo c'è Massimiliano Soldani Benzi che però viene inviato all'accademia del granduca con un preciso intento: allora il granduca batteva anche moneta perché il granducato era uno stato a sé e dunque il granduca spesso per battere moneta aveva bisogno di chiamare dei coniatori da Roma dove c'era il conio pontificio, la zecca pontificia, dove c'erano delle figure esperte. A questo punto dice: granduca se io mando un giovane a imparare di conio a Roma, quando torna io non ho più bisogno di chiamare dall’estero qualche maestro ma avrò la mia zecca autonoma che funziona con l’apporto di un maestro toscano perché Massimiliano Soldani Benzi è fiorentino acquisito perché è di Montevarchi. Ecco perché lo manda a Roma a studiare e lo manda a Roma a studiare l’arte del conio con il Travani e il Travani era il coniatore pontificio. Quindi prima di tutto gli interessa che impari a battere moneta e a fare medaglia, ecco perché vi ho messo questa medaglia che Soldani realizza proprio durante il suo soggiorno a Roma all'accademia di Cosimo III. Durante questo soggiorno impara il conio, impara a fare le medaglie e poi lavora anche per altri committenti infatti questa medaglia ritrae uno dei personaggi più in vista e più illustri della Roma di quel tempo cioè la regina Cristina di Svezia. Come sapete Cristina era figlia del re di Svezia, aveva abiurato alla fede protestante, il padre l’aveva quindi disconosciuta e lei si era trasferita a Roma. A Roma viveva grazie ad una pensione pontificia a Palazzo Riario alla Lungara, poi divenuto Palazzo Corsini oggi sede della galleria Corsini e della biblioteca nazionale dei Lincei. È uno dei personaggi a cui a Roma il Papa teneva di più perché era il simbolo della chiesa trionfante, la regina che abiura e che diventa cattolica. Era trattata da regina ma non aveva i denari e né la corte di una regina. Quindi anche lei istituisce una piccola accademia di scultura. Tornando all'accademia Soldani lavora per imparare una tecnica che poi sarà utile al granduca e quindi il granducato lo fa anche in maniera utilitaristica, fa imparare ma a fini propri. Cosa si impara quindi all'accademia? Si impara a disegnare come in tutte le accademie, all'accademia c’è una classe di nudi giovani vengono chiamati, pittori e scultori, a disegnare il nudo dal vivo e questa è una cosa molto moderna. Avere un modello maschile nudo che posa è una cosa estremamente all'avanguardia. Dai regolamenti, dalle notizie, dai carteggi che ci arrivano dall’accademia del granduca a Roma noi sappiamo che la scuola di nudo quindi i disegni dal nudo si facevano in inverno, mentre in estate i giovani si dedicavano a fare disegni, a fare delle copie dall'antico; quindi si andava in giro per il Campiglio, nel Foro Romano, nei giardini del granduca a Trinità dei Monti per fare i disegni dall’antico. Questo lo facevano i pittori, lo facevano gli scultori proprio perché il concetto fondamentale era imparare a disegnare. Quindi si apprendevano le forme e le modalità della composizione anche pittorica che era comunque importante anche per gli scultori perché, banalmente, questa medaglia della Cristina di Svezia ha un recto con il ritratto della regina ma ha anche un verso e nel verso di solito ci si mette una allegoria, una allegoria dell’abbondanza, una allegoria di una religione perché Cristina si era convertita. Quindi di solita si racconta una storia e per raccontare questa storia ci vuole quindi quell’intenzione quella capacità di comporre quelle scene che anche gli scultori devono imparare. Quindi questo aspetto della pittura, della conoscenza delle tecniche della pittura anche per gli scultori è un aspetto a cui il granduca tiene molto come dimostrano poi i rilievi che alcuni di questi artisti produrranno e invieranno a Firenze perché il granduca vuole vedere i progressi di questi giovani che manda a Roma a studiare, li mantiene, però vuole qualcosa in cambio da Soldani che gli batta moneta e dagli altri vedere che sono diventati bravi pittori o bravi scultori, Slide 5+ Quindi i giovani mandano le cose a corte come accade con questo rilievo di Giovanni Battista Foggini. Come vi ho detto Foggini è lo scultore più importante della seconda metà del 600 in toscana. È uno scultore in cui troviamo tantissime opere a Firenze, anche qui alla Santissima Annunziata nella cappella Feroni oppure nella cappella Corsini nella chiesa del Carmine, nei bellissimi rilievi della cappella Corsini. È uno che impara a fare i rilievi scultorei, impara a fare tantissime cose anche opere di squisita fattura, anche di piccole dimensioni, bronzetti, è veramente una sorta di Bernini toscano, fa disegni anche per sedie, arredi, quindi a Roma veramente macina di tutto e quindi quando torna è un po' un deus ex macchina del gusto toscano della fine del 600. Ma qui lo vediamo giovanissimo nel 1675 ai primordi del suo ingresso nell’accademia di Cosimo IIl dove ha studiato disegno con Ciro Ferri e scultura con Ercole Ferrata quindi da Ciro Ferri apprende modalità compositive e un gusto squisitamente pittorico, guardate come è pittorico questo rilievo, l’attenzione all'atmosfera, alle nuvole, ai raggi della luce divina. Ma anche la difficoltà di questa composizione, questa adorazione dei pastori con questo bellissimo pastore in primo piano così sporgente molto aggettante quasi come fosse una figura a tutto tondo, l'eleganza e lo studio dei panneggi. Si vede quanto questi giovani sono stati di fronte al modello seminudo, panneggiato a disegnare questi panneggi, un po' come si faceva nel 400, mi vengono in mente i disegni dal modello che si facevano nella bottega del Verrocchio con Leonardo e Lorenzo di Credi metteva un modello seduto su una seggiola con un drappo e poi si facevano questi disegni di drappi e come delle calcomanie ritornavano spesso, in tante opere del maestro e degli allievi. Una tecnica antica che si ripropone nella scultura moderna e l’importanza di fare i drappi è sottolineata anche nelle fonti. C'è una bellissima di Bellori nella vita di Carlo Maratti dove spiega quanto è importante fare i drappi e come è difficile fare i drappi in maniera originale e sempre nuova. Qui si vede come Ciro Ferri abbia ben insegnato al giovane Foggini questa importanza di fare i drappi. Quindi vedete come si mescolano le due anime: il pittoricismo che si impara dal pittore e quindi dall’arte di Ciro Ferri e quindi di Pietro da Cortona perché Ciro Ferri è una emanazione di Pietro da Cortona, e la tecnica del rilievo che è la tecnica che Ercole Ferrata insegna a questi giovani artisti perché il suo maestro Algardi, che era stato il principe dei grandi rilievi di grandi dimensioni. Vedremo l’incontro di Attila e leone che è il primo grande rilievo di dimensioni monumentali in San Pietro che darà poi il via a una produzione di pale marmoree monumentale per gli altari che saranno proprio una specificità della scuola di Algardi e dei suoi allievi e quindi di Ferrata, di Domenico Guidi e quindi anche di Foggini a Firenze. Quindi grazie all'accademia di Cosimo a Firenze arriva una nuova linfa importante che porta nelle tranquille acque dell’Arno dove ormai si erano reiterate delle forme ancora tardo manieriste che erano le forme di GiamBologna e di .... porta la novità della pittura e della scultura che si era sviluppata a Roma. Però si capisce anche un’altra cosa dall’accademia di Cosimo III. Si capisce che l'insegnamento di questi due maestri è particolarmente efficace, particolarmente valido. Quello di Ciro Ferri per quanto ci riguarda e quello di Ercole Ferrata. Ercole Ferrata, oltre a essere un bravissimo scultore, aveva evidentemente delle capacità, delle qualità didattiche estremamente lungimiranti e estremamente sviluppate; quindi insegna nella accademia ma ha anche una bottega e la bottega di Ferrata è veramente per noi un luogo estremamente significativo, è una cartina di tornasole che ci fa vedere come è strutturata a livello educativo la bottega di uno scultore della seconda metà del 600, non siamo più a Genova con l’Orsolino ma siamo a Roma, Ferrata evidentemente consapevole di quanto ha sofferto in quei 7 anni a Genova con l’Orsolino, pensa di portare avanti una tradizione ma con modalità un po' diverse. Noi perché conosciamo bene questa modalità con cui Ferrata insegna ai suoi allievi? Perché Ferrata quando muore un artista, quando muore un committente, si fa un testamento al committente. L'artista fa un testamento al committente in cui dice che lascia la moglie. | testamenti e gli inventari sono cose gustosissime perché ci si trova il lascito della pietruzza alla serva, ci si trova il contenuto dell’armadio: un giustacore, ai mutandoni alle lenzuola alle pentole che stanno in cucina. Oltre a questo però ci si trova anche nello studio. Cosa rimane nello studio di uno scultore? Ercole Ferrata abita in una traversa di Via Giulia, quell’asse di area creata da Giulio Il che parte da ponte Sisto e arriva a ponte Sant'Angelo, è una via molto importante di Roma è una via commerciale, una via della Roma cinquecentesca dove ci sono chiese e oratori importati c'è l'oratorio del Confalone, c'è sant'Eligio degli orefici, ci affaccia il giardino di Palazzo Farnese, ci affaccia la chiesa di Santo Spirito dei napoletani, la chiesa di San Giovanni dei fiorentini quindi è una via veramente importantissima. In una traversa di questa strada, via delle carceri nuove, ci abita Ferrata poco distante c'è anche lo studio di Domenico Guidi. Perché due scultori abitano qui? Perché sono vicini al fiume, la riva del fiume è sotto il loro studio e questo ci riporta a quanto dicevamo nella prima lezione: l’importanza di un fiume navigabile, la trasportabilità del materiale, l’arrivo del materiale direttamente nello studio quindi ci fa capire l’importanza strategica di scegliere questo luoghi. Leggere l'inventario di Ferrata è un'esperienza formativa perché la casa e la bottega di Ferrata che erano una sopra l’altro sono invase completamente di modelli in terracotta. Lui aveva centinaia di modelli in terracotta, modelli che aveva ereditato dal suo maestro Alessandro Algardi, quando Algardi muore nel 1654 decide di dividere i modelli che lui aveva cioè i modelli delle sue opere tra i suoi quattro allievi che sono: Ferrata, Domenico Guidi, Paolo Carnieri e Girolamo Lucenti e li suddivide tra i sui quattro allievi. Quindi lui eredita un po' di modelli dal maestro che sono naturalmente dei modelli importanti che fa studiare agli allievi e poi accumula una serie di infinita di modelli delle sue stesse opere, di opere di Bernini, di opere anche che nell’inventario si legge attribuiti a Michelangelo ma che magari non erano di Michelangelo. Quello che ci interessa però è vedere quando Ferrata abbia aumentato nel tempo il patrimonio di questi modelli. Slide 6+ Ecco questa è ‘Allegoria della Fede per un monumento funebre che sta proprio in San Giovanni dei fiorentini, il monumento falconieri, San Giovanni dei fiorentini l’abside della chiesa è di proprietà della famiglia falconieri e quindi è un’intera cappella gigantesca dove i Falconieri realizzano le proprie tombe, la tomba del Cardinale Lelio, la tomba di Paolo Falconieri e sull’altare maggiore un grande rilievo a tutto tondo del Battesimo di Cristo che doveva prima realizzare Mochi, poi come al solito sfortunato ai Falconieri non gli piace più e quindi verrà poi realizzato da Antonio Raggi, un allievo del Bernini. Tra i monumenti quello di Lelio Falconieri viene realizzato da Ferrata. Di fedi, di modelli della fede se ne contano almeno 5 nell'inventario di Ferrata. Questo ci deve far pensare. Perché 5 modelli? È vero che un artista per arrivare alla soluzione finale ci può mettere del tempo e quindi può fare una prima redazione, poi non contento, fa una seconda redazione, oppure fa una prima redazione il committente non è contento e lui fa una seconda redazione. Ma 5 sono veramente tanti. Mettiamo che due le fa Ferrata, gli altri tre? Gli altri tre vengono fatti dagli allievi di Ferrata. Ferrata gli ha detto: prendi la mia fede e rifalla uguale in terracotta. Quindi il modello del maestro, sia il maestro Ferrata stesso sia Algardi, sia Bernini, sia Michelangelo, diventa un elemento di studio, un testo su cui il giovane di bottega si misura; ecco perché uno stesso modello nell'inventario di Ferrata se ne contano 3, 4,5 versioni di qualità non tutte uguali, si vede che sono diverse perché appunto l’allievo poteva essere ben dotato o poteva essere un po' scalzacani e quindi gli viene un po' maluccio la copia. Quindi la bottega di Ferrata è per noi una fucina inesauribile di fonti per capire come funzionava questa bottega. Del resto insieme al disegno imparare a modellare era un altro elemento fondamentale perché bisognava fare il modello in piccolo, modellini di piccolo formato che lo scultore portava al committente per chiedere se quella soluzione formale era gradita al committente; dopo l'approvazione si passava poi subito a lavorare il marmo, non si rischiava di tradurre subito nel marmo l’idea dell'artista perché se poi al committente non gli piace l'artista doveva ricomprarsi il blocco a tutte sue prima versione del marmo di Michelangelo è questa di Bassano Romano. Questo ve lo racconto per dirvi che il povero Michelangelo fa la prima versione e quasi sul finire si trova questo marmo fallato. Lo lascia quasi terminato, si trasferisce a Firenze perché viene chiamato a Firenze a lavorare per il granduca, all’epoca non ancora granduca, e da Firenze realizza la seconda versione bellissima che tuti conosciamo e che vediamo in Santa Maria sopra Minerva. Slide 11+ Questo però è accaduto a Michelangelo giusto per farvi un esempio cinquecentesco ma nel 600 è accaduto più volte e vi mostro un caso abbastanza eclatante. Alessandro Algardi realizza un bellissimo busto del Sa Pietro per il cardinale Franzoni, cardinale Genovese e sarà uno dei grandi mecenati di Alessandro Algardi. Algardi farà per la cappella della famiglia Franzoni a Genova nella chiesa dei Santi Vittore e Carlo tutto un allestimento, ideerà tutti i busti dei santi che vi sono presenti in bronzo e che verranno poi realizzati per il cardinale Franzoni. Tra questi c'è anche un busto di San Pietro e un busto di San Paolo. Due invenzioni che avranno tantissimo successo, Algardi poi fa i modelli in terracotta che rimangono poi nella sua bottega e verranno quindi replicati in tante versioni: in bronzo, in marmo. Per il cardinale Franzoni realizza questo marmo. Come vedete sul volto di San Pietro ci sono due striature, delle sorte di cicatrici e Algardi probabilmente si trova queste cicatrici quando arriva a lustrare il volto, quando è perfettamente finita Algardi la completa e allora Jennifer Montagu, che è una grande studiosa di Algardi, che cosa ipotizza? Ipotizza che probabilmente Algradi avendo terminato l’opera e dovendola consegnare al committente, invece di prendere un altro marmo e di scolpirla, che cosa fa? Sfrutta queste vele per enfatizzare la drammaticità della figura e per farle sembrare almeno sulle guance delle lacrime. Però è un'invenzione che possiamo infierire noi dal nostro secolo non sappiamo in realtà se è intercorso dall’ Algardi e il suo mecenate, può benissimo darsi che il cardinal Frazoni quando ha visto l’opera abbia detto: “bellissima e anche se ha questa imperfezione me la tengo. È diversa la situazione che accadde al povero Gian Lorenzo Bernini quando scolpisce il busto di Scipione Borghese. Scipione Borghese è stato uno dei mecenati più importanti del giovane Gian Lorenzo il quale muove i primi passi come scultore autonomo proprio creando i capolavori per l’attuale Galleria Borghese e l’allora villa fuori porta del cardinale Borghese: Apollo e Dafne, Enea e Anchise, Il Ratto di Proserpina cioè quei gruppi borghesiani per cui Bernini diventa famosissimo. Slide 12+ Quando ormai è scultore fatto, è scultore della famiglia Barberini perché siamo nel 32, Scipione gli chiede un ritratto. Bernini scolpisce questo bellissimo busto di Scipione Borghese, busto particolarmente importante perché è sostanzialmente il primo ritratto della resanblas parlant cioè dei ritratti parlanti. Quella forma di ritratto che rivoluziona la tipologia della ritrattistica barocca, Bernini fa parlare per la prima volta un ritrattato. Il nostro Scipione sta volgendo lo sguardo, non ci guarda negli occhi ma è attratto da qualcosa, da qualcuno che entra in una stanza che lui riconosce e a cui sta per dire qualcosa, vedete che le labbra di Scipione sono semiaperte perché appunto Scipione sta per dare il benvenuto o dare un ordine, lo vediamo concentrato su qualcuno a cui sta per parlare; ecco perché resanblas parlant. Questa è una novità straordinaria. Ma al di là della novità del ritratto che poi troveremo anche nel bellissimo ritratto della Costanza Bonarelli che però aveva uno statuto diverso rispetto a questo; questo è un ritratto pubblico che Scipione espone nella sua galleria, nella sua casa. Il ritratto di Costanza che era l'amante di Bernini che aveva scolpito a casa per vedere la Costanza quando lui non la poteva andare a trovare a casa sua. Anche quella è una resenblas parlant ma ha una fruizione più intima. Tornado a Scipione che cosa succede? Quando ha finito il lavoro sulla fronte di Scipione c'è una fessatura, ma una fessatura grave che circonda tutta la fronte; dalle tempie fino alla bassa fronte sopra le sopracciglia e che si vede bene in questo dettaglio laterale. È una fessura che taglia sostanzialmente tutta la testa, la calotta cranica di Scipione andando a inficiare anche la berretta che il cardinale porta in testa. Naturalmente questo è un grandissimo scorno di uno scultore, finire un’opera e sul finire quando va a lustrarla si trova questa vena così evidente. Di fronte a un problema così grave Bernini non può consegnare l’opera, Bernini si rifiuta di consegnare l’opera. Allora in maniera molto romantica e enfatizzata naturalmente dalle biografie di Baldinucci e poi dalle biografie del figlio di Bernini stesso, gli racconta che iniziò a portare un altro blocco di marmo e nell’arco di due settimane gli scolpisce completamente il busto producendo la versione sana senza problemi, identica alla precedente solo che è senza fessatura. E alla Galleria Borghese i due busti si possono vedere una accanto all’altro. Bernini poi era una persona abbastanza self confident, quando porta l’opera a Scipione gli fa vedere pima quella con la fessura: Scipione rimane un po' interdetto, ma Bernini gioca con lui, dice: “guardate come è bella quest'opera che ho fatto per voi” fino ad arrivare al momento in cui Scipione sta per dirgli: “Beh insomma Gian Lorenzo vediamo di risolvere quel problema”. A quel punto scopre l’altra e gli fa vedere il prodigio che ha fatto in due settimane vedendo contento il buon Scipione che si è tenuto entrambe le opere. Questo per dirvi che il problema dell’imperfezione della materia è un problema che lo scultore, pur bravo come era Bernini lo scopre soltanto a cose fatte cioè quando arriva veramente a entrare nel vivo del blocco, nel vivo della materia. Memore di questa esperienza giovanile, Bernini quando va in Francia ne fa tesoro. Bernini quando andrà in Francia non ha molto successo, non realizza quasi nulla di quello per cui è andato, però visto che lo ha a disposizione Luigi XIV gli chiede un ritratto e Bernini non si può esimere dal farlo quindi tutti i giorni si reca a vedere il re, Bernini non vuole mettere in posa le persone ì, le vuole vedere mentre lavorano quindi va a vedere il re mentre fa il consiglio di Stato, mentre da ordini, mentre passeggia. Avere l'essenza vera del re, il re deve dare l'aspetto di autorità, di autorevolezza quindi non lo vuole vedere in posa ma lo vuole vedere mentre da gli ordini. Fa il modello e poi Bernini inizia a fare questo marmo, non c'è tempo per farsi arrivare del marmo di Carrara e quindi arriva del marmo di una cava vicino a Parigi e questa cosa destabilizza un po' Bernini. Allora Bernini che cosa fa? Memore del problema che aveva avuto con Scipione si fa arrivare da questa cava due blocchi identici su cui inizia a lavorare contemporaneamente cioè lui comincia a scolpire il busto su tutti e due per evitare che si pongano problemi come era successo con lo Scipione. Se me ne trovo già uno con una venatura, con una fessatura ho l’altro blocco su cui poter continuare a lavorare. Quindi inizia a lavorare contemporaneamente con due blocchi per vedere quale dei due avrebbe dato il risultato migliore. L'esperienza antica per evitare un problema moderno. LEZIONE 3 26 FEBBRAIO 2021 Ripartiamo da Gian Lorenzo Bernini in Francia, ricordate che stavamo parlando dei problemi legati dell’approvvigionamento del marmo, alla difficoltà degli artisti e degli scultori di farsi arrivare il marmo. Ricorderete che quando Bernini era in Francia doveva scolpire il busto di Luigi XIV, una delle pochissime opere che il maestro riesce a realizzare durante il suo soggiorno francese; Bernini era abituato, come tutti gli scultori attivi a Roma nel Seicento, a lavorare con il marmo statuario di Carrara. Quello di Carrara è un marmo bianco, purissimo, di altissima qualità e sufficientemente duttile ma non troppo, quindi giusto per essere scolpito con una certa agevolezza. Di un nitore che entra nella genetica negli scultori: del “niveo de marmore” parla Giovanni Pisano quando scolpisce il pulpito della Cattedrale di Pisa nel 1210. Però Bernini è in Francia, a realizzare quel Louvre che poi non farà mai, e gli viene fornito del marmo estratto in una cava poco fuori Parigi; non c'è tempo per farsi arrivare il blocco di marmo da Carrara, Bernini quindi afferma che userà il marmo disponibile in Francia ma chiede che gli vengano forniti due blocchi identici, sui quali avrebbe scolpito contemporaneamente il busto del re. Perché? Già la scorsa volta avevamo parlato delle venature del marmo, delle macchie, dei problemi insiti nella materia che tuttavia lo scultore non conosce in anteprima, lo scultore ne viene a conoscenza nel momento stesso in cui lo lavora. Bernini quindi, memore dell’esperienza avuta con il busto di Scipione Borghese, chiede questa soluzione e riesce, trovando questo marmo di buona qualità, a realizzare una sola versione — ad un certo punto la seconda versione si interrompe — del busto di Luigi XIV. Del secondo blocco di marmo non si hanno più notizie: probabilmente si è fermato in una fare di abbozzo e il blocco è stato poi utilizzato dentro le mura del Louvre. Un busto che viene apprezzato moltissimo, come tutte le altre cose di Bernini. In realtà è un'invenzione straordinaria perché crea questo prototipo del sovrano assoluto: con il sovrano che appare con l'armatura, con questa straordinaria gorgiera/fiocco che copre il suo collo e si continua in questa straordinaria boiserie di riccioli nella capigliatura, e, soprattutto, quello che vuole sottolineare Bernini è l'apparizione momentanea di Luigi XIV come se arrivasse sopra una nuvola. Bernini utilizza un lembo del mantello per dare questo effetto di sospensione, di nuvola, di apparizione momentanea. Naturalmente Bernini ricava questo escamotage visivo dalla tradizione classica: nei sarcofagi all’antica i clipei con le immagini dei defunti venivano portati sospesi in un lembo di tessuto, chiamato parapetasma; quindi lo scultore mutua l’idea del parapetasma e lo trasforma in un drappo, in una sorta di nuvola che altri non è che l’estensione del mantello che porta in gloria, che è una gloria profana, Luigi XIV. Bernini in un certo senso, nonostante le difficoltà della situazione, riesce il problema dell’approvvigionamento del marmo; marmo che, generalmente, gli scultori si fanno arrivare da Carrara, dalle cave del Polvaccio. La cartina è della zona tra Massa e Carrara, nell'entroterra dell’apuoversiliese, più nota per le spiagge di Forte dei Marmi e Marina di Cararra; all’interno c'è un paesino che si chiama Vitizzano, appena sopra Carrara, con un ristorante dove si mangia benissimo e che ha una terrazza affacciata sulle cave, dove di notte si vede un bagliore bianchissimo. È importante per capire quanto questa zona della Toscana è stata devastata, quanto la topografia di queste zone è in continuo divenire. Le stesse vette mutano, perché si continua a cavare marmo tutt'oggi. cui ci si riferisce nel contratto è la statua di san Nongino nella crociera in san Pietro. Il contratto dell’Algardi per il san Paolo ci spiega come deve essere la qualità, ce lo spiega con un paragone con un marmo che è già arrivato a Roma, di cui si conosce la qualità e si chiede una qualità analoga se non migliore. Sempre dal contratto si apprende che il marmo della decollazione di san Paolo doveva essere consegnato allo studio di Algardi, quindi portato fino a Roma a spese e a rischio del marmoraio, del fornitore del marmo, quindi se fosse accaduto qualcosa erano problemi del marmolaio. Anche questa è una clausola estremamente interessante, perché il committente di deresponsabilizza completamente. Fino a quando il marmo non è davanti alla casa dell’Algardi, il committente non paga, e i rischi del trasporto potevano essere molteplici, come i pirati che in questo periodo infestavano il Mediterraneo. Il contratto però è importante anche per un altro aspetto, nel contratto vengono precisate le misure dei blocchi. Algardi è la voce fuori campo, il contratto è sipulato tra il committente e il marmoraio, ma è l’Algardi quello interessato e quello cui deve arrivare questo blocco. Devono essere alti rispettivamente alti 12 palmi e 8 palmi, un palmo romano misura 22,4 cm, quindi a occhio l'altezza dell’aguzzino doveva essere 2,68 m e quella di san Paolo inginocchiato 1,78 cm; quindi la misura dei blocchi al momento della sbozzatura doveva essere questa altezza. dio di Alessandro rdi (1598-1654) Disegno per il blocco di marmo RIETI Decollazione di San Paolo Roma, Archivio di Stato Questo è un dato fondamentale e per essere proprio sicuri che i blocchi fossero così come lo scultore li aveva richiesti, si acclude un disegno che per noi è uno strumento di studio estremamente importante (ne vedremo un altro allegato ad un contratto di un’opera del Bernini); qua vedete ci sono proprio le misure dei palmi romani in basso qui leggete palmi 12). Vedete che la sbozzatura che richiede Algardi non è quella di un blocco a parallelepipedo, è una sbozzatura già in parte sagomata, perché qui dentro ci doveva stare la figura dell’aguzzino con quel gesto così tortuoso, se vogliamo serpentinato, se lo si guarda è qualsi gianbolognesco, una riminescenza tardo manierista. Questo blocco doveva assumere una qualche composizione, quindi Algardi allega al contratto questo disegno, ma fa di più, in questo periodo si suole allegare le così dette /egnette , dei legnetti di dimensioni abbastanza piccole un po’ più grandi di questa agendina moleskine della stessa forma del blocco, però di legno, un pezzettino di legno sagomato che andava insieme al disegno per far vedere tridimensionalmente come doveva essere tagliato, sbozzato il blocco di marmo. La presenza delle legnette è fondamentale, talvolta a Carrara quando non arrivano le legnette il marmoraio per precauzione si ferma e aspetta che arrivino le legnette da Roma, perché altrimenti rischia di tagliare e sbozzare il marmo troppo o troppo poco, e di inviare a Roma qualcosa che è fallato e poi non va bene. Quindi il marmo arriva sommariamente abbozzato, quindi questa operazione oltre che rispettare una volontà dello scultore, ha una funzione utilissima per il trasporto: sono tutti pezzi di marmo che servono ad alleggerire il blocco, un parallelepipedo pesa di più di un blocco in parte sagomato, questo fa risparmiare su i buoi che tirano i carri, sui vascelli che portano il marmo fino a Roma. Perché naturalmente se abbiamo dei blocchi di marmo particolarmente monumentali occorreranno vascelli più grandi, e questo aumenta considerevolmente il prezzo, quindi la riduzione da un blocco parallelepipedo a un blocco sagomato porta a ridurre il peso del corpo, a ridurre il costo del trasporto, a utilizzare un trasporto più agevole e quindi a evitare danni e rotture. Il trasporto quindi costava, come si misurava il costo del trasporto? Sono tutti aspetti presenti nei contratti. Il marmo si misura a carrate o a carrettate; una carrata è quanto un carro tirato dai buoi riesce a trascinare, questa è una misura em e l’empirismo di questa misura si vede dal fatto che dal ‘400 in avanti con il miglioramento della razza bovina, i buoi riescono a trasportare blocchi più pesanti, quindi nell’epoca di cui parliamo noi una carrata corrisponde circa a una tonnellata. Ho trovato queste bellissime fotografie storiche per farvi vedere come ancora all’inizio del’900 (questa aveva data 1900) il marmo veniva trasportato dalle cave come faceva Michelangelo e Donatello con i carri tirati dai buoi, quel marmo che si vede nella foto era una carrata. Naturalmente c'erano dei casi eccezionali, il marmo poteva essere trasportato al traino, ma in alcuni casi se la cava è in un posto dove non ci sono strade percorribili, o se il marmo è particolarmente grande si utilizzava un altro metodo, utilizzato anche oggi, è il metodo della lizzatura. Metodo antichissimo che consiste nel legare il blocco di marmo con enormi corde a un perno fissato per terra e lo si lasciava cadere lentamente verso valle mettendo dei tronchi di legno uno davanti all’altro in modo che rotolasse lentamente impedendo lo sfregamento: questa operazione è faticosa e rischiosissima, quanti uomini sono morti in seguito alla rottura della corda e il marmo li ha travolti. Nella foto vedete due uomini seduti sopra il marmo e uno che preme i pezzi di legno e li mette davanti per consentire il rotolamento, quando ha messo 3-4 pezzi di legno davanti al marmo si allenta la corda e il marmo scivola giù a valle e a volte ci volevano dei giorni per arrivare ad una strada. Guardate un po’, ve l’ho sottolineata di celeste, nel disegno c'è questa sottilissima linea a matita che proprio taglia il tritone nel punto preciso in cui lui voleva che fosse tagliato il marmo. Quindi non è da escludere che questo bellissimo disegno sia servito al marmoraio il punto dove tagliare l’opera. Poi noi abbiamo la controprova visiva quando andiamo a guardare la scultura, perché gli ultimi restauri hanno ben messo in evidenza questa giuntura, che naturalmente a distanza non si vede, bisogna fare una fotografia da vicino per poterla vedere. Quindi laa definizione di questi dettagli diventa fondamentale per il fornimento del marmo. Alessandro Algardi (1598-1654) L'incontro di Attila € Leone Magno marmo, 1646-1653 Roma, Basilica di San Pietro Prendiamo un’altra grande opera monumentale: una pala d'altare, la prima pala d'altare di marmo che viene realizzata in san Pietro L'incontro di Attila e Leone Magno di Alessandro Algardi, opera che arriva alla fine di un processo complicatissimo, perché la pala d'altare per questo altare originariamente doveva essere dipinta, era stata commissionata a Guido Reni, siamo nel 1627. Guido Reni, grande pittore, il più acclamato d'Europa, anche il più costoso, il più concupito. Tutti volevano una sua opera. Il papa, Urbano VIII lo convince a tornare a Roma, lui c'era stato all’inizio del ‘600 fino al 1614, poi torna a Bologna perchè a lui non interessa stare a Roma. Lo vanno a cercare da tutto il mondo, lo chiama il re di Spagna, la regina di Francia. Lo chiama Urbano VIII, si trasferisce a Roma, accetta di dipingere a patto che nessuno salga sul ponteggio, una mattina arriva a san Pietro e trova uno sui ponteggi, non batte ciglio, prende armi e bagagli e torna a Bologna. L'altare rimane senza autore, si passa poi al Cavalier d’Arpino, che ha tantissime commissioni e non porta a termine il lavoro, lo passa a Giovanni Lanfranco, altro pittore bolognese, il quale non porta a termine il lavoro. A questo punto la Congregazione della Reverenda Fabbrica di san Pietro, ovvero la congregazione cardinalizia che si occupa della gestione delle opere all’interno della Basilica decide, dal momento che san Pietro è un luogo estremamente umido e che tutti i dipinti, affreschi e addirittura mosaici si stanno deteriorando ad una velocità paurosa, decide di provare a fare una pala marmorea, il marmo dovrebbe resistere meglio all'umidità e quindi si sperimenta per la prima volta in san Pietro questo materiale. Si chiama a realizzare quest'opera Alessandro Algardi. Si trova a dover realizzare una pala di più di 5 metri, è qualcosa di veramente monumentale, d'altronde quando si entra in san Pietro si rimane colpiti e storditi dalla monumentalità di questa pala. Del resto quando si entra in San Pietro si rimane sconvolti dallo spazio architettonico; è uno spazio che da fuori non si percepisce ma quando entra dentro si trova difronte ad una cosa gigantesca, dove tutto deve essere proporzionato. Le acque santiere hanno dei putti tre volte più alti di un uomo. Algardi prima di attaccare a lavorare un marmo così gigantesco fa un modello preparatorio piccolo, ma anche un modello preparatorio grande che noi abbiamo visto l’altr'anno all’oratorio dei Filippini, grande quanto il marmo finito. Questo modello in grande è un passaggio fondamentale, perché per un’opera di così grandi dimensioni consente di prendere le misure, vedere se ci sono errori, e la conformità fra l’opera e il luogo che l’accoglie. Per fare il modello in grande si utilizza lo stucco, che è un materiale modellabile, e quindi mantenendolo bagnato si può continuare a modellare, lavorare per giorni e giorni, all’interno dello stucco si possono mettere delle armature, fascine anche di ferro per tenere le figure solide, poi lo stucco una volta che si è consolidato, come ci racconta Vasari nelle Teoriche delle vite diventa talmente duro e resistente che può andare avanti per secoli, tant'è che quando Algardi avrà finito la pala marmorea che sarà montata sull’altare, il modello in grande in stucco viene tolto e il papa Alessandro VII lo dona ai Filippini che lo montano sulle scale dell'Oratorio, e ora si trova sulla rampa di scale che porta alla Biblioteca Vallicelliana, perché è un’opera straordinaria quanto l’opera marmorea. Quindi il modello in grande è un'operazione estremamente importante nella produzione di opere scultoree del ‘600, soprattutto di opere così monumentali come la pala di Attila e Leone Magno. Ed è interessante anche questa cosa, nei contratti è sempre specificato che sia il modello in terracotta piccolo che il modello in grande rimangano di proprietà del committente, quindi il committente alla fine dell’opera viene ad avere tutto l’iter della produzione dell'artista, dal modellino in terracotta di presentazione, al modello in grande di stucco e poi naturalmente l’opera finita. Allora anche per Algardi, pensare di avere un blocco di marmo di queste dimensioni è praticamente impossibile oppure qualora fosse possibile i rischi del trasporto quasi certamente avrebbero portato a Roma una pala che si sarebbe rotta durante il trasporto. Quando la vedrete vi renderete conto dell’impossibilità di un trasporto, allora Algardi chiede che sia suddivisa in 5 blocchi che scolpisce separatamente e verranno uniti una volta montati sull’altare. Naturalmente lui scolpisce separatamente perché ha il modello in grande, fa un'operazione di traduzione dallo stucco al marmo. Nel recente restauro di questa pala dal ponteggio si vedono i tagli e ve li ho sottolineati, praticamente c’è la lunetta in alto, due blocchi dove si vedono i santi Pietro e Paolo tagliati a metà e sotto altri due blocchi con papa Leone Magno da una parte e Attila dall’altra: quindi 5 blocchi che vengono commessi, uniti insieme sull’altare. | luoghi di commissura sono celati quanto più possibile, nella parte bassa dalle fronde, dai soldati, nella parte alta anche dalle spade di Pietro e Paolo che cercano di coprire questa linea di demarcazione, e poi lo stucco interviene ulteriormente in questa copertura. Naturalmente una volta montata l’opera lo scultore, che non ha fatto da solo ma con gli aiuti di bottega, si poteva rivalere per fare gli ultimi ritocchi, e anche questa parte è specificata nel contratto, rimontare un ponteggio è un costo ulteriore e questa parte viene specificata all’interno del contratto. La specifica dei ritocchi può non essere necessaria se l’opera si fa a Roma per Roma, ma diventa necessaria se l’opera si fa a Roma per un luogo lontano. Allora lo scultore per evitare che l’opera arrivi rotta soprattutto nelle parti più delicate come le mani, le braccia se sono sporgenti lascia dei pezzi di marmo di rafforzamento che poi eliminerà soltanto all’ultimo momento, una sorta di contrafforti e ci sono delle sculture che tuttora mantengono questi puntelli o ponticelli che servivano a tenere salde le parti più sporgenti delle sculture. andro A (1598-1654) L'incontro di San Leone Magno con Attila 1648 Riate(ere) Roma, Biblioteca Vallicelliana Ecco alcuni esempi, prima però vi faccio vedere il modello in grande di Attila e Leone Magno che sono a Roma alla Biblioteca Vallicelliana, che è il passo precedente alla realizzazione marmorea. Francesco Mochi (1580-1654) San Paolo 1635-1638, marmo Iattese ge ESTA @ieNietetat feto Fiorentini Ritorniamo ai nostri ponticelli, ritorniamo a questa scultura di Francesco Mochi, scultore di opere che non vanno a finire nei luoghi per cui sono state destinate; questa scultura che ora si trova a Roma in san Giovanni dei Fiorentini era stata per molti anni collocata sulle mura aureliane di Piazza del Popolo, uscendo articolato, complesso, che coinvolge diverse professionalità: non solo lo scultore come accade nei cantieri pittorici, ma connette lo scultore e il committente e anche lo scultore e il marmoraio. C'è una triangolazione che deve essere ben orchestrata e organizzata. Per chiudere questa parte propedeutica al corso è bene analizzare insieme un cantiere, prendiamone uno simbolico che funga da chiave di volta per capire come si lavorava in un cantiere corale. Ho scelto un cantiere del Barocco maturo, il cantiere di Ponte Sant'Angelo, degli angeli che portano i simboli della passione, realizzati tra il 1667 e il 1669 sotto la supervisione, naturalmente, di Lorenzo Bernini a Roma. Questo cantiere è un cantiere voluto da un Papa toscano, Clemente IX Rospigliosi, di famiglia pistoiese. È un papa colto, raffinato, letterato, che si forma nella Roma dei Barberini, che lavora e che studia alla corte Barberini quando Maffeo Barberini è papa con il nome di Urbano VIII; scrive addirittura delle piéce teatrali per il teatro di Palazzo Barberini. Diventa poi papa lui stesso, con un pontificato molto breve (1667-1669). Pontificato in cui perè lui ha delle ambizioni: è amico degli artisti, di Carlo Baratti che gli farà un bellissimo ritratto, e naturalmente eredita dal Papa precedente Alessandro VII Chigi l’amore e la fiducia per Gian Lorenzo Bernini. E a Bernini commissiona appunto la realizzazione degli angeli di ponte S. Angelo, che vanno a chiudere quell’ideale percorso visivo che si era innescato con la realizzazione del portico di San Pietro, voluto da Papa Alessandro VII Chigi e realizzato da Bernini negli stessi anni. Quindi era un asse visivo che cominciava da Ponte Sant'Angelo e si concludeva con il grande ed ecumenico abbraccio alla cristianità, pensato e voluto da Bernini, per Piazza San Pietro. A Bernini quindi Papa Clemente chiede di realizzare 10 sculture da apporre sui 10 contrafforti di questo ponte. Un ponte antichissimo che stava davanti alla mole di Castel Sant'Angelo, alla mole adrianea, sin dall’antichità - tant'è che questo ponte si chiamava Ponte Helio Abantiquo. Diventa Ponte Sant'Angelo solo in epoca moderna. Bernini nell'affrontare questa grande commissione si rifà ad un precedente rinascimentale: nel 1536 c’era stata la visita di Carlo V, doveva quindi essere allestita Roma adeguatamente. ST CAES. HADRIANI AVG. 'l MAVSOLEVM_ACCVRATISSIME Guardate questa bella incisione di Etienne Ducrat del 1580: vedete che sui contrafforti ci sono delle statuine, perché in occasione dell’arrivo a Roma di carlo V nel 1536 gli scultori Lorenzo Lotti, Lorenzetti e Raffaello da Montelupo realizzano 8 statue di stucco che vengono messe proprio sui contrafforti dell’antico Ponte Helio e che rappresentavano i 4 Evangelisti e i 4 Patriarchi. A causa della deperibilità del materiale, è vero che lo stucco è forte e dura, ma all’intemperie anche lo stucco viene corroso: è polvere di gesso e dopo un po’ l’acqua lo slava. Quindi non si sono mantenute, ma la memoria di questa processione che era stata fatta in occasione dell’arrivo di Carlo V viene ripresa da Bernini, che al posto dei 4 patriarchi e 4 evangelisti pensa a una teoria di figure, di angeli, che tengono le Arma Christi, cioè i simboli della passione. In modo tale da portare i simboli della Passione all'altezza del fedele. È, se volete, una via di purificazione da Ponte Sant'Angelo, iniziando dalla Passione di Cristo a rileggere e a vivere i dolori della Passione di Cristo e quindi è un percorso di purificazione che poi ci porterà a San Pietro per entrare nella Casa di Cristo, al sepolcro del primo Papa, Pietro. Quindi è un'immagine anche molto forte, che rientra pienamente nella idea di religiosità di Bernini, che era un'idea di religiosità molto fervente, quasi teresiana, quasi gesuita. Bernini idea questa cosa e nel settembre 1667 vengono ordinati 10 blocchi di marmo al marmoraio Filippo Frugoni di questa importante famiglia di marmorai di Carrara. Vengono ordinati di settembre e i patti sono i blocchi arrivino a primavera (anche questo è uno degli elementi che dobbiamo considerare quando si va a ragionare di scultura: l’approvvigionamento del marmo è anche condizionato dalla stagione). Nel frattempo Bernini non perde tempo e intanto smantella il vecchio parapetto, perché c'era un parapetto di travertino e lui lo fa smantellare e crea un parapetto di travertino alternato a delle inferriate aperte, perché per Bernini l'elemento dell’acqua è fondamentale, si deve vedere il fiume, si deve vivere il fiume, pensate a tutte le fontane che si è inventato. Quindi il ponte deve essere un momento di collegamento, non di chiusura con l’esterno, con l'atmosfera, quindi è occupato a creare i disegni di queste inferriate, quindi a creare la scenografia per i suoi angeli e per la sua processione. Poi naturalmente è impegnato a creare gli angeli, poi non li farà tutti lui. Di tutti lui fa i modelli in terracotta, fa molti disegni, studia di tutti le posizioni, le movenze, gli attributi attraverso disegni più o meno raffinati che poi si tradurranno in uno o più modelli, di alcuni angeli ci sono 6-7modelli, perché magari vuole risolvere il problema del manto, allora si vede l’angelo con il manto fatto bene, con la testa appena abbozzata, quindi comincia a lavorare sui disegni. Gian Lorenzo Bernini Soul 98-1680) | SÈ ela Schizzi per i blocchi di x [SN marmo destinati agli Angeli di Ponte Sant’ Angelo i di ) 9 inchiostro su carta, 1667 ; Archivio di Stato Camerale III fee (deeg- 13 4 Quindi Bernini dà delle indicazioni molto precise, non solo al marmoraio Filippo Frugoni che deve fornire il marmo, qui c'è questo bellissimo disegno dell'Archivio di Stato di Roma del Camerale III dove c'è scritto “alcuni pezzi di questa grandezza servirono Giovanni Lorenzo Bernini”, cioè dà la misura di come vuole il marmo, i palmi, lo spessore, l'altezza. Quindi non solo chiede dei marmi di una dimensione precisa, ma chiede anche e prescrive agli scultori di tagliare il marmo in un determinato modo, in maniera che con gli avanzi di quel marmo loro possano scolpire le parti più sporgenti, quindi le ali e gli attributi; tagliando come lui dice si arriverà alla completezza della figura, altrimenti nel blocco non ci sta. Questa raffinatezza è nascosta dagli scultori nelle ali dalle piume e riescono a nascondere questa frammentazione. Prendiamo l’Angelo con la Croce, un taglio si vede benissimo, la sommità della croce che sopravanza di molto la testa dell’angelo, quindi lì ci voleva altro marmo, quindi Bernini dice taglialo in questa maniera e con il pezzo che ti avanza fai la sommità della croce, ma ce n'è un altro: l’ala. Quest’ala è un pezzo straordinario, perché è un incastro, è come un puzzle, quindi si sostiene inserendosi e incastrandosi direttamente al marmo. Se si guardano con attenzione questi angeli mostrano delle fessure che sono servite agli scultori per aggiungere quei pezzi di marmo molto più sporgenti e che sono stati ricavati dal blocco. Domenico Guidi (1625- 1701) WII TATA marmo, 1667-1669 Roma, Ponte Sant'Angelo Ce n'è uno solo che non è stato realizzato in più parti, ma con un blocco unico senza tagli, è quello di Domenico Guidi, perché questo scultore non agisce come gli altri? Domenico Guidi sostanzialmente era allievo di Algardi, come Ferrata, ma Ferrata era uno scultore molto malleabile, lavorava indifferentemente con Algardi e con Bernini, non aveva preclusioni e i due maestri non avevano preclusione ad utilizzarlo. Guidi invece è sempre stato solo allievo di Algardi e rivendica questa sua diversità rispetto agli altri, non ha un buon rapporto con Bernini e non lavora mai nei cantieri berniniani, lavora sempre da solo, anche a scapito della sua stessa carriera. In questa occasione molto probabilmente viene chiamato, lui è toscano di Carrara, dal papa direttamente perché il papa è toscano e quindi chiede che il Guidi entri in questo contesto. Ma il Guidi deve dimostrare la sua superiorità rispetto agli altri e rispetto a Bernini. E quindi per orgoglio, e per rivendicazione della sua provenienza carrarese scolpisce l’angelo tutto in un sol blocco, c'è solo un pezzettino di giuntura che è la sommità della lancia. Come lo sappiamo? Innanzitutto dai restauri degli anni’80 che hanno visto tutte le giunture delle sculture e questa no e poi lo sappiamo perché alla fine del lavoro ci fu una vertenza fra il Bernini e il marmoraio Frugoni, perché secondo Bernini Frugoni aveva consegnato alcuni blocchi di marmo di scarsa qualità, Bernini disse al papa e alla Congregazione della Fabbrica di san Pietro di interrompere i pagamenti, dopo del tempo il Frugoni si rivolse a un notaio, li ho consegnati e nessuno si è lamentato. Vengono chiamati a testimoniare gli scultori che avevano partecipato all'impresa e tutti hanno confermato di aver ricevuto il blocco di buona qualità, di averlo tagliato come era stato detto dal sovrintendente. Quando arrivò Guidi a testimoniare, confermò di aver ricevuto il blocco di ottimo marmo, ma di non averlo tagliato come gli era stato detto, quindi ancora rivendica questa sua superiorità anche di fronte al notaio che derime questo problema del blocco di marme. A questo punto rimane capire perché i due angeli del Bernini non sono sul ponte, ma in sant’Andrea delle Fratte, ma ve lo dirò lunedì. 4° lezione: 01.03.2021 Clemente IX Rospigliosi per il cantiere di Ponte Sant'Angelo (cantiere che coinvolge diversi artisti), va a vedere gli angeli quasi conclusi. Sono così belli per lui che non possono andare sul ponte gli originali del Bernini, dunque gli commissiona due repliche che possano andare sul ponte (una la farà con Giulio Cartari, mentre l’altra con Paolo Naldini). Gli originali li vuole mandare a Pistoia, ma fallisce per la morte del papa (1667), dunque rimangono nello studio di Bernini fino alla sua morte (1680) e rimangono poi agli eredi, uno di questi li dona poi a Santa Maria delle Fratte, perché Bernini abitava nella piazza della chiesa stessa, difatti ora si trovano sull’altare. Mentre sul ponte sono due repliche. Il gusto barocco da Roma si espande poi in Europa. A inizio del ‘600, Bernini si stava formando con il padre e giunge a Roma, qui comincia a mostrare la sua precoce genialità nel lavorare il marmo. Abbiamo visto le 4 stagioni del Metropolitan di una perizia tecnica straordinaria dove è difficile comprendere dove effettivamente inizia il padre e comincia il lavoro del figlio (G.L. Bernini). Nel 1618 Bernini comincia a produrre 4 gruppi statuari, fino al 1625, le prime opere monumentali per una committenza privata, sono le prime opere autonome, in cui il figlio guida l’invenzione. I 4 famosi gruppi borghesiani, conservati alla villa Questa percezione è presente anche nei suoi contemporanei: un biografo francese, La Chambre, nel 1681 scrive che la sua Dafne è unanimemente ritenuta il suo capolavoro. Anche nella sua biografia ufficiale, di Baldinucci: un miracolo dell’arte, come un oggetto mitologico. Il prodigio della scultura nelle dita e i piedi di Dafne che si trasformano in pianta: letteratura legata alla redazione della scultura. Giuliano Finelli, scultore di Carrara e entra all’interno della bottega del Bernini, si pensa che siano sue buona parte delle foglioline. Finelli è un virtuoso del marmo, dunque è possibile che negli interventi finali abbia contribuito. Si voleva dare un po' l’idea dell’aiutante bistratto dal capo bottega, pagato pochissimo e sfruttato per i rifinimenti, fino a promettergli un’opera importante che poi vedremo ma che non farà. Difatti alla fine Finelli lascia la bottega di Bernini e si trasferisce a Napoli. L’iconografia dei gruppi non si addice a un cardinale e quando sta per finire di scolpire la scultura, il papa Gregorio XIII Boncompagni va da Bernini a vederla insieme a un corteggio di cardinali: considerata bellissima, ma solleva il problema del tema non troppo decoroso per una dimora cardinalizia. Tra il corteggio Maffeo Barberini che nel ‘25 sarebbe diventato papa Urbano VIII che adorava Bernini. Maffeo, capace di verseggiare il latino, trova la soluzione al problema dell’indecenza della figura: fa all’impronta un distico elegiaco moralizzante della scultura— l’amante che insegue il piacere in una forma che fugge si trova in mano un pugno di foglie, e coglie solo bacche amare. Talmente geniale è la lettura di Maffeo dell’opera che viene scolpito nel basamento. Bernini, quando sarà in Francia inoltre affermerà che dopo Apollo e Dafne non sia riuscito a fare qualcosa di più straordinario: Oh, quanto poco profitto ho io fatto nell’arte, mentre giovane maneggiavo il marmo in questo modo. Nel 1625 Maffeo diventa papa la via è spianata per Bernini e diventa protagonista in tutti i cantieri pontefici. L'incontro fra i due si concretizza in un matrimonio professionale. La Basilica di San Pietro è il fulcro dell’attenzione di quegli anni, perché ormai la vecchia basilica è inserita in quella muova che è un enorme reliquiario della precedente ora. È all’interno incrostata di marmi policromi in tutte le sue declinazioni. Carlo Maderno sarà architetto di San Pietro fino al 1629, anno della sua morte. Dunque il Bernini convive e lavora al contempo con Maderno per un periodo. Il problema da affrontare è la gestione dello spazio sotto la cupola. Lo spazio interno è enorme e difficilmente gestibile dalla visuale di chi entra e dunque serve un elemento che riesca ad orchestrare meglio la prospettiva. Bernini si trova in un contesto corale, perché vertono diversi artisti nel suo cantiere. Pannini realizza un dipinto dell’interno di San Pietro, con una visuale a volo di uccello: ci dà il senso di enormità che aveva già nel 1731, guardando le figure piccolissime in confronto alla struttura. Risolvere il problema della crociera vaticana. Un problema di visuale, ma è anche di natura religiosa: San Pietro è un grande reliquiario e si decide che nei 4 pilastri si ponga le reliquie dei 4 santi importanti. Ciò impone la strutturazione di questi pilastri: nella parte superiore un baldacchino con all’interno le reliquie e in quella inferiore una nicchia con la statua del santo. È un problema di teatro, corale che coinvolge la visione del baldacchino, quest’ultimo doveva aiutare chi entrava ad inquadrare lo sguardo. Il secondo problema era l’organizzazione dei pilastri: statua-reliquia. Terzo problema: deve anche pensare già alla tomba di Urbano VII. 3 macro problemi che insistono tutti sulla stessa zona della basilica. Bernini affronta dunque coralmente il problema della crociera. Bernini non ha poi pienamente campo libero perché deve dare conto anche alla Congregazione della reverenda Fabbrica che finanzia i lavori. Come struttura i pilastri: due sezioni, la superiore con una sorta di terrazzino, dove mostra l’altare con colonne tortili e un rilievo in stucco che presenta il simbolo che ci rimanda alla reliquia del santo e all’interno della porta vi è la reliquia; mentre di sotto una nicchia con la raffigurazione del santo corrispondente. Vi è un rimando tra le due. La statua è monumentale, è più di tre metri di altezza dunque si poneva anche una questione di tipo ingegneristico e di statica soprattutto: si doveva scavare una nicchia tale da ospitare la monumentale statua nei pilastri che reggevano la cupola. Difatti Bernini venne molto critica per questa scelta. Era necessario individuare 4 scultori: la Congregazione individua altri tre scultori, oltre a Bernini> San Longino (Bernini), Sant’ Andrea (Du Quesnoy), Santa Veronica (Mochi), Sant'Elena (Andrea Bolgi) I pilastri pone oltretutto un problema di confronto fra gli scultori: la Sant'Elena di Bolgi era in realtà promessa a Finelli, doveva eseguirla lui inizialmente. Ma probabilmente Bernini teme il confronto con il suo bravissimo allievo e la dà Bolgi, sempre suo allievo ma più gestibile: la sua Sant'Elena non è la miglior riuscita fra le altre, perché ancora acerbo agli insegnamenti del maestro. Altro problema: il Sant’ Andrea doveva andare al posto della Sant'Elena di Bolgi: difatti la nicchie della Sant'Elena e della Santa Veronica erano privilegiate perché entrando da San Pietro erano le prime che si vedevano. La Congregazione decide all’ultimo di scambiare le due reliquie. Du Quesnoy la prende come una presa di posizione da parte di Bernini che no voleva rivaleggiare difronte al suo allievo, ma non era così. Il Sant'Andrea di Du Quesnoy (scritto così per una biografia che ne va Boudon): scultore fiammingo e che si trova per la prima in una dimensione così gigantesca. Secondo Bellori ha riportato alla vita moderna la scultura antica, supera chiunque. Nello stesso anno in cui inizia a lavorare per il santo, gli viene commissionata quella che poi è la sua opera più famosa: la Santa Susanna per la chiesa di Santa Maria di Loreto (davanti all’altare della Patria). Diventa da subito il paradigma della santa vestita, perché è la perfezione assoluta. È uno scultore classicista e fa riferimento alla scultura di Urania collocata già al tempo nel Campidoglio. È amata per la compostezza del gesto e l’inclinazione del volto e in contrapposto alla mano che indica all’altare: finissimo e delicato gioco di contrapposti. Prodigio della scultura moderna ma sulla falsa riga dell’antico. Giovanni Bellori, stravede per Du Quesnoy, fa un ecsfrasis, ovvero la descrizione dell’opera, che diventa un brano a sé, lunghissima e ci fa capire quali sono i punti su cui gioca [legge l’ecsfrasis, vedi slide]: presenta un panneggio garbato che segue l'andamento della figura, è una scultura antica perché gentile e delicata e al tempo in cui scrive ancora non c’è nessuno che l’avesse eguagliato (scrive trent'anni dopo che fil eseguita, negli anni ‘80). Antichità che diventa moderna grazie a Du Quesnoy. Santa Bibiana di Bernini del 1624-26: concezione completamente diversa anche se simili (vestita, stante in una nicchia). Per Bernini è importante l’estasi dato dall’incontro col santo padre, il momento più intenso. Forza espressiva di un’estasi mistica e sensuale. A enfatizzare questo dolore e piacere mistico utilizza il panneggiamento, che non segue la figura: è pieno di vita propria, sconnesso dalla figura stessa, ha una forza ed elettricità interiore. Lezione V — Arte Moderna (3 marzo) Riprendiamo dalla crociera di San Pietro, dove ci eravamo lasciati la scorsa lezione, ripartiamo dal ragionando sulle quattro sculture. Alla fine della scorsa lezione, ci eravamo soffermati sulla prima delle quattro sculture, ovvero il Sant'Andrea di Francois Du Quesnoy. Avevamo visto un po’ le modalità con cui questi scultori venivano selezionati e anche il problema relativo alla posizione delle opere. Soffermandoci anche sul fatto che alcuni piloni fossero più ambiti rispetto ad altri proprio perché erano direttamente visibili dalla navata. Sant'Andrea — Francois Du Quesnoy (1629-1639): Quando l'artista si trova sostanzialmente retrocesso, perché la Sant'Elena e le sue reliquie cambiano pilone e giungono nella nicchia affidata precedentemente all’artista in S. Pietro, Du Quesnoy prende questo spostamento come un'offesa e questo “premio finale’? perché la sua scultura sarà dedicata a uno dei piloni principali grazie all’arrivo, da Santa Croce in Gerusalemme, della reliquia della Vera Croce. Andrea Bogli era uno degli allievi, dei collaboratori più stretti di Gian Lorenzo Bernini. Originario di Carrara e quindi grande esegeta e lavoratore del marmo, al momento della commissione aveva soltanto 23 anni. Indubbiamente questa è una promozione sul campo molto precoce per uno sculture ancora un po’ acerbo il quale possedeva una grande abilità tecnica ma forse non ancora pienamente capace di gestire un’opera così monumentale. È anche un pochino rischioso per un artista come Andrea Bolgi, più inesperto degli altri, esporsi a confronto diretto con grandi maestri come Bernini, Mochi e Du Quesnoy. Questa commissione risultava come un salto nel buio sia per chi lo aveva scelto sia per lui stesso che doveva dimostrare il meglio della sua arte. La scelta di Andrea Bolgi rinfocola molto la scena anti-berniniana, soprattutto da parte di Giuliano Finelli, di cui abbiamo parlato in riferimento all’Apollo e Dafne a Villa Borghese e sappiamo dalle fonti che fu notato da Bernini. Sappiamo anche che Finelli lavora con Bernini, che viene tenuto a pane e acqua, che viene pagato pochi scudi a settimana e che quindi in qualche modo viene tenuto sotto controllo da Bernini, che non è uno stupido e riconosce la bravura dell’artista. Finelli è un virtuoso, è un artista sopraffino e esporlo, concedergli un palcoscenico troppo grande potrebbe forse mettere in difficoltà anche un'artista come Bernini. Bernini però promette a Finelli una commissione importante, facendogli intravedere la possibilità di lavorare nella Crociera di San Pietro, come abbiamo visto non sceglie Bernini gli scultori ma la Congregazione della Reverenda Fabbrica. Bernini è il capo cantiere, si lascia una scultura per sé ma è la Congregazione che sceglie gli altri, naturalmente lui può aver suggerito qualche nome, ma la decisione non spetta a lui. Bernini però promette a Finelli un’opera nella Crociera e questo ci viene testimoniato da Passeri il quale scrive “promette di portarlo a baciare i piedi del Papa” e dopo questa consacrazione avrebbe avuto la scultura. Questa promessa rimane solo sulla carta, infatti l’opera viene poi affidata ad Andrea Bolgi. Vediamo ora il passo che riporta Giovanni Battista Passeri che scrive le vite degli artisti fino al suo tempo, dal 1641 al 1673. Passeri è un anti-berniniano dichiarato, come Bellori del resto, e non lesina racconti anche sgradevoli sul maestro; mentre Baldinucci e Domenico Bernini sono a favore dell’artista e contribuiscono alla creazione di questo mito. Nella Vita di Finelli, Passeri trasforma l’artista in una vittima sacrificale della vanità di Bernini scrivendo: “Si trattenne qualche anno sotto il comando del Cavalier Bernini, dal quale non aveva altro pagamento delle sue lunghe, ed incessanti fatiche, che dodici scudi al mese, e la tavola colla stanza; del che viveva malissimo soddisfatto. Avvedutosi il Bernini, che egli stava seco così ma il contento per mortificarlo maggiormente impiegava tutto il suo parlare a favore del Bolgi, al quale diede a fare una delle quattro statue per la Chiesa di $. Pietro di Roma [...] benché avesse promesso al Finelli di consegnargliene una [...]?®. (Passeri, Vite de’ pittori, scultori ed architetti che hanno lavorato n Roma: morti dal 1641 al 1673.) Passeri ci spiega che Bernini lasciava a Finelli un piccolo ambiente dove vivere e 12 scudi al mese, che sono molto pochi. Basti pensare al fatto che una delle prime opere realizzate da Bernini, l’Anchise e Enea, fu pagata 350 scudi, mentre Apollo e Dafne 1000 scudi. Passeri inoltre scrive chiaramente che Bernini promise un’opera al Finelli ma che non gliela assegnò mai, privilegiando l’altro allievo. Ma c’è di più. Finelli vedendosi privato di una grande commissione si deve industriare per riuscire a sopravvivere, perché evidentemente 12 scudi al mese non gli bastano. Finelli era originario di Carrara. Come abbiamo visto molto spesso questi scultori, oltre a lavorare delle loro prodezze con lo scalpello, continuano a mantenere rapporti con le loro città facendo da intermediari per la vendita del marmo, Finelli intraprende proprio questo lavoro. Finelli si mette in società con un altro venditore di marmo per vendere i blocchi necessari alla realizzazione dei piedistalli del baldacchino di S. Pietro. Il baldacchino è tutto in bronzo anche se imposta su degli importanti piedistalli marmorei. “Dovendosi fare li quattro piedistalli delle colonne del Ciborio di marmo fino statuario, ne ebbe l’incombenza Domenico Marconi, col quale entrò compagno Giuliano. Giunti a Roma li marmi, e saputosi il Bernini che il Finelli era a parte di questo negozio, non volle, che detti marmi fossero pagati a quel prezzo già stabilito, quando furono ordinati, e si era fermato il patto a 24 scudi la Carrata, li fece solo pagare 18, e questa fu la cagione ultima, che Giuliano sdegnato si allontanò dalla sua pratica” (Passeri, Vie de’ pittori, scultori ed architetti che hanno lavorato in Roma: morti dal 1641 al 1673.) Domenico Marconi, insieme ai Frugoni, è uno dei principali venditori di marmo di Roma e Finelli stringe una sorta di societas con Marconi per il fornimento del marmo di questa impresa. Al momento del contratto si stabilisce il prezzo di 24 scudi la carrata, nel momento in cui Bernini viene a sapere che in questa società c'è anche Finelli, il quale aveva preso le distanze dall’artista, gli fa subito uno sgarbo, abbassando il prezzo delle carrate a 18 scudi. Dopo di ciò Finelli lasciò definitivamente la bottega di Bernini intraprendendo una carriera autonoma. Capiamo la difficoltà di un'artista valente e bravissimo, come Finelli, che si ritrova a cercare delle committenze in una città dove grava il peso della figura di Bernini, che ha credito presso chiunque e che di conseguenza può bloccare qualsiasi operazione e commissione. Da questo segue che Finelli si ritrova in un contesto molto complicato, ecco perché Finelli, e anche Bolgi in seguito, deciderà di andare a lavorare a Napoli, luogo dove avrà maggiori possibilità di lavoro e minori interferenze. Vediamo adesso i Piedistalli del Ciborio di $. Pietro. I pilastroni sui quali poggiano le colonne tortili del baldacchino sono alti più di una persona e sono sull’ordine dei 2 metri e mezzo/3 metri, quindi la quantità di marmo utilizzata era moltissima, considerando poi tutta la parte scultorea, le armi Barberini con le chiavi di San Pietro che erano delle vere e proprie sculture. La quantità di marmo che la Reverenda Fabbrica richiede a Domenico Marconi e a Finelli era particolarmente cospicua e decurtando a ciascuna catrata diversi scudi il danno economico fu enorme. Finelli costituiva per Bernini un qualche elemento di disturbo, cerchiamo di capirne meglio il motivo. Bernini non aveva paura di Finelli in quanto artista ma indubbiamente uno scultore della qualità di Finelli era più comodo a Bernini come sottoposto che come artista autonomo. Per capire a quale perizia tecnica può arrivare l’arte di Finelli analizziamo busti in marmo, in quanto la sua arte eccelle particolarmente nelle opere a grandezza umana. La grazia e la finezza da orafo è particolarmente leggibile in opere che presentano una grandezza da studio, da esposizione in una galleria. Maria Barberini Duglioli — Giuliano Finelli (1627 ca.): Maria Barberini Duglioli era la nipote del Papa, la nipote di Urbano VIIL Questo ritratto viene commissionato a Finelli nel 1626. La Duglioli si era sposata l’anno prima con il bolognese Tolomeo Duglioli e poco dopo il matrimonio era morta di parto. Il ritratto che fa Finelli è postumo, ritraendo la Barberini Duglioli non dal vivo, perché si era trasferita a Bologna, ma da un ritratto. Ritrarre da un ritratto per uno scultore è abbastanza frequente, vedremo più avanti, un caso di esportazione del barocco romano in Inghilterra dove Carlo I d'Inghilterra si fa ritrarre da Bernini il quale lavorando in esclusiva per il Papa non poteva spostarsi da Roma. Quindi per ritrarre il Re utilizza un ritratto di Van Dyck, che era il ritrattista di corte di Carlo I, che presenta il sovrano in tre posizioni distinte: frontale, di profilo e di tre quarti; in modo da fornire allo scultore tutte le coordinate necessarie per l’esecuzione di un ritratto. Ritrarre da un ritratto non è auspicabile ma in alcuni casi si fa. La straordinarietà del ritratto di Finelli non parte dall’espressività del soggetto. C’è un aspetto un po’ bambinesco, un po’ ingenuo dovuto alla gioventù della donna ma anche al fatto che Finelli utilizzò un'immagine già tradotta dal reale in pittura e che quindi non presenta la freschezza e l’espressività di un ritratto dal vero. Ciò che ci colpisce in questo ritratto è però la gorgiera che si presenta come una nuvola che si autosostiene che dimostra un lavoro di trapano che potremmo definire di cesello. Finelli qui usa gli strumenti di un orafo, arrivando a traforare il marmo in una maniera così sottile, così fine che crea una trina vera e propria ma in marmo, senza spezzarlo, senza corromperlo. Capiamo come la grandezza tecnica raggiunta da Finelli tocca vette impossibili, quasi finte tanto è straordinario. Tant'è che questo busto per lunghissimo tempo fu attribuito a Bernini, proprio per quella “confusione di mani” che c’era all’inizio nella bottega berniniana. Questa confusione l’abbiamo vista tra Bernini padre e Bernini figlio, una volta uscito dalla sfera dello stile paterno Bernini entra in un’altra sfera quella della fusione con Finelli. L’ attribuzione a Finelli è molto recente ed è dovuta a due mostre che si sono tenute a poca distanza (2010 ca.) La prima al Getty di Los Angeles che si chiamava “Speaking likeness”, ed era una mostra dedicata proprio alla ritrattistica berniniana; La seconda al Bargello di Firenze che si chiamava “I marmi vivi”. Entrambe le mostre sono state curate da Andrea Bacchi, quella di Los Angeles con l’aiuto di Catherine Hess mentre quella di Firenze con Tommaso Montanari e Beatrice Paolozzi Strozzi. Grazie a queste mostre e a una maggiore ricerca documentaria si è potuto assegnare quest'opera a Giuliano Finelli. Notiamo la spilla di Maria Barberini Duglioli che presenta l’ape dei Barberini, i capelli che sono anch'essi una trina raggiungono una qualità tecnica mai raggiunta sino a questo momento. Questo busto diventa subito una delle “meraviglie di Roma”. Nicodemo Tessin, architetto svedese che viene a Roma negli anni ’80 del ‘600, richiamato dalla presenza di Cristina di Svezia, vedendo il busto a palazzo Barberini scrive delle bellissime pagine e si interroga su come Finelli abbia raggiunto questa raffinatezza tecnica lavorando il marmo senza romperlo. È chiaro quindi che uno scultore di questa qualità poteva mettere un po’ di disagio a Bernini. Michelangelo Buonarroti il giovane — Giuliano Finelli (1630): Michelangelo Buonarroti il giovane era il pronipote di Michelangelo, oggi noto per il riallestimento di Casa Buonarroti, luogo in cui è conservato questo ritratto, che intraprende intorno al 1612. Michelangelo Buonarroti il giovane è importante anche perché è in contatto con i grandi artisti della sua epoca, è amico di Pietro da Cortona ed è probabilmente lui a metterlo in contatto con Finelli. Michelangelo Buonarroti il giovane è anche molto amico di Maffeo Barberini, ecco perché frequenta Roma e i suoi circoli; cogliendo l’occasione, all’alba dell'elezione di Maffeo Barberini al soglio pontificio come Papa Urbano VIII, si reca in città anche perché sa che se vuole un ritratto alla moda lo può trovare solo a Roma. E grazie al suggerimento di Pietro da Cortona entra in contatto con Giuliano Finelli. Siamo nel 1630, a Finelli è stata rifiutata da un anno la commissione in S. Pietro ed è quindi alla ricerca di affrancamento e fare un ritratto a una personalità così importante è un ottimo motivo per mostrare le sue qualità. Dunque, accetta di buon grado di realizzare questa scultura, a differenza del busto di Maria Barberini Duglioli, può vedere il soggetto dal vivo, lo può studiare e traduce le sembianze di questo panneggio risponde più ai canoni belloriani di “panneggio arrendevole”, che in qualche modo ci fa capire la figura sottostante. Se poi mettiamo a confronto la figura di Matilde di Canossa con Sant'Elena vediamo come, anche qui, la Sant'Elena rispecchi questo momento della scultura berniniana di maggiore delicatezza dell'espressione della forma e come Bolgi, in qualche modo, risponda a tutte le richieste di Bernini. Ne risponde con i limiti e con gli strumenti, del giovane arista qual è. Per far comprendere meglio i limiti di Bogli è interessante vedere più da vicino il volto della santa. Vediamo come l’espressione non sia completamente risolta, un po’ interrogativa, un’espressione forse riproposta dall’artista in riferimento a sé stesso. L’espressione è un po’ “fessa”’, vero è che il gigantismo dell’opera non ci permette di comprendere, da terra, questa vacuità dello sguardo. Guardando i capelli della santa sono molto schematici, sembrano quasi fatti in serie. Per Bolgi questo è un momento di grande emersione artistica, è un momento di grande difficoltà, ma anche per lui, dopo questa scultura, inizia un momento di affrancamento dalla bottega berniniana e comincia a ricevere delle commissioni autonome. La differenza tra quest'opera e quelle che realizzerà successivamente è possibile vederla in San Pietro. Perché in San Pietro, in questo grande cantiere decorativo che aveva bisogno di centinaia di artisti per ricoprire di marmo tutte le supertici della basilica, si decorano gli arconi tra la navata centrale e la navata laterale. Tra questi arconi c’è anche quello della prima cappella a sinistra, che è la Cappella del Battesimo, una delle più importanti dove verrà posto il fonte battesimale. Su questi arconi viene chiamato Andrea Bolgi ad eseguire due figure: la Giustizia Divina e la Religione. Sono figure in stucco, anche queste monumentali, ma possiamo notare un’enorme differenza tra queste due figure e la Sant'Elena. La Giustizia e la Religione sono molto più mosse, molto più drammatiche, la vacuità dello sguardo di Sant'Elena è assolutamente persa. Ed è mosso e drammatico, queste sono sculture molto alte, proprio per dare a queste sculture una visibilità e una forza espressiva che altrimenti non si sarebbero potute vedere da terra. Queste sculture in stucco, Bolgi le realizza all’incirca una ventina d'anni dopo la Sant'Elena, dimostrando quindi una forza e un’autonomia stilistica estremamente vivace, soprattutto nell’Ecclesia. Sono forse l’espressione più individuale, più autonoma, più originale della scultura di Andrea Bolgi proprio perché le rende vive e piene di pathos, nonostante la distanza da terra. Quando le operazioni sono finite le vede il Papa, a questo punto il Papa non è più Urbano VIII, ma è Innocenzo X Panphilj il quale probabilmente influenzato da Bernini decide di distruggere le due opere, fortunatamente però non si asseconda questa decisione del Papa e le sculture rimangono nell’arcone della Cappella del Battesimo. E allora Lione Pascoli, che è anche lui un esegeta un po’ anti-berniniano, nella Vita di Andrea Bolgi ci riporta questa vicenda scrivendo: “Né si presto si sazia, e si smorza l’ingordo fuoco dell’invidia che non si stenda a divorar colle velenose fiamme che una volta a perseguitare intraprese”. In questo passo pascoli ci dice che il fuoco dell’invidia non si ferma mai, quando comincia a divampare vuole sempre andare avanti e bruciare tutto quello che trova. Naturalmente il soggetto di questo fuoco è facilmente interpretabile. In un dettaglio dell’Ecclesia è possibile vedere meglio quanto sia forte il piglio della figura, quanto Andrea Bogli si sia affrancato da quell'immagine di artista giovane e sia riuscito a raggiungere un livello di autonomia espressiva, indubbiamente, di grande qualità. Anche Andrea Bolgi dopo questa esperienza autonoma in San Pietro lascia Roma, preferisce lasciare Roma per andare a lavorare a Napoli. A Napoli vediamo come l’arte di Bolgi esploda, mostrando una qualità tecnica veramente straordinaria. Bolgi è bravo a fare i busti, a fare ritratti, a fare opere non particolarmente monumentali. In riferimento a questo è interessante osservare nella Cappella de Caro — Cacace, in S. Lorenzo Maggiore a Napoli. A Napoli la decorazione marmorea delle cappelle è di una ricchezza sopraffina, molto diversa da quella romana, qui prevale ancora il gusto per l’intarsio, per i marmi policromi e la Cappella de Caro — Cacace è uno degli esempi massimi di questo perdurare di un gusto che a Roma comincia a decadere all’inizio del ‘600. In questa cappella sono presenti i ritratti dei de Caro — Cacace che sono proprio la massima espressione della ritrattistica della scultura napoletana del ‘600 e della ritrattistica di Andrea Bolgi. Vediamo Giuseppe de Caro a figura intera e affianco la moglie Vittoria de Caro, inginocchiati, sotto Giuseppe de Caro, Francesco Antonio de Caro, sotto la moglie Giovanni Camillo Cacace. Queste sono opere che Bolgi realizza tra il 1653 e il 1654, dando veramente sfogo alla sua creatività. Guardiamo adesso la modalità decorativa, guardiamo come la parete, non è una parete decorata alla maniera romana. A Roma in questi anni le pareti si decorano con lastre di marmi policromi, quindi un colore a cui si dà una tonalità, si possono scegliere due o tre colori, ma sempre si parla di lastre. A Napoli al contrario continua il gusto decorativo dell’intarsio, del commesso marmoreo che crea infiorescenze, volute vegetali, volute floreali, un gusto che aveva una modalità tecnica che a Roma trova la sua massima espressione tra il tardo manierismo e l’inizio del barocco; diciamo che a partire dagli anni ‘30 una cosa così a Roma non si vede più, invece a Napoli prevale. Prevale per il preziosismo perché in questo caso vediamo il lapislazzulo, l’onice, tutti materiali preziosi e costosi. Questo per quanto riguarda la parete, come la Cappella de Caro — Cacace a Napoli è possibile vederne molte. In questa straordinaria cornice si inserisce la scultura, quindi si ritaglia un ovale, che ha una profondità ridottissima, e si inserisce una scultura che è una sorta di bassorilievo aggettante, in questo si riconosce la bravura dell’artista, ovvero di far emergere un aggetto in una scultura che non è propriamente a tutto — tondo. Bellissima l’idea di questa sorta di inginocchiatoio, che avrebbe imposto le figure di profilo ma che Bolgi risolve con un inginocchiatoio a metà, dove addirittura Giuseppe de Caro tiene una gamba sull’inginocchiatoio e una a terra per sostenersi. Vediamo in queste opere Bolgi si diverta a far ondeggiare queste vesti, se vogliamo il mantello di Vittoria de Caro è molto berniniano, va per conto suo, ci dà il senso di una religiosità molto fervente. E altrettanto ferventi e raffinate sono le soluzioni dei due ritratti sottostanti, soprattutto il ritratto di Giovanni Camillo Cacace è un ritratto in cui Bolgi arriva a delle raffinatezze nel cesellare il marmo nei baffi e nella sparuta capigliatura degni di un Finelli, però questo lo fa quando arriva a Napoli, quando in qualche maniera si è liberato del “giogo” berniniano e quindi può esprimersi in tutta la sua potenzialità. Vedere un artista, non soltanto considerando la sua opera principale, fa capire che un artista e una cosa più sfaccettata. È chiaro che non si può di tutti seguire la carriera, ma potendola approfondire è sempre cercare di andare oltre la prima impressione. Chiudiamo la lezione con l’opera che nella Crociera più dà da pensare: Santa Veronica — Francesco Mochi (1629-1639): Abbiamo visto come Mochi sia uno scultore che a Matfeo Barberini, Urbano VIII, piacesse molto. Quindi Mochi nella Crociera di S. Pietro c’è e Bernini se lo deve tenere. Mochi in questa scultura fa vedere che lui è capace, che sa fare di scalpello, che sa fare di marmo, che lavora con agevolezza anche una scultura monumentale. E vedremo come la polemica Mochi Bernini in questo contesto, sia una polemica molto forte. Molto forte proprio sulla questione dello spazio e sul trattamento del marmo, perché Mochi e Bernini hanno due idee completamente diverse. Lezione 6 di storia dell’arte moderna Professor Cristiano Giometti. 5 marzo 2021 Francesco Mochi, Santa Veronica, 1629-1639, marmo, Basilica di San Pietro in Vaticano: Francesco Mochi è uno scultore di grande talento che Bernini si ritrova in questo cantiere in cui vorrebbe primeggiare e in cui indubbiamente primeggia, ma primeggia in un contesto corale. La scelta di Mochi è una scelta sicuramente suggerita anche dal pontefice, quale pontefice quando era cardinale con il nome di Maffeo Barberini aveva un'altissima predilezione per Francesco Mochi. La sua presenza all’interno di questo cantiere è indubbiamente una scelta della Congregazione della Reverenda Fabbrica di San Pietro, ma è anche una scelta suggerita dal Papa. Francesco Mochi torna a Roma dopo un lungo periodi assenza perché Mochi era stato per quasi un decennio a Piacenza, dove aveva lavorato alle due bellissime sculture bronzee dei cavalli di Piazza Cavalli. Mochi è sempre stato uno scultore protetto dalla famiglia Farnese, sin dalla sua gioventù, quasi certamente le commissioni che Mochi vince ad Orvieto sono certamente suggerite e volute anche dalla famiglia Farnese. Mochi ha infatti un legame molto stretto con i Farnese, così come lo ha stretto con i Barberini. Mochi, prima di partire per Piacenza inizia a realizzare la figura della Santa Marta nella cappella Barberini in Sant'Andrea della Valle, quindi ha un legame con il papa regnante, ma anche un legame tradizionale con la famiglia Farnese. Queste due statue equestri dei Farnese a cavallo le va a realizzare a Piacenza perché sono sculture monumentali e dunque ha bisogno di stare a Piacenza per gestire anche tutte le complicatissime fasi della fusione. Quando torna da Piacenza Mochi completa la statua della Santa Marta per la cappella Barberini e viene incaricato nel 1629 insieme a tutti gli altri scultori di eseguire una scultura per la crociera di San Pietro. Bernini avrebbe ben volentieri evitato la presenza del Mochi, ma non era lui a decidere i nomi degli artisti e dunque si rimette alle volontà della Reverenda Fabbrica. Naturalmente Mochi fa un’operazione assolutamente autonoma, non cerca il confronto, non è sottomesso all'invio e alla elaborazione di modelli da parte di Bernini, perché è un grande scultore protetto dal pontefice. Lavora in assoluta autonomia con una scansione temporale assai simile a quella degli altri scultori, impiegherà anche lui circa dieci anni per realizzare la sua Santa Veronica. Noi sappiamo che Mochi realizza il modello in grande, come tutti i suoi colleghi nel 1631, quindi nello stesso anno questo modello in grande in stucco viene posto nel nicchione e inizierà a lavorare il marmo con un poco di ritardo. Ci aspetteremmo che dopo il 1631 lui inizi subito ad aggredire i blocchi di marmo, lo farà soltanto nel 1635, quindi a quattro anni di distanza. Nonostante questa dilazione nell’inizio del lavoro del marmo, la sua scultura nel 1639 sarà completata e sarà portata in Basilica ed esposta regolarmente. Quando l’opera è pronta ottiene il plauso di Papa Urbano VIII, che ne è entusiasta. Vi è addirittura un avviso di Roma che ci parla della visita del pontefice in San Pietro. Gli avvisi sono una delle fonti che ci testimoniano la vita quotidiana di Roma, questi sono una sorta di agenzia ANSA che venivano fatti dagli ambasciatori delle nazioni straniere che risiedevano a Roma e che tramite gli avvisi davano le informazioni sulle cose più importanti che avvenivano in città. Urbano VIII si ferma davanti alla Veronica e ne elogia la straordinaria fattura. Mentre riceve l’elogio del pontefice Mochi riceve anche qualche critica proveniente da un personaggio che non ci saremmo mai aspettati, perché è uno storiografo anti-berniniano, ossia Giovanni Battista Passeri. Passeri in altri casi ha elogiato le sculture di Francesco Mochi, ma in questo caso fa una critica, perché secondo lui questa scultura mistifica il significato stesso della parola statua. Lui va a toccare il significato etimologico della parola statua che significa stare fermo, quindi implica qualcosa di statico. La Santa Veronica si capisce che non può essere statica, Joachim Von Sandrart era un pittore tedesco che venne a Roma negli anni ‘30 del 1600 per studiare e che scriverà la sua autobiografia, ritornato una volta in patria, darà molte informazioni importantissime in merito alla vita artistica della città in quegli anni. Von Sandrart ci racconta di essere stato nello studio di Bernini proprio mentre il maestro stava lavorando alla figura del San Longino e ci dice di aver visto sulle scansie dello studio ben 22 modelli preparatori del San Longino. Sappiamo quanto Bernini utilizzi la terracotta per i suoi modelli preparatori, così come un pittore utilizzerebbe dei disegni preparatori. Bernini attraverso la lavorazione dei modelli in terracotta studia le varie parti della figura, studia la testa, il panneggio, studia i singoli elementi compositivi di un’opera su di un materiale che è il suo ectoplasma, e questo spiega il gran numero di modelli con ciascuno vari gradi di nitidezza. Di questi 22 modelli ne sono sopravvissuti solo 2. La scultura del San Longino presenta un trattamento superficiale estremamente diverso da quello che fa Mochi, inoltre Bernini usa più blocchi di marmo per la realizzazione del San Longino e c'è un punto sotto il drappeggio a metà del busto sull’anca, dove la giuntura si vede, ma si vede perché la fotografia riprende la scultura da un punto di vista svantaggiato: Bernini sapeva che in un punto di vista tradizionale la giuntura non si sarebbe vista. Modello in terracotta del San Longino, Fogg Art Museum di Cambridge, Massachusetts: ha una particolarità, perché è dorata. Le terracotte venivano dorate perché a un certo punto queste divengono un elemento da collezione, si donano e per donarle si dorano. Bernini o i suoi eredi l'avranno donata a qualcuno di importante, ma prima di donarla l'hanno fatta dorare. Questa terracotta ci fa vedere il momento in cui Bernini studiava la soluzione del panneggio, la resa di esso con il braccio aperto, mentre il volto è approssimato, quindi viene da pensare che la testa sia stata studiata più approfonditamente in un altro modello. Ricomposizione del modello in terracotta per il San Longino, Palazzo Braschi, Roma: è stata scoperta negli anni ‘90 perché nel pieno centro di Roma, in occasione di una serie di scavi hanno trovato la fornace di un formatore. Il formatore era un personaggio che cuoceva le terracotte per conto di altri e che formava quindi questi modelli nella propria fornace. Bernini deve aver portato questa scultura al formatore Francesco Antonio Fontana, il quale cuoce la scultura del Bernini, che non si sa come rimane all’interno di questa fornace, quindi per questa ragione negli anni ‘90 hanno ritrovato tanti pezzi di terracotte, tra cui anche i lacerti del San Longino che è stato poi ricomposto al museo di Roma in Palazzo Braschi. Gian Lorenzo Bernini (1598-1680), San Longino, 1629-1638, marmo, Basilica di San Pietro in Vaticano: Come Du Quesnoy anche Bernini usa più blocchi di marmo, Bernini ne usa quattro, come Du Quesnoy questo gesto magniloquente, questa apertura delle braccia fa sì che Bernini abbia bisogno di più blocchi. Il gesto magniloquente è anche una necessità dovuta alla posizione del santo all’interno del cantiere, infatti il San Longino si trova in una delle nicchie che guardano verso l’abside e non verso la navata, quindi in qualche modo Bernini doveva attrarre l’attenzione del fedele che stava arrivando nella crociera, facendo in modo che questo di girasse per ammirarlo. Dando così al San Longino questo gesto magniloquente che esonda anche dalla nicchia, Bernini fa sì che l’attenzione di chi procedeva nella navata venisse catturata. Un ulteriore problema è quello del trattamento superficiale di questa scultura. Le sculture, i nicchioni, sono sotto la cupola di Michelangelo e ricevono la luce direttamente dalla cupola michelangiolesca. Le sculture, quindi hanno una luce che cambia durante la giornata, in alcuni momenti queste saranno completamente illuminate, in altri momenti queste saranno in ombra, in altri momenti queste non avranno nessuna fonte di luce se non la vibrazione delle candele accese sotto l’altare del rispettivo santo. L'aspetto della luce è fondamentale per Bernini, non rinuncia a sfondare pareti o a nascondere finestre per fare arrivare luce alle sue sculture. Non potendo giocare sulla direzionalità della luce, gioca però sulla superficie della scultura. Vuole aumentare l’effetto luministico, vuole fare sì che quando vi è poca luce, questa si insinui, sfiori, accarezzi la scultura valorizzandola al massimo grado. Esalta, come se fosse un pittore, nel modo migliore la superficie e la varietà della superficie. Particolare della mano del San Longino: la mano è tutta striata con la gradina, ossia questa sorta di scalpello appuntito con cui si fanno le striature, la usa molto anche Michelangelo stesso. Se noi vediamo i prigioni di Michelangelo dell’Accademia, nelle parti di marmo lasciate incompiute, vi sono tutte delle striature fatte con la gradina. Bernini prende una gradina e inizia a creare questa rigatura su tutte le dita della mano, sul pollice, sul palmo, anche sul polso. Chiaramente Bernini non esegue delle striature tutte uguali, le fa più grosse dove la figura si allarga e più sottili sulla pelle. Se noi la vediamo da una certa distanza questo trattamento non lo vediamo, ma è un modo per rendere la figura ancora più vibrante di fronte all’inondazione della luce. Se noi osserviamo il pollice del Longino ci accorgiamo come l'andamento delle linee non è uniforme, fino alla falange sono linee parallele, che poi diventano orizzontali, che poi diventano verticali nel palmo del pollice. Un punto della mano su cui normalmente uno non si sofferma a guardare, ma resta comunque un elemento molto drammatico, perché la mano è aperta. Bernini studia questa variazione anche in relazione alle fonti di luce nelle varie ore del giorno e cambia l'andamento della striatura. Ecco perché la polemica di Mochi. La scultura di Bernini, a differenza di quella del Mochi, doveva essere spolverata, in questa superficie che diviene quasi rugosa, perché Bernini consapevolmente non la lustra. | quattro artisti che lavorano a questo cantiere arrivano quindi a delle soluzioni personali, diverse tra loro e talvolta anche antitetiche. Monumento funebre di papa Urbano VIII, Basilica di San Pietro. Il cantiere delle statue della crociera è molto complesso nella gestione e nei lavori. Sono dieci anni di lavori. Bernini in questi anni non lavora solo al San Longino e gestisce i lavori per la Sant'Elena, ma lavora anche al baldacchino e lavora anche all'altra grande commissione del suo mecenate principale, il papa Maffeo Barberini, ossia il suo monumento funebre. Maffeo, come spesso accade, il giorno stesso in cui diviene Papa chiede al suo scultore di pensare al suo monumento funebre. La tomba di Urbano VIII nasce con il suo pontificato ed è un cantiere che prenderà molto tempo a Bernini sia per la sua realizzazione che per la sua ideazione. Quando viene commissionata la scultura e si insedia Urbano VIII San Pietro viene riconsacrata, quindi la riconsacrazione della basilica terminata a seguito dei lavori ultracentenari avviene proprio nel 1626 da parte di Urbano VIII, il quale sceglie di porre la sua tomba all’interno di San Pietro. Questa non è una scelta peregrina, perché molto spesso le tombe dei papi generalmente non avevano la tomba in San Pietro, per esempio Papa Paolo V Borghese aveva una cappella in Santa Maria Maggiore e la sua tomba è in Santa Maria Maggiore nella cappella Paolina. Spesso assistiamo a presenze di tombe dei pontefici al di fuori di San Pietro: con Urbano VIII si ripropugna la centralità di San Pietro, chiesa principe della cristianità, dove dunque anche il pontefice torna ad essere sepolto. È un’affermazione forte da parte del pontefice, ma è un'affermazione forte anche da parte di Bernini, che nell’arco di pochissimi anni lavora per lo stesso contesto in ben tre operazioni, tutte e tre estremamente importanti e grandi. Anche in questo caso Bernini lavora accompagnato da una schiera di collaboratori, è la classica “Bernini’s sculpture not by Bernini”, in cui tutto è berniniano, anche i collaboratori che rispondono alle richieste di uno stile perfettamente coerente, che è lo stile del maestro. È l’opera più problematica, perché benché venga commissionata, quasi per prima, nel 1625-26, all'indomani dell’elezione al soglio pontificio di Urbano VIII, verrà ultimata solo nel 1647, quando ormai Urbano era morto, quindi lui era morto senza vedere la sua tomba finita, fatto singolare ma non infrequente peri pontefici. Uno dei grandi problemi di questa tomba è la collocazione: Urbano la voleva mettere nella nicchia dove sta ora, dove vi era al tempo il Monumento funebre di Paolo Ill Farnese, ideato da Guglielmo della Porta. Paolo III, Papa del Concilio di Trento, Papa importantissimo di una famiglia di rilievo, decide anche lui di farsi fare la tomba in San Pietro e sceglie come scultore Guglielmo Della Porta. Guglielmo della Porta è uno scultore di Milano che si è formato nel cantiere del Duomo di Milano, un cantiere scultoreo che prosegue dal gotico fino al 1800. Si forma quindi nelle taglie di scalpellini del Duomo di Milano, per poi traferirsi a Genova, dove lavora al Duomo. Il Duomo di Genova è uno dei luoghi più belli in assoluto per lo studio della scultura. Guglielmo della Porta si forma in un ambiente bambaiesco, elegante, anche per certi versi goticheggiante, lombardo, ma quando arriva a Genova, dopo la diaspora degli artisti avvenuta in occasione del Sacco di Roma del 1527, arriva Perin del Vaga. Perin del Vaga, un allievo di Raffaello, porta la maniera moderna di Roma a Genova. A Genova Perin del Vaga dipinge la Caduta dei Giganti in Palazzo Doria, mentre la fa anche Giulio Romano a Mantova a Palazzo Te. Sempre in Palazzo Doria (Palazzo del Principe) fa una loggia con gli eroi della famiglia Doria. Gli eroi della famiglia Doria sono dipinti alla maniera romana, con una fisicità quasi michelangiolesca. Il buon Guglielmo della Porta, che arriva da Milano, si scontra con questa pittura nuova, con questo nuovo modo di concepire la figura e quindi diventa michelangiolesco ancor prima di raggiungere Roma. I lavori che fa Guglielmo della Porta a Genova nel pergolo del Battistero del Duomo di Genova sono sorprendenti e lo sono perché Guglielmo lavora con il padre. Alcune figure sono così fortemente michelangiolesche che si distaccano subito dal fare ancora elegante e tardogotico del padre. Guglielmo della Porta viene poi chiamato da Paolo IIl Farnese per realizzare la sua tomba. Paolo Ill è un papa molto pieno di sé e vuole una tomba che non insista solo su di una parete, ma che sia a tutto tondo, vuole un tempietto che sta nella navata di San Pietro: una sorta di edificio dentro un altro edificio. Per l'ideazione di questo monumento funebre ci si rifà al grande precedente michelangiolesco, ossia la Tomba di Giulio Il. Se infatti noi guardiamo uno dei disegni preparatori di Guglielmo della Porta di questo monumento vediamo come si ispiri all’idea michelangiolesca. Quando Guglielmo della Porta arriva a Roma Michelangelo era ancora vivo, Particolare della Carità: al livello pittorico nella resa della carne di questa figura un referente, anche se non diretto, potrebbe essere Rubens. è Carità di Rubens. Lezione 7 (8/03/21 Virtù, figure laterali del monumento di Urbano VIII. Questa carnosità, opulenza, sia fisica che del vestiario, se da un punto di vista del panneggio sappiamo che è usato a scopo emozionale, invece la carnosità della figura è un aspetto pittorico, ha un referente pittorico, Rubens, ma non è un referente diretto, perché Bernini non lo conosce mai di persona, conosce alcune opere dell’artista che ha visto a Roma, ma non l’ha mai conosciuto e non ha conosciuto tutta la sua opera. Rubens e Bernini sono due artisti che portano avanti una ricerca, scultorea l’uno e pittorica l’altra, analoga, i due lavorano sullo stesso tema, sulle stesse rese dell'aspetto carnoso delle figure. Nelle sculture di Bernini la resa della carne è fondamentale e questa si fa quasi colorata, mostra un’emozione, così come fanno le opere di Rubens, che utilizza il colore per dare forza e intensità alla sua espressione. Quando Rubens è in Italia (dal 1601 al 1608) Bernini era poco più che infante, ma vede le opere che Rubens ha lasciato a Roma, come in Santa Croce di Gerusalemme (abbiamo visto la Sant'Elena, ma c’erano altri tre dipinti di Rubens, tra cui un Cristo flagellato) e la sua opera più importante, l’altare maggiore di Santa Maria in Vallicella, dove Rubens inventa una gloria della vergine assistita dai santi martiri, una scenografia barocca che Bernini studia, di cui si appropria e che fa sua. Porta avanti in scultura la stessa ricerca linguistica che Rubens porta avanti in pittura, come ci dimostra il confronto con La Carità (raccolta di Pommersfelden), del 1625-27. Bernini questo dipinto non l’ha visto, così come Rubens non ha visto la Carità del monumento di Urbano VIII, che viene fatta molto dopo il suo quadro. Se li mettiamo uno accanto all’altro però sembra che i due si siano mandati i modellini della rispettiva opera, addirittura il piegamento della testa della Carità berniniana ha la stessa posizione de La Carità rubensiana. Questo confronto, scelto tra le molteplici possibilità (si poteva prendere anche Marsa de' Medici a cavallò) dimostra la forte unità di intenti di questi maestri e come la pittura di Rubens abbia lasciato una traccia indelebile nella scultura di Bernini. Il pittoricismo dell’arte berniniana è un aspetto colto vivamente anche dagli esegeti, dalla critica contemporanea. Pierre Cureau de La Chambre, primo vero biografo di Bernini (scrive una biografia di Bernini all'indomani del viaggio del maestro in Francia), porta un paragone pittorico dell’arte berniniana: paragona l’arte di Bernini alla pittura di Correggio. Quanto alla sua maniera di lavorare il marmo, si può star sicuri che il cavalier Bernini ha avuto un gusto del tutto particolare nelle sue opere di scultuza, più o meno comprensibile a quello di Correggio in pittura, avendo la stessa grazia. Pierre Cureau de La Chambre punta sull’elemento della grazia e associa la pittura di Correggio all’arte di Bernini. Correggio è uno degli autori preferiti di Rubens, che quando viene in Italia studia molto la sua arte. Correggio ha dei guizzi di luce, basti pensare a I/ giorro e la notte (Adorazione dei pastor), Giove e Io, in cui la nuvola abbraccia Io di spalle, in cui ci sono giochi di costruzione dell’immagine e di uso della luce che a Rubens interessano molto. Citando Correggio in qualche modo, Pierre Cureau de La Chambre, cita un pittore che entra a pieno titolo anche nelle corde di Rubens. È interessante paragonare Berini a un pittore, perché evidentemente la sensibilità del tempo tratta la superficie marmorea come un pittore tratta i colori sulla tela. Ancora avanti nel tempo, Leopoldo Cicognara, nella sua Storta della scultura, fortemente intrisa di reminiscenze neoclassiche (siamo tra il 1813 e il 1818), utilizza il confronto con la pittura, però in negativo, perché non era un amante di Bernini, ma è interessante che utilizzi questo termine di paragone. La Carità i cui vestimenti con molto capriccio e con poco bel garbo sono scolpiti, preme una delle sue poppe di contro a una guangia del fanciullo, lasciandone conoscere per la compressione una deforme abbondanza e floscezza, cose che se anche dinotano la pastosità e la cadenza delle cami, e si rinvengono in natura, nulla di meno si vogliono evita:e nelle arti del bello. Il drappeggio berniniano era incomprensibile per una mentalità neoclassica, che poteva al limite comprendere una scultura come la Santa Susanna di Duquesnoy, ma non la scultura di Bernini. Cicognara è profondamente negativo, riconosce alla scultura di Bernini dei meriti, ma la guancia che si schiaccia contro la poppa della madre (che è efficace, perché si trova anche in natura) sulla tomba del papa la trova sgarbata, con poco bel garbo; è un canone che non denota grazia, eleganza o raffinatezza. Gli riconosce che sa scolpire e rendere le carni vere (pastosità e cadenza delle carni), ma non le trova adatte alla tomba del papa, sono poco decorose rispetto al contesto. Va tenuto conto che Cicognara scrive nel periodo del Neoclassicismo, un periodo in cui il Barocco non è ben visto, dalla metà della metà del Settecento fino agli anni Trenta del Novecento è un periodo assolutamente negletto da qualsiasi studio, si utilizza il termine ‘barocco’ per denotare qualcosa di negativo, di sgraziato, pesante (il primo manuale di studio sulla scultura barocca è del 1930 circa, c'è una rivalutazione molto lenta). Leggere quello che scrive Cicognara in questo periodo è illuminante per capire che ci si trova di fronte a un giudizio che pone le basi nell’estetica neoclassica, che avversa l’età barocca. Con la tomba di Urbano VIII abbiamo visto una serie di interventi scultorei in San Pietro, che vanno di pari passo a quelli in pittura. Alcuni dei grandi altari di San Pietro vengono decorati con grandi pale dipinte. Il cantiere è da vedere in parallelo, pittura e scultura, perché a un certo punto queste pale dipinte pongono un problema di conservazione. San Pietro è un luogo umido e quindi nonostante sia stata rinnovata e riconsacrata da Urbano VIII nel 1626, già dieci anni dopo si riscontrano gravi problemi di conservazione proprio a causa dell’umidità. In questi dieci anni molte opere vengono commissionate, anche opere pittoriche. Alla fine degli anni Trenta però ci si domanda se sia opportuno commissionare altre opere di pittura, perché l’umidità le deteriora molto rapidamente. Una delle opere commissionate in questo periodo è il Seppellimento di Santa Petronilla di Guercino (1623). Quando si va in San Pietro e si vedono le pale laterali nel loro contesto si capiscono molte cose. Quest'opera, che non è più in San Pietro, è enorme: 720 x 423 cm. L'effetto di ‘shock’ che si ha quando si entra nella sala della Pinacoteca Capitolina, alla fine del percorso museale in una sala interamente dedicata a Guercino, si nota subito il rapporto tra la figura umana e la pittura. Guercino da una prova straordinaria della sua arte. La pala viene commissionata nel 1623, Guercino è uno degli allievi dell’Accademia degli Incamminati, accademia fondata da Annibale, Ludovico e Agostino Carracci. È un’accademia che rinnova la pittura del Seicento, riportando l’attenzione dei giovani artisti non sull'arte e sulla ripetizione degli stilemi manieristi, ma sulla vita, sulla quotidianità, sugli aspetti della vita in bottega. All’accademia si disegna tantissimo, dal ritratto dei compagni di studi al ritratto de macellaio nella sua bottega, vanno in giro per le strade di Bologna a carpire momenti della vita quotidiana. Questo è un aspetto importante dell’Accademia carraccesca, perché porta alla ribalta una serie di temi in pittura che fino ad allora non avevano dignità artistica. Nasce quella che definiamo la pittura di genere. Basti pensare alla pittura di paesaggio, fino ad allora non esisteva una pittura di paesaggio senza figure o rappresentazioni religiose o mitologiche; ora i paesaggi iniziano ad essere rappresentati come protagonisti dei dipinti Oppure anche una scena di genere coma la bottega di un macellaio, vista dall'interno, dove si lavora la carne, fino a quel momento non era pensabile. È quindi un’accademia estremamente importante. Guercino nasce nel 1591, nel °92 Annibale si trasferisce a Roma per dipingere la Galleria Farnese, quindi l’artista frequenta l’Accademia quando ormai non c’è più la presenza di Annibale. Guercino arriva a Roma durante il pontificato di Gregorio XV Boncompagni, che favorisce gli artisti provenienti da Bologna. Guercino nasce a Cento, una località non distante da Bologna, e rimane legato a Cento per gran parte della sua vita, almeno fino alla morte del suo grande rivale bolognese, Guido Reni. Guercino mantiene il suo studio sempre a Cento e si trasferisce a Bologna solo dopo la morte di Reni nel 1643, diventando l’erede della pittura bolognese. Guercino ha grande credito tra i pittori europei, in occasione del secondo viaggio in Italia di Velasquez in cui si reca a Venezia per studiare la pittura di Tiziano, quando scende per Roma e passa per l’Emilia Romagna non va a Bologna, ma a Cento a trovare Guercino e visita il suo studio. Questo fa pensare a quanto credito avesse l’artista per un pittore rinomato e importante come Velasquez, che tra Guercino e Guido Reni lui preferisce il primo. E non è difficile capire il perché: entrambi infatti hanno molto della pittura veneziana. L’opera commissionata per San Pietro raffigura il seppellimento di Santa Petronilla, una martire cristiana. In San Pietro nell’altare si mette sempre la reliquia del santo e sopra il quadro o il rilievo che racconta la storia del santo. Il dipinto di Guercino è composto di due scene, di due momenti tra loro collegati: il momento terreno (Santa Petronilla è morta martirizzata e sta per essere calata nel sacello) e il momento celeste (nella parte alta la santa è accolta da Gesù in paradiso, si vede la nuvola che porta in gloria la santa mentre Cristo la accoglie a braccia aperte). Ci sono due momenti della stessa storia. la cosa straordinaria del dipinto è l'invenzione di Guercino, che mette lo spettatore in una situazione estremamente coinvolta nell’ammirazione del dipinto. Lo spettatore a San Pietro lo vedeva da sotto la cornice, doveva alzare la testa, ponendo lo spettatore come il possessore delle mani nell’oculo che emergono dal nulla. Quest’invenzione della mano che adagia il corpo è qualcosa di profondamento innovativo, che fa sì che il riguardante venga coinvolto nel dipinto, e fa sì che il dipinto non sia finito, è tagliato, il dipinto finisce nello spazio dello spettatore, che è immerso completamente nella rappresentazione. È un taglio che potrebbe essere definito ‘cinematografico’, molto innovativo, tanto innovativo che per trovare un referente successivo più moderno si deve aspettare Furerali ad Ornan di Courbet, È una scena diversa, è un funerale civile, ma la tomba è tagliata in maniera simile, finisce nello spazio dello spettatore. La scelta di Guercino è quindi una scelta modernissima, cinematografica (al professore viene in mente una scena di Kill Bill 2 in cui Uma Thurman viene sepolta viva). Tutto questo deve essere commisurato al gigantismo di San Pietro, è quindi molto efficace all’interno di questo spazio. ora si trova alla Pinacoteca Capitolina sia per l’umidità ma anche e soprattutto perché quest'opera è una di quelle che viene trafugata in età napoleonica, poi riportata in Italia da Canova. Quando queste opere tornano in Italia in molti casi si decide di non ricollocarle nella loro destinazione originaria, ma in altri luoghi. Quindi contemporaneamente alle opere scultoree di Bernini nasce anche questo cantiere pittorico con Guercino e continua con un'altra opera. Il martirio di Sant Erasmo di Poussin (1628-1629). È una tela molto significativa, che a prima vista non sembra un’opera di Poussin. In prima istanza va sottolineato che questa tela venne commissionata inizialmente a Pietro da Cortona, che aveva fatto uno o due disegni preparatori per questo martirio, che è abbastanza truculento (Sant'Erasmo era un vescovo e si rifiuta di adorare l’idolo rappresentato sullo sfondo del tempio, allora viene eviscerato e il suo intestino viene arrotolato intorno a un albero, veniva tirato piano piano e eviscerato). Pietro da Cortona poi viene impegnato a un’altra pala, allora questa pala passa di mano. Poussin ha quindi sicuramente l'occasione di vedere quei disegni e gli viene suggerito di non stravolgere troppo la composizione dal momento che aveva già trovato una qualche approvazione. Questo spiega perché sembra diverso dalla pittura pussininana, che è una pittura smaccatamente classicista. Lui è un artista francese che si trasferisce a Roma all’inizio degli anni Venti e vive il resto della sua vita a Roma, venendo acclamato come il più grande pittore classicista del secolo. La pittura di Poussin si basa quindi sullo studio della scultura antica, sulla riproduzione di composizioni di idee e figure tratte dall’antico (è uno dei pittori più ammirato da Bellori insieme a Guido Reni e a Duquesnop), è il campione del classicismo seicentesco. L'altro motivo per cui può essere così diversa è anche perché Poussin si trova di fronte all’organizzazione di un’opera molto più grande del solito, punta quindi a un effetto molto più teatrale. Poussin solitamente fa pittura da cavalletto, non troppo interessa, Algardi invece, da qui in avanti, diventerà il maestro dei rilievi d’altare, delle opere che sono aggettanti, ma che rispondo alla tecnica del rilievo, con lo sfondo di marmo. Pochissime volte Bernini fa rilievi, lo fa per esempio nella Tomba della Contessa Matilde, ma non li fa quasi mai. Algardi inserisce l’elemento di rilevo, che da questo momento segue la tradizione algardiana; tutti i monumenti pontifici non di Bernini, hanno il rilievo, che diventa un elemento propagandistico molto importante, vi viene rappresentata una o più scene della vita del pontefice, può essere quindi un elemento importante nella narrazione e nell’esaltazione del pontefice. Il rilievo diviene un elemento narrativo ma anche propagandistico, di cui Algardi fa tesoro, diventa l’esegeta della produzione di rilievi scultorea. La nicchia è veramente stretta, Algardi infatti deve lasciare fuori da essa le figure laterali, e sfrutta il sarcofago per inserire dei rilievi Le due figure laterali, rispetto al sarcofago, hanno una posizione diversa: le figure berniniane si appoggiano al sarcofago, lo abbrancano, ci convivono, sono dialoganti in maniera stretta con il sarcofago, mentre le figure di Algardi sono due statue sostanzialmente a sé stanti, quasi non hanno un rapporto fisico con il sarcofago, non vi si appoggiano neanche, sono confinanti con il sarcofago, mantenendo una propria autonomia (hanno anche basi e piedistalli autonome). Nel rilievo viene rappresentato un momento della vita del papa quando era ancora cardinale e fu inviato in Francia per un’importante legazione della corte di Francia; Algardi racconta il successo di questa legazione. Durante il suo papato, Leone XI, non ebbe tempo di espletare azioni importanti e quindi non c'era modo di rappresentare un episodio del pontificato. La scena è divisa in due, sono due momenti di questa legazione. C’è una figura maschile di spalle che tiene un drappo e che in qualche maniera fa da divisorio tra un momento e l’altro, dà una sorta di cronologia di lettura al rilievo. È dicotomica la scelta di Algardi rispetto a quella di Bernini, lo è ancora di più se confrontiamo il Monumento di Leone XT con il monumento successivo di Bernini, quello di Alessandro VII. Sempre per San Pietro viene realizzato da Bernini il Monumento fimerario di Alessandro VII (1671-1678) anche Alessandro VII Chigi decide, all’indomani della sua elezione al soglio pontificio, di farsi fare una tomba in una delle nicchie di San Pietro, ma non la vedrà mai compiuta. La nicchia che viene destinata a questo monumento è una nicchia problematica, ha una porta che non si può chiudere, perché da ad uno dei torrioni della navata, ci doveva essere per forza un passaggio. L'Archivio della Reverenda Fabbrica contiene tutti i documenti relativi ai lavori di San Pietro e sta proprio in uno di questi torrioni. Passare da questo drappo sopra la porta fa capire quanto l’idea di Bernini per superare quest’ostacolo sia geniale. È un problema che Bernini capisce subito, si può seguire lo sviluppo di questa porta attraverso numerose fasi, ci sono diversi disegni, come uno alla Royal Library di Windsor, in cui Bernini cerca una primissima soluzione, molto diversa dalla soluzione finale che cerca di incorporare e annullare l’incidenza della porta, mentre qui nel disegno la porta ha ancora un aspetto preponderante. Si vede che Bernini parte dal suo precedente Monumento fimebre di Urbano VIII, con il papa assiso e benedicente, utilizza l'incidente della porta per creare una sorta di basamento, ai lati del quale pone le due figure che si appoggiano alla porta cercando di incorporarla e annullarla. Nell’elaborazione successiva cambia la posizione del papa, Alessandro VII è in ginocchio, una prima invenzione teatrale che si vede anche nel modellino scultoreo del Victoria and Albert Museum, che mostra anche l’utilizzo funzionale del modello per lo studio di un aspetto, qui lui studia esclusivamente la posizione, non si sofferma a definirne occhi, capelli e vestiti, si sta occupando della composizione, quindi tutto il resto può essere solo accennato. Risolto il problema della posizione del papa, Bernini pensa all'idea del drappo, che è un topos della sua arte. Con il drappo Bernini risolve: risolve il passaggio da un ambiente a un altro, lo sfondo della scultura del Costantino, è veramente un effetto teatrale che gestisce di volta volta per eliminare l'eventuale incidente dell’opera. Il drappo della tomba di Alessandro VII è in diaspro di Sicilia, ma sotto è in stucco, di materiale povero, poi tutto ricoperto di lastre (si possono anche vedere le fessure tra una lastra e l’altra) che vengono tagliate da artigiani, che dovevano seguire l’andamento rotatorio del drappo. È quindi una copertura in diaspro di Sicilia che coprono la struttura di stucco che crea un effetto dirompente, che ingloba e annulla l’incidente della porta, enfatizzato anche dalla presenza dello scheletro, che aveva anche il Mowumento funebre di Urbano VIII, ma che qui gioca anche una sorta di effetto sorpresa, come se alzando il drappo si rivolgesse al papa innalzando la clessidra, ricordandogli che è arrivato il suo momento. È un'invenzione che enfatizza all'ennesima potenza tutti gli elementi della tomba di Urbano VIII, ci sono infatti il marmo bianco, la policromia sia nella decorazione della nicchia sia nel piedistallo e nel drappo, il bronzo dorato per la figura dello scheletro (in bronzo dorato per essere ancora più eclatante, drammaticamente presente nella composizione). Bernini tiene presente che la figura debba funzionare sia che la porta sia chiusa sia che sia aperta, sia sfruttando la luce interna sia sfruttando la luce che viene da fuori quando la porta è aperta, con una luce diretta e luminosa. È un effetto drammatico teatrale. Ultima differenza con il Monuzento fnebre di Urbano VIII, è che nella tomba di Alessandro VII le allegorie sono quattro, amplifica il numero delle allegorie, due per lato, sfrutta la profondità della nicchia per aumentare i personaggi intorno alla figura del papa, è un’ulteriore presenza scenica. Storia dell’arte moderna Lezione 8 (10 marzo 2021) Si ragionava sul fatto che, a un certo punto, in questi cantieri romani iniziasse una sorta di dicotomia e specializzazione all'interno delle due botteghe principali che abbiamo visto essere quella di Alessandro Algardi e di Gianlorenzo Bernini, in relazione alla realizzazione di grandi bassorilievi scultorei. Questa tradizione del bassorilievo è relativamente nuova; fino alla metà degli anni 50 del seicento non ci sono grandi cantieri decorativi che prevedano l'inserimento, al posto della pala d'altare, di rilievi scultorei. Abbiamo visto la prima insorgenza del rilievo scultoreo all'intero del monumento di Leone XI di Algardi, che inserisce il rilievo scultoreo proprio nel sarcofago. Come del resto aveva fatto anche Bernini nella tomba della contessa Matilde, nella Basilica di San Pietro in Vaticano (fig.1). Ma per Bernini è un'eccezione che conferma la regola del fatto che a lui lavorare sul tema del rilievo non piace, non lo stimola. Per lui sono importanti le figure tridimensionali, anche con tutte le problematicità delle vedute e della lettura delle sculture stesse, ma esprimersi attraverso il rilievo scultoreo non è tra le sue ricerche principali. La produzione di rilievi è quindi estremamente sporadica, quasi incidentale e anzi, laddove ci sono rilievi nelle sue opere, spesso non è lui a realizzarli. Il monumento della contessa Matilde è a sua volta molto particolare, siamo negli anni 30, quando Bernini vive un momento di lieve inflessione classicista e il monumento della contessa lo dimostra in maniera evidente. Questo monumento sta tra le due colonne che dividono la navata centrale dalle navate laterali; lo spazio è molto ridotto, si sviluppa verticalmente e quindi Bernini deve lavorare su elementi soprammessi: il sarcofago, gli angeli che tengono il cartiglio e la nicchia che ospita la contessa Matilde. Nel sarcofago è inserito il rilievo, che rappresenta Enrico IV che si reca dalla contessa Matilde per avere la revoca della scomunica nel 1077 (fig.2). Bernini lo inserisce per arricchire il monumento, che altrimenti sarebbe stato ridotto all'osso. Per non lasciare non decorata la fronte del sarcofago inserisce questo momento particolare della vita della contessa Matilde con un rilievo molto classico; qui Bernini gioca molto sulla teoria delle figure, figure messe una accanto all'altra, senza sfondi prospettici, senza grandi affondi in profondità, richiamando la modalità costruttiva dei rilievi classicheggianti. Dove altro ritroviamo rilievi nella produzioni berniniane? Nella cappella Raimondi in San Pietro in Montorio (fig.3). E' una cappella per la quale Bemini fa sfondare un pezzetto di muro per allargare lo spazio di costruzione (dall'esterno nella parete sinistra si vede questa sorta di “bow window" all'inglese, contenente appunto la parte absidale della Cappella Raimondi). Avevamo visto il rilievo nell'altare maggiore della Cappella Raimondi, con l'"Estasi di San Francesco" realizzato da Francesco Baratta e dai suoi collaboratori, ma i rilievi sono inseriti anche nei due monumenti funebri di Francesco e Girolamo Raimondi (che si trovano nelle due pareti laterali) e sui frontoni dei sarcofagi c'è la rappresentazione di due momenti della vita di Francesco e Girolamo Raimondi (anche questi realizzati sotto dettatura da Francesco Baratta e collaboratori). La presenza del rilievo nella produzione berniniana è ancillare, liminale, mai presa in considerazione come elemento portante della decorazione (tranne il rilievo della Cappella Raimondi). Si inserisce qui la vicenda di Alessandro Algardi, che farà del rilievo scultoreo uno dei capisaldi di tutta la sua produzione. A Roma (siamo negli anni 50 e ormai Algardi è un affermato scultore pienamente inserito nel contesto romano) gli si apre una finestra importante proprio a San Pietro, fino a quel momento dominata dalla figura di Bernini. Nel 1645 il nuovo pontefice eletto è della famiglia Pamphilj (che fa la guerra ai Barberini, è un momento per loro estremamente drammatico). Viene eletto Innocenzo X (grazie anche alle insistenze da parte del nipote e della cognata, Olimpia Maidalchini, donna di grande polso, nominata “la papessa”, come colei che muove le decisioni del pontefice), papa non molto interessato all'arte e che inizia una politica antitetica rispetto a quella barberiniana, anche in campo per un periodo non avrà commissioni pontificie, si dedicherà a committenze private (vedi la Cappella Cornaro, degli anni 40, in Santa Maria della Vittoria con l’’Estasi di Santa Teresa d'Avila"). Più avanti entrerà anche nelle grazie del pontefice, attraverso l'escamotage della Fontana dei Fiumi: vince la loro diffidenza realizzando un modello in argento della Fontana dei Fiumi, mandandolo in dono ad Olimpia Maidalchini, che lo mostrò al Papa ed entrambi ne furono entusiasti. Ma in questa prima fase, in questo momento delicato, anche in San Pietro si apre una finestra che permette ad altri artisti di entrare a lavorare in un contesto dapprima impossibile. Algardi entra quindi dalla porta principale per realizzare una pala d'altare. E' uno scultore, quindi la pala viene realizzata di marmo: si tratta della Pala di Attila e Leone Magno (fig.4). E' una pala d'altare grande quanto la Santa Petronilla (ben 7 metri, lavorata in 5 blocchi separati, cosa che dava maggiore agio che non lavorare in un blocco unico- tra l'altro è quasi impossibile averne uno intatto di quelle dimensioni). Si arriva alla decisione di realizzare una pala marmorea (dapprima erano solo dipinte- vedi Guercino, Poussin, Pietro da Cortona), perchè? La storia di questa pala d'altare è travagliata. La prima commissione di questa pala doveva essere una pala dipinta, per la quale venne chiamato Guido Reni, che aveva dipinto il Casino Rospigliosi ed era considerato l'astro nascente della pittura. Leone Magno era quel pontefice che grazie all'aiuto e all'intervento dei santi Pietro e Paolo (come vediamo nella parte alta della rappresentazione) riesce a fermare l'avanzata degli Unni e quindi a salvare Roma dal sacco di Attila. Impresa gloriosa tanto che Leone Magno viene anche santificato. Che cosa succede? Perché non viene realizzata da Guido Reni? per due motivi: Famiglia. Anche la prospettiva è abbastanza empirica, ci riporta più alla tradizione che non all'innovazione. Del resto siamo proprio ai primordi della sperimentazione in scultura di rilievi marmorei per le pale d'altare. E' un primo esperimento quello che ci propone Pietro Paolo Olivieri. Qui vediamo un dettaglio dei Re Magi arrivati alla capanna (fig.10). Olivieri è un artista raffinato che fa citazioni colte, riferimenti all'antico, però nel complesso la gestione di questo spazio non risulta pienamente soddisfacente, se non fosse che questo è solo un primo grande riferimento all'utilizzo di un rilievo scultoreo per una pala d'altare. Peraltro, la presenza delle navi che arrivano è contestuale alla celebrazione della famiglia Caetani, perché, nel 1571, Onorato Caetani prende parte alla Battaglia di Lepanto, battaglia che segna la vittoria della cristianità sull'Impero ottomano. Quindi c'è una citazione voluta delle navi per riportare alla mente il precedente della famiglia. Da questo primo esperimento si passa, pochi anni dopo, a un esperimento molto più compiuto e raffinato. L'artista è Pietro Bernini e si tratta dell'Assunzione della Vergine" nella Basilica di Santa Maria Maggiore, a Roma (fig.11). Questa pala d'altare si trova nel Battistero, in quella cappella entrando sulla destra che è il fonte battesimale di Santa Maria Maggiore. In realtà questo rilievo, che è molto imponente (quasi 4 metri di altezza per 2,45 metri di larghezza), Pietro non lo fa per questa cappella ma per l'esterno della Cappella Paolina. Noi sappiamo che a Santa Maria Maggiore ci sono due grandi cappelle: a destra la Cappella Sistina e a sinistra la Cappella Paolina, che prendono il nome dai papi che le hanno volute. AI di fuori della Cappella Paolina c'era un riquadro dove doveva essere inserito questo rilievo. Passando dall'estemo di Santa Maria Maggiore possiamo vedere ancora oggi questo riquadro, con sopra l'iscrizione dedicatoria a Paolo V Borghese. L'opera però è talmente bella, talmente eclatante che all'estemo rimane pochissimo tempo, viene quasi subito trasferita all'interno, nella cappella del Battesimo. Vediamo come viene costruita: Pietro Bernini elimina quasi completamente qualsiasi riferimento al paesaggio, allo sfondo. Noi sappiamo dove siamo, siamo in un momento in cui gli apostoli sono intorno al sarcofago della Vergine, sarcofago che ormai è vuoto perché la Vergine è ormai assunta in cielo, il coro angelico la sta trasportando verso il cielo. E' quindi una composizione che non presenta affondi, come quella di Pietro Paolo Olivieri. E' tutta proiettata su un primo piano che è suddiviso in due parti: la parte terrena con gli apostoli attorno al sacello che guardano in alto e la glorificazione della Vergine (le due scene sono divise da una sorta di cornice marcapiano di nuvole). Il lavoro di Pietro Bernini è esemplato ad un dipinto, raffigurante “l'Assunzione della Vergine”, di Girolamo Siciolante da Sermoneta, che si trovava nella Basilica di Santa Maria Maggiore (fig.12). Siciolante dispone i discepoli attorno alla Madonna quasi a creare una sorta di semicerchio e divide anche lui la parte terrena da quella ultraterrena: gli apostoli in basso e la Madonna assunta e coronata dagli angeli in alto. Mantiene alcuni elementi topografici dell'esterno: si vede sullo sfondo una sorta di paesaggio, non c'è una tangenza tra le due parti perché sullo sfondo si intravedono delle montagne che ci danno una contestualizzazione geografica. Cosa che Pietro Bernini non fa. Se noi li mettiamo a confronto vediamo come in Bernini non ci sia modo di affondare lo sguardo, perché gli apostoli creano una sorta di cortina e quindi occludono la vista dello sfondo in cui la scena si svolge. Bernini punta sul dialogo tra le due parti, fatto dagli sguardi, dai gesti, dall' acclamazione degli apostoli verso la Vergine e demarca in maniera netta la suddivisione dei due momenti. La parte superiore, vediamo un dettaglio (fig.13), è di grande raffinatezza tecnica (Bernini si sbizzarrisce nell'arrovellare i riccioli dei putti, nell'intrecciare le mani e i corpi di questi putti con una squisitezza, una raffinatezza tecnica straordinaria). Vediamo con quanta delicatezza sottolinea l'aspetto che si tratta di angeli musicanti, uno tiene un'arpa, da un'altra parte c'è un organetto. Gusto tardo manierista del dettaglio, del particolare, associato a una grande raffinatezza tecnica, cosa che in questo momento solo Bernini può garantire. E' importante sottolineare un ulteriore aspetto di Pietro Bemini, che ci fa vedere come tradurrà la sua idea di rilievo al figlio (e questo ci spiegherà perchè Gianlorenzo non s'interessa al rilievo); vediamo come alcuni elementi della composizione siano in realtà delle statue, siano completamente sconnesse dal fondo: i due apostoli, quello in piedi e quello inginocchiato (le prime figure che si vedono sul proscenio) sono statue, perché non hanno nessun legame con il rilievo e quindi con lo sfondo (si può mettere una mano tra la figura e lo sfondo). Anche la schiena della Vergine è tutta staccata dal rilievo. Pietro comincia quindi a sviluppare una forma di rilievo in cui alcuni elementi diventano autonomi rispetto allo sfondo (e noi sappiamo che le figure nel bassorilievo hanno sempre un legame con lo sfondo). Teniamo presente che quando si parla di rilievo ci troviamo di fronte a un'ambiguità: nelle fonti e nei documenti seicenteschi si parla di rilievo, per esempio, anche per opere che rilievo non sono ma che hanno uno sfondo, anche dipinto (per capire di cosa si tratta prima lo dobbiamo vedere). Se guardiamo la Cappella La Leona di Bemini vediamo un “Noli me tangere” fatto da due figure, poste sopra l'altare, due statue che però hanno uno sfondo dipinto e lì si parla di rilievo (che rispetto al nostro canone è un po' improprio). Tornando a Santa Maria Maggiore, sappiamo che questa splendida opera fa “vincere” a Pietro Bernini un'altra importante commissione, stavolta non più all'estemo, ma all'interno della Cappella Paolina. Nel 1605 diventa papa Paolo V Borghese, che rende la Cappella Paolina sua cappella di famiglia e la decora in una maniera mai vista fino a quel momento. Partiamo dal presupposto che la Cappella Sistina e la Cappella Paolina non sono piccole, sono delle vere e proprie chiese all'intemo di una realtà ancor più grande. La decorazione della Cappella Paolina è un'impresa vera e propria, è un cantiere vero e proprio, come se si dovesse decorare un'intera chiesa, proprio per le dimensioni monumentali (fig.14). Ha bisogno anche di un architetto che la organizzi architettonicamente e viene chiamato Flaminio Ponzio, uno dei grandi architetti del tempo. Essendoci già la Cappella Sistina, bisognava che anche questa si uniformasse all'intemo e all'estemo per creare qualcosa di armonico. Questa struttura da un punto di vista architettonico viene completata nel 1611, a quel punto inizia la decorazione. Una decorazione basata sulla policromia di marmi preziosissimi (ancor più preziosi di quelli della cappella Caetani), è uno scrigno di un'opulenza mai vista prima d'ora. La scultura gioca un ruolo fondamentale: vediamo delle nicchie con all'interno delle figure e nelle due pareti laterali ci sono due monumenti pontifici: uno di papa Paolo V Borghese, l'altro del suo predecessore, papa Clemente VIII Aldobrandini. Tutti e due giocati sulla decorazione scultorea: figura del papa, figure allegoriche, rilievi con storie del pontificato. Cosa curiosa è che dopo Urbano VIII, i papi decidono di farsi le tombe in San Pietro, qui invece siamo in Santa Maria Maggiore. La decorazione, per quanto riguarda la volta nelle parti alte, era necessariamente pittorica. Vi troviamo una serie di artisti diversi: troviamo Cavalier d'Arpino che decora i pennacchi sotto la cupola e la lunetta sopra l'altare maggiore, la cupola stessa è decorata da Ludovico Cigoli, mentre le figure nei sottarchi le realizza Guido Reni. Contesto polifonico dove la pittura tradizionale (Cavalier d'Arpino e Cigoli) convive con presenze nuove (Guido Reni è un giovane artista da poco arrivato a Roma). Perché questa cappella è così preziosa e papa Paolo V Borghese dedica tanti danari, tanti scudi alla decorazione di questa cappella? Perchè conserva sull'altare maggiore l'icona del “Salus populi romani”, immagine della Vergine risalente alla fine del XII secolo, ritenuta una delle più antiche immagini della Vergine. Vediamo una foto di papa Francesco, che è molto legato alla Cappella Paolina e spesso si reca lì, in gran segreto, a pregare davanti all'icona (fig.15). L'altare maggiore è all'intemo di questo scrigno la cosa più preziosa, perché ha colonne fatte di bronzo e poi ricoperte di diaspro, è tutto ricoperto di lapislazzuli e sopra ha questo coro angelico in bronzo dorato con all’interno la “Salus populi romani” (reliquia importante che veniva invocata dai romani tutte le volte in cui ci fossero problemi legati alla salute del popolo romano). E' una mostra d'altare come non ce ne sono in nessun altro luogo, per la ricchezza dei materiali utilizzati. Sulle pareti laterali ci sono le tombe dei pontefici (fig.16). Il pontefice seduto è Clemente VIII Aldobrandini, quello inginocchiato è Paolo V Farnese. Le strutture di questi due monumenti sono molto particolari, poiché hanno a disposizione uno spazio veramente enorme rispetto a quello cui siamo abituati per le tombe. Si prende a disposizione tutta la parete, si crea quindi una sorta di arco trionfale, all'interno del quale c'è la parte centrale più importante con la figura del papa entro una nicchia centinata e sopra un rilievo che rappresenta il momento della consacrazione, della nomina al soglio pontificio. Ai lati abbiamo dei rilievi più grandi e sopra di nuovo richiamati da rilievi più piccoli. Il rilievo scultoreo assume per la prima volta un'autonomia come genere scultoreo all'interno del monumento pontificio. Per realizzare opere come queste ci vuole uno stuolo di artisti, ecco perché questo cantiere è particolarmente importante per studiare la scultura di inizio seicento a Roma, prima dell'avvento di Bernini. Si trovano artisti importanti, come Silla Longhi, Ippolito Muzio, Ambrogio Buonvicino, Nicolas Cordier (che abbiamo incontrato nella Cappella Aldobrandini) e anche, appunto, Pietro Bernini. Di questi artisti poco si sa se non la loro presenza all'interno dei cantieri pontifici. Sono artisti che sviluppano la loro arte all'intemo di cantieri corali, dunque è difficile che emergano singole personalità, se non appunto personalità di spicco come quella di Pietro Bernini. Pietro Bernini realizza un'opera particolarmente importante nella tomba di Clemente VIII Aldobrandini: Il rilievo dell'’incoronazione di Clemente VIII" (fig.17). Siamo cronologicamente più avanti rispetto al precedente rilievo, siamo nel 1612. Per quest'opera lo scultore riceve un primo pagamento proprio nel gennaio del 1611 (inizia i lavori appena terminati quelli dell'Assunzione). E' un rilievo problematico, perché Pietro lo realizza due volte; inizia una prima stesura, poi probabilmente non è soddisfatto e inizia quindi una seconda versione (lo sappiamo da un documento in cui è scritto:“fa rifare dinovo a Pietro Bernini scultore la istoria dell'incoronazione”). Per quest'opera riceve un compenso da 900 scudi, è un'opera molto ben pagata. Quello che ci interessa è come Pietro porta avanti il discorso dell'elaborazione del rilievo scultoreo, portando avanti contemporaneamente la sua interpretazione di rilievo scultoreo. Non c'è nulla di perfettamente centrato. Guardiamo la figura del papa (fig.18), assiso sul trono pontificio mentre sta per essere incoronato: è al centro della composizione, ma è lievemente decentrato e questo lieve decentramento è accentuato dalla posizione del cuscino, che è messo di traverso, noi ne vediamo un angolo. Pietro gioca su una eliminazione della centralità. Algardi, il quale si forma all’ Accademia degli Incamminati. In particolare il riferimento è da ricercare nella produzione di Annibale Carracci nella Pietà (1600 ca.) che oggi è conservata a Capodimonte (Pietà più replicata in pittura nel corso del Seicento). Algardi trae ispirazione soprattutto per la figura del Cristo. Da questo primo rilievo e inizia ad elaborare soluzioni per i rilievi scultorei, in cui c’è un costante legame tra sfondo e figura. Questa è la grande differenza tra Algardi e G. Bernini: la concezione del rapporto tra spazio e opera). L'incontro di S. Leone Magno con Attila (A. Algardi, Basilica di S. Pietro, Vaticano, 1646-1653) Marmo bianco, 858 x 494 cm. Commissione affidata ad Algardi dopo l’elezione al soglio pontificio di Innocenzo X Pamphili. L’opera deve sviluppare in altezza ed è unrilievo di enormi dimensioni. Il rilievo rappresenta l’incontro tra Attila e Leone Magno avvenuto vicino a Mantova. I due erano, secondo le fonti, entrambi a cavallo. Raffaello infatti li raffigura entrambi a cavallo, ma Algardi ha un sostanziale problema di spazio (stretto e alto) che non glielo consente. Deve rispettare il racconto originale senza mistificare la rappresentazione della scena. Viene quindi deciso di rappresentare entrambi a piedi e di inserire comunque un cavallo (una testa) per non disconoscere il dettato del testo originale. Solo per risolvere questo problema occorrono due anni (il 18 giugno 1648 la Congregazione decide di sostituire la scena dei due personaggi a cavallo con la testa del cavallo e i due personaggi a piedi). Risolto questo problema lo scultore realizza un primo “bozzetto” conservato al Bargello. Nella bozza i dettagli sono più precisi nella parte bassa poiché è interessato a disporre le figure. In alcuni punti gli elementi che accompagnano le figure sono incisi, disegnati nella terracotta, c’è un tratto grafico molto spiccato. E’ un lavoro di grande rapidità compositiva. Spesso i modelli in terracotta, essendo strumenti di lavoro, hanno una serie di aggiunte, addentellati, pezzi smontabili, che fanno capire che l’artista sta ragionando anche su soluzioni alternative. Sulla parte destra si nota una specie di linea, questo ci fa capire che Algardi ragiona su un possibile ampliamento per inserire altre figure e si pone il problema se sia meglio concentrare tutto sulle figure centrali oppure ampliare il raggio che consentirebbe di inserire una schiera più lunga di figure che giungono a Mantova dietro ad Attila. Il bozzetto è proprio uno strumento di lavoro. Evidentemente questa soluzione non lo convince pienamente poiché nel modello successivo (conservato a Dresda) vediamo che si concentra solo sulle figure centrali, forse anche per non distrarre il riguardante da una composizione già ricca di suo. Di questa commissione esiste anche il modello in grande (sempre risalente al 1648), posto nell’altare di S. Pietro mentre lo scultore realizza quello in marmo e lì rimane finchè il papa non decide di regalarlo all’Oratorio dei Filippini (oggi Biblioteca Vallicelliana). La somiglianza tra il modelletto di Dresda e quello in grande ci fa capire come già Algardi fosse giunto ad una soluzione finale per la composizione. La composizione è suddivisa in tre momenti: - Papa con il seguito - Attila con gli Unni - SS. Pietro e Paolo che arrivano in aiuto a Leone Magno E? inoltre interessante notare come nella composizione sia evidente la gestualità. Ad es. nella pala del Martirio di S. Erasmo (Poussin) abbiamo visto che il sacerdote indicava l’idolo e il centurione indicava il martire eviscerato. Anche all’interno di questa pala c’è un gioco di rimandi e gesti perché Attila alza la mano e lo sguardo verso i Santi che lo stanno cacciando con la spada, mentre S. Pietro con una mano tiene le chiavi della Chiesa e con l’altra indica il Papa che a sua volta indica la Croce. Si chiude un cerchio: S. Pietro (primo papa) indica il suo successore e Leone Magno a sua volta rimanda alla Croce (quindi a Cristo, alla Chiesa di Roma). E’ un rimando di gesti che aiuta il riguardante a trovare il punto focale e una lettura più efficace all’interno di una composizione impetuosa. Terminato il modello in grande, inizia la lavorazione del marmo. Questa è piuttosto complessa, tant’è che la consegna dell’opera avviene nel 1653, un anno prima della morte di Algardi. Lo scultore lo porta avanti contemporaneamente, avendo suddiviso il blocco in 5 parti. Utilizza una serie di dettagli e strumenti visivi che servono a coprire le connessioni tra i blocchi, per esempio: l’albero sopra il papa che serve a dissimulare il taglio del marmo in quel punto grazie alle fronde. Algardi fa anche un’altra operazione. Il suo rilievo affronta molti diversi gradi di profondità e aggetto, si va dalla figura molto aggettante dell’accolito inginocchiato accanto al papa ad altri punti in cui il rilievo è molto meno aggettante (es. le figure dietro Attila che sono appena indicati sul marmo). Algardi deve quindi usare l'elemento pittorico di accentuazione del contorno attraverso l’uso del trapano (i fori sono ovviamente visibili solo a distanza ravvicinata). Nel Seicento il rapporto tra pittura e scultura è intenso, gli artisti sono amici fra loro e non è raro lo scambio dei modelli e la compenetrazione di stili. Algardi studia la fisionomia di S. Paolo (come dimostra la terracotta conservata all’Ermitage) e troviamo riscontri pittorici di questa immagine in Pietro da Cortona (Ritorno di Agar presso Abramo al Kunsthitorisches di Vienna, 1637). L’Abramo di Pietro e il S. Paolo hanno una forte somiglianza. La pala di Algardi completata viene rilasciata nel 1653 e frutta all’artista 10.000 scudi (contro i 7.000 pattuiti all’inizio) data la bellezza dell’opera. Questa realtà storica è testimoniata anche dalle fonti, ce ne parla Bellori, grande estimatore di Algardi, che insieme a Duquesnoy è uno dei pochi scultori presenti nelle sue Vite. Bellori ci racconta in maniera dettagliata quella che è la storia e il risultato importante di Algardi. Sottolinea il fatto che nonostante lo spazio ristretto, Algardi non rinuncia ai dettagli. Anche Virgilio Spada (figura chiave dei cantieri di epoca innocenziana, sia in S. Giovanni in Laterano sia in S. Pietro). Spada era stato uno dei promotori di questa commissione e cita la vicenda del pagamento. La testimonianza di Spada è presente in una delle sue lettere, conservate nell’ Archivio di Stato di Roma all’interno del Fondo Spada Veralli. Anche Passeri cita la vicenda (era un forte sostenitore di Algardi e anti berniniano). Da lui sappiamo che negli anni in cui Algardi lavorò a questa opera era anche colpito da forti attacchi di gotta che lo costringevano a letto, motivo per cui saranno Ferrata e soprattutto Guidi a portare l’opera a compimento. Guidi arriva a Roma nel 1649 da Napoli (dove lavorava con lo zio Giuliano Finelli) e deve mostrare le sue capacità. Per farlo approfitta della condizione di salute di Algardi e quando il maestro si rimise in forze e tornò al lavoro si stupì dello stato così avanzato dell’opera. A partire da questa pala algardiana prende vita un “trend”: nella seconda metà del Seicento saranno sempre più frequenti nelle chiese le pale d’altare scolpite piuttosto che dipinte. Algardi, prima di chiudere la sua esperienza di scultore ed elaboratore di rilievi e bassorilievi scultorei farà anche altri tipi di esperimenti, diversi rispetto al rilievo vero e proprio. Altare S. Nicola da Tolentino (A. Algardi, Chiesa di S. Nicola da Tolentino, Roma, 1651-56) Viene rappresentato S. Nicola mentre solleva il tozzo di pane verso la Vergine col Bambino, S. Monica e S. Agostino. Questo oggetto racconta la storia del santo, il quale ricevette un tozzo di pane da una popolana e lo mostrò ai personaggi sacri che gli appaiono. Abbiamo quindi il livello terreno di S. Nicola e quello divino dell’apparizione dei santi. E’ un oggetto a metà tra il rilievo e il tableau vivent dove comunque tutte le figure mantengono un rapporto con lo sfondo (che è dipinto). A differenza del tableau berniniano, questo vive un rapporto diretto con la parete in cui è inserito. Nella parte superiore le figure sono adese, murate nella parete mentre il S. Nicola è per buona parte staccato, vi si appoggia con le spalle e con la stuoia di giunchi alle sue spalle. Anche quest’opera è dell’ultima parte della vita di Algardi e sarà infatti completata da Guidi e Ferrata nel 1656. Di questo rilievo si trova anche il modello in terracotta, solo di recente riportato al colore della terracotta poiché era stato ridipinto a finto bronzo, che aveva eliminato alcuni passaggi nel volto del S. Nicola e nella stuoia, che appariva liscia e non rigata come in realtà è. (conservato nel Museo Nazionale del Palazzo di Venezia, Roma, 1653). Confronto tra: S. Nicola da Tolentino e Santa Teresa (Bernini). La Santa è completamente staccata dal fondo. L’angelo e le nuvole costituiscono parte di una visione a sé stante, come una sorta di mensola su cui poggia tutta la composizione, perfettamente finita anche sul retro, mentre Algardi mura la parte posteriore. Si notano ancora di più le differenze tra Algardi e Bernini nella Cappella Alaleona. Cappella Alaleona (chiesa dei SS. Domenico e Sisto, Roma) Entrando nella chiesa, sulla destra, troviamo l’altare di famiglia degli Alaleona. Storia della Cappella: fatta da Suor Maria Eleonora Alaleona. Nel 1649 decide di stanziare una cifra per la realizzazione della cappella e viene chiamato Bernini a realizzarla. Bernini elabora sia l’idea dell’altare che del tableau vivent (poi realizzati da Antonio Raggi). Il diario di Gigli (dov’è narrata la vita di Roma del tempo) ci racconta la storia della cappella. consente a Borromini attraverso l’arretramento di lasciare inalterata la scala, ma di farla finire all’inizio del piano viario e non entrare dentro la piazza. Come abbiamo detto, Borromini accentua il verticalismo all’interno, sfruttando l’altezza del tamburo della cupola. La cupola è piccola rispetto al tamburo altissimo. Tamburo alto, che Borromini usa sempre. Anche nella chiesa di Sant’Ivo alla sapienza, a pochi centinaia di metri da Sant’ Agnese, c’è un tamburo altissimo, ma coperto e nascosto da un tiburio per poi arrivare alla spirale terminale della cupola. Accentua anche all’esterno l’elemento di verticalità, nei campanili e nella cupola. Internamente la cupola è decorata (ci soffermeremo su questa decorazione) da due artisti che si suddividono equamente il lavoro. La cupola vera e propria viene completata da Ciro Ferri, allievo di Pietro da Cortona. I pennacchi vengono decorati da Giovan Battista Gaulli, detto il Baciccio, artista importante. Sarà colui che dipingerà Il Trionfo del Nome di Gesù, nella Chiesa del Gesù, grande affresco barocco. Interessante vedere perché venga scelto Ciro Ferri. Egli è allievo di Pietro da Cortona. Quest'ultimo era stato artista barberiniano e pamphiliano, perché proprio a palazzo Pamphilj in Piazza Navona, accanto alla chiesa, aveva dipinto la lunga Galleria di 33 x 7 m con storie di Enea. Questa galleria è un ambiente raffinato, è stata progettata da Borromini, interamente decorata da Pietro da Cortona tra il 51 e il 54, con storie della vita di Enea. Perché storie della vita di Enea? Tutte le famiglie romane cercano di accreditarsi attraverso l’invenzione di una discendenza mitologica e così i Pamphilj si inventano una discendenza da Enea. Nello stemma Pamphilj c’è infatti una colomba bianca, simbolo di Venere, dea dell’amore, madre di Enea, il mitico fondatore di Roma. I Pamphilj si ricollegano alle origini di Roma e assumono nel loro stemma il simbolo di Venere. Fanno discendere la loro stirpe da un’antica stirpe troiana. Questa galleria è interessante perché Pietro da Cortona fa un'operazione diversa da quella attuata in Palazzo Barberini. Lì c’era l'esaltazione della famiglia Barberini, che occupava tutto lo spazio della volta. C'era una griglia architettonica, ma sostanzialmente veniva negata dalle figure divine, dagli elementi naturali, dalle storie, era una presenza ancillare, decorativa, non essenziale. Qui in palazzo Pamphilj invece, c’è un dettato architettonico che Pietro da Cortona rispetta. (Slide 6 di un dettaglio): dal dettaglio si vede che nell’architettura inserisce le storie di Enea. C’è un partito architettonico dipinto in finta architettura, con spazi ovali che raccontano le storie di Enea. Tra un tondo e l’altro ci sono elementi di apertura sul cielo, grande libertà compositiva, però all’interno del partito architettonico perfettamente rispettato. Questa galleria è più vicino alle sale dei pianeti in Palazzo Pitti, che non alla volta in palazzo Barberini. Notare, inoltre, la delicatezza cromatica e la leggerezza che Pietro vuole imprimere alla composizione. Intorno alla cornice architettonica dipinta a finto marmo inserisce una ghirlanda delicata, raffaellesca (Raffaello alla Villa Farnesina) che alleggerisce ancora di più la composizione, dando l’idea di essere in un luogo di delizia all’aperto, dove l’elemento architettonico non è preponderante, ma anzi, è uno slancio verso l'apertura e la leggerezza del cielo aperto. Anche Pietro elabora uno stile, sul finire della carriera, particolarmente lieve, soffuso, giocoso, diverso da quello da cui era partito inizialmente. Ecco perché viene scelto Ciro Ferri: perché è l'allievo diretto di P. da Cortona. Il successo di questa galleria, una delle ultime grandi opere private di P. da Cortona, poi lavorerà alla Vallicella prima di morire, fa sì che la scelta per la cupola della chiesa pamphiliana sia quasi diretta ed immediata. Però, prima di arrivare alla decorazione della cupola e dei pennacchi ai Pamphilj interessa un altro aspetto. Decidono di decorare tutti i 5 altari della loro chiesa con pale di marmo. (È una chiesa privata, non ci sono cappelle private, è tutta dei Pamphilj. Considerare che da una porta nella galleria del palazzo si accedeva al coretto della chiesa. Il papa poteva assistere alla messa da casa). I Pamphilj decidono subito di fare la decorazione degli altari con pale marmoree, quasi un omaggio ad Algardi. Tant'è che la pala dell’altare maggiore la doveva scolpire proprio Algardi, che veniva dal successo del Leone Magno e dal successo dell’Apparizione della Madonna con Bambino, santa Monica e sant'Agostino a san Nicola da Tolentino, nella chiesa di Nicola da Tolentino, chiesa rinnovata con i finanziamenti della famiglia Pamphilj. La fiducia dei Pamphilj verso Algardi era totale. Gli commissionano la progettazione dell’altare maggiore di Sant'Agnese. Algardi dopo aver completato i lavori in San Pietro e in San Nicola da Tolentino, si mette a fare i modelli per questa pala per la chiesa di Sant’ Agnese. Il modello esiste ancora, ma non è in Sant'Agnese, bensì all’Oratorio dei Filippini. Fa il modello in piccolo nel ’53 e subito quello in grande, che viene collocato sull’altare della chiesa. I lavori erano già avanzati, che i Pamphilj comprano anche il marmo. Staccano quindi il modello in grande per poi posizionare sull’altare il marmo su cui dovrà essere scolpita la versione definitiva. Algardi però muore nel ‘54.I Pamphilj si trovano un modello in grande finito, per il quale esistono due pagamenti ad Ercole Ferrata e Domenico Guidi, che hanno aiutato il maestro, e una lastra di marmo monumentale sull’altare. Subito dopo muore anche il papa. I Pamphilj si trovano in una situazione non rosea dal punto di vista finanziario, inoltre con il papa Alessandro VII Chigi torna da subito in vetta Bernini. Cambino radicalmente atmosfera e prospettiva. I Pamphilj devono mettersi l’anima in pace: la decorazione della chiesa non sarà così immediata, soprattutto se vogliono utilizzare solo allievi di Algardi. Devono trovare una via di mezzo per portare a casa qualche risultato. Cosa aveva ideato Algardi? Siamo nella chiesa di sant'Agnese, dunque lui si rifà alla storia della santa. Perché la chiesa è stata costruita in quel punto? Si ritiene che in quel punto la santa abbia subito il martirio. Santa Agnese era una giovane cristiana che doveva essere martirizzata, dato che come molte leve martiri non aveva voluto adorare gli dèi pagani. Dunque, doveva essere sacrificata. Solo che era vergine e le vergini non potevano essere martirizzate. A quel punto per poter portare avanti questo sacrificio viene portata nei sotterranei della Roma antica, denudata per essere deflorata, ma dall’alto viene salvata dall’intervento divino. Il diavolo, che aveva indotto Procopio — la figura tra le mani del diavolo — a violentarla, si rivolta contro Procopio stesso e lo uccide. Sant Agnese invoca l’aiuto divino, che arriva e fa sì che l’aguzzino cada nelle mani del diavolo. Algardi doveva rappresentare una scena difficile, concitata che si svolgeva nei sotterranei di Roma, ecco il perché delle arcate e dell’architettura che ci dà il senso di un luogo chiuso. La scena è sostanzialmente divisa in 3 momenti: la santa che invoca aiuto inginocchiata; Diavolo e Procopio che lottano; in alto intervento divino. Algardi realizza questo modello in grande, terminato nel 1654. Poco dopo la sua morte, il 16 settembre 1654 i suoi allievi, Ercole Ferrata e Domenico Guidi, ricevono 60 scudi, perché hanno aiutato il maestro a terminare il lavoro. Essendo già arrivato il marmo i Pamphilj tolgono il modello in grande, che per un po’ rimane di loro proprietà, poi verrà donato all’Oratorio dei Filippini (non visibile a differenza dell’altro rilievo algardiano, perché sta all’interno dello spazio dell’archivio capitolino, in un luogo non di passaggio). Il marmo viene acquistato da Filippo Frugoni, costa 500 scudi, posto sull’altare. Essendo morto Algardi i Pamphilj si prendono un momento di pausa per decidere a chi assegnare il lavoro della pala d'altare. Passano quindi, dalla pala dell’altare maggiore, a decorare gli altari laterali. Si tratta di altari angolari, essendo la chiesa a pianta centrale a croce greca. In ciascuno dei 4 pilastroni sotto la cupola c’è un altare con una pala d’altare marmorea. Gli autori chiamati ad eseguire i rilievi: E. Ferrata (Lapidazione di Sant'Emerenziana), G.F. de Rossi (Sisto III ed Eufemiano ritrovano il corpo di Sant Alessio), M. Cafà (Martirio di Sant'Eustachio), A. Raggi (Santa Cecilia morente visitata da Urbano 1). Sono tutti temi legati a martiri paleocristiani. Ercole Ferrata è un allievo di Allievo di Algardi, ma è un artista che dopo la morte di Algardi, ma anche prima, lavorava abbastanza regolarmente anche con Bernini. È un artista malleabile, che non sposa un partito, ma un'opportunità di lavoro, non disturba politicamente. Si sapeva adattare allo stile di Algardi e a quello di Bernini. Ugualmente anche G. F. de Rossi è un allievo di Algardi. Non è particolarmente brillante, non è di primo piano e quindi non disturba neanche lui politicamente. Melchiorre Cafà è una metafora. È un artista maltese, arriva a Roma nel 1560 e morirà presto perché in San Pietro gli cadrà un pezzo addosso della scultura a cui lavora. Nell'arco della sua permanenza a Roma è n aitista che in pochissimo tempo assurge ad un ruolo e importanza straordinaria e lo fa dall’interno della bottega di Ercole Ferrata. Diventa un suo socio e collaboratore. Non è un subalterno, è un artista completo. Anche lui ha uno statuto che non disturba Bernini, che è tornato uno scultore rilevante Antonio Raggi forse uno degli interpreti più forti della politica e cultura berniniana. Pur essendo stato allievo e collaboratore di Algardi, sposa poi il partito berniniano. Artista che non arreca disturbo a Bernini. Ecco, quindi, che si capisce quindi come mai sono scelti questi artisti: tutti più o meno hanno rapporti con Bernini e non danno fastidio al “dittatore del gusto”. Tutti temi legati alla cristianità dei primordi, sono tutti martiri paleocristiani. Prima di iniziare i lavori, come sempre accade per la scultura, gli artisti firmano i contratti, nel dicembre del 1660. Da Quando Algardi muore, dalla messa in opera del rilievo in grande, al passaggio agli altari laterali passano circa 5 anni, serve del tempo per far assestare il clima, far digerire a Bernini che il cantiere della chiesa pamphiliana va avanti senza che lui ci sia dentro. Sono momenti di politica diplomatica artistica delicata. Gli artisti firmando il contratto si impegnano a portare a termine le sculture in 4 anni. Nessuno lo farà, nessuno porterà a compimento le sculture nel tempo previsto. Si vedrà che è un cantiere litigioso, problematico, con liti e diatribe non indifferenti. Ferrata, inoltre, oltre alla pala d’altare con la Lapidazione di Sant Emerenziana, con il contratto si impegna anche a realizzare la sua opera meglio riuscita, la Santa Agnese al Rogo, collocata in uno dei due altari della traversa della croce greca. Altare che insiste sopra il luogo dove fu trovato il corpo della santa. È l’altare simbolicamente più importante, ma non poteva essere l’altare maggiore altrimenti sarebbe stato stravolto l’asse della chiesa. Richiede una scultura dedicata, commissionata a Ferrata. Forse è l’unica opera realizzata per tempo. Unica terminata nel 1664, posta in tempo, entro quell’anno. È un’opera drammatica, enfatica, anche se Ferrata non eccede mai nell'espressione drammatica delle figure (Bernini avrebbe dato più enfasi anche nell’espressione facciale). Qui Sant’ Agnese è composta mentre brucia non esprime dolore, il volto è quasi astratto, classicheggiante. Il dolore è casomai espresso dagli orpelli che la decorano, dal drappo del mantello che si solleva con il calore, e soprattutto dal gioco efficace e vivace delle fiamme ardenti. Interessante l’effetto che una scultura come questa può aver avuto su un artista contemporaneo: a Napoli, in piazza dei Girolamini, c’è unlavoro di Banksy che ritrae la Sant’ Agnese di Ferrata. Questa, come tutte le opere di arte muraria, andava incontro al degrado, quindi hanno realizzato una struttura di alluminio e vetro per salvarla. Ferrata inizia subito da questo lavoro, essendo la chiesa dedicata a Sant’ Agnese, doveva esserci subito questa effige. Poi si dedica alla pala d’altare come i colleghi. Prima di passare alle pale d’altare analizziamo la decorazione pittorica. Baciccio dipinge i pennacchi con le Quattro virtù cardinali (1668-1671) Sono un’opera gioiosa, delicata. Baciccio qui è diverso rispetto al Polet, raffigurante le storie di Santa Cecilia. Domenichino, insieme a Guido Reni e ad Annibale Carracci, è campione classicismo. Pensare alla Caccia di Diana della Galleria Borghese, è un tripudio Martirio di Santa Cecilia: guardiamo come la interpreta Raggi e come la interpreta Ferrata. Raggi accentua l'aspetto drammatico. Guardare come è posta la santa nell'opera di Domenichino e nel rilievo di Raggi: in controparte, ma nella stessa posizione di traverso all’interno del dipinto. Partendo dal modello di Domenichino Raggi elimina la solennità aulica del classicismo e pone l'accento sulla drammaticità espressiva della scena e delle figure, però la disposizione della santa è speculare. Ferrara è più vicino a Domenichino. Rimanda esplicitamente all’affresco. Se si studia figura per figura si vede come Ferrata estrapoli delle figure e le riproponga nel suo dipinto. Gli angeli in alto, interpretati in maniera così concitata da Retti, c’è un riferimento preciso all’angelo che porta la palma del martirio. È più fedele al linguaggio di Domenichino, di cui recupera integralmente alcune figure e le ricompone nella sua composizione. Raggi interpreta Domenichino alla maniera berniniana: drammatica, barocca. Sfrutta gli elementi compositivi e li ricompone superficialmente, accentuando l'aspetto drammatico. Ferrara, più classicista, di matrice algardiana, lo interpreta in maniera più matura, grazie alla lezione di Algardi. Possiamo essere convinti che Algardi, maestro di Ferrata, tra le cose che ha suggerito di guardare ai suoi allievi, ha indicato anche la cappella Polet. Interessante riferimento alla pittura. Scambio e osmosi che c’è tra pittura e scultura, anche con una pittura apparentemente lontana e distante. Passiamo al terzo protagonista di questo momento, Melchiorre Cafà: artista che arriva da Malta nel 1660 ed entra subito nella bottega di Ercole Ferrata, con cui stringe un rapporto professionale. Non possiamo parlare di Cafà come un allievo di Ferrata, sarebbe un errore. È nato nel 1636, arriva che è già un uomo fatto, è già scultore. Non si capirebbe altrimenti perché amriva e subito riceve una commissione per Sant’ Agnese in Agone. Arriva già con una carriera di un certo peso. È errato chiamarlo allievo 0 collaboratore di Ferrata, quanto piuttosto socio. Trova un appoggio nella bottega di Ferrata, con cui stringe un rapporto professionale, intenso e mutuo. Ferrata inserisce Cafà nei contesti di mecenatismo della Roma Barocca, viceversa Cafà lo aiuta nell’invenzione compositiva, dove Ferrata è più debole. I due lavorano perfettamente insieme allo stesso livello (quando si parla del rapporto di Masaccio e Masolino: Masaccio non è allievo di Masolino, né si sposa col suo stile, ma lavorano insieme alla cappella Brancacci nonostante tra i due vi sia un abisso. La congiunzione professionale era utile per entrambi). Il connubio tra i due è talmente stretto che ci sono alcune opere e modelli che è difficile dire chi dei due li abbia realizzati. Ad esempio, Cafà aiuta Ferrata nell’elaborazione del modello della Carità per la cappella Falconieri. Ce ne sono tre o quattro versioni, alcune delle quali è impossibile capire se siano di Ferrata o di Cafà, perché l’idea è di uno, magari la mano è di un altro. Il connubio professionale è stretto, con un’unità intellettiva molto adesa tra i due. Come si diceva Cafà arriva a Roma nel 60 subito ottiene questo contratto importante per il rilievo di Sant'Agnese in Agone, in cui deve realizzare il Martirio di Sant’Eustachio. Firma il contratto nel 60, ma non consegna il lavoro completo nel ’64 come era previsto dal contratto, ma nemmeno nel 67, perché ha molti lavori nel frattempo. Il rilievo verrà poi terminato da Ferrata, sulla base del modello prodotto da Cafà, ulteriore motivo di connubio tra i due. Cafà fa il modello in piccolo, conservato al Museo Nazionale del Palazzo di Venezia. Dal ‘61 si mette a lavorare sul modello in grande che rimane sull’altare fino al ‘65, quando iniziano i pagamenti per il marmo. Perché questa distanza di tempo? Perché nel frattempo aveva avuto altri lavori importanti che lo avevano rallentato e dedica a Sant° Agnese in Agone un tempo abbastanza dilatato. Nel ’67, quando si mette a lavorare alla scultura, sta preparando delle sculture in bronzo da inviare a Malta, nella fonderia di San Pietro. Mentre lavora queste sculture in bronzo un pezzo di una scultura gli cade addosso e nel settembre del ’67 Cafà muore, lasciando incompiuto il rilievo di Sant’ Agnese. Da una serie di documenti sappiamo che lui aveva tradotto in marmo solo la figura di Sant’Eustachio, scolpita e posizionata sull’altare. Per portare a termine la pala si chiama Ferrata, che nel 1667 non aveva ancora rescisso il contratto coni Pamphilj, quindi è ancora all’interno del cantiere e si dedica a completare il lavoro del collega. Ferrata, sul suo rilievo, non ha tanto tempo di lavorarci. Prima fa la Santa Agnese, poi il rilievo di Cafà. Sarà lui che porterà a termine il lavoro. Questo testimonia ancora lo strettissimo legame professionale e umano che c’era tra Cafà e Ferrata. Quando muore Cafà c’è il santo Eustachio, la figura centrale. È un martire paleocristiano, che si rifiuta di onorare gli idoli, quindi Adriano decide di mandarlo nell’arena e farlo mangiare dai leoni con tutta la famiglia. Quando Eustachio si reca nell’arena i leoni si rivelano mansueti e non mangiano lui né la sua famiglia, ma diventano devoti e gli leccano i piedi. Cafà rappresenta questo momento in particolare. Dobbiamo ora interrogarci su un altro aspetto: lo stile di Cafà, che è molto particolare. Anche per l'enfasi dell’espressione delle passioni forse è più vicino a Bernini che non ad Algardi e a Ferrata. Il Sant’Eustachio apre le braccia, accoglie la palma del martirio con un’enfasi che ci rimanda al San Longino di Bernini. Cafà è ‘un artista più incline all’interpretazione del barocco alla maniera berniniana, ma nonostante questo trova perfetta consonanza con Ercole Ferrata, che lavorava indifferentemente con Bernini e Algardi. L’interpretazione berniniana del rilievo (il sant’Eustachio presenta elementi molto aggettanti. Sono aggettanti il santo stesso e la figura che gli sta inginocchiata ai piedi, quasi staccata dallo sfondo) Cafà la dimostra in un altro contesto. Estasi di Santa Caterina da Siena in Santa Caterina a Magnanapoli (Roma): Cafà ci dà un’interpretazione berniniana del rilievo, non solo per la negazione della cornice (l'angelo con tutta l’ala copre la cornice e segue il suggerimento che Bernini ha dato a Raggi), ma proprio per l'invenzione della santa che si eleva dalla nube che la porta in gloria a tutto tondo su uno sfondo pittorico di marmi antichi intarsiati che creano delle fiamme dietro di lei. Lezione XI Storia dell’arte moderna 17.03.2020 Riprendiamo la nostra conversazione da Melchiorre Cafà. Avevamo visto la presenza di Cafà all'interno di Sant'Agnese in Agone perché stavamo analizzando quel contesto. Cafà arriva a Roma nel 1660, è un artista maltese, che però arriva a Roma evidentemente con un pedigree di scultore di un certo rilievo, di una certa qualità tant'è che entra immediatamente nella bottega di Ercole Ferrata. Ci eravamo soffermati la volta scorsa a discutere sul fatto che non entra come allievo, non entra come apprendista o semplice collaboratore, entra tra virgolette come socio, perché porta avanti una serie di committenze autonome. Quindi non condivide opere con Ferrata se non al livello ideativo perché Ferrata, grande scultore, virtuoso del marmo, aveva però poca propensione per l'invenzione delle composizioni, dei rilievi delle sculture, quindi se aveva dietro di sé un suggeritore come potevano essere i suoi grandi maestri, Algardi in primis, ma anche Bernini, lui riusciva benissimo: abbiamo visto l'angelo con la croce di Ponte Sant'Angelo è uno dei più belli del ponte, però su modello di Bernini. Quindi lavorare con un artista come Cafà che invece aveva una grande inventiva, e lo abbiamo visto nel martirio di Sant’Eustachio, il rilievo che Cafà realizza per sant'Agnese, e anche nel modello preparatorio del Museo di Palazzo Venezia dove tutti gli elementi erano pienamente espressi all'interno di rilievo con una grande fantasia compositiva, per certi versi molto più simile alla fantasia berniniana e non a quella algardiana. Quindi per Ferrata era indubbiamente un punto di forza poter avere in bottega un personaggio così autonomo dal punto di vista creativo. Entra nella bottega di Ferrata nel 1660 cioè lo stesso anno in cui arriva da Malta, motivo in più per pensare che Cafà sia uno scultore conosciuto. Ci eravamo soffermati sull'analisi del suo rilievo, ma avevamo visto come Cafà in realtà nello stesso anno, perché quest'opera inizia nel 1660, riceve un'altra commissione importante per un altro rilievo, che ha uno statuto particolare rispetto ai rilievi di Sant'Agnese in Agone, intanto qui siamo in una chiesa di santa Caterina a Magnanapoli e l'altare maggiore di questa chiesa è dedicato all'Estasi di Santa Caterina. La commissione arriva a Cafà da Camilla Peretti, una discendente di Sisto V (Felice Peretti), che far risistemare completamente l'abside della chiesa di Santa Caterina a Magnanapoli, è una chiesa che si trova alle pendici del Quirinale, all'interno ci sono opere bellissime, tra cui questa di Cafà. Il problema di come studiare Cafà quale è? E' che Cafà a Roma ci sta poco: arriva nel 1660, muore nel '67 per un'incidente che ha nella fonderia di San Pietro, quindi opere complete dall'inizio alla fine di Cafà ce ne sono veramente pochissime, ci sono modelli preparatori, ma anche lo stesso Martirio di Sant'Eustachio è un'opera incompleta che terminerà Ercole Ferrata. Questa è l'unica, forse delle opere interamente concepite, realizzate e terminate da Cafà durante il periodo romano, quindi dalla terracotta, dal modello, all'opera terminata. Come vedete è un rilievo scultoreo che rappresenta Santa Caterina portata in gloria sulle nuvole da questi angeli e putti. Il rilievo è molto aggettante: la santa è quasi una figura a tutto tondo che si stacca dal fondo del rilievo stesso, è però un rilievo sui generis, molto diverso da tutti i rilievi che abbiamo visto finora, perché è una sorta di rilievo polimaterico, la figura della santa, le nuvole e gli angeli sono realizzate in marmo, alcune parti del rilievo: le nuvolette appiattite dietro la santa, quella scia di nuvole bianche sono di stucco. Quindi c'è il marmo e c'è lo stucco, ma soprattutto ci sono i marmi policromi, lastre di marmi policromi di giallo antico, di lapislazzuli, vedete la parte bassa di colore blu dorato è il lapislazzuli, è una scelta che volge verso un rilievo pittorico, anche proprio nell'utilizzo di una cromia che supera la cromia monocroma bianca dei rilievi fin qui utilizzati. Per certi versi rompe con la tradizione del rilievo di matrice algardiana, perché Algardi abbiamo visto è un esegeta della monocromia: anche le tombe pontificio, la tomba di Leone X è una tomba monocroma. Cafà è più incline a certi guizzi berniniani e si avvicina molto di più alle scelte, anche cromatiche, di Bernini, pensate soltanto ai due monumenti pontifici di Urbano VII e di Alessandro VII dove la policromia è trionfante, non solo la policromia, ma anche la multimatericità: bronzo, marmi policromi, marco bianco. Qui manca il bronzo, però siamo di fronte a un'opera estremamente variegata e il riferimento a Bernini lo si vede proprio in un'opera berniniana, realizzata dai suoi collaboratori, nelle scorse lezioni abbiamo analizzato lungamente gli interventi nella crociera vaticana e i pilastroni della crociera che diventano reliquiari per le reliquie dei quattro santi che sono poi rappresentate dalle statue monumentali, nella parte bassa dei pilastri ci sono le nicchie e le statue mentre la parte alta è adibita a reliquiario, quindi con un'edicola con le colonne salomoniche e con la rappresentazione e l'emblema del santo della reliquia stessa. Se voi guardate quella di Sant'Elena cioè quella che ritrova i resti della vera croce, infatti la croce trionfa in questa rappresentazione, lo sfondo della nicchia è uno sfondo policromo fatto con lastre di marmo preziosi, onici, lapislazzuli, gialli antichi commessi insieme per creare uno sfondo movimentato, atmosferico. Se ci pensate questa scelta berniniana è giustificata da che cosa? Dal fatto che queste piccole edicole stavano a 10-12 metri d'altezza, probabilmente tutto un biancore uniforme avrebbe appiattito, non si sarebbe letto né angeli né croci, niente, porli su uno sfondo così mosso, così ondulato e così dichiaratamente atmosferico, fa aggettare ancora di più queste figure e qui Bernini gioca poi sull'utilizzo sia del marmo, ma anche dello stucco, tutte caratteristiche che noi ritroviamo nel rilievo di Cafà, che sostanzialmente sposa l'ideologia berniniana, pur essendo un collaboratore di Ferrata. Un altro elemento che ci porta verso questa affermazione: Bernini visita Sant'Agnese, dove va mal volentieri perché è una chiesa dove lui non ha lavorato, se non per la fontana, ma di fronte, però va a vedere il rilievo del suo collaboratore più stretto Antonio Raggi e gli dice di problema. Quindi sono momenti di meditazione personale, prima di vedere in quale momento giunge, vi faccio vedere il precedente, perché nella carriera di Bernini ci sono due grossi momenti, tra virgolette, di insuccesso: il primo di questi momenti avviene quando Bernini realizza questa scultura che noi vediamo alla Galleria Borghese, ma che non esce dalla bottega berniniana come una committenza di un papa, di un cardinale, o di qualcuno, ma rimane sempre all'interno nella sua bottega, è un'opera che fa per se stesso, e la fa proprio in un momento di particolare crisi della sua carriera, questa è una parte del complesso di quest'opera che doveva rappresentare la Verità svelata, da chi? Dal Tempo. Il Tempo non lo realizzerà mai perchè come tutti gli insuccessi berniniani è roba breve, poi dopo ritorna in auge immediatamente, però in quel momento di ripensamento di riflessione personale, questa scultura che sta alla Galleria Borghese, dopo la vedremo anche in un altro dettaglio e vedremo che si capisce che è proprio una scultura per sé a cui lavora nel tempo perso, perché si notano ancora in essere i pontelli: il dito della Verità è pontellato al capezzolo, il sole nella mano della Verità è di nuovo pontellato al drappo, quindi è una cosa che Bernini avrebbe perfezionato nel tempo. Perché Bernini fa questa Verità? Intanto è una Verità svelata dal Tempo, cosa dice ai suoi detrattori? Vedrete che col tempo avevo ragione i versione che avete ritenuto non confacente era quella corretta. Qual' è l'insuccesso a cui Bernini si riferisce? Qual è il problema che lo porta a elaborare questa scultura? Siamo di fronte alla facciata di San Pietro, questo è un disegno di Bernini, non si riconosce propriamente come la facciata che si vede adesso perché ci sono due escrescenze: i campanili progettati per dare maggiore slancio alla cupola michelangiolesca, perché la facciata di san Pietro di Carlo Maderno, grande architetto che termina questa facciata in epoca borghesiana, quando è pontefice Paolo V Borghese. E’ una facciata unificante, molto larga che però ha un problema: smorza un po’ lo slancio della cupola, quanto si arriva a San Pietro la cupola risulta sacrificata da questa facciata che ha anche una balaustra molto alta, e che quindi mangia un po’ la visione, i due campanili dovevano in qualche modo slacciare anche la prospettiva sulla cupola. Quindi negli anni '40, durante il pontificato di Urbano VIII, Bernini viene incaricato di portare a termine la costruzione di queste torri campanarie gemelle collocate all'estremità della facciata di San Pietro, si trattava come ho detto di risolvere un problema puramente estetico, Bernini fa costruire uno dei due campanili, ma il papa che gli approva qualsiasi cosa, boccia e addirittura ordina lo smantellamento, lo fa distruggere, e voi capite un'onta sopratutto dal papa con il quale aveva stretto un legame familiare, per Bernini è una sconfitta drammatica. La reazione di Bernini è talmente violenta che si ammala così gravemente che pensano che muoia, e questo ce lo racconta Giacinto Gigli nel Diario di Roma, scrive questo diario in cui racconta gli eventi più interessanti, anche artistici, della Roma del Seicento: il 29 giugno del 1641 scrive che per la festa di San Pietro era finito un campanile, cioè quello della parte destra, e si fece festa e luminaria la sera in borgo, perché evidentemente la fine di questi lavori creò un giubilo in tutta Roma, pochi giorni dopo fu disfatto un terzo di detto campanile, perché non dava soddisfazione, e il cavalier Bernini che l'aveva fatto fare, essendo ripreso dal papa, si ammalò e fu il gran pericolo di morire. Quindi per lui fu veramente un momento drammatico, una grande sconfitta, soprattutto perché questa negazione gli arrivava dal pontefice che lo aveva portato alla ribalta. Cosa fa Bernini? Si ritira di buon grado nelle sue stanze e si vendica facendo quello che sa fare meglio: scolpisce una Verità svelata dal tempo, è una sfida perché sceglie la verità: vedete che prima o poi il tempo mi darà ragione, il campanile che avete fatto distruggere in realtà era un'idea buona e architettonicamente era ben fatto. | problemi di statica erano problemi che affliggevano Bernini anche dai tempi della crociera vaticana: c'era chi lo aveva accusato di far venire le crepe nella cupola, quindi probabilmente aveva un problema in tal senso. La Verità è nuda perché è sempre nuda, ed è accompagnata dalla luce del sole che tiene nella mano perché porterà la luce e dirà chi aveva ragione. Manca la figura del Tempo che Bernini aveva disegnato, ma che poi non traduce mai in marmo, e che è un lavoro in fieri, lo si vede bene anche dal trattamento superficiale: la figura della Verità è ben levigata, è terminata mentre alcune parti del tronco che sostiene il drappo, la palla del mondo su cui la la verità porterà a galla che la mia Verità poggia la gamba sinistra, il tronco di roccia, sono ancora tutti grezzi. Non è una scelta stilistic per far vedere la diversità dello stile, ma è proprio non finito, come dimostrano i pontelli, lui ci lavorava e ci ha lavorato fino alla morte, perché una delle ipotesi è che questa Verità potesse essere posta sopra la sua tomba. In realtà poi Bernini verrà sepolto in Santa Maria Maggiore accanto all'altare con la lapide, senza nessun monumento. A quest'opera lui lavora per tutta la vita perché cerca una vendetta postuma a chi lo aveva accusato di non saper costruire campanili, quella consolatoria che lui fa per se stesso, che non espone, che non porta alla ribalta, ma che vedono soltanto quelli che frequentano la sua casa e il suo studio. Questo stesso processo che abbiamo visto negli anni quaranta, avviene anche con la creazione dell'iconografia del Sangue di Cristo nel 1669, quale era stata la causa che aveva portato a un nuovo insuccesso berniniano? Era stato un altro cantiere architettonico molto importante, nel 1667 sotto papa Clemente IX Rospigliosi, papa pistoiese, che naturalmente prosegue la politica culturare iniziata dal suo predecessore Alessandro VII Chigi e che quindi utilizza al massimo Bernini che realizza durante il pontificato clementino gli angeli di ponte Sant'Angelo, lo incarica di ridisegnare completamente l'abside di santa Maria Maggiore, cioè la parte tergale della chiesa, e questo è il disegno, come vedete nell'iscrizione c'è scritto "facciata della tribuna della Basilica di Santa Maria Maggiore secondo il disegno del cavalier Bernini non posto in opera". Sia Clemente IX che Bernini erano legatissimi a Santa Maria Maggiore, Bernini anche per un motivo affettivo: la casa di Pietro Bernini quindi del padre, dove abitava la madre, era davanti a Santa Maria Maggiore, quindi era la chiesa parrocchiale, ricevere la commissione per una creazione architettonica così mastodontica, per una chiesa a lui così vicina, era un ulteriore conferma del suo valore. Come vedete Bernini pensa per la Basilica di Santa Maria Maggiore una soluzione estremamente ricca e complessa, perché pensa di allargare notevolmente l'abside, sia internamente che esternamente, esternamente valorizzandolo con questo portico perimetro rotondeggiante con sopra due balaustre: una sopra il portico, e una sopra la cornice superiore, sopra quella sorta di marcapiano rialzato, e infatti erano previste anche delle sculture sopra i contrafforti di entrambe le balaustre, ma anche sotto, nel portico. Questo allargamento sostanziale che cosa avrebbe modificato nell'assetto interno della basilica? Lo avrebbe modificato assai severamente perché avrebbe comportato la distruzione di tutti i mosaici medievali del Cavallini per creare una grande abside decorata internamente con dei rilievi scultorei, ai lati dell'abside sarebbero stati collocati due monumenti funebri: due pontefici, uno dei quali doveva essere Clemente IX Rospigliosi, e infatti il suo monumento si trova in Santa Maria Maggiore, ma non nell'abside. Questa grande operazione architettonica non va a buon fine, Bernini fa il progetto, il papa lo approva, è un progetto costosissimo, è un lavoro che veramente avrebbe messo alla prova drasticamente le finanze pontificie. Il pontificato di Clemente IX ha sostanzialmente un problema: dura talmente poco, due anni, da non poter portare avanti il progetto, Bernini fa il progetto, si iniziano i lavori dallo scavo, non si comincia dai mosaici del Cavallini, ma dal creare uno spazio per la scalinata quindi nella piazza antistante l'abside, l'inizio di questi lavori solleva in tutta Roma un po’ di malcontento perché si sa che la spesa a cui si andrà incontro è una spesa ingente, però muore Clemente |X, il suo successore che si chiamerà Clemente X di un'importante famiglia romana, appena capisce che la spesa è un po’ fuori budget, diciamo che è un deficit ulteriore al deficit esistente come si sente dire spesso in questi giorni, ferma i lavori e fa fare un progetto alternativo a Carlo Rainaldi, quello della facciata della chiesa di Santa Agnese. Il motivo di subbuglio e malcontento per Bernini, cominciava a crescere, quel progetto di Rainaldi che poi è quello definitivo, quello che vediamo adesso, è sì un progetto molto bello, ma niente a che vedere con quella stenderia di portici, balaustre e sculture che aveva previsto Bernini. E' un progetto molto meno dispendioso, meno distruttivo, tant'è che in Santa Maria Maggiore i mosaici si vedono ancora, quindi Clemente X fa un passo indietro rispetto al progetto monumentale e mastodontico previsto dal predecessore, riduce le spese e affida il progetto a un'altro architetto che non è Bernini, che viene esautorato da questo progetto. Peraltro Bernini era tornato da poco dalla Francia, di nuovo aveva ripreso in mano le redini del gusto e dell'arte romana, a questo punto Bernini si ritira in se stesso ed elabora un'opera consolatoria, la seconda opera consolatoria della sua carriera che è appunto l'iconografia del sangue sparso. Iconografia che viene scelta poi da Giovanni Battista Pamphilj per far realizzare a Guillaume Courtois il dipinto da mettere sopra l'altare maggiore. Bernini era legatissimo questa iconografi; quando muore noi sappiamo che lui stava pregando di fronte a questo dipinto, quindi per lui ha una valenza questo dipinto, che fa tradurre anche a stampa, lui lo teneva al capoletto, a livello affettivo e a livello religioso, le conversazioni con il marchese, col suo ponte oratoriano evidentemente lo stimolano anche a pensare al valore di redenzione che poteva avere il sangue di Cristo, tant'è che poi lo tiene al capoletto, e questo ce lo racconta Baldinucci nella biografia autorizzata, nella prima biografia italiana nel 1680: "si profondava talora nel pensiero e nel discorso di un'altissima stima e concetto che egli ebbe sempre dell'efficacia del sangue di Cristo Redentore, nel quale era solito dire sperava e affogare i suoi peccati. E tale oggetto disegno di sua mano, e poi fece sì stampare un immagine di Cristo crocefisso dalle cui mani e piedi sgorgano rivi di sangue, e formano quasi un mare, e la gran Regina del cielo, che lo sta offrendo all' Eterno Padre." Ci sono tutti gli elementi, nella biografia di Baldinucci, della composizione inventata da Bernini, e Baldinucci ci dice di più:" questa pia meditazione fece sì anche dipingere in una grande tela, la quale volle sempre in faccia al suo letto in vita et in morte." Quindi capite l'importanza per Bernini di questa iconografia, è significativo che Giovanni Battista Pamphilj scelga di porre sull'altare maggiore un'opera di derivazione e di gusto berniniano, perché è anche un modo per accattivarsi la benevolenza di Bernini che in quella chiesa continuano a non avere niente se non a Antonio Raggi come unico rappresentante. La redazione di questo quadro da parte di Guillame Curtois, era puntuale e comunque necessaria perché non si poteva lasciare l'altare maggiore completamente sguarnito, soprattutto in previsione dell'inaugurazione, della consacrazione della chiesa che avvenne il 17 di gennaio per il 1672. Questa festa di consacrazione fu un evento molto importante, esistono delle relazioni di questa festa, la più importante delle quali fu redatta da Bernardino Farinacci che ci racconta la cerimonia di questa consacrazione. Bernardino Farinacci ci dà però una notizia in questa relazione della festa nel 1672 molto importante: per la prima volta ci dice che la pala dell'altare maggiore sta per essere scolpita da Domenico Guidi, quindi abbiamo la prima informazione relativa all'imminente inizio dei lavori della pala dell'altare maggiore. Come si arriva a questa scelta? Intanto Domenico Guidi era stato uno degli allievi di punta di Alessandro Algardi, abbiamo visto Ercole Ferrata e Domenico Guidi, sono loro che finiscono il rilievo dell'altare maggiore in Sant'Agnese, quindi è una scelta che va ancora nella direzione panphiliana di privilegiare Algardi e il filone della sua struttura. C'è da tenere presente che il cardinale titolare della chiesa ( appena si diventa cardinale, si diventa titolare di una chiesa romana), era il cardinale Alderano Cibo che veniva da Massa Carrara e quindi era un conterraneo di Guidi, quindi non è improbabile che a favorire la scelta di Guidi che era anche lui di Carrara, sia stata anche una forte pressione, sponsorizzazione da parte del cardinale. Ci sono una serie di congiunture favorevoli che portano verso la scelta di questo artista che ormai è affermato e che è un artista che svolge tutta la sua carriera al di fuori dei cantieri berniniani, quindi laddove manca il Bernini generalmente si trova Domenico Guidi che non collaborerà mai con Bernini se non nell'unico caso del ponte Sant'Angelo. Il contratto però se Farinacci ci da la notizia nel 1672, verrà stilato più tardi nel '76 quindi a quattro anni di distanza, quindi c'è sempre un po’ di tempo tra le voci e poi la concretizzazione dell'opera. Qui vedete il rilievo che fa Guidi per l'altare maggiore, quindi il contratto viene stilato 1676 Guidi si impegna a realizzare la sua opera nei cinque anni successivi, cosa che non farà, ne impiegherà dieci, il contratto ha la struttura di tutti contratti che abbiamo analizzato finora: dal contratto noi sappiamo che Guidi ha già elaborato un modello preparatorio che ha mostrato a Giovan Battista Pamphilj e che è stato approvato, non viene quindi ripresa l'iconografia del miracolo di Sant'Agnese fatta da Algardi venticinque anni prima, ma si passa ad una nuova iconografia che è l'incontro delle due sacre famiglie, e cioè San Giuseppe, la Madonna e il Bambino che incontrano Santa Elisabetta, Zaccaria, San Giovannino, quindi l'incontro delle due sacre famiglie. Un tema abbastanza desueto, di solito è la Madonna Vediamo quanto sia diversa la posizione a scelta all’interno di Sant'Agnese, un po’ per la forma, i quattro rilievi laterali sono rettangolari e concavi, ma anche rispetto all’altare maggiore, che doveva essere decorato con il rilievo algardiano del Miracolo di Sant'Agnese. Quest'ultima operazione muore sul nascere perché muore Algardi e quindi questo primo grande progetto di decorazione cade. Bisognerà aspettare il 1677 l’inizio dei lavori sull'altare maggiore, tant'è che abbiamo visto che in questo periodo si impone l'invenzione berniniana del sangue di Cristo. Sarà poi Domenico Guidi a realizzare l’opera L'incontro delle due Sacre Famiglie, opera che non è più centinata ma che diventa rettangolare, con tutti i problemi relativi ad accordare la vecchia lastra di marmo (centinata) al nuovo spazio rettangolare e il successivo problema compositivo. Abbiamo visto come quel rilievo costituisca un passaggio ulteriore dal rilievo pittorico di Algardi, dove per “pittorico” si intende una maniera compositiva simile alla pittura, per la scansione dei piani, la prospettiva, ecc., a un rilievo pittoresco. In quest’ultimo i piani si sovrammettono, le figure si allargano. Notiamo che in Guidi, dal rilievo all’opera finale, la costruzione cambi perché le figure sono molto più grandi. Sovrapponendosi le une e le altre, c'è un affastellamento della composizione che porta a tale definizione, ovvero il passaggio da rilievo pittorico a rilievo pittoresco. A portare avanti lo sviluppo di questo tipo di elemento, c’è un dato molto importante, ovvero il fatto che ci sia un rapporto molto stretto tra Domenico Guidi e Carlo Maratta. La più grande studiosa di Maratta, Stella Rudolf, aveva deciso (non si capisce bene sulla base di cosa) che Maratta si chiamava in realtà Maratti ed è per questo che si è scritto con la “i” finale per tanti anni, tutt'ora a volte si sua così. Domenico e Carlo sono due artisti che nascono e crescono in ambito classicista, il primo con Algardi, il secondo con Sacchi che è il contraltare della pittura classicista di tutta l'epoca barocca, tra l’altro apprezzatissimo da Bellori. La biografia di Maratti è di fatto la più lunga della raccolta perché era vivo quando Bellori scrive di lui, stesso motivo per cui essa verrà pubblicata con un sacco di aggiunte che percorrono l’intera vita dell’artista. Carlo Maratti porta avanti, quindi, il discorso di pittura classicista, pittura anti-berniniana, anti-cortonesca, che si afferma presso l'accademia di San Luca, il luogo più importante di Roma. Non è solo luogo dove gli artisti si incontrano per discutere di arte, bensì, a partire dagli anni 80 del ‘600, anche luogo di didattica. Ci saranno infatti i famosi concorsi clementini in ambito di pittura, scultura, architettura. L'accademia è quindi luogo formativo. Affermare lo stile classicista all’interno dell’accademia vuol dire indirizzare la produzione artistica verso una specifica direzione ed è per questo che ci saranno artisti che produrranno opere fondamentalmente classiciste. A partire dagli anni 70, Bellori, Guidi e Maratti tengono le redini dell'accademia, tanto che Guidi diventa principe di San Luca. Sappiamo inoltre che Bernini eviterà sempre questa accademia. Guidi e Maratti si conoscono e si frequentano, scambiandosi così idee e disegni. Nei ritratti, nei bozzetti per i cardinali, si nota come Maratti abbia visto i lavori preparatori, come ad esempio i busti in terracotta, del collega. Vediamo allora l’opera di Carlo, San Francesco di Sales presentato da San Nicola di Bari alla Madonna e Gesù Bambino con Sant’Agostino, del 1671-72. È conosciuta anche come Pala Nembrini. Sappiamo che nel ‘72, in onore della consacrazione di Sant'Agnese, si sapeva che l’altare sarebbe stato commissionato a Domenico Guidi. Proprio nel’72 Carlo Maratti realizza questa pala. Qui vediamo una composizione complessa che l'artista crea per Pietro Nembrini, illustre personaggio di Ancona. Carlo è marchigiano, di Camerano, e mantiene sempre un legame con la terra natale. Bellori racconta, infatti, che per la realizzazione di questa pala, Maratti andò nelle Marche. Non ci viene però raccontata tutta la verità perché sappiamo che il contratto viene stipulato a Roma tramite un intermediario del Nembrini, il che significa che Maratti, sostanzialmente, rimane a Roma e non torna nelle Marche. Gli vengono date tutte le informazioni necessarie alla realizzazione della pala, le misure, le dimensioni, quali figure debbano esserci e viene stabilito che sullo sfondo ci debba essere il monte Conero, che sta ad Ancona. Quest'ultimo è usato come spaccato naturalistico per rimandare al luogo in cui l’opera è collocata. È un’opera che fa a Roma e ciò è molto importante perché vuol dire che l’opera viene molto probabilmente vista da Domenico Guidi. La composizione che adotta Maratti è continua perché non c’è nessuna interruzione, dall’alto al basso, una , fa una sorta di semicerchio che parte da Sant'Agostino. Quest'ultimo è infatti in posizione intermedia tra la Terra e la Madonna, il percorso continua verso il San Francesco di Sales, poi San Nicola di Bari e arriva dritto alla Vergine con il Bambino in braccio. È la stessa modalità che adotta Guidi per l’altare di Sant'Agnese, dove non c’è più separazione tra le parti. Maratti è un pittore economo e ciò vuol agr sorta di ansa ad dire che utilizza la stessa composizione per opere diverse, soprattutto per opere che vengono collocate in luoghi molto distanti tra loro, tipo in due città/regioni differenti. A Pietrasanta, allora, nella Cappella Masini-Lucchetti, c'è un quadro di Maratti in cui la figura della Madonna col Bambino è identica a questa. Tutto ciò è da collegare anche ai disegni di bottega, ovvero disegni di figure differenti che l'artista tiene nel suo studio e che poi utilizza all'occorrenza per le diverse opere. Questa sperimentazione nella composizione, in cui le arti iniziano ad affastellarsi, Maratti la porta avanti anche in altre opere. Vediamo quindi la pala per la Chiesa di Sant'Ambrogio, ovvero la Apoteosi di San Carlo Borromeo, con i Santi Ambrogio e Sebastiano, del 1685-86. Sono gli stessi anni in cui Guidi consegna l’opera per l’altare di Sant'Agnese. Sappiamo infatti che Domenico prende circa una decina d'anni per questa commissione, dal 1676 fino all’85. Maratti porta ad un’estrema ratio quella sperimentazione iniziata circa dieci anni prima, in cui il continuum visivo è portato a livelli massimi, c'è quasi horror vacui di figure. Non si ha davvero alcuno spazio libero e a ciò contribuisce il panneggio, esso diventa sempre più espanso, i panni si allargano, si aggrinziscono, le pieghe raddoppiano. Il manto rosso di San Carlo Borromeo è frondoso e crea quasi una cascata di panneggio. Facendo il confronto tra l’opera di Maratti e quella di Guidi, nonostante siano due composizioni differenti per due temi differenti, si capisce che tra i due c'è stato scambio, c'è stata influenza. Si raggiunge uno stesso risultato, ovvero un effetto pittoresco, in cui l'aspetto dell’orpello, della decorazione, prevale rispetto alla composizione stessa. Bisogna riflettere allora su Bellori, perché proprio lui parla dell’importanza di saper disegnare i panni, all’interno della vita di Maratti. Dice che disegnare un corpo è qualcosa che si impara dalla natura, mentre i panni sono più complessi da realizzare. Leggiamo il brano di Bellori in slide. Saper disegnare i panni mostra la reale bravura di un artista, mentre la figura umana è qualcosa di innato perché deriva direttamente dalla natura. Le pieghe sono invece artificiose e si devono confrontare con lo stesso corpo nudo che ricoprono. Sostanzialmente è un elogio che fa nei confronti di Maratti. Osservando la pala di Sant'Ambrogio, si nota come i panni diventino infatti veri e propri protagonisti rispetto ai personaggi e alla narrazione. Tale sviluppo porta poi al barocchetto o tardo barocco (mi raccomando, non è il rococò!). Vediamo in Guidi la figura del San Giuseppe che si trova in basso e guarda l’incontro tra le due famiglie. L’artista ovviamente studia in più momenti il soggetto. Vediamo allora il confronto tra il San Pietro di Maratti, pittura del 1670 (immagine in alto), e lo studio per il San Giuseppe di Guidi. Le due figure sono praticamente identiche. Il lembo sullo stinco di entrambi si ripiega nello stesso identico modo, per questo sappiamo che si sono guardati e suggeriti. Utilizzano lo stesso linguaggio, uno in pittura, l’altro in scultura. Il periodo storico artistico che stiamo studiando è pieno di raffigurazioni di sante in deliquio e in questo caso vediamo un’opera tarda di Bernini, ovvero Santa Ludovica Albertoni nella Chiesa di San Francesco a Ripa, sul Trastevere. La tradizione vuole che San Francesco passò di lì quando andò a Roma. Tornato dalla Francia, Bernini realizza quest'opera negli anni 70. Le particolarità legate alla scultura sono due e sono legate alla famiglia Albertoni e alle vicende personali dell’artista. Bernini la realizza durante il pontificato di Clemente X Altieri, papa dal 1670 fino al ‘76. Il pronipote di questo papa era Angelo Albertoni (successivamente prenderà anche il cognome “Altieri”) e aveva avuto tra i discendenti della famiglia, questa Ludovica Albertoni. La figura di Ludovica era vissuta tra il 1473 e il 1533 ed era stata beatificata, quindi nella famiglia del papa c'era una beata: era stata beata perché nella sua vita aveva fatto opere di bene, aveva aiutato i poveri e egli orfani, tanto da diventare patrona dell’ordine francescano secolare di Roma e lo è tutt'ora. Non è stata mai santificata ma solo beata, però il processo di canonizzazione sarebbe dovuto avvenire durante il pontificato, appunto, di Clemente X Altieri e inizia così nel 1671. Purtroppo, questo processo non arriverà mai al termine. Tutte le volte che si pone una canonizzazione, l'elemento visuale è molto importante e per questo vengono creati dei santini. Viene fatta allora una cappella nella chiesa francesca, dedicandola a lei. Intanto per Bernini non è proprio un periodo roseo per il rapporto con Clemente X, dato che era stato proprio quest’ultimo a togliergli il cantiere dell’abside di Santa Maria Maggiore. Si chiede, dunque, proprio a Bernini perché lui deve intervenire a sanare un problema familiare: suo fratello, Luigi, era stato accusato di sodomia nei confronti di un giovane fanciullo e quindi viene allontanato da Roma. Bernini chiede grazia per il fratello e che venga riportato in città. Il papa accetta ma gli chiede in cambio di realizzare i disegni e la scultura della beata gratuitamente. Lui accetta per il bene della famiglia. La cappella inizia, da un punto di vista cronologico, con la commissione a Giovan Battista Gaulli, detto anche il Baciccio, per la pala d'altare. Questa rappresenta L'incontro tra Sant'Anna e la Madonna col Bambino e angeli ed è del 1670. Quest'opera ha una gestazione lunghissima e Gaulli la consegnerà solo nel 1685, dopo la morte del papa, perché dal ‘73 in avanti Gaulli sarà impegnato in un'impresa gigantesca, ovvero nella volta per la Chiesa del Gesù. Nel frattempo, Bernini inizia a pensare a come realizzare la cappella che è molto piccola, organizzata in maniera estremamente teatrale. A differenza della Santa Teresa, chiusa dalla balaustra, qui si può arrivare a pregare fino all’inginocchiatoio, quindi dentro la cappella stessa. Bernini crea una serie di spazi separati, una sorta di proscenio teatrale sotto la pala d’altare: il tutto è inquadrato prospetticamente. Vediamo queste due ali laterali con gli affreschi che rappresentano la Beata Ludovica Albertoni, a destra, e Santa Chiara, a sinistra. Sono dipinti tardo 500eschi che Bernini fa spostare nella costruzione prospettica, in modo da avere una prospettiva che incanali lo sguardo dentro il fulcro della rappresentazione. Gioca inoltre con la luce perché c'è un’intercapedine in cui vengono inserite delle finestre che permettono al sole di colpire la figura in maniera diretta. È quasi una scultura di luce, l'artista vuole esaltare il bianco del marmo. Utilizza marmo bianco per la beata e marmo policromo diaspro per creare l’effetto di drappeggio che è intermediario tra la santa e l’altare. Bernini crea un ductus visivo tra una parte e l’altra della rappresentazione. Aveva infatti sperimentato diversi drappi durante la sua carriera, non ultimo infatti, proprio in quegli anni, quello del Monumento ad Alessandro VII. Bernini crea quindi una serie di spazi deputati, alla maniera del teatro: abbiamo l’altare, il proscenio con il diaspro che porta a Ludovica Albertoni e poi la pala d'altare di Gaulli. Il diaspro è a lastre e lo si capisce solo avvicinandosi, lavorato da diversi artigiani. In questa cappella Bernini riprende un topos scultoreo che prende piede all’inizio del ‘600, però sappiamo che solitamente le figure di sante non stanno sopra l’altare, bensì sotto. Stessa cosa succedeva anche per le reliquie dei santi, che di prassi stanno sotto l’altare. È un topos abbastanza antico ma che a Roma diventa importante con l'avvento del nuovo secolo.
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