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Sbobine di Estetica: critica del Giudizio di Kant ed estetica di Hegel - prof. Caramelli, Sbobinature di Estetica

Il documento contiene interamente le 30 lezioni sbobinate, integrate alle slide e, va da sé, ai testi d'esame; è quindi più che sufficiente per passare con lode l'esame. Si tratta di due moduli: Modulo I: Kant e l’estetica moderna, commento alla Critica del giudizio; Modulo II: L’estetica di Hegel.

Tipologia: Sbobinature

2022/2023

In vendita dal 30/09/2023

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Scarica Sbobine di Estetica: critica del Giudizio di Kant ed estetica di Hegel - prof. Caramelli e più Sbobinature in PDF di Estetica solo su Docsity! SBOBINE DEL CORSO DI ESTETICA Prof.ssa Caramelli, a.a. 2022/2023 Alma mater studiorum - Università di Bologna Questo documento comprende per intero le sbobine delle trenta lezioni, ben integrate alle slide proiettate; materiale più che sufficiente per passare l’esame. È diviso nei due moduli:  Modulo I: Kant e l’estetica moderna  Modulo II: L’estetica di Hegel: arte, apparenza, storicità MODULO I Lezione #1 30-01-23 Il primo Modulo comprende dal punto di vista manualistico i volumi: "Critica del Giudizio" e "Storia dell'Estetica Moderna e Contemporanea". Cominciamo da alcune note introduttive. Secondo Theodor Adorno, il lessico filosofico vive di una contraddizione speciale: i termini della filosofia, infatti, sono costituiti da un'ambiguità: un medesimo termine, a seconda del pensatore o del periodo storico (così come per la corrente) detiene molteplici significati. => Estetica: in filosofia, secondo Adorno, i termini sono anche concetti che rispondono ad un problema concettuale; un medesimo termine con alla base un concetto può detenere molteplici significati. E' fondamentale saper analizzare il cambiamento ed il motivo del mutamento (o discontinuità) a cui il concetto và incontro. Il termine Estetica deriva dal greco "aisthesis": Sensazione. (Senza escludere un qualche riferimento alla problematica del sensibile). In filosofia, il metodo definitorio, non funziona (ciò che si trova alla base dei dialoghi di Platone su "cos'è la virtù?" e alla filosofia di Socrate in cui si cerca di far nascere la verità dall'interlocutore): importante è dunque andare incontro ad una trasformazione dell'Estetica. Alcune parole chiave su cui ci si deve soffermare per poter analizzare la materia in questione sono: la sensibilità, la bellezza, l'arte, il gusto, il sublime ed il genio. La Critica del Giudizio di Kant (1790) è forse la prima grande opera di estetica scritta, di cui verranno analizzate solamente alcune parti in merito alla sua prima sezione riguardante la tematica del gusto (a ciò si aggiungerà un volume a scelta consigliato per i non frequentanti). Nel corso del 2° Modulo ci si occuperà di analizzare la titanica figura di Hegel (che tenne le sue lezioni di estetica nel corso degli anni '20 del XIX° secolo) e di alcuni sostenitori del pensiero post-Kantiano. Nonostante siano trascorsi solamente trent'anni, ci troviamo dinanzi a numerose ed importanti trasformazioni terminologiche, talvolta radicali. Hegel: secondo la visione del filosofo, la "bellezza" la si definisce come facente riferimento esclusivamente alle belle arti. L'idea del bello proviene solamente dal Bello Artistico. In questi anni ci troviamo dinanzi ad una vera storicizzazione dell'estetica: lo stesso Hegel tendeva a far riflettere i propri studenti sull'ambiguità del termine (comprendente una pluralità ed una trasformazione nel corso del tempo). 1 Il secondo Modulo comprende, dal punto di vista manualistico i volumi: "Lezioni di Estetica" (corretto parlare di un "duplice autore", riscontrabile in chi dice effettivamente le cose e chi invece le scrive) e "L'Estetica di Hegel". Inizio del Corso: Il termine Estetica deriva dal greco, "aisthesis", che significa sensazione. Si tratta di un Neologismo: il battesimo di tale disciplina avvenne nel '700, più precisamente, tra il 1735 ed il 1750, con la pubblicazione del volume intitolato "Estetica" da parte di Baumgarten, filosofo tedesco vissuto tra il 1714 ed il 1762. Si tratta di una scienza della conoscenza sensibile, si occupa di capire come i sensi producano una conoscenza specifica => a questo punto, è inevitabile introdurre la tematica della conoscenza proveniente dal sensibile. (Immanuel Kant 1724-1804) Le 3 critiche di Kant sono: la critica della ragion pura, la critica della ragion pratica e la critica del giudizio, attraverso le quali giungerà alla definizione, nel 1790, di un'estetica come giudizio di gusto naturale ed artistico. Kant contestò a Baumgarten di aver inteso l'estetica come una critica del gusto e come base di uno spirito critico. Il pensiero antico si caratterizza come avente una posizione molto netta: dal sensibile non può provenire alcun tipo di conoscenza (un esempio ci viene fornito da Eraclito e Platone). => Frammento 22B 56 Diels-Kranz: "Eraclito dice. Gli uomini cadono in inganno nel conoscere le cose evidenti come Omero, il quale fu il più sapiente dei Greci. Infatti, alcuni ragazzi mentre uccidevano pidocchi, lo trassero in inganno dicendogli: le cose che abbiamo visto e preso le lasciamo dietro di noi, ciò che non abbiamo visto né preso lo portiamo con noi". Si tratta di un indovinello posto da alcuni ragazzi ad Omero, che si pensa non riuscì a risolvere, morendo conseguentemente di dispiacere. Verrà più semplicemente spiegato da Aristotele => la sensibilità è da concepire come parassitaria, esattamente come i pidocchi, da lasciare dietro di sé. Trae in inganno addirittura il più sapiente dei greci, Tiresia (seppur cieco). "Questo ci dice che, nel pensiero antico, il sensibile è doppiamente ingannevole. Non solo perché 1) il sensibile, essendo transitorio, non potrebbe fornire nessuna conoscenza fondata e durevole; ma anche perchè 2) in tutto il suo prorompere, esso sembra al contempo la fonte della conoscenza più certa, la più disponibile, cioè quella che sembra offrirsi alla semplice registrazione dei nostri sensi". 2 Monadologia, 1714 Ogni unità minima di coscienza (per l’appunto la monade), ogni monade riflette tutto quello che le sta intorno e riflette tutto l’universo, è come uno specchio che, a modo suo, rispecchia dunque tutte le cose che succedono nell’universo. Le più vicine le rispecchierà per come sono davvero e poi, mano a mano che il riflesso si allontana, andando sempre più in là, i riflessi si faranno più opachi e più confusi, senza levare, tuttavia, che la monade rifletta tutto quanto si può immaginare. In questo modo, non c’è più una differenziazione netta tra rappresentazioni chiare e distinte e quelle chiare e confuse. C’è solo una differenza di grado, che è poi un grado di lontananza. Per quanto questo grado di lontananza possa essere anche molto alto, pertanto, ogni percezione, ogni sentimento, per quanto possa esserne anche solo l’eco più sbiadito e trascolorato, ha in sé una traccia del vero. Infinita serie di gradi: ogni coscienza è come una monade che ha una superficie riflettente e su questa superficie tutte le cose hanno un riflesso: quelle più vicine ce l’hanno chiaro, quelle più lontane più opaco, meno nitido ma tutto ciò che la sfera riflette porta in se qualcosa di vero \\ conoscenza sensibile: chiare ma confuse, hanno in se qualcosa di vero. Leibniz: rappresentazioni mediane che non sono proprio chiare, ma comunque si da una linea di continuità tra una conoscenza indubitabile e ciò che invece è chiaro ma incerto, ma non perché le cose sono incerte devono essere false!!! Altra osservazione etimologica Slide 12 Nel tedesco antico il significato complessivo del termine Sinnlichkeit era associato più alla dimensione di quanto è dotato di senso (in tedesco sinnvoll), cioè è ragionevole e comprensibile, che non alla dimensione di ciò che ha a che fare con i sensi, cioè il corrispondente del termine latino sensualitas. Solo più tardi, cioè solo nella modernità, il significato di Sinnlichkeit, nella lingua tedesca, coincide interamente con la sfera di ciò che attiene ai sensi, cioè qualcosa che costituisce l’insieme di sensualitas e sensibilitas. In questo senso bisogna ricordare, pertanto, che laddove tutte le lingue neolatine mantengono la distinzione tra sensualitas, che tende alla voluptas (cioè a qualcosa che ha che fare con il desiderio di cose sensibili), e la sensibilitas, che attiene invece alla percezione sensibile, l’area linguistica germanofona dispone di un solo termine per entrambe le sfere di significato. Tedesco sensibilità = Sinnlichkeit, che nel tedesco antico (in italiano: sensi = 5 sensi, cose sensibili,, ma sono anche qualcosa di astratto “senso” ) nel tedesco antico Sinnlichkteit, qualcosa dotato di senso (comprensibile, qualcosa che gli altri comprendono. Poi Questo termine ricondurrà ai cinque sensi, prendendo la valenza di “sensualitas” (\\ italiano: desiderio dei sensi, voluttà). La stessa storia della lingua ci testimonia un rapporto tra senso -sensi (i sensi fisici sono legati a qualcosa che si comprende) Slide 13 «‘Senso’ è infatti una parola meravigliosa, che possiede 5 due significati contrapposti; giacché ‘senso’ indica in un caso l’organo immediato dell’apprensione sensibile, e d’altra parte noi chiamiamo ‘senso’ il significato, ovvero l’altro del sensibile, l’interno, il pensiero, l’universale della Cosa» Hegel, Lezioni di Etetica 1823, p. 58 Sensibile e ideale - In verità il nesso rigido dell’estetica con la componente sensibile è labile, e fin da subito problematico. L’estetica della terza critica kantiana non si basa sull’analisi di una sensazione dei sensi, ma su di un sentimento che non è la sensibilità a determinare. Nondimeno, e altrettanto certamente, c’è un determinato “sentire” che è fondamentale nel piacere legato al bello Friedrich Schiller (1759-1775) distingue, nell’uomo, l’impulso sensibile e un impulso formale, e vede il compito dell’educazione estetica come la moderazione reciproca dei due impulsi, volta a produrre una loro armonizzazione. “senso”: dice Hegel nelle lezioni di “estetica” è una parola meravigliosa, perché possiede 2 significati contrapposti 1) L’organo immediato dell’apprensione sensibile 2) Senso = significato, l’altro lato del sensibile, l’universale, l’interno della cosa Nesso estetica-sensibile come qualcosa che è SOLO APPRENSIONE DEI SENSI: qualcosa di labile, che viene dimenticato fin da subito; Kant III critica “estetica” critica del gusto, non si parla più di un rapporto diretto con sensibilità come apprensione sensibile ma un rapporto con il sentimento, un apprensione con il sensibile e il reale. Il giudizio di gusto non ha a che fare con sensazioni ma con sentimenti, sentimento non è riducibile all’apprensione\intuizione che ci viene dai sensi Estetica ha a che fare con il problematico rapporto tra sensibile-ideale anche in Schiller : lettore di Kant (S: 1759-775), migliore amico di Goethe, fine 1700 scrive una serie di saggi e da anche un contributo di filosofia epistolare “lettere sull’educazione estetica dell’umanità” qui pensa l’arte (produzione e fruizione) come qualcosa tra impulsi sensibili + ragione. L’estetica legata al sensibile diventa opaco. Problematico legame senso-sensi. L’arte quindi, la sua produzione e fruizione è pensata come un’educazione che armonizza, unifica la componente sensibile e la componente razionale. Slide 14 Per Hegel il termine “estetica” diventa infatti problematico; gli sarebbe preferibile l’idea di una filosofia della storia dell’arte. Ciò non toglie che la bellezza sia per lui manifestazione sensibile dell’idea. «Il nome estetica in realtà è inappropriato, ma il nome è indifferente. È stato impiegato anche il termine callistica, ma qui si ha a che fare non con il bello in genere, ma bensì con il bello d’arte» (Estetica 1823, pp. 16-17) Critica di Hegel a un’estetica concepita come ciò che ha a che fare con i meri sensi ma anche coi sentimenti Questa ambiguità del termine “estetica” è talmente evidente fin dalla sua nascita (1750) poi 1781 estetica= scienza della conoscenza sensibile, e poi diventerà critica del gusto legato al sentimento a metà tra sensibile e ideale. Il carattere ambiguo della parola , è talmente evidente che Hegel, introduce le in sue lezioni a Berlino dicendo “io insegno una disciplina, estetica, che però è un termine ambiguo” . Per Hegel l’estetica deve diventare una filosofia della storia dell’arte, quindi per Hegel la bellezza è una manifestazione sensibile di un’idea. Estetica riflette su bellezza e arte. 6 Slide 15 E tuttavia, se l’estetica riflette sulla sensibilità, sulla bellezza e sull’arte, non si dovrebbe poter riscontrare una continuità tra antico e moderno? Non dovrebbe potersi dare un’estetica anche prima che le riflessioni sulla costellazione estetica vengano battezzate con il nome di estetica come succede nella modernità? Anche gli antichi hanno infatti riflettuto sullo statuto della sensibilità, sulla bellezza e su qualcosa che, col senno di poi, possiamo nel complesso chiamare le arti. Dal punto di vista storico, almeno due approcci: B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (1902) W. Tatarkiewicz, Storia dell’estetica (1970), trad. it. a cura di G. Cavaglià, Einaudi 1980 C’è una continuità tra antico e moderno? Gli antichi hanno fatto una grande arte, l’arte classica viene considerata modello di ogni altra arte. Gli antichi hanno riflettuto sulla bellezza, hanno fatto arte, ma, per gli antichi la bellezza e l’arte non sono due cose che vanno insieme come invece lo sono per noi. “belle arti”: per belle quando è nato il termine i intende arti libere Dal pdv storico ci sono tentativi di pensare un’estetica antica, uno degli esempi è quello di Carchia “l’estetica antica” Storia dell’estetica: due approcci principali: 1) benedetto croce, 1902, pubblica un libro “estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale 2) Vladimir Tatarkiewicz “storia dell’estetica”, 1970 che poi è stata tradotta in italiano nel 1980. Slide 16 Estetica di Croce divisa in due parti: “Teoria”, “Storia”. In questo modo, prima viene definito cosa sarebbe l’estetica, dopodiché viene rintracciato il faticoso modo con cui essa sarebbe emersa nella cultura occidentale. Tatarkiewicz muove invece dall’irriducibile pluralità dell’estetica e delle poetiche, un pluralismo tale da essere un carattere costitutivo nella continuità dell’estetica; ma non sarà casuale che la sua storia dell’estetica si arresti proprio alle soglie della modernità (ultimo capitolo dedicato all’estetica italiana e Giambattista Vico 16681-1744) Ulteriore approccio, che accantona ogni scrupolo nominalistico: estetica sarebbe tutto ciò che riguarda i problemi e i temi che oggi chiamiamo estetica Perché due approcci alternativi e qui presentati come principali nella storia dell’estetica? Vediamo come già nel titolo di Croce c’è una definizione dell’”estetica” “scienza dell’espressione e linguistica generale” il metodo storiografico di Croce, per tenere insieme tutte queste cose contrastanti, è trovare 7 Platone il filosofo è amico della bellezza, Nell’antichità ricorda Ritter: bello = ente, la bellezza è nelle cose, nessuna trasformazione può rendere l’essere più bello; per noi la contemplazione dell’essere rientra nella metafisica Medioevo: cose belle in quanto enti; solo nella modernità la creazione artistica subentra all’essere, la parola del poeta subentra al logosà nel moderno viene meno l’idea della valenza ontologica del bello. “critica del giudizio” Nel moderno la bellezza si lega a ciò che noi facciamo, nel moderno viene meno la valenza ontologica «Nell’antichità e nel Medioevo, le cose sono belle in quanto enti, e non per come l’uomo le fa». Solo nel moderno «la creazione artistica subentra all’essere, la parola del poeta al logos». «Alla creazione di Dio subentra l’opera dell’uomo» (ivi, p. 25). Nel moderno «è venuta meno l’idea di una valenza ontologica dell’arte. L’arte vale anzitutto come manifestazione dell’uomo in funzione dell’uomo. Nell’estetica moderna il bello non è concepito come l’ente, ma come un’idea dell’uomo e da lui immaginata nelle cose». «Dal XVII fino al XX secolo l’arte si arroga in misura crescente la pretesa di rappresentare lo spirituale come tale: è un fatto unico, privo di analogie con qualunque cultura tradizionale» Ritter/Marquard: teoria dell’estetizzazione come risarcimentoogica del bello, vale il bello come manifestazione dell’uomo Hegel “l’arte è un prodotto dell’uomo per l’uomo” à dal XVII al XX sec l’arte si arroga in misura crescente la pretesa di rappresentare lo spirituale come tale, un fatto unico privo di analogie con la tradizione. Se l’arte è ciò che rappresenta lo spirituale come tale( x es Goethe, autore di culture.). In Kant la bellezza non è una qualità dell’oggetto, è solo in rapporto alla soggettività che lo guarda. (domanda in aula) Slide 24 u Il filosofare antico è caratterizzato dalla cosiddetta intentio recta, che è una formulazione latina, che sta a indicare un diretto interesse verso l’oggetto, non mediato dalla soggettività. In questo senso, infatti, non si può dire che il pensiero antico sia propriamente antropocentrico, cioè un pensiero che trova il centro delle proprie spiegazioni nella natura dell’uomo (anthropos, in greco, significa uomo, quindi antropocentrico significa, letteralmente, un pensiero uomocentrato). La filosofia moderna, invece, a partire almeno da Cartesio, cioè dal diciassettesimo secolo, il Seicento, è caratterizzata da quella che, sempre secondo l’espressione latina, si chiama intentio obliqua, cioè un interesse verso l’oggetto che passa attraverso la mediazione, l’intervento della soggettività che con l’oggetto è in rapporti. u “Intentio obliqua, cioè quell’orientamento riflessivo della filosofia 10 onde il suo problema centrale diventa quello del soggetto” (Th.W. Adorno, Terminologia filosofica) Lezioni tenute da Adorno (1903-1969) all’Univversità di Francoforte tra il 1962 e il 19 Adorno: intentio rectasà intelletto riflette le cose intentio obliquaà mediazione della soggettività slide 25 Non è casuale, in questo senso, che Jürgen Habermas (1929-), nel suo testo dedicato al Discorso filosofico della modernità, rilevi come la disciplina dell’estetica sia per l’appunto una disciplina squisitamente moderna nella misura in cui ha a che fare con il carattere autocosciente e riflessivo della soggettività moderna. «Il problema di un'autofondazione della modernità giunge alla coscienza anzitutto nell'ambito della critica estetica, come si può vedere quando si segua la storia concettuale dell'espressione “moderno”. Il processo di separazione dal modello dell'arte antica è avviato all'inizio del secolo XVIII dalla celebre Querelle des Anciens et des Modernes» – J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità (1985), trad. di E. e E. Agazzi, Laterza, Roma-Bari 1987, p. 8 Querelle des anciens et des modernes (1687-) – Classicisti (Nicolas Boileau): arte come imitazione dell’arte antica, e “modernisti” (Charles Perrault): rinnovamento del modello antico Il legame tra estetica e modernità, non è verbalistico, . Habermas “il discorso filosofico della modernità”: ci spiega come l’estetica si leghi alla modernitàà l’estetico è un ambito su cui noi riflettiamo su noi stessi (fatta dall’uomo per l’uomo e basta) Quando noi siamo nell’ambito dell’estetica troviamo un ambito in cui l’uomo ragiona su se stesso, l’uomo produce la nozione di autocoscienza, l’arte è pensata come qualcosa dell’uomo per l’uomo e quindi permette di conoscere noi stessi. Slide 26 Come dirà Heidegger in un seminario su Nietzsche del 1937, commentando la posizione estetica di Schiller, nel sentire estetico non si ha a che fare con una sensazione di un oggetto, bensì di un sentire (aisthanomai, da cui aisthesis) che è un sentire di sé. Dice Heidegger: «siamo sempre codeterminati dall’avere sensazioni in questo o in quest’altro modo. In uno con l’avere sensazioni, ci troviamo sempre in questo o in quello stato, senza riflettere su di esso. Le sensazioni in senso ampio le designiamo anche come sentimenti. Diciamo: è duro al tatto. Quando sentiamo qualcosa, mentre la sentiamo, ci sentiamo noi stessi in uno stato. Sentire qualcosa è sempre un sentir-si. Nell’aisthesis non viene soltanto preso in carico, appreso qualcosa, bensì si attua al contempo anche un’apertura di noi stessi. Non solo il che cosa del dato, bensì anche il come del sentirsi lì, il sentircisi in questo o in quell’altro modo. Questo punto di vista, in base al quale nel sentire qualcosa il senziente con-sente insieme se stesso ed è in tal modo collocato in uno stato – questo rientra nel senso più ampio dell’estetico, cosicché l’estetico non è la determinazione del sentito, della sensazione di ciò che è dato sensibilmente, 11 bensì diventa la determinazione di uno stato d’animo. È questa, in generale, la latitudine del significato di estetico». Se qui si dice estetico, non si dice una caratterizzazione di ciò che è dato sensibilmente in quanto tale, bensì la caratterizzazione di uno stato dell’animo. Ma poiché ogni stato dell’animo resta riferito ad oggetti, e gli oggetti debbono mostrarsi – e il modo in cui si mostra è la loro qualità estetica. L’estetica è la segnatura di uno stato d’animo dell’uomo». Heidegger: seminario su Nietz nel 1937, definizione di estetica “siamo sempre codeterminati nell’avere sensazioni in questo o in quello stato….” Vd slide) Le sensazioni le definiamo come sentimenti: quando sentiamo qualcosa sentiamo noi stessi in uno stato, sentire qualcosa è un sentirsi. Kantà nel giudizio di gusto il sentire è un sentirsi, un sentire se. Non è la registrazione passiva di qualcosa di sensibile, è un come ci sentiamo, sentire\ sentirsi, raffinazione del giudizio di gusto Slide 27 Bellezza Bello – καλόν – pulchrum (soppiantato nel Rinascimento da bellum) W. Tatarkiewicz, Storia di sei idee (1975) Bello in senso ampio à concezione greca originaria, ove bello è anche bello morale Bello in senso puramente estetico e moderno, ove bellezza è una categoria specifica e delimitata Per i greci arte e bellezza sono due cose diverse, mentre per noi arte e bellezza vanno di pari passo. Poi c’è una domanda e la prof fa un esempio: siamo nell’aula ed io ho freddo, la mia sensazione è del tutto personale; il gusto invece è diverso, è un sentimento che non c’entra nulla con il personale, il sentirsi, che è una cosa più elevata, è un sentire ciò che accomuna me a tutti gli altri esseri umani. Per questo motivo il SENTIRE è diverso dal sentire sensibile, è qualcosa di universabilizzabile. Il giudizio di gusto presume che sia possibile un accordo. Slide 29 «La misura e la proporzione risultano essere, dappertutto, bellezza e virtù» (Filebo, 64 E). u Affinché le cose possano essere conosciute, esse devono essere limitate ed essere caratterizzate dal numero: «Tutte le cose che si conoscono hanno numero (arithmos); senza il numero, non sarebbe possibile né pensare né conoscere nulla» (44 B 4 D.K.). Non essendo i principi delle cose né simili né omogenei fra di loro, da essi non sarebbe stato possibile formare un kosmos «se non fosse intervenuta armonia» (44 B 6 D.K.). u Kosmos – bellezza è l’emergere dell’universo in quanto ordinato, proporzionato In antichità la bellezza è ontologica perché ha ordine e misura: tutto ciò che esiste ha numero, altrimenti sarebbe irriconoscibileà l’ordine, la misura, è bellezza, è kosmos. Il kosmos è il mondo ordinato\ proporzionato che si rivela a noi nella bellezza. Kosmos è l’universo in quanto misura, la bellezza è la manifestazione dell’ordine. Slide 30L’universo, in quanto kosmos è, secondo Filolao, caratterizzato da una «grandezza armonica» ordinata secondo intervalli musicali che definiscono una scala di toni e semitoni (44 B 6 D.K.). Un’idea, questa, che avrà un’influenza decisiva sul secondo neoplatonismo; in particolare su Agostino (De musica, 388-391 d.C.) e Severino Boezio (De institutione musica, 500-507 ca. d.C.). 12 dell’arte bella. Il luogo dell’esperienza estetica è il giudizio di gusto. La rosa è bella, ma se la giudico secondo un giudizio di gusto, io non giudico la rosa come un prodotto naturale, ma le do un giudizio conoscitivo. Se io, della forma di una cosa di cui formulo un giudizio di gusto, non riferisco la rappresentazione della cosa alla cosa, e dico di qualcosa che è bello, la riferisco solo al soggetto. La soggettività di cui partecipiamo all’estetico è la parte soggettiva che mi rende uguale a tutti. L’estetico è un’esperienza soggettiva, per una parte che in ogni soggetto è uguale a tutti gli altri. (non sensibilità che ci rende diversi per esempio la temperatura) Slide 37 Anche se un giudizio di gusto si presenta formalmente come un giudizio logico («X è bello» ha la forma «S è P»), ciò non significa che esso davvero determini una proprietà oggettiva di S; piuttosto riflette lo stato d’animo di chi lo pronuncia. Il giudizio estetico è infatti un giudizio riflettente. «la bellezza è solo per l’uomo in quanto essere animale ma anche razionale» E l’esperienza del giudizio estetico è un’esperienza di libertà: quando, della rappresentazione di una cosa, dico che è bella, «Le facoltà conoscitive, messe in gioco da questa rappresentazione, son qui in un gioco libero, perché nessun concetto determinato le costringe a una particolare regola di conoscenza». Questo accordo libero e spontaneo genera un sentimento di piacere, che nulla ha a che vedere col possesso, visto che il giudizio di gusto è disinteressato alla reale esistenza della cosa. Il giudizio di gusto è contemplativo. Proprio perché è un giudizio slegato da ogni attrattiva ed emozione contingente il giudizio di gusto è universalmente comunicabile, detiene una validità comune. L giudizio Kant lo chiamerà “giudizio di gusto\riflettente” ovvero che riflette sulle cose, e riflette noi stessi, la soggettività. (par 8 critica del giudizio) Kant cerca di «definire il bello nei termini di un sentimento di libertà: libertà intesa come indipendenza da ogni interesse extra-estetico (gnoseologico, etico, economico o edonistico che sia); ma anche libertà intesa come autonomia, nel senso etimologico: capacità di affermare qualcosa di generalmente valido comunicando un’esperienza che nasce come individuale, il gusto, e che tuttavia esige di condividersi con i propri simili, senza imporre né lasciarsi imporre un criterio già preconfezionato. Nel giudizio riflettente, diceva Kant, l’universale non è dato: esso semmai va trovato» G. Garelli, La questione della bellezza, cit. Introduzione alla storia della bellezza di Garelli “definire il bello nei termini di un sentimento di libertà”: capacità di affermare qualcosa di generalmente valido…..vd slide 38 sopra) L’universale non è dato, semmai va trovato. Kant prova a confrontarsi con la scommessa: “il bello è pura rappresentazione senza esistenza”: quando do un giudizio di gusto dico poco sul reale, il giudizio di gusto è sentimento senza desiderio, pura contemplazione. Stando al primo momento dell’analitica del giudizio di gusto, il bello è un piacere disinteressato, non imposto da nessun bisogno, nessuna mancanza. Il bello piace solo in quanto è contemplato. «Il bello è rappresentazione senza esistenza: pura rappresentazione. Il giudizio di gusto è sentimento senza desiderio: pura contemplazione» (L. Pareyson, L’estetica dell’idealismo tedesco, 15 Mursia 2005, p. 46. Slide 40 La duplicità del bello si manifesta chiaramente con la storicizzazione dell’estetica che si compie con Friedrich Schiller (1759-1805) 1795 Saggio sulla poesia ingenua e sentimentale Poesia ingenua: antichi Poesia sentimentale: moderni Superamento del canone dell’imitazione Tale distinzione sarà molto influente sia per Schelling (1775- 1854) che per Hegel (1770-1831 Abbiamo detto che il bello per gli antichi è misura, proporzione vs moderni: dimensione oggettiva. Un autore successivo a Kant (Schiller), lettore di Kant, amico di Goethe, testimonianza di amicizia con l’epistolario tra Schiller e Goethe, vediamo che lui porta a compimento la storicizzazione dell’estetica, lui parla apertamente, dice che la bellezza per gli antichi è diversa da quella dei moderni: poesia ingenua\sentimentaleà arte degli antichi, la bellezza è natura, essere; per loro non c’è mai un sentimento di mancanza, perché la bellezza è nell’essere, nella natura, c’è un’unità. Vs sogg moderna: la natura è stata persa, abbiamo perso la bellezza naturale e quindi la ricreiamo; muore il canone dell’arte come imitazione della natura. Slide 41 Con Hegel e la sua Estetica (uscita nel 1835-1838 dopo la morte del filosofo a cura dell’allievo Hotho), il bello naturale è definitivamente bandito dall’estetico. Per Hegel il bello è solo e soltanto bello artistico. In questo modo, la sua monumentale estetica consolida l’estetica come filosofia dell’arte; l’estetica di Hegel è da questo punto di vista una filosofia della storia dell’arte. Ernst Gombrich (Hegel und die Kunstgeschichte, «Neue Rundschau»,2 [1977]) ha pensato Hegel come un padre della storia dell’arte Lezioni hegeliane di Estetica all’Università di Berlino, 1821, 1823, 1826 e 1828/1829 La bellezza, essendo legata alla manifestazione sensibile dell’idea, ha per Hegel, in opposizione a Kant, una valenza contenutistica e non solo formale. Il significato etimologico di “estetica” va almeno parzialmente perduto con gli sviluppi dell’estetica (rif. intro. a intro. Hothos Druckfassung) Per Hegel l’estetica è disfunzionale, estetica come filosofia della storia dell’arte, l’atteggiamento storico è la cosa principale. Leggeremo Hegel, vedremo come lui storicizza i termini, riflette tra 16 storicità antica e moderna e riflette sulla frammentarietà tra antichi e moderni. Con Hegel viene fugata l’ambivalenza della bellezza naturale vs artistica, Per Hegel dire “bellezza naturale” è un controsenso, il bello può essere solo bello artistico (essendo il bello creato dall’uomo per l’uomo) Gombrich: vede in Hegel il padre della storia dell’arte. Slide 42 Gusto: parola centrale per l’estetica moderna. IL gusto ha a che fare con qualcosa di soggettivo. Se per gli antichi il bello è qualcosa che esprime l’ordine del cosmo allora non c’entra nulla con il gusto. 1700: gustoà giudicare la bellezza sulla base di un sentimento. La centralità del gusto nel 1700 segna secondo Cassirer la svolta verso il soggettivismoà gusto centralità del soggetto. Il gusto però non è un arbitrio soggettivoà qual ‘ la fonte del gusto? Cosa rende me uguale a tutti gli altri? La soggettività partecipa alla totalità rendendosi uguale a quella degli altri, c’è un senso comune “la filosofia dell’illuminismo”: idea di soggettività universale che si esercita nel gusto. Esercitando il mio gusto partecipo della soggettività che mi rende uguale a tutti gli altri: c’è una validità comune del senso estetico, quindi il gusto ha una normatività segreta che però non riesce ad essere formulata a parole, c’è una regola che è indicibile. Non c’è una giustezza del gusto. La giustezza del giudizio di gusto non è analoga a quella del giudizio conoscitivo. “Laddove il giudizio conoscitivo….mentre la logica esige determinatezza..” L’esercizio del gusto non prevede l’adeguamento all’intelletto che invece la conoscenza richiede (slide 44) Slide 44 Mentre la logica esige determinatezza, il gusto esercita il suo ufficio anche in virtù di un margine di indeterminatezza. L’esercizio del gusto non prevede alcuna adaequatio rei et intellectus Jean-Baptiste Dubos (1670-1742) stabilisce come il criterio dell’esperienza estetica sia anzitutto l’osservazione di sé, la qual cosa permette di evocare quella interiorità che, pur essendo apparentemente chiusa dentro di noi, è uguale in tutti. Nulla di più opposto all’antica estetica del canone, ripresa dal classicismo. Proprio per questo, il gusto non si affina con la teoria e i concetti, ma con l’esercizio medesimo del gusto: con l’esperienza. Lezione #3 3/02/23 Critica del gusto prettamente moderna: - La radice del gusto è il senso comune - Kant distingue da un’intelligenza che va operate e sbiadita ad un “sensus comunis”, in Kant l’esperienza estetica è vista come un ponte, come un momento di passaggio! - Non si può dimostrare la correttezza e la giustezza del gusto (VALIDITA’ COMUNE DEL GIUDIZIO DI GUSTO), al contrario della bellezza (GIUDIZIO CONOSCITIVO). - ESPERIENZA ESTETICA= ponte, luogo di passaggio. - Mentre la logica esige determinatezza il gusto fruisce in un certo margine di indeterminatezza. → Il gusto si affina solo con l’esercizio del gusto medesimo, ovvero l’esperienza (esperienza estetica). DAVID HUME (1711-1776): - Pensatore con il quale Kant si confronta anche dal punto di vista teoretico - “La regola del gusto” scritto nel 1756: “Benchè vi sia per natura una grande differenza tra una Persona e l’altra riguardo la delicatezza, nulla può accrescere o perfezionare questo talento più della pratica in un’arte particolare e la frequente osservazione e contemplazione di una Specie particolare di bellezza”. 17 aspetto sensibile ovvero la voce dopo un po’ si smorza, il destino del suono è vibrare e finire, dall’altra parte resta il significato che è immateriale... senso —> sensibile/significato Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento avviene l’estetizzazione dell’arte, che si compie tra Kant e Hegel. Ancora con Kant si parla di bellezza naturale, per Hegel invece l’estetica si occupa solo di bello artistico. Tra Kant e Hegel si consolida l’idea per cui l’estetica è una filosofia fondamentale. In Kant il giudizio di gusto si occupa di trovare un’unità di senso nella nostra esperienza perché in Kant la nostra natura è duplice, abbiamo un piede nel sensibile e uno nel senso (sovrasensibile) altrimenti rischia di rimanere scissa. In Hegel l’arte è ciò che esprime i più alti interessi dell’essere umano. In tutte le belle arti per Kant l’essenziale sta nella forma. Quella di Kant è un’estetica della forma mentre quella di Hegel è un’estetica del contenuto. La forma dispone lo spirito alle idee. Il gusto è la facoltà di giudicare la bellezza, lo abbiamo tutti noi più o meno raffinato; il genio è ciò che produce le arti belle. Associazione di Kant tra arte bella e arte di genio. Il genio in maniera inconsapevole e senza regole produce arte. Non sono le simmetrie e perfezioni sensibili a produrre arte ma sono esempi individuali che eccedono ogni legge per questo l’idea di genio è moderna: nell’antico tutto ciò che è bello è ordine, simmetria, kosmos perciò il genio è incompatibile con l’antico. Scienza e mestiere sono cose che tutti noi possiamo imparare tramite studio, l’arte non si può apprendere. Ogni genio costruisce una nuova regola che però non sa spiegare. Per Kant il genio è solo artistico e non si può parlare di genio scientifico perché si può sempre ricostruire il suo percorso di pensiero dal punto A al punto B. Il genio è un talento in cui l’immaginazione guida l’intelletto, questo è un accordo libero che esprime la massima libertà della soggettività. L’idea di genio artistico è tutta settecentesca. “Genio” viene da gignere = generare, l’arte è produzione non imitazione, viene anche da ingenito = ingegno innato. Il genio per Kant è originalità, non arbitrio né capriccio, infatti per Kant “genio incompreso” sarebbe un ossimoro: non c’è vero genio che non sia straordinariamente capace di comunicare il contenuto della propria creatività. Soltanto Schiller 1759 - 1805, colui che dopo Kant storicizza l’estetica (in Kant non troveremo bello antico o bello moderno ma avremo una prospettiva astorica), parla di genio antico. Sulla poesia ingenua e sentimentale (1795) — Schiller distingue il modo d’essere del genio antico e del genio moderno: il genio antico è un genio ingenuo. In Hegel la nozione di genio perde di centralità. Hegel contesta l’ubiquità dell’idea di genio perché puntare e legare l’arte a quest’idea di genio rischia di abbassare l’arte a qualcosa di soggettivistico (successe questa cosa riguardo a Schiller e Goethe, essi trascurano anzi agiscono contro regole in modo intenzionale; per Hegel l’artista deve avere grande esperienza dell’umano) Quindi x Hegel l’esperienza ha un ruolo più centrale rispetto alla genialità. Per Hegel c’è una differenza tra arte antica e arte moderna, ovvero quello che lui chiama arte romantica, un lungo periodo che comincia con l’avvento del cristianesimo. La nozione di modernità non coincide con la schematizzazione manualistica. L’arte moderna è caratterizzata dal fatto che essa riflette su se stessa. L’arte antica non si interroga su ciò che è arte (ingenuità), è irriflessiva , la riflessione è il tratto caratteristico dell’arte moderna. Opere delle slide commentate dalla prof.ssa —> 1 Ritratto di una donna della famiglia Holfer Tre cose potrebbe simboleggiare la mosca sulla tela: Realismo/Simbolo del memento mori/Mosca sulla tela non dentro il quadro. Ultimo significato = meta ritratto, sospendere la capacita dei quadri di mentire (elemento di riflessione). 20 —> 2 Il giovane e gli ambasciatori; effetti d’inganno, anamorfosi immagine che si può vedere solo da una determinata prospettiva; —> 3 I coniugi Arnolfini (analizzato anche da Foucault x parlare della coscienza moderna) grazie a un gioco di specchi vediamo anche l’autore che dipinge, il quadro si emancipa dalla condizione bidimensionale e riflette su quello che veramente è. L’autore si firma in modo peculiare sottolineando che fosse successo davvero quello che si vede rappresentato: proprio in questo quadro che così potentemente riflette sulla finzione di esso, l’autore ha evidentemente percepito il rischio di una finzionalizzazione abissale da dover specificare che fosse tutto vero, firmando in quel modo. —> 4 La visione di Sant’Agostino “Victor carpatheus fingebat” fingere: dar forma, plasmare, dipingere, dire mendacemente, inventare. Doppio senso per dire che lui ha dipinto il quadro ma anche per far riflettere lo spettatore sul fatto che è una finzione. Figura/fictura = impostura. Questo rimanda al carattere mendace dell’arte (Platone), che nell’arte moderna diventa un carattere di cui l’arte si fa responsabile differentemente dall’antichità che è irriflessa. L’arte dell’epoca della fine dell’arte non ha più traccia di immediatezza e di irriflesso. Si continua a produrre arte ma è un’arte riflessa, atteggiamento riflessivo simile a quello filosofico; infatti in Hegel la dimensione estetica invoca e ha bisogno della filosofia, rapporto tra arte e filosofia. Crisi della sistematizzazione dell’estetica, tra Schopenhauer e Nietzsche (sarà approfondito nel II modulo) La bellezza come metafisica è la cifra dell’antico. Schopenhauer 1788 - 1860 dedica un ciclo di lezioni all’estetica “Metafisica del bello” ci rimanda all’antico, alla bellezza dell’essere (i pensatori di riferimento per Schopenhauer sono infatti Kant e Platone). Per questo filosofo l’arte ha un ruolo fondamentale, il genio coglie l’essenza delle cose. L’occhio dell’artista è diverso, la contemplazione dell’arte ha potere cognitivo ci consente di contemplare idee che altrimenti sono seppellite sotto la coltre del fenomeno. Punto di contatto di Schopenhauer con Kant e Hegel—> la poesia è l’arte che più ci consente di comprendere la realtà eccetto per la musica, che per Schopenhauer funziona in modo diverso dalle altre arti. La specificità della musica passa in Nietzsche e anche nella sua riflessione sulla tragedia greca. Prendere posizione sull’arte è prendere posizione sull’uomo. (Nietzsche e Schopenhauer). Installazioni arte contemporanea dalle slide (Christo, Duchamp...) Strutture non autonome ma che interagiscono con l’ambiente circostante — naturale o non. A differenza dell’arte moderna, l’arte contemporanea in relazione alla riflessione dell’arte su se stessa, non è più compiuta dentro se stessa, non è più autonoma, non è più estetica dell’arte. Heidegger (1889 - 1976) è un critico dell’estetica in quanto tale. In questa concomitante apertura dell’arte a ciò che arte non è (perché l’arte contemporanea e del Novecento si mettono in costitutivo dialogo con il fuori dell’arte) contesta l’idea che l’estetica moderna ha dell’opera d’arte, perché l’opera d’arte per l’estetica moderna sembra essere ciò che si offre allo sguardo di un fruitore. Questa concezione secondo il filosofo è limitativa: rischia di esibire su di sé tutti i segni del soggettivismo, rischia di venir pensata come oggetto di mero consumo individuale (contesta un vizio capitale); come succede con la musealizzazione e con la privatizzazione. Per Heidegger l’arte non è oggetto alla mercé del soggetto ma un evento in grado di trasformare il soggetto. L’origine dell’opera d’arte non può essere un soggetto sovrano, l’origine dell’arte è l’arte. Essa non conferma il nostro modo di essere soggetti bensì lo trasforma: ecco perché il bello non dev’essere correlativo di un sentimento (come in Kant) perché il sentimento è una cosa soggettiva. 21 Gadamer 1900 - 2002 (allievo di Heidegger ) battezza questo rischio implicito dell’estetica moderna, definendo quella coscienza soggettiva per la quale in maniera finalistica l’oggetto-arte sarebbe fatto, come appunto una coscienza estetica. In filosofia, dopo Hegel, coscienza è l’impostazione della soggettività per cui l’oggetto è separato dal soggetto. Dice Gadamer che l’opera d’arte sarebbe ridotta a un correlativo oggettivo di un soggetto giudicante e l’autonomia della sfera estetica sarebbe una grave perdita di significato. Per Gadamer l’arte produce conoscenza (per Kant no!). (Risposta ad una domanda posta a fine lezione) Qual è l’origine della poesia? Nella poesia in quanto arte, se l’arte per Hegel è ciò in cui fino a una certa epoca nella storia noi ci riconosciamo, l’arte è la verità di una determinata cultura. Questo livello di riconoscimento tra la comunità e l’arte è tanto più alto quanto più l’arte è il principale metodo di espressione di una certa società e per Hegel questo succede presso i Greci, una delle cose più alte che abbiamo è la poesia tragica secondo Hegel. L’arte è espressione della cultura di un popolo. La nostra arte contemporanea, arte riflessa, è un’arte della fine dell’immediatezza: noi non ci riconosciamo più in maniera immediata nell’arte che produciamo (non essere sicuri di distinguere cos’è arte e cos’è sfondo), nell’antico c’è rapporto di immediato riconoscimento, l’arte dei greci è una perfetta fotografia della loro cultura, in quel caso la poesia esprime la verità di quella cultura. Spirito in questo senso può essere inteso come la cultura di un determinato popolo. Lezione #5 09.02.2023 Slide: 107-125 IL SENTIMENTO (Gefuhe, Feeling, sentiment) ->Pathos, passio (significato passivo) Il sentimento non è un piacere dei sensi ma si riferisce alla morale e all'animo. Qualifica un ambito riflessivo del sapere dell'uomo (anticipa la ragione, una sorta di “senso interno”) Il sentimento concorre alla cognizione di nozioni CHIARE MA CONFUSE, non fa rifermento ad un oggetto: è una coscienza intima In Kant il sentimento non ha nulla di Empirico. “la bellezza senza il soggetto (+ sentimento) equivale a nulla” ->l’arte ci parla dei soggetti. Inoltre il sentimento non è privato, come le sensazioni, ma universale. ""il pittore non deve dipingere ciò che vede fuori di sè , ma dentro. E se dentro non vede niente, smetta di dipingere cio'che vede fuori" - Friedrich IL SUBLIME (hypsos -> elevato) Das Erhaben -> erheben, elevare (sopra e l’esperienza ordinaria) Ciò che fa commuovere, come catarsi di una tragedia / commedia. Prima riguardava solo la letteratura. Per Boileau, Sublime è: • sostantivo • aggettivo facendolo passane dall’ambito della retorica ad uno riguardante le passioni e, quindi, alla ricezione soggettiva. Solo in Inghilterra il sublime verrà inteso “orrore piacevole”, un’ambiguità duplice (- Addison (1672- 1719)). 22 Cioè diventa uno specchio, allora il giudizio riflettente si può pensare come quello che riflette liberamente sulla forma delle cose, ma al contempo proprio per questo produce una sorta di riflesso di rispecchiamento tra la natura e noi. Quella natura matrigna e necessaria che vive di leggi e che dunque resta muta per l'umano nel momento in cui è oggetto di un'esperienza estetica sembra per la prima volta, parlare proprio all'uomo. L’estetica è anche come istanza quella di produrre un'unità dell'esperienza. Anche in questo caso quella natura che altrimenti sembra estranea all'esperienza più intima dell'umano, è un'esperienza di libertà, quella natura che la scienza ci presenta come così tremendamente estranea. E dunque questo accordo tra noi e la natura dal punto di vista dell'intelletto, deve comunque essere pensato come contingente, come apparente, ma anche qui è un accordo apparente. Lo scopo finale è la realizzazione della libertà. Quante sono le cose della natura che ancora non conosciamo? L’intelletto procede secondo un andamento progressivo. Oggi conosciamo tot, domani conosciamo tot più X, poi tot più XEYE così via però certamente noi non possiamo dire di avere al momento esaurito la natura, dunque ci sono tutta una serie di cose che rimangono indeterminate. La logica teleologica non si può sostituire a quella della conoscenza scientifica che procede secondo cause ed effetto, ma non è escluso che una logica teleologica possa aiutare l'intelletto a conoscere sempre più cose, facendo ipotesi che non necessariamente sono scientificamente e probabili, ma che possono nondimeno sollecitare l'intelletto ma estendere il suo ambito di conoscenza. Questo vuol dire che questa seconda logica, che non si può sostituire a quella scientifica, può però accompagnare la logica della scienza. Qual’è la facoltà che conosce la natura? È l’intelletto. È l’intelletto e siccome la natura che noi conosciamo mediante la scienza è fatta di leggi, la legge di tutte le leggi sono le leggi di natura effettivamente cui la natura non deroga mai. Questo è il motivo per cui se io tiro una penna in alto, non mi aspetto che non cada. Le leggi di natura sono necessarie. Allora se l'intelletto è la facoltà che conosce la natura, è facoltà della conoscenza, dunque anche della scienza, dunque il principio secondo il quale opera l'intelletto è la legalità. Il principio secondo il quale opera la ragione è la realizzazione della libertà. Questo principio Kant pensa come lo scopo finale. Sia in italiano che in tedesco ci sono due termini per dire, fine o scopo, ma pensiamo che in verità il significato è abbastanza analogo: fine come lo possiamo rappresentare? Ciò in vista di cui. Scopo è in sostanza la solita cosa, perché il termine viene dal greco, che vuol dire prendere la mira, e quindi ciò in vista di cui, il significato è analogo. Il giudizio, è questa terza facoltà. Il giudizio nella sua valenza riflettente indipendente dall’estetica. Il giudizio viene pensato da Kant come termine medio tra l’intelletto e la ragione . Il giudizio per Kant è come un ponte che collega, connette, ricuce qualcosa che non va immediatamente d’accordo. La natura e la libertà non vanno immediatamente d’accordo. Se guardo la natura non vedo riflessa quella libertà che pure è la cosa più cara che ho. Introduzione a Kant (slide 137-144) 25 La “Critica del giudizio “ è un opera matura, perché quando Kant la pubblica ha già 66 anni. Prima della “Critica del giudizio” Kant ha già scritto tante opere , ma l’anno 1770 rappresenta un cambiamento del pensiero di Kant. Infatti nel 1770 Kant pubblica l’opera “De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis” che inaugura un nuovo modo del pensare, ovvero il pensare critico. Poi passano ben 11 anni prima di produrre la prima critica ovvero la “Critica della ragion pura”(1781). Nel 1783 pubblica I Prolegomeni che sono una specie di riassunto più divulgativo dei contenuti della prima grande opera critica. Nel 1784 Kant pubblica la risposta alla domanda che cos'è l'Illuminismo? Un anno dopo nel 1785 esce l’opera “Fondazione della metafisica dei costumi” che è il preludio della seconda Critica, la “Critica della ragione pratica “ (1788) La seconda Critica si occupa della libertà, la critica della ragione pratica, ovvero della ragione, in quanto facoltà che presiede all’esercizio della libertà. In queste tre opere vediamo già quali sono gli ambiti che abbiamo evocato fino ad adesso, la natura, la libertà e la critica del giudizio. La natura e la libertà sembrano due ambiti dell'esperienza che non hanno vasi comunicanti. La critica del giudizio è pensata da Kant, come questa esperienza ponte. Per Kant sono almeno quattro le domande che animano il percorso filosofico: -Che cosa posso sapere? Di questo si occupa la Critica della ragion pura che è anche una critica alla metafisica. Metafisica è un termine che viene dalla classificazione delle opere di Aristotele, fatta da Andronico di Rodi nell'antico, quando le opere di Aristotele vengono messe in un ordine. Ci sono dei libri che si occupano del mondo fisico, che sono la fisica, poi ci sono altri libri che si occupano di questioni che non sono fisiche, che tuttavia per l'uomo sono centrali e quelle vengono chiamate metà tra fisica, sono libri che stanno dopo la fisica. -Che cosa posso fare? La morale -Che cosa mi è lecito sperare? In una delle opere più mature di Kant del 1793, che si intitola “La religione entro i limiti della semplice ragione” Kant risponde a questa terza domanda. -Allora che cos’è l’uomo? Questa domanda racchiude un po’ tutte le domande. Queste domande interessano necessariamente ogni uomo. E allora la filosofia deve rispondere alle domande che interessano necessariamente ogni uomo. Kant nella stagione critica si occupa soprattutto della prima domanda:che cosa posso sapere. A questa domanda Kant risponde nella prima critica. Questa domanda era per lui un chiodo fisso già da sempre ma solo dal 1770 trova la soluzione. Poi Kant si è trovato di fronte a un altro problema, ovvero davanti a una scienza fondata che non sembra parlare a noi. Dunque da li Kant una critica della ragione pura che parla di ciò che fa dell'uomo, la libertà. E da lì però, ancora un'ulteriore problema, una terza critica che Kant pianifica negli anni, quando si rende conto che più trova soluzioni a determinati problemi e più nascono ulteriori problemi, ulteriori contraddizioni da cui appunto poi anche una terza critica. 26 Quindi nell’arco di 11 anni Kant ha una rivoluzione nel modo di pensare . Quello che Kant matura nel 1770 è una contestazione di quello che fino ad allora era considerato terreno, ovvero la logica. Un ordine della necessità lo possiamo trovare nelle deduzioni logiche: per riprendere Aristotele, lui diceva : tutti gli uomini sono mortali ,Socrate è un uomo, dunque è necessario che anche Socrate morirà. Ma perché Kant è insoddisfatto ? Da questa riflessione logica viene tagliato fuori l’esperienza. Come esempio Kant prende la scienza di Newton che fa esperimenti e quindi lavora con l’esperienza. Il tipo di sapere prodotto dalla scienza è un sapere incerto fino a un determinato momento, ma poi, grazie a esperimenti e dunque a delle esperienze, possiamo valutare se un certo modello esplicativo è vero, funziona oppure no o se è sbagliato e falso. E qui Kant opera una rivoluzione, prima di lui il momento più certo del sapere veniva identificato con la necessità di logica . Ma noi non viviamo dentro alla logica ma dentro una realtà. La necessità che troviamo nella realtà è legata a delle condizioni esperenziali. Quindi Newton arriva al sapere facendo esperimenti e basandosi sull’esperienza. Kant si influenza anche da Hume, un filosofo, un empirista, il termine empirismo viene da empeiria e significa esperienza . Ma Kant non è un empirista radicale come Hume, perché Kant tiene insieme, secondo una logica, secondo una istanza di conciliazione, alcuni elementi del razionalismo e altri elementi dell'empirismo. Invece per Hume ogni conoscenza che noi abbiamo deriva dall’esperienza. Kant dice che una parte del sapere viene anche dal razionalismo e che questa parte abbiamo in dotazione anche prima dell’esperienza. Kant dice che ci deve essere un fondamento del sapere in dotazione che viene prima dell’esperienza. Questo sapere non è fondato secondo una necessità logica ma secondo una prospettiva critica. Genitivo soggettivo e genitivo oggettivo Il titolo “Critica della ragion pura” ha una doppia valenza. La preposizione articolata della ha una doppia valenza, cioè una valenza di genitivo soggettivo e una valenza di genitivo oggettivo. Cosa vuol dire? Per esempio se dico “il ricordo di Pietro” vuol dire che Pietro si ricorda di qualcosa , genitivo soggettivo , invece il ricordo di Pietro ,può essere anche che Pietro è morto e noi ricordiamo Pietro quindi è genitivo oggettivo. Questa duplicità di significati è dunque presente anche nel titolo della critica di ragion pura. La logica non è che non non serve a niente, solo non produce conoscenza. La logica, prescindendo dall'esperienza sul mondo, non ci dice niente. La logica ci dice certamente invece quali sono le regole del pensiero. Ma la logica non produce conoscenza. Kant pensa allora questa rivoluzione del modo di pensare che deriva da una critica doppia che è autocritica. Kant la chiama rivoluzione copernicana, usa quella come metafora. Il senso di questa metafora è la rivoluzione astronomica di Copernico. Copernico nel 1543 fa la scoperta che la terra gira intorno al sole e non il sole attorno alla terra come diceva Aristotole. Copernico mostra che quella teoria di Aristotole è sbagliata, perché è incompatibile con l’esperienza. Dunque il significato della rivoluzione di Copernico è che il sole è al centro del Cosmo e non la terra. Kant usa questa rivoluzione come metafora, dicendo che è una rivoluzione nel modo di pensare il rapporto tra il soggetto e l’ oggetto. Come non è il sole a girare attorno alla terra ma viceversa così non è il soggetto a girare attorno all oggetto , ma al contrario. 27 fare una conoscenza per associare a quel determinato soggetto un predicato che è già in esso contenuto). 2. Giudizi sintetici a posteriori → la maggioranza dei giudizi conoscitivi che formuliamo, l’associazione di un determinato universale a un soggetto in seguito a una determinata esperienza. C’è sempre un margine costitutivo di contingenza nei giudizi sintetici a posteriori, ogni cosa è in un certo modo (lo verifichiamo con l’esperienza) ma può essere o non essere in altri infiniti modi. 3. Giudizi sintetici a priori → la cosa nuova che solo Kant ha pensato è che possano esserci giudizi al contempo sintetici e a priori, producono conoscenza senza dover essere verificati a seguito di un’esperienza. Questi giudizi sintetici a priori fungono da risposta alla esigenza che Kant si è posto sin dall’inizio, tenere insieme aspetti empirici e razionali, una conoscenza fondata senza rinunciare al collegamento con l’esperienza (giudizio scientifico). È un giudizio che è vero sempre in qualsiasi circostanza, tutto ciò che accade ha una causa, a qualunque effetto questo giudizio sia riferito, nel mondo che noi conosciamo, tutto ciò che conosciamo ha una causa. Al contempo però è un giudizio conoscitivo, nel concetto di ciò che accade lo possiamo sviscerare quanto vogliamo ma il concetto di causa non c’è, questa proposizione vera sempre è conoscitiva. Coniuga un predicato, avere una causa, che non è costitutivamente compreso in quel soggetto. Per Kant i giudizi sintetici a priori sono gli assiomi della geometria e i giudizi matematici. Es. 7+5=12, è un giudizio sintetico perché il 5 non è compreso nel 7; 7+6=13, 7+10=17… qualunque sia la cifra che aggiungo al soggetto (7) non è compreso in quel numero, c’è un elemento sintetico ma anche a priori, non ho bisogno di contare sulle dita di una mano perché lo so a priori. Si danno nella nostra esperienza formulazioni conoscitive della cui verità possiamo essere certi anche indipendentemente dall’esperienza. Mentre i giudizi analitici servono per chiarificare alcune cose che ci diciamo (repetita iuvant), i giudizi che producono una conoscenza certa sono i giudizi sintetici a priori, ragion per cui le scienze fondate producono giudizi sintetici a priori. Se “tutto ciò che accade ha un causa” è un giudizio sintetico a priori, Kant evita l’esito scettico al quale rischiava di mettere capo Hume quando pensava alla causalità come una categoria che noi applichiamo per mera abitudine. Secondo Hume noi siamo abituati a dire che le cose hanno una causa ma non c’è verso di dimostrare che ciò siano vere oggi come sempre. Pensando la proposizione “tutto ciò che accade ha una causa” come un giudizio sintetico a priori, il fondamento della causalità, ciò che tiene insieme A (causa) e B (effetto) è l’intelletto puro. L’intelletto puro è il fondamento dei giudizi sintetici a priori. Il fondamento da fondamento assoluto diventa condizionato (il fondamento del concetto di causa è l’intelletto puro). La rivoluzione nel modo di pensare il fondamento della conoscenza di cui disponiamo, formulata dai giudizi sintetici a priori è l’intelletto nella sua purezza, è ciò che l’intelletto possiede prima della sua esperienza. Ecco perché questa conoscenza certa di cui disponiamo, fondata su questo limite che è un modo d’essere del nostro intelletto, non è una conoscenza del mondo in sé ma una conoscenza del fenomeno. Dire che noi conosciamo i fenomeni significa che la nostra conoscenza è condizionata dall’intelletto puro. L’intelletto puro è insieme condizione limitativa ma anche garanzia della correttezza della nostra conoscenza. La nostra conoscenza è limitata perché condizionata dall’intelletto puro, restringe l’ambito del conoscibile ma pur avendolo ristretto lo consolida. L’intelletto puro è condizionante, limitante ma garante. La critica della ragione pura, La critica della ragione pratica e La critica del giudizio sono opere che Kant pensa nella loro unità. Estetica trascendentale → la parte che analizza le forme a priori della sensibilità. Nel 1781 Kant intende il termine estetica come lo intende Baumgarten, scienza della conoscenza sensibile. Però nel 1781 c’è una nota alla sezione Estetica dove Kant specifica che riprende alcune cose di Baumgarten 30 ma non è d’accordo sul fatto che estetica sia un termine polivalente (per Baumgarten → “scienza della conoscenza sensibile, scienza del pensare bello, critica delle arti”) e che ricopra anche una critica del gusto. Nell’arco di pochi anni questo va a mostrare un tasso di incoerenza della filosofia che però è produttivo. Non è vero che la coerenza è il fine perseguito dalla filosofia, questa incoerenza denuncia un cambiamento produttivo del modo di pensare. Analitica trascendentale → analitica è una metodologia d’indagine che ritroveremo ne La critica del giudizio (estetico). Analitica dell’intelletto è l’esposizione delle parti costitutive esistenziali di un certo oggetto, nel nostro caso sarà l’analisi delle parti costitutive che rendono un giudizio un giudizio di gusto. Estetica trascendentale → è qualcosa di inedito nella storia della filosofia perché la sensibilità del pensiero è l’elemento passivo. La sensibilità è una facoltà passiva o ricettiva, di contro alla spontaneità dell’intelletto. Parlando di estetica trascendentale, quest’ultimo termine ci dice che il punto di vista dal quale guardiamo una cosa è a priori. Se c’è un’estetica trascendentale significa che finanche in quella facoltà tradizionalmente intesa come passiva e ricettiva ci deve essere qualcosa di suo, di relativamente attivo (slide 155). Forme pure dell’intuizione: lo spazio e il tempo. Il fatto che qualunque corpo occupi uno spazio è una cosa che non possiamo togliere, non possiamo pensare il corpo senza lo spazio, perché questo spazio non sta nel corpo ma è la forma della nostra sensibilità, è a priori. Lo spazio ci permette di intuire i corpi. Il principio dello spazio è che dove c’è una cosa non ce n’è un’altra. Ogni cosa ha uno spazio e lo occupa, sia pure minuscolo, tanto che il principio degli indiscernibili, che ci permette di distinguere una X da una Y, è che se due cose non occupano un medesimo spazio sono diverse, se due cose occupano il medesimo spazio allora non sono due cose ma solo una, ogni cosa occupa uno spazio. Lo spazio non è un concetto empirico ma è la forma che ci permette di intuire le cose come una accanto all’altra, una dietro l’altra… (slide 156). Lo spazio è un’intuizione pura, un giudizio estetico puro. Giudizio estetico puro è definito da Kant in modo rigoroso, non viene sempre esemplificato dai giudizi di gusto che esprimiamo perché a volte li mescoliamo ad elementi non puri. Lo spazio per Kant sta nell’intuizione pura, non lo ricaviamo dalla realtà, si differenzia da Newton per il quale esisteva uno spazio assoluto, oggettivo, reale, ricettacolo di tutte le cose. Non è una forma delle cose ma la condizione affinché le cose vengano intuite da noi. L’altra forma pura dell’intuizione è il tempo. Il tempo è l'altra condizione dell’intuizione sensibile, in assenza del tempo l’intuizione sensibile sarebbe un coacervo di contraddizioni. Al momento T la strada è asciutta, comincia a piovere e la strada è bagnata, torna il sole e la strada è di nuovo asciutta. La differenziazione dei vari momenti T è ciò che consente all’intuizione di produrre un materiale che sia ordinabile. Il tempo è la forma del senso interno, le cose cambiano ma ciò che permane siamo noi che intuiamo i cambiamenti; il tempo non può essere a nessun titolo una determinazione dei fenomeni esterni, determina il rapporto delle rappresentazioni nel nostro stato interno, ed è proprio questa intuizione interna, che non ha figura, che noi cerchiamo di porvi rimedio con analogie (es. La freccia nel tempo). Spazio e tempo hanno una validità circoscritta ai fenomeni, noi non possiamo sapere se i noumeni, le cose per come sono in sé, partecipino o meno per lo spazio e il tempo. Tutti i fenomeni sono tali nella misura in cui stanno in un certo spazio e in un certo tempo. Spazio e tempo sono dunque condizioni a priori della sensibilità, uno dei tronchi dell’umana conoscenza, provenienti forse da una comune radice a noi sconosciuta. Questi tronchi sono la sensibilità, le cui forme a priori sono spazio e tempo, e l’intelletto. Mediante la prima gli oggetti ci sono dati, mediante la seconda essi sono pensati. L’estetica trascendentale analizza le forme a priori della sensibilità, l’analitica trascendentale le forme a priori dell’intelletto, ovvero i concetti puri di cui l’intelletto dispone prima dell’esperienza ma che poi l’intelletto applica all’esperienza. Questi concetti puri funzionano se e solo se vengono applicati all’esperienza e producono conoscenza. Non sono puri nella misura in cui non dipendono 31 dall’esperienza ma diventano conoscitivi quando vengono applicati ad un materiale sensibile. Questa collaborazione tra intelletto e sensibilità è il motivo per cui Kant chiama la nostra conoscenza “discorsiva”, si esprime in giudizi e formule linguistiche. Come dice Leonardo Amoroso in uno studio su Kant che si intitola Senso e consenso: “è nell’elemento linguistico che accompagna ogni esperienza o, più precisamente, in quel discorso che si esprime nella forma di un giudizio che Kant intende reperire, nella loro purezza, gli elementi razionali che costituiscono l’intelaiatura a priori dell’esperienza: portarli alla luce e vagliarne la fondatezza è il duplice compito della critica.”. La nostra conoscenza è discorsiva nella misura in cui questo termine è l’opposto di intuitivo. Ci potremmo immaginare un Dio che intuendo le cose le conoscerebbe anche; per come siamo fatti noi, nella nostra indigenza, la conoscenza è l’esito di un dialogo a due tra la sensibilità e l’intelletto. Analitica dell’intelletto → analisi delle forme a priori dell’intelletto. Kant si basa su una quadripartizione dei giudizi possibili che riprende da Aristotele per il quale l’enunciato o giudizio è logos, che significa legein ti katà tinos → dire qualcosa di qualcosa. (slide 160). Aristotele rubrica questo concetto sotto quattro categorie fondamentali: 1. Quantità 2. Qualità 3. Relazione 4. Modalità Quando predico qualcosa di qualche cosa i predicati rientreranno in una o più di queste categorie. L’analitica del giudizio di gusto passerà attraverso l’analisi di esso attraverso questi quattro punti di vista. Tavola dei giudizi di gusto (slide 163). Se l’intelletto puro è ciò che tiene insieme un soggetto con un predicato, se vogliamo analizzare il modo d’essere dell’intelletto, dobbiamo vedere tutte le tipologie di copula. Le facoltà conoscitive sono i due tronchi: sensibilità ed intelletto. C’è però un’ulteriore parte dove Kant sostantivizza l’uso del termine “giudizio”, finora l’abbiamo visto come l’associazione di un soggetto e un predicato. Ma ne La critica della ragion pura il giudizio viene pensato come facoltà ausiliaria conoscitiva. 1. Sensibilità → fornisce materiale intuitivo, i suoi principi a priori sono spazio e tempo 2. Intelletto → unifica le molteplicità secondo una regola e consente di discernere nella massa delle cose che intuiamo il tavolo dal pavimento ecc. Unifica alcune cose secondo una regola e distingue una cosa dall’altra, altrimenti si percepirebbe una massa informe di cose 3. Giudizio → ha un compito ausiliario, in termini conoscitivi aiuta l’intelletto a scegliere il concetto giusto per una data intuizione. La cosa significativa è che il giudizio ha una valenza ausiliaria e indispensabile ma non autonoma, non ha un suo principio a priori, è un aiutante dell’intelletto. Il giudizio nella sua facoltà determinante contribuisce alla produzione di conoscenza ma senza avere un principio suo, ecco perché non c’è un’analitica del giudizio ne La critica della ragion pura poiché ha una prospettiva trascendentale che hanno un principio a loro proprio. Da una parte abbiamo una cosa di iper materiale, le intuizioni, dall’altro abbiamo i concetti, che sono trasparenti. Come possiamo applicare correttamente un determinato concetto a una determinata intuizione sensibile? Lo sbaglio nell’applicare un certo concetto a una certa intuizione sensibile produce un’illusione. Es. siamo al tramonto e non vediamo bene, vediamo un cespuglio che si muove e pensiamo che sia un uomo che ci sta seguendo, vediamo meglio, utilizzando un altro concetto e ora ci sembra la coda di un gatto che correva. Prendere un concetto corretto per la determinata intuizione è necessario per una conoscenza corretta. Il fatto che sia possibile prendere un concetto sbagliato per una determinata intuizione è testimoniato dall’illusione, ci si può sbagliare. (slide 166) Il passaggio ci dà un indizio di come Kant passerà da giudizio come significato ancillare ad un’analisi critica del giudizio, fin quando è inteso come giudizio ausiliare non ci può essere una critica del giudizio, se non è a sé stante non c’è motivo di criticarlo. Pur non essendo una facoltà autonoma, il 32 Parte prima: Critica del giudizio estetico (lavoreremo solo su questa parte) Parte seconda: Critica del giudizio teleologico Lezione #9 Slide 175. "Struttura, genesi e articolazione della PREFAZIONE Critica del Giudizio INTRODUZIONE (9 PARAGRAFI) I Della divisione della filosofia II Del dominio della filosofia in generale III Della critica del Giudizio come mezzo per unire in un tutto le due parti della filosofia IV Del Giudizio come facoltà legislatrice a priori V Il principio della finalità formale della natura è un principio trascendentale del giudizio VI Dell’unione del sentimento di piacere con il concetto della finalità della natura VII Della rappresentazione estetica della finalità della natura VIII Della rappresentazione logica della finalità della natura IX Della connessione della legislazione dell’intelletto e della ragione mediante il Giudizio PARTE PRIMA: CRITICA DEL GIUDIZIO ESTETICO Prima sezione Analitica del giudizio estetico Libro primo Analitica del bello Secondo la qualità (§§ 1-5) Secondo la quantità (§§ 6-9) Secondo la relazione (§§ 10-17) Secondo la modalità (§§ 18-22 " Questa slide l’abbiamo letta insieme l'altra volta, ma erano gli ultimi minuti della lezione, ripartiamo da qua. C'è una prefazione, una introduzione costituita da 9 paragrafi (di cui qua ne ho indicati solo i primi sei) e due parti: la critica del giudizio estetico, che è divisa in una analitica del giudizio estetico. Abbiamo detto cosa è analitica, è l'analisi degli aspetti che rendono il giudizio estetico tale, dunque delle componenti essenziali, degli aspetti essenziali. Analitica quindi, secondo quattro categorie che abbiamo già visto quando parlavamo della critica della ragione pura. Come sapere che tipo di giudizio é il giudizio estetico? Bisogna analizzarlo secondo la sua qualità, la quantità, la relazione e la modalità del giudizio. Slide 176 "Libro secondo Analitica del sublime §§ 23-24 Sublime matematico (§§ 25-27) Sublime dinamico (§§ 28-29) Nota generale all’esposizione dei giudizi riflettenti estetici Deduzione dei giudizi estetici (§§ 30-54) Seconda sezione Dialettica del Giudizio estetico (§§ 55-60) " Un libro secondo di questa prima parte, riguardo il giudizio estetico (lo avevamo visto) non è solo quello relativo al bello, ma anche quello relativo al sublime. Qui non c'è una analitica perché la analitica del sublime è uguale a quella del bello. Quindi Kant per non ripetersi si limita a rimandare l'analitica del bello con una modifica che poi vedremo ed è suddiviso in due tipologie: il sublime matematico e il sublime dinamico. Abbiamo accennato nelle lezioni introduttive al significato di entrambi. Una nota generale all'esposizione dei giudizi estetici riflettenti è una deduzione dei giudizi estetici. Abbiamo detto che deduzione è un termine che Kant mutua dal lessico giuridico e vuole dire giustificazione perché c'è bisogno di una giustificazione? perché dalla analitica del giudizio di gusto emergono dei paradossi. E il giudizio di gusto è un giudizio è soggettivo ma universale, necessariamente valido ma senza concetto. Dunque tutta una serie di affermazioni che necessitano di una giustificazione da cui appunto deduzione dei giudizi estetici. 35 Slide177 "PARTE SECONDA: CRITICA DEL GIUDIZIO TELEOLOGICO §61 La finalità oggettiva della natura Libro primo Analitica del Giudizio teleologico (§§ 62-68) Libro secondo Dialettica del Giudizio teleologico (§§ 69-78) APPENDICE: METODOLOGIA DELLA CAPACITÀ DI GIUDIZIO TELEOLOGICA (§§ 79- 91) " Una seconda grande parte della critica del giudizio e poi dedicata al giudizio teleologico, anche qui diviso in un'analitica una dialettica e un'appendice, ma noi non lo tratteremo: anziché fare una lettura estensiva, faremo una lettura intensiva. Ci concentriamo su una selezione di paragrafi naturalmente però da leggere. Facciamo solo la prima parte, ma neanche tutta la prima parte. Vi ricordo cosa è in programma. Certamente la prefazione e l'introduzione, la analitica del giudizio relativo al bello e relativa al sublime, non la dialettica del giudizio estetico, e soltanto 8 paragrafi della deduzione dei giudizi di gusto, uno è il paragrafo 40, che è relativo al senso comune e abbiamo visto nella nostra introduzione, quanto il gusto, il senso comune, non solo in Kant, abbiano una relazione; ciò per cui il gusto è anche la facoltà della socialità, ciò per cui il gusto è sintomo del carattere costitutivamente intersoggiettivo dell'umanità. Poi vedremo dai paragrafi 43 a 50 che trattano il genio e l'arte. Slide 178 "Come ricorda Giorgio Tonelli (La formazione del testo della Kritik der Urteilskraft, «Revue internationale de Philosophie», 4 (1954), pp. 423- 428) tutti i testi di Kant «presentano molto chiaramente segni ben conservati di una stratificazione successiva non eliminata da una rielaborazione finale». Ciò dipende anche dallo stile di pensiero di Kant, per il quale alcuni intervalli tra la stesura di una parte e l’altra, ove il tema di riflessione viene messo in latenza ma non accantonato, servono a promuovere l’immaginazione e insieme la ponderazione. Ciò significa che lo schema argomentativo seguito da Kant resta sempre molto elastico, duttile. Una volta andato incontro a modificazioni, poi, Kant non rielabora alla radice quanto già fatto, nella convinzione che la stessa stratificazione archeologica dell’argomento debba rendere conto, e con ciò continuare a gettare luce, sull’economia speculativa del problema. Come a dire che finanche un certo tasso di incoerenza, in filosofia, è produttivo." Vediamo anche uno sguardo storico su questo testo. Come ricorda Giorgio Tonelli in un articolo di tanti anni fa, che però è ancora classico e ancora autorevole per la ricostruzione che viene fatta, in questo articolo che si intitola "La formazione del testo della critica del giudizio" ricorda un metodo, una caratteristica del modo di lavorare di Kant: tutti i testi di Kant, dice, presentano molto chiaramente segni ben conservati di una stratificazione successiva, non eliminata da una rielaborazione finale. Cioè cosa vuol dire? che Kant elabora e tratta la propria opera come una specie di cantiere di pensiero per cui ritorna e riscrive alcune parti delle sue opere senza però preoccuparsi di rendere il tutto coerente. Perché? Perché lasciare ancora visibile i segni delle diverse fasi dell'elaborazione, dovrebbe e potrebbe essere utile alla lettura. Dunque anche nella critica del giudizio, e vediamo che Tonelli lo spiega, troviamo un certo margine di incongruenza, che denuncia però la storia e la fatica di pensiero fatta da Kant. Come a dire, e questa è una cosa che ormai forse abbiamo imparato anche riflettendo sul modo in cui una medesima parola acquisisce significati anche contrari nell'arco di pochi anni, che in filosofia l'incongruenza non sempre è una tara, ma anzi l'incongruenza è un margine di possibilità di significati e significazioni nuove. E questo, diceva Tonelli, dipende anche dal modo in cui Kant riflette e dagli intervalli di tempo che Kant si prende per pensare e dedicarsi semplicemente alla cognizione. Se vi ricordate nella lezione di introduzione a 36 Kant abbiamo visto che tra il primo testo critico del 1770 e la prima opera compiutamente che inaugura l'impresa, il programma critico composto dalle tre opere che ormai conosciamo, incorrono 11 anni! che Kant si prende per pensare e basta. Quindi lo schema argomentativo seguito da Kant, resta sempre elastico, duttile. E appunto, una volta andato lo schema del testo, se incontra una modificazione, Kant lascia visibile lo "strato archeologico di pensiero" precedente. Slide 179 "Come ricorda sempre Tonelli, il metodo di Kant è zetetico (metodo investigativo di continua ricerca), non dogmatico (ciò che non ammette discussione) Per questo, può succedere, come succede nella Critica del Giudizio, che ci sia una certa fluttuazione di significato nell’uso del medesimo termine in diversi contesti e parti compositive; ciò non denuncia mancanza di coesione, ma testimonia dello sviluppo interno dell’opera. A parte la menzione di un progetto similare, mai portato a compimento, nella lettera a Markus Herz del 1772, la prima menzione della terza Critica si trova nella lettera di J. Bering a Kant del 28 maggio 1787, in cui si parla dell’imminente pubblicazione di una Kritik des Geschmacks: il titolo che Kant aveva originariamente pensato per il testo fu Critica del gusto, non da subito Critica del Giudizio. Da una successiva lettera di Kant a J. Schütz, risulta però che, nonostante il filosofo ne avesse annunciato la pubblicazione, prima dell’estate 1787 non aveva tuttavia ancora cominciato la redazione. " Da questo punto di vista dice Tonelli il metodo di Kant è zetetico, ovvero da "zetesis" che vuol dire "ricerca" in greco, un metodo investigativo di ricerca costante, inesauribile, che si oppone in filosofia a ciò che invece si propone come dogmatico. Dogmatico è infatti ciò che non si può mettere in discussione. Questo denuncia l'aspetto più squisitamente speculativo di Kant: fa una critica, che in filosofia è anche autocritica appunto, e Kant procede nella stesura della critica della ragione pura, nel nostro caso della critica del giudizio, rielaborando, riscrivendo, aggiungendo dei pezzi di autocritica, autocriticandosi. Ed ecco perchè, forse ve ne accorgerete quando leggerete anche in solitudine il testo, che c'è una certa fluttuazione di significato nell'uso del medesimo termine a seconda della fase compositiva in cui ci troviamo. Vediamo quando e come Kant redige quest'opera. "A parte la menzione di un progetto del genere già nel 1772, in una lettera all'amico Marcus Hertz, la prima menzione di questa del progetto di una terza critica si trova in una lettera a Bering del maggio 1787" . Attenzione al titolo con cui Kant evoca questo lavoro che dice di avere in corso: la chiama Critica del gusto (Kritik des Geschmacks), vuol dire che in questa fase di redazione Kant sta pensando a quella che poi effettivamente diventerà la sua terza opera, una Critica del giudizio, che non è soltanto del gusto perché c'è anche il sublime, e che non è soltanto estetica perché c'è anche il giudizio teleologico, quindi ci sono tutta una serie di parte dell'opera che sono sgorgate dal bisogno speculativo che nasce nel momento in cui Kant, scrivendo si rende conto di essere arrivato in un punto che è tuttavia insufficiente. È un'opera su cui Kant esita: nel 1787 dice, "Sto per pubblicare una critica del gusto" ma alla fine dell'estate confessa, "in verità non ho ancora cominciato a scriverla". Quindi la stessa ideazione dell'opera è travagliata. Quindi è probabile che Kant cominci effettivamente a lavorarci, a scrivere a fine settembre dell' 87, e verso la fine dell'anno auspica di riuscire a pubblicare il tutto entro la Pasqua dell'anno successivo. Sempre a fine maggio dell' 87 parla del sentimento di piacere e di dispiacere come di una facoltà intermedia e per la prima volta menziona anche il termine "teleologia". Questa critica del gusto è presentata però ancora come uno studio dei principi a priori di questo sentimento speciale: sentimento di piacere e dispiacere che, abbiamo detto fin dall'inizio, nulla ha che vedere con la sensazione dei sensi, ma è qualcosa di intermedio appunto, tra i sensi e la dimensione eterea del 37 Slide 185 "Ricapitolando, l’ordine di composizione delle varie parti del testo potrebbe essere, stando al contributo di Tonelli, il seguente – Analitica del bello – Deduzione dei giudizi di gusto – Dialettica dei giudizi di gusto – Prima introduzione – Analitica del sublime – Giudizio teleologico – Introduzione definitiva A partire dalla prima introduzione, il termine “giudizio estetico” sostituisce “giudizio di gusto”, essendo il giudizio estetico più comprensivo, poiché comprende la parte sul sublime che Kant ha già in mente di scrivere " Nell'ordine: Analitica del bello, poi Deduzione e Dialettica dei giudizi di gusto, dopodiché Kant scrive questa Introduzione, che in verità dice di più di quello che doveva introdurre: in questa sede di paratesto pensa a delle cose che nel testo in verità non ci sono ancora. Dunque le scrive dopo. Poi passa alla Analitica del sublime, Giudizio teologico e Introduzione definitiva o seconda introduzione. A partire da poi questa prima introduzione, il termine "giudizio estetico" sostituisce la locuzione "giudizio di gusto", perché il "giudizio di gusto" è una locuzione troppo ristretta per esaurire il tema dell'estetica, che appunto non è soltanto il tema del bello, ma è anche quello del sublime. Slide 187 "Prefazione Esposizione programma della Critica del Giudizio entro il programma critico in generale L’intelletto è l’unica facoltà che dispone di principi conoscitivi a priori. L’intelletto tende a credere, però, che l’ambito delle condizioni di possibilità della conoscenza sia sovrapponibile all’ambito di ogni cosa possibile in generale. Si tratta allora di «porre un freno alle inquietanti pretese dell’intelletto, il quale, avendo la facoltà di fornire a priori le condizioni della possibilità di tutte le cose che può conoscere, vorrebbe racchiudere entro questi confini anche la possibilità di ogni cosa in generale». Il possesso sicuro ma limitato dell’intelletto si distingue da quello della ragione à presiede alla facoltà di desiderare [Begehrungsvermögen] Giudizio è termine medio [Mittelglied] tra intelletto e ragione. Si tratta di vedere: 1) Se ha un suo principio a priori 2) Se tali principi saranno costitutivi o regolativi Il giudizio, non potendo basarsi su concetti, deve trovare il proprio principio a priori entro sé stesso. Non essendo basato su concetti, non potrà essere un principio costitutivo (che costituisce la regola in base alla quale unificare gli oggetti), ma solo un principio regolativo La critica del gusto è un esame trascendentale à p. 148 " Passiamo alla lettura del testo, dalla prefazione. Kant nella prefazione fa due cose. Prima ricapitola il tema del programma critico, spiga il senso del programma critico nel suo vasto respiro perché intende collocare il programma della terza critica nella economia argomentativa del programma critico in generale. Cosa vuol dire? Che intende mettere subito in chiaro che la terza critica è parte integrante e coronamento del programma critico. Del resto, se avete fatto attenzione alle date della gestazione della Critica del giudizio, vi renderete conto che la scrittura di questa Terza critica si sovrappone alla scrittura delle altre, perché abbiamo detto che Kant comincia a lavorarci dopo l'estate del 1787 e nel frattempo pubblica la seconda critica nel 1788, quindi anche fattualmente, mentre scrive una cosa sta scrivendo anche l'altra, quindi inserire il programma della terza critica dentro il programma generale della critica è essenziale, evidentemente, e infatti è il tema della prefazione. In essa si dice tuttavia una cosa importante, risapute dal lettore di Kant (che ci possiamo immaginare abbia letto le prime due critiche) ma che è qui Kant ricorda con una sintesi icastica: ricorda che l'unica facoltà conoscitiva che ha principi conoscitivi a priori è l'intelletto. (Dalla prima pagina della prefazione:) "Pertanto la critica che vaglia tutte queste facoltà in relazione alla quota che ciascuna rispettivamente pretende di avere del capitale della conoscenza, non concede nient'altro che ciò che l'intelletto prescrive a priori come legge alla natura, in quanto 40 complesso di fenomeni." Tutte le facoltà che vorrebbero avere un pezzo del del capitale conoscitivo rimangono "senza soldi" perché soltanto l'intelletto è titolato a prendere parte a questo capitale conoscitivo. E come lo fa l'intelletto? Kant qui ricorda fin da subito uno che vedremo sarà dei temi costanti della lo sfondo dell'introduzione e dell'intera terza critica: l'intelletto ha dei principi a priori che coincidono con le leggi della natura. Ovvero, se noi abbiamo detto che conosciamo la natura a partire da una concettualità a priori, allora quelle che noi riconosciamo essere le leggi della natura sono l'esito di questa concettualità a priori con la quale l'intelletto conosce la natura. L'intelletto è la facoltà e il principio a priori dell'intelletto è la legalità, la conformità alle leggi. Ma al contempo Kant ricorda, ed è questa la cosa che è una sintesi del programma critico, che l'intelletto tende un pò poi ad allargarsi, a tiranneggiare, a esagerare con le sue pretese. E infatti dice, "Bisogna porre un freno alle inquietanti pretese dell'intelletto.". Cioè l'intelletto è certamente l'unica facoltà conoscitiva, l'unica che può rivendicare dei titoli nel capitale della conoscenza, però poi dopo esagera, si lascia prendere la mano, ha delle pretese inquietanti, quindi bisogna porre un freno alle inquietanti pretese dell'intelletto. Perchè? Cosa pretende l'intelletto? "Avendo lui facoltà di fornire a priori le condizioni della possibilità di tutte le cose che esso può conoscere vorrebbe racchiudere entro questi confini anche la possibilità di ogni cosa in generale". Cioè l'inquietante pretesa dell'intelletto è di ridurre lo spazio delle cose pensabili a quello delle cose conoscibili. Siccome l'intelletto è l'unica facoltà che ha i principi a priori per giustificare, fondare una conoscenza solida, pretenderebbe che l'ambito di ciò che ha senso venisse ridotto a ciò che può essere conosciuto. Ma, e proprio questo è l'importante da dirsi in sede di prefazione, l'ambito di ciò che è pensabile è esageratamente più vasto dell'ambito di ciò che è conoscibile e anzi, si potrebbe dire l'ambito di ciò che è pensabile, l'ambito di ciò che per noi esseri umani ha senso è incomparabilmente più grande della isola sicura di ciò che possiamo conoscere, che abbiamo detto fin dalla prima critica, è sicura perché l'intelletto ne fa da garante, però affinché sia sicura deve essere anche un'isola, qualcosa di ristretto. Dunque questo ci dice che la terza critica, è sottoposta all'esigenza di dare cittadinanza filosofica a quelle esperienze, le quali sono la maggior parte delle esperienze di un essere umano, che non producono conoscenza ma che fanno il senso della nostra esistenza. Ecco perché la Terza critica critica è anche quella che intende occuparsi dell'esperienza umana con più concretezza, appunto perché laddove sarebbe "monca" un'esperienza umana (ovvero pensata soltanto a partire da un'esperienza conoscitiva) la Terza critica ci dice che cos'è un uomo anche a partire appunto da queste esperienze concrete, che anzi (vedremo poi) qualificano precisamente la vita umana in quanto umana, distinguendo dunque il nostro modo di essere da quello degli animali da una parte, che sono solo sensibili, e da quello di un essere che potremmo pensare completamente razionale e che tuttavia non è "noi", proprio perché l'esperienza umana è qualificata da questa doppia natura, sensibile e sovrasensibile. E la critica del giudizio è l'opera che analizza la vita umana, l'essere umano proprio nella misura in cui è qualificato da questa doppiezza, da questa duplicità. (L'intelletto è l'unica facoltà titolata a conoscere, fino a che vuole conoscere, c'ha tutte tutte le ragioni, solo che l'intelletto pretende che la cittadinanza filosofica ce l'abbiano soltanto le cose che sono conoscibili, cioè l'intelletto pretende di schiacciare il dominio l'ambito di campo delle cose che hanno senso su quello delle cose che sono conoscibili, ma Kant rileva che ci sono tante cose che si possono pensare e che hanno dunque dignità filosofica, e saranno proprio le cose che analizza nella Terza critica e che tuttavia non sono conoscibili, non producono conoscenza, non concorrono alla conoscenza.) Questo è il programma, il senso del della critica, del giudizio all'interno del programma critico. Dopodiché Kant specifica anche il programma della Critica del giudizio, (siamo al terzo capoverso della prefazione): "il giudizio è un termine medio tra l'intelletto e la ragione. L'intelletto ha i suoi principi a priori, che sono le categorie. La ragione, non ha un ambito conoscitivo, ma pratico." Allora se il giudizio è una ulteriore facoltà, si tratta di vedere se anche lui c'ha un suo 41 principio a priori." Quindi, il primo obiettivo del programma della terza critica è: se il giudizio è una facoltà dotata anche lei di un principio a priori, e se, punto secondo del programma della Terza critica, questi principi saranno principi costitutivi o regolativi. È un'altro modo per dire se questo principio sarà o meno conoscitivo. Qui il termine "costitutivo" sta per "costituire gli oggetti", ovvero il modo d'essere degli oggetti; quindi qualcosa di costitutivo è qualcosa che ci dice o che detta la costituzione degli oggetti. Dunque, qualcosa di conoscitivo, e non regolativo. Regolativo anzi è ciò che fornisce una regola al soggetto. Quindi, mentre il concetto è costitutivo, perché dice la regola dell'oggetto, ovvero come si sintetizza l'oggetto e come lo dobbiamo ricostruire, mentre regolativo è l'opposto: è ciò che fornisce una regola, ma solo ai soggetti, e quindi non è conoscitivo. Il giudizio effettivamente però non è basato su concetti, perché i concetti sono il patrimonio dell'intelletto. Quindi, dove può andare a cercare (il giudizio) il suo principio a priori? Dentro se stesso. E questo principio non potrà essere costitutivo, ma sarà un principio regolativo. "È però (lettura prefazione quinto capoverso) facile concludere dalla natura del giudizio il cui retto uso è tanto necessario e tanto generalmente richiesto, che col nome di sano intelletto non si intende appunto che tale facoltà. (Il giudizio viene presentato fin da subito come una sorta di buonsenso, come un principio di orientamento nell'esistenza. Quante sono le circostanze in cui non la conoscenza rigorosa ci viene in soccorso, ma una capacità quasi intuitiva di orientarsi nelle situazioni della vita, soprattutto quelle più sfumate, quelle che dai contorni non ben definiti. E, dice Kant, che Dio solo sa di quanto ci sia bisogno di questa facoltà, tanto generalmente richiesta, da addirittura essere sovrapponibile con una sorta di sano intelletto.) che si incontreranno gravi difficoltà nell'identificazione di un suo specifico principio. Quest'ultimo, il giudizio deve fornire da sé una regola mediante la quale non si conosca propriamente nulla, ma che faccia da regola al soggetto. Questo imbarazzo a proposito di un principio si riscontra soprattutto nei giudizi che vengono detti estetici e che riguardano il bello, il sublime della natura o dell'arte." Quando parliamo di bellezza naturale o artistica, entriamo in una dimensione dove ognuno pretende di dire la sua, da cui il vecchio adagio per cui "non è bello quello che è bello ma è bello quello che piace". Un adagio a cui in verità la impostazione kantiana si oppone completamente, perchè la Critica del gusto infatti è un esame trascendentale, vuol dire un esame a priori. Dunque non troveremo una "storia del gusto" o i motivi per cui per esempio cambiano le mode artistiche, o cambiano i canoni, per cui anche il canone di Policleto vale nella Grecia antica, ma l'arte più moderna non riproduce le cose secondo quei canoni: non troveremo nulla che abbia a che fare con la dimensione di ciò che è ex post : "storia del gusto", "storia delle mode" e così via. Faremo invece un'analisi trascendentale, dunque un'analisi a partire da ciò che del gusto, possiamo dire, è a priori. "L'esame (lettura ultimo paragrafo/ultimo capoverso) della facoltà del gusto, in quanto facoltà del giudizio estetico non viene intrapresa in vista dell'educazione o dell'emplementamento della cultura, ma solo in una prospettiva trascendentale. E con ciò Kant ritiene di essere arrivato alla fine del programma critico: "è giunta al termine la mia intera impresa critica." L’introduzione è l’ultima cosa che Kant scrive e costituisce un approfondimento del modo in cui la critica si inserisce nel programma critico. Il primo paragrafo si intitola “Della divisione della filosofia”. Per pensare il senso della terza critica bisogna ripensare la divisione della filosofia. Perché bisogna ripensarla? Perché la terza critica inaugura un terreno inedito che, vedremo, non sarà concepito da Kant come una filosofia speciale, regionale ma come ulteriore punto di vista da cui pensare l’intera filosofia. La divisione della filosofia è una bipartizione: da un lato abbiamo i concetti della natura, dall’altro il concetto della libertà (o idea della libertà). I concetti della natura sono ambito della filosofia teoretica (filosofia che si occupa della conoscenza). Il concetto della libertà è esplorato da una filosofia pratica, ovvero, da una filosofia morale. Abbiamo due diverse legislazioni. Sulla prima (filosofia teoretica – concetti della natura – natura), il legislatore è l’intelletto; sull’altra (filosofia 42 Il domicilio è contingente ed apparente. Ci sono delle spie lessicali che avvertono il lettore, in ogni paragrafo, che stiamo parlando di apparenza. Nel nono capoverso, emerge un’espressione che lascia trasparire la preoccupazione di Kant per una situazione altrimenti drammatica: quello che separa la legislazione dell’intelletto dalla legislazione della ragione è “un abisso incolmabile”, che non può nemmeno abbracciarsi con lo sguardo. Nello stesso momento non possiamo tenere insieme la natura e la libertà. Il problema sta nel fatto che il territorio comune delle due legislazioni sarebbe la nostra esperienza. In assenza di questo domicilio mobile che ci consente di passare dal modo di pensare la natura al modo di pensare la libertà rischiamo che il crepaccio di cui sopra corra nell’intimo dell’esperienza di noi stessi. Ecco qui che emerge una speranza. Non è qualcosa che Kant pensa una garanzia seppure se la auguri, e che poi dimostrerà: ci dovrà essere un modo di pensare l’influsso dell’una sull’altra. Tale influsso dell’una sfera sull’altra come possiamo pensarlo? Dobbiamo escludere una possibilità perché contraddittoria: l’intelletto è impossibile che possa avere un influsso sul sovrasensibile. L’intelletto è una facoltà conoscitiva legata all’intuizione dunque sarebbe contraddittorio pensare ad un intelletto che possa avere un influsso sul sovrasensibile. La speranza di Kant sta nel fatto che non è contraddittorio che il sovrasensibile possa avere un influsso sul sensibile. Non è contraddittorio pensare che la libertà possa avere un influsso sulla natura. Dagli ultimi passaggi del secondo paragrafo: “il concetto della libertà deve realizzare, nel mondo sensibile, lo scopo assegnato dalle sue leggi e di conseguenza, la natura deve essere pensata in modo che la legalità della sua forma sia perlomeno compatibile con la possibilità degli scopi che in essa si devono realizzare secondo le leggi della libertà” Questa cosa si può fare utilizzando la facoltà del giudizio, che ci consente di passare dal modo di pensare secondo i principi della natura al modo di pensare secondo i principi della libertà. Ci deve poter essere questa compatibilità, la natura deve poter essere pensata. Come possiamo farlo? Passando dal modo di pensare secondo le leggi della natura al modo di pensare secondo le leggi della libertà. Esempio tratto dal paragrafo 23 dell’analitica del sublime: “La bellezza naturale ci rivela una tecnica della natura, che ce la rappresenta come un sistema secondo leggi, il cui principio non possiamo trovare nella nostra facoltà intellettiva. Secondo cioè un principio di finalità relativa all’uso del Giudizio applicato ai fenomeni, in modo che questi debbono venir giudicati non solo come parte del meccanismo cieco della natura, ma anche come qualcosa di analogo all’arte. Essa non estende la nostra conoscenza degli oggetti naturali, ma amplia il nostro concetto di natura dal livello del semplice meccanismo a quello dell’arte” Riusciamo a pensare la natura come se (come se: spia linguistica che ci avverte che stiamo parlando di qualcosa di apparente) fosse arte. Lezione #10 [Un chiarimento per l’esame. L’introduzione di Alberto Bosi – curatore e traduttore dell’edizione suggerita da Caramelli – fa da ausilio, e ne è consigliata la lettura.] Oggi riprendiamo dall’introduzione. Nella scorsa volta abbiamo affrontato il secondo paragrafo dell’introduzione, laddove Kant ci parla di un abisso incolmabile tra due legislazioni: la filosofia pratica e quella teoretica. Cioè tra il dominio della ragione e quello dell’intelletto, che hanno tra loro uno scarto. Il mondo della libertà esclude il mondo dei fenomeni; il mondo dei fenomeni esclude quello della libertà. I loro ambiti sono perfettamente escludentesi. La ragione presiede alla libertà del mondo noumenico; reciprocamente, l’intelletto al determinismo del mondo fenomenico. 45 La legislazione delle nostre facoltà è duplice (legislazione dell’intelletto, legislazione della ragione). Da una parte questi domini sembrano non toccarsi – abisso incolmabile (unübersehbare Kluft, p. 153) tra il dominio del concetto di natura (sensibilità) e quello della libertà (sovrasensibile). Tuttavia, queste due legislazioni hanno un territorio in comune, che è la nostra, medesima esperienza. L’istanza della terza critica è quella di creare un ponte tra questi due ambiti inconciliabili. Non è un caso che il giudizio sia una facoltà dinamica. Questa istanza sistematica è allora un’esigenza di senso, come scrive L. Amoroso, traduttore di Kant. Ammettere che sia possibile queta connessione tra due ambiti, che ffaltrimenti sarebbero reciprocamente e perfettamente escludentesi, significa ipotizzare una chance di realizzazione della ragione nel reale. Cioè bisogna pensare che il soprasensibile possa avere degli effetti sul sensibile, cioè è una possibilità di pensiero garantita dal giudizio. Questo pensiero non è una conoscenza, cioè qualcosa che attiene alla conoscenza del sensibile empirico. Nel momento in cui, nella natura o nell’arte, giudichiamo bella la natura, reperiamo in essa, che altrimenti ci è completamente estranea, delle «tracce di senso» [ivi, p. 108], il giudizio ci fa sperare in quella chance. Con la terza critica, l’estetica non è più una filosofia regionale, ma una filosofia fondamentale, cioè non più un punto di vista privilegiato con cui considerare il mondo in generale. Che peraltro ha una funzione molto vasta, perché ci permette di pensare ciò che non si può conoscere (ricordate? L’intelletto vorrebbe ridurre l’ambito del pensabile solo a ciò che è conoscibile). Per questo si potrebbe dire che la facoltà del giudizio, per come è analizzata nella terza critica, è precisamente ciò che ci consente di pensare ciò che non si può conoscere. Il giudizio non soltanto è mobile, ma ha una sua dynamis. Questa connotazione è contenuta in un certo senso anche nell’etimologia tedesca. [Ricordatevi di distinguere il giudizio (con la G minuscola), dal Giudizio (con la G maiuscola) ossia la Facoltà del giudicare. È lo stratagemma che è in uso nelle edizioni italiane] Effettivamente, quando parliamo di Facoltà del giudizio, viene recuperato il senso etimologico: Urtheilskraft – Urtheil (giudizio) + suffisso -kraft. Questo “kraft”, che è una sostantivazione, letteralmente significa “forza”: dominio dinamico, quindi che rappresenta una potenzialità più che un’effettività. È come se venisse recuperata questa etimologia, nel momento in cui parliamo di Facoltà di giudizio. Non è un caso che nelle ultime traduzioni inglese si sia diffusa l’espressione “Power of Judgement”. Guardiamo al III paragrafo della traduzione, ovvero Della critica del Giudizio come mezzo per unire [Verbindungsmittel] in un tutto le due parti della filosofia. “Mezzo”, è un ubergang, è un passaggio tra due facoltà. Scrive Kant: tra la legislazione dell’intelletto e quella della ragione esiste, «nella famiglia delle facoltà conoscitive superiori» un «termine medio» [Mittelglied] – quindi sta nel mezzo, si muove, traghetta - tra l’intelletto e la ragione. Ora, sappiamo che nel progetto critico kantiano sia ragione sia intelletto hanno ciascuno un principio a priori. Se il Giudizio è un termine medio, per analogia, si deve supporre che abbia un principio a priori. Il Giudizio non ha solo una parentela con le facoltà conoscitive, ma anche con le facoltà dell’animo. Quali sono le facoltà kantiane, cioè la facoltà generali dell’animo (quelle globali dell’umano)? Le Facoltà dell’animo sono 3: 1. facoltà conoscitiva, ovvero la vocazione teoretica; 46 2. Il sentimento del piacere e del dispiacere; 3. facoltà di desiderare. [Vedremo che nell’Analitica del bello, Kant distinguerà il giudicare ciò che è bello del desiderare.] Per la prima è legislatore l’intelletto, per il desiderare è legislatrice la ragione. E il sentimento di piacere o dispiacere da chi viene regolato? Leggiamo dal testo al IV capoverso. «Il sentimento di piacere si trova compreso tra la facoltà di conoscere e quella di desiderare, allo stesso modo che il Giudizio si colloca tra l’intelletto e la ragione. Si può dunque supporre che anche il Giudizio contenga un suo principio a priori». Così come è stata fatta una Critica della ragion pura, una Critica della ragion pratica, allora occorrerà una Critica del giudizio. Prima di procedere, prestiamo attenzione a un ulteriore ruolo di questo paragrafo? Alcuni critici (Silvana Borutti) hanno fatto un’osservazione acuta sul piano metodologico. Con questa analogia tra facoltà eterogenee, Kant riporta le diverse facoltà all’unità di senso di un soggetto. Kant sembra mirare all’unificazione del soggetto. Arriviamo dunque a leggere il paragrafo più rivoluzionario, il IV. Del Giudizio come facoltà legislatrice a priori. Risponde alla domanda: come il giudizio ha un principio a priori tutto suo? Il Giudizio emere qui con una veste nuova, rispetto a quanto ne era stato delineato nella Critica della ragion pura. Che cos’è il Giudizio? Il Giudizio è la facoltà di pensare il particolare come contenuto nell’universale. Significa pensare il particolare come compreso nell’universale. S (soggetto) è sempre compreso in P (predicato). Il gatto (particolare) è nero (universale). A partire da ciò, Kant enuclea due tipologie di giudizio: Il giudizio determinante (è un nome nuovo per una vecchia funzione, quella del giudizio già considerato nella Critica della ragion pura); e il giudizio riflettente (che è un nome nuovo per una nuova funzione che Kant scopre in corso d’opera: nell’Analitica del bello, ossia la parte più arcaica dell’opera, non compariva il giudizio riflettente) 1. Il Giudizio è determinante quando è dato l’universale (il concetto, la regola), in base al quale il giudizio sussume il particolare, determinandolo [nel suo modo d’essere] (producendone la conoscenza). Questo giudizio non ha dunque un principio proprio: la legge gli è prescritta dai concetti dell’intelletto. Per questo il Giudizio determinante «non ha bisogno di pensare per proprio conto ad una legge per subordinare il particolare all’universale». Nella veste determinante il giudizio è eteronomo: ovvero segue la regola che gli fornisce l’intelletto. Il giudizio, aiutante dell’intelletto, non ha un principio suo. 2. Il Giudizio è riflettente [nome nuovo per un aiuto nuovo] quando è dato soltanto il particolare, cioè non abbiamo quasi niente. Situazione disperata: il Giudizio deve trovare l’universale. Ma se l’universale non è dato dall’esperienza? Allora il Giudizio deve trovare quest’universale dentro se stesso. il Giudizio riflettente deve darsi un principio da solo, a prescindere dall’esperienza. Dunque, ha un proprio pincipio a priori. Scrive Kant: “Il Giudizio riflettente, cui tocca risalire dal particolare della natura all’universale, ha dunque bisogno d’un principio che non può ricavare dall’esperienza, perché deve appunto fondare l’unità di tutti i princìpi empirici sotto princìpi anch’essi empirici, ma più elevati, e quindi la possibilità di una sistematica subordinazione di tali princìpi gli uni agli altri. Un tale principio trascendentale, 47 Ed è connesso a un senso di piacere, che subentra nel momento in cui arriviamo al senso di unità. Si trova soddisfazione di un bisogno. Occorre allora ammettere questa finalità, senza tuttavia poterla comprendere (cioè averne prove sensibili, riuscire a dimostrarla, perché non siamo nell’ambito dei concetti). Si tratta di una proiezione, di un’antropomorfismo che ci è necessario per la nostra natura di essere limitati. Riusciamo cioè a trovare un accordo con la natura. Nel principio di finalità, un bisogno cognitivo di comprensione si armonizza con un sentimento, con il lato sentimentale della nostra esperienza. Ricordiamo che non sono giudizi conoscitivi in senso stretto, propri dell’intelletto. E infatti, sempre nel par. V, Kant fa un’ulteriore distinzione. In questa congerie di fenomeni vari, Kant parla di un filo conduttore che è reso possibile dal giudizio. «l’intelletto considera quest’accordo [della natura con la nostra facoltà conoscitiva] come obiettivamente contingente, e solo il Giudizio lo attribuisce alla natura come una finalità trascendentale»; «senza questo presupposto, non avremmo alcun filo conduttore [Leitfaden] per un’esperienza». Il fatto che il giudizio prescriva da se stesso una legge, è chiamato eautomonia. Una sorta di legiferazione da sé, ma valida solo per sé, cioè resta contingente, non vale anche per l’intelletto, rimane valida esclusivamente per i giudicanti. «Il Giudizio contiene dunque un principio a priori della possibilità della natura, ma solo dal punto di vista soggettivo, col quale prescrive, non alla natura, ma a se stesso (in quanto eautonomia) una legge per la riflessione sulla natura» Notiamo allora che, diversamente dalle proposizioni conoscitive dell’intelletto, qui - nel giudizio - il predicato “bello” si riferisce al soggetto, e non all’oggetto. Nel par. VI Dell’unione del sentimento di piacere con il concetto di finalità della natura scopriamo che l’armonia conseguita produce piacere. L’armonia da noi pensata nella natura è «pensata come contingente» ma «indispensabile per il nostro bisogno». «Il conseguimento di qualunque intento è accompagnato da un sentimento di piacere e, se la condizione di questo è una rappresentazione a priori, come in questo caso, un principio del Giudizio riflettente in generale, allora il sentimento di piacere è anch’esso determinato da un principio a priori valido per ognuno». Ogni soggetto prova piacere a priori. Il nostro giudizio ci impone di procedere secondo un accordo - ciò rende il giudizio modibile. Par. VII Della rappresentazione estetica della finalità della natura parla di una “rappresentazione logica Kant esordisce dicendo che ciò che è puramente è soggettivo, ciò che costituisce il rapporto con il soggetto - questa è la valenza estetica di esso. Quando dico “la rosa è bella”, la bellezza della rosa afferisce non alla rosa, ma al soggetto che giudica la rosa come bella. La valenza estetica si oppone alla validità logica. Certamente nella nostra esperienza, ricorda Kant, ci sono aspetti estetici e logici che sono mescolati, ma nella prospettiva di metodo trascendentale, questi devono essere distinti in maniera analitica. Estetico è il giudizio riferito al soggetto. E non è passibile di essere tradotto in oggettività. Non dice niente dell’oggetto, ma solo qualcosa di me. 50 La finalità costituisce l’elemento soggettivo, che non può avere un uso conoscitivo. La finalità è sempre soggettiva. Non possiamo permetterci di dire che la bellezza inerisce agli oggetti - è l’esito di un processo soggettivo. Il piacere del giudizio estetico non è un piacere dei sensi (perché è stimolato dai sensi). C’è una finalità formale perché ha a che fare con la forma della rappresentazione degli oggetti - che è soggettiva. La causa del giudizio di gusto non è la relatà materiale degli oggetti, ma la forma della loro rappresentazione. Tanto che, stando all’Analitica del Giudizio di gusto, il piacere legato al bello è un giudizio disinteressato (disinteressato alla reale esistenza degli oggetti, è alieno dal sensibile, prescinde dalla reale esistenza degli oggetti). Lezione #11 Ci siamo lasciati sul settimo paragrafo della rappresentazione estetica della finalità della natura. Negli ultimi paragrafi dell’introduzione, Kant parla delle due parti in cui si divide la “Critica del giudizio”: il paragrafo 7, incentrato sul giudizio estetico, e il paragrafo 8, dedicato al giudizio teleologico. Nel paragrafo 9 Kant parla del rapporto tra sensibile e sovrasensibile e di come il giudizio ci permetta di pensarlo. Del giudizio estetico c’è un aspetto che non può tradursi in oggettività: il sentimento di piacere/dispiacere contenuto alla forma non dice nulla dell’oggetto ma parla sempre e solo di me. La finalità non è una proprietà dell’oggetto; precede la conoscenza dell’oggetto: trae radice da me e non dall’oggetto, motivo per cui parla di me e non di quest’ultimo. L’oggetto si dice pertanto finale solo in quanto la sua rappresentazione è legata ad un sentimento di piacere; tale rappresentazione è rappresentazione estetica della finalità. Non è un piacere sensibile ma un sentimento, legato alla rappresentazione dell’oggetto. Anche qui si può vedere come la rappresentazione dell’oggetto ha uno statuto mediano tra intuizione dell’oggetto e concetto dell’oggetto. La rappresentazione sta in mezzo: non è sensibile né intellettuale. La causa del piacere estetico non è l’elemento materiale nella rappresentazione di esso (ciò che ha che fare col suo profumo, rumore ecc.). Risiede nella riflessione sulla forma dell’oggetto e proprio per questo vale per ogni soggetto giudicante in generale. “L’oggetto si dice allora bello e la facoltà di giudicare [universalmente] tale piacere si dice gusto” IV capoverso, paragrafo 7 della “Critica del giudizio”. Dopodiché si dice che: “l’universalità del giudizio determinante deriva dalla congiunzione tra le condizioni dell’esperienza in generale e l’esperienza singolare, nel caso del giudizio riflettente dipendono dalla <<condizione universale, per quanto soggettiva, dei giudizi riflettenti, cioè dall’accordo finalistico di un oggetto col rapporto che si istituisce tra le facoltà conoscitive (immaginazione e intelletto)>>” Lo vedremo dal paragrafo 9 dell’analitica del giudizio di gusto; questo vuol dire che le facoltà che collaborano nella formulazione del giudizio estetico sono l’immaginazione e l’intelletto. Che ci fa l’intelletto, in quanto facoltà conoscitiva, dove si parla di giudizio estetico, giudizio non-conoscitivo? Il rapporto che si dà tra immaginazione e intelletto solleva l’intelletto dalla cogenza conoscitiva cui è altrimenti esposto nell’esperienza normale. In questo caso, dunque, non 51 abbiamo una conoscenza determinata ma un rapporto indeterminato tra immaginazione e intelletto, perché non c’è un concetto. L’immaginazione libera l’intelletto del suo dovere di lavorare sempre con i concetti. Vedremo che la definizione che Kant darà del rapporto immaginazione-intelletto nell’ambito del giudizio di gusto è quella di “libero gioco”. L’intelletto quando conosce fa sul serio: segue i concetti e ha una logica determinata nonché determinante. Nel caso del giudizio di gusto, viene preso per mano dall’immaginazione: l’intelletto è sollevato dalla sua determinazione a conoscere. Questo lo vediamo nel paragrafo 9. Nel paragrafo 7 si dice anche che il giudizio di gusto “pretende il consenso di ciascuno” ma “ha soltanto la pretesa di valere per ognuno”. Si tratta della possibilità costante di essere in accordo con gli altri; il che però non è una garanzia di esserlo ma possibilità. Stando a quel particolare dinamismo dell’unificazione tra il verbo “potere” e il verbo “dovere” che abbiamo visto in una precedente lezione si può dire che, nel momento in cui formuliamo un giudizio di gusto, dev’esserci sempre la possibilità di un accordo con gli altri, che è una promessa e non una garanzia. Siamo sempre nell’ambito dell’esperienza. Questo accordo, malgrado l’intrinseca contingenza del giudizio di gusto (oggi parliamo di Donatello, domani di Raffaello; oggi di Tolstoj, domani di Dostoevskij), è sempre possibile. Continua Kant nel paragrafo VII dell’introduzione: “L’aspetto strano e singolare è solo questo, che non un concetto empirico, ma un sentimento di piacere (e quindi per nulla un concetto) debba essere dal giudizio di gusto, come se si trattasse di un predicato legato alla conoscenza dell’oggetto, come se si trattasse di un predicato legato alla conoscenza dell’oggetto, attribuito a ognuno, e congiunto con la rappresentazione dell’oggetto stesso” L’aspetto strano e singolare è questo: non un concetto garantisce tale universalità ma un sentimento di piacere, “come se si trattasse di un predicato legato alla conoscenza dell’oggetto”. Questa è la ragione, vedremo poi nell’analitica, per cui siamo portati quasi fatalmente ad attribuire la bellezza (predicato della soggettività) all’oggetto. Tale universalità tendiamo ad attribuirla all’oggetto. Quando diciamo che qualcosa è bella, attribuiamo la bellezza alle proprietà dell’oggetto. Questo dipende dal fatto che l’universalità, la cui radice è in realtà soggettiva, è talmente tanto universale che ci lasciamo ingannare e finiamo, in assenza di un lavoro critico come quello che sta facendo Kant, involontariamente per attribuire la bellezza all’oggetto. È talmente tanto cogente nell’esperienza, anche quotidiana, quest’esigenza di universalità che attribuiamo al giudizio di gusto che finiamo ad attribuirla ad oggetti. Tuttavia, questa universalità è soggettiva perché non dipende da un oggetto ma da un sentimento. Il piacere nel giudizio di gusto dipende dalla riflessione e le condizioni della riflessione sono valide per ogni soggetto. Riporta un passaggio commentato nelle precedenti lezioni: “Il bello è, possiamo dire, al contempo l’archetipo e il sintomo della capacità umana di orientarsi come se ci fossero delle indicazioni (delle regole) oggettive, che invece non descrivono o mappano nella sua concretezza lo spazio chiamato domicilio e l’esperienza che di volta in volta di esso facciamo. Il bello assume una funzione paradigmatica in quella 52 Non casualmente, l’ultimo elemento dell’introduzione è la tabella in cui Kant associa le facoltà dell’animo con il loro principio a priori e la loro applicazione. È una sorta di reseconto finale, dove la facoltà di conoscere viene riconosciuta come quella presieduta dall’intelletto, il cui principio a priori è una conformità a leggi necessaria e ripetitiva il cui ambito applicativo è la natura. Sempre nel complesso delle facoltà dell’animo (paragrafo II), il sentimento di piacere e dispiacere è ciò su cui presiede il giudizio, il cui principio a priori è la conformità a scopi, il cui ambito applicativo è l’arte. In ultimo, abbiamo la facoltà di desiderare legittimamente presieduta solo dalla ragione, il cui principio a priori è lo scopo finale e il cui ambito applicativo è la libertà. L’ultima parola della introduzione alla “Critica del giudizio” è ‘libertà’. È sotto il segno della libertà che si dà il rapporto tra le facoltà nell’esercizio del giudizio riflettente. Passiamo ora all’analitica del giudizio estetico. È divisa in due parti: analitica del bello ed analitica del sublime. Cosa vuol dire analitica? Abbiamo detto che ‘analisi’ è ‘scomposizione’. Si tratta di vedere quali sono le caratteristiche essenziali che rendono un giudizio di gusto tale, secondo le categorie di aristotelica memoria: quantità, qualità, relazione e modalità; queste sono relative a tutti i possibili modi di predicazione di qualcosa su qualcosa. Siccome il giudizio di gusto è l’unione di un soggetto con un predicato, l’analitica di tale giudizio sarà relativa al modo in cui si può predicare qualcosa di qualcosa. Il metodo Kantiano, ribadiamo, è un andamento ricorsivo, dove ogni volta viene aggiunto un nuovo elemento di riflessione. Legge il primo periodo del primo paragrafo: “Il giudizio di gusto è estetico.” Questo apre una prima distinzione: non siamo nell’ambito di un giudizio logico ma nell’ambito di un giudizio estetico, soggettivo, ovvero: il modo in cui si sente diverso dalla rappresentazione. “<<x è bello>>: la rappresentazione di x non è messa in rapporto con l’oggetto mediante l’intelletto (giudizio logico), ma in rapporto al sentimento di piacere e dispiacere [Lust un Unlust] del soggetto mediante intelletto e immaginazione. Giudizio non logico ma estetico, soggettivo: esprime il modo in cui il soggetto si sente modificato dalla rappresentazione” Commenta Kant, dal secondo capoverso: “Sono cose ben diverse il rappresentarsi a livello conoscitivo (sia in modo chiaro che in modo confuso) un edificio regolare e rispondente a un fine e, d’altra parte, il sentire che questa rappresentazione è accompagnata dalla sensazione di soddisfazione [Wohlgefallen]” Il medesimo oggetto può essere oggetto di un giudizio logico o di un giudizio estetico. Se, guardando un palazzo, ad esempio un arsenale, che deve servire a costruire le navi, è grande a sufficienza per farci quel che si deve, valuto l’arsenale in termini conoscitivi, affermando che è fatto bene. Lo stesso oggetto può essere valutato esteticamente, a partire da una soddisfazione che accompagna la rappresentazione. Il termine tedesco è “Wohlgefallen”. Il traduttore Bosi lo traduce con “soddisfazione”; nell’edizione Einaudi troveremo “compiacimento”; in quella di Gargiulo è riportato con 55 “piacere”. “Soddisfazione” e “compiacimento” danno idea di riflessione che c’è sul “piacere”, che si configura come più immediato. Questa rappresentazione si riferisce al soggetto, anzi, al suo sentimento vitale col nome di “sentimento di piacere” o “sentimento di dispiacere”. Secondo l’andamento ricorsivo, i vari paragrafi dell’analitica del giudizio sono costruiti in maniera sia analettica che prolettica. Prolettica perché anticipano ognuno parte di ciò che verrà detto dopo; analettica perché ogni paragrafo successivo conferma e aggiunge qualcosa a ciò che è stato detto precedentemente. Siamo in un momento prolettico: si parla del sentimento vitale che i paragrafi successivi spiegano come mai, in termini analitici, la soddisfazione alimenta il sentimento della vita. Nel primo paragrafo del giudizio di gusto secondo la qualità, Kant dice che il giudizio di gusto è estetico, nel momento in cui il predicato non è riferito all’oggetto ma al soggetto, il quale si compiace, prova piacere. Ma che tipo di soddisfazione è quella del giudizio di gusto? Kant in questo momento vuol distinguere la soddisfazione peculiare del giudizio di gusto da altri tipi di soddisfazioni. La soddisfazione che proviamo solitamente è legata ad un interesse; l’interesse sta per la rappresentazione dell’esistenza di un oggetto. Ad esempio: vedo un bel vestito, lo compro e lo porto a casa. L’interesse sta nell’esistenza del vestito e nel fatto di portarlo a casa. Questo tipo di soddisfazione è diversa dalla soddisfazione del giudizio di gusto. L’interesse è solitamente legato alla facoltà di desiderare. Invece, quando diciamo che una cosa è bella, siamo alieni dall’interesse relativo all’esistenza reale della cosa. “Quando mi si chiede se trovo bello il palazzo di fronte […] si vuole solo sapere se la mera rappresentazione d’un tale oggetto sia in me accompagnata da piacere, per quanto indifferente io possa essere riguardo all’esistenza dell’oggetto della rappresentazione. È facile vedere che, per dire che l’oggetto è bello e per provare che ho gusto, non è il mio rapporto di dipendenza dall’esistenza dell’oggetto [worin ich von der Eexistenz des Gegenstandes abhänge], ma ciò che in me ricavo da questa rappresentazione” Il desiderio dipende dall’esistenza dell’oggetto. Questo toglie la libertà in cui si esercita il giudizio di gusto. Il giudizio di gusto è un giudizio disinteressato alla reale esistenza dell’oggetto. Il punto di vista del giudizio di gusto è meramente contemplativo. Con ciò Kant, stando ad una analitica, distingue ciò che è bello da altri fenomeni che rischiamo di associare al fenomeno del giudizio di gusto. Questi sono il piacevole ovvero ciò che piace ai sensi. Il bello è diverso dal piacevole per due motivi: il piacere, ciò che piace nei sensi, è più vicino al giudizio conoscitivo. Per dire che una cosa mi piace nei sensi, sto facendo agio sulle mie intuizioni sensibili. Ad esempio: “il profumo delle rose mi piace”. Parto dai sensi in un giudizio relativo al piacevole. Analogamente, nel giudizio conoscitivo (ad es. “il prato è verde”) parto dai sensi. Il piacevole è sempre legato all’interesse, rispetto alla reale esistenza dell’oggetto. Il giudizio col quale proclamo gradevole o piacevole un oggetto esprime un interesse nei confronti di questo, per il fatto che il desiderio di un certo oggetto è destato dalla reale esistenza dell’oggetto. La soddisfazione non presuppone soltanto il giudizio sull’oggetto ma anche il rapporto della sua esistenza col mio stato, che viene modificato nell’oggetto; perciò, di ciò che è piacevole, non si dice soltanto che piace ma anche che fa piacere, ovvero che esercita un effetto sensibile su di me. Non mi limito a concedergli un’approvazione (che è ciò che concedo a ciò che è bello); qui si deve parlare di ‘inclinazione’. Ciò che è più vivamente 56 gradevole (ciò che ci piace da matti) non si concilia con alcun giudizio sulla natura dell’oggetto; tanto è vero che coloro che pensano soltanto al godimento si dispensano da ogni giudizio. Cosa vuol dire? Che il piacevole è diverso dal bello per due modi: perché parte da una sensazione (analogamente al giudizio conoscitivo) e, a differenza del giudizio estetico, l’interesse per l’oggetto è determinante. C’è una distinzione tra l’atteggiamento contemplativo legato al bello verso qualcosa che può anche non esistere (l’arte, ad esempio) e, invece, il piacevole che è una dimensione di consumo degli oggetti. Anche la soddisfazione relativa al bene, legittima per Kant, è legata ad un interesse. Dunque sia il piacevole che il buono sono giudizi legati ad un interesse. Nel IV paragrafo, Kant distingue il bello dal buono. Pur essendo il buono l’antitesi del piacevole, nessuna esperienza umana è degna d’essere chiamata tale se non c’è l’esperienza di ciò che è buono; nessuna esperienza dedita soltanto al consumo e al godimento sarebbe un’esperienza pienamente umana. Nondimeno ci sta dicendo che piacevole e buono hanno qualcosa in comune. Ciò che è il bene morale comporta il più grande interesse dell’umano dunque non è un giudizio di gusto. Malgrado le stesse differenze, buono e piacevole convergono nell’interesse che li lega al loro oggetto, conclude Kant. Ultimo paragrafo dell’analitica secondo la qualità, V: “Raffronto tra forme diverse di soddisfazione” La soddisfazione legata al piacere dei sensi è il consumo. La soddisfazione legata al massimo interesse, al bene morale è la soddisfazione estetica. La terza critica è una critica che risponde all’esigenza Kantiana di fornire una risposta concreta alla domanda: “cos’è l’uomo?”. Nel raffronto tra le 3 forme diverse di soddisfazione Kant chiarisce che il piacere del bello, puramente contemplativo cioè disinteressato alla reale esistenza dell’oggetto è un piacere squisitamente umano. Nel caso del piacevole, essendo una soddisfazione legata ai sensi, anche gli animali provano soddisfazione. Il buono anche non è un piacere specificatamente umano. Se potessimo immaginare esseri esclusivamente razionali anche loro proverebbero una soddisfazione analoga a quella che proviamo noi in presenza di ciò che ha il massimo interesse ovvero il bene morale. Il bello, l’esperienza estetica, è quella che qualifica l’uomo in quanto portatore di una doppia natura: sensibile e sovrasensibile. Non casualmente, Kant inserisce in questo raffronto una parziale risposta alla domanda “Che cos’è l’uomo?”. Kant a questo punto denomina le tre forme della soddisfazione: inclinazione, stima e favore. Di questi tre tipi di soddisfazione, quella del bello è l’unica libera. Nel caso dell’inclinazione io ho bisogno di ciò che desidero. La logica del desiderio è reiterativa: desidero una cosa, la consumo e così via, in un circolo. Il piacere, la stima che proviamo nei confronti del buono, non ci lascia liberi: nel caso dell’esercizio della morale, Kant ammette solo la ragione: questa si impone sulla nostra natura, subordinandone la parte sensibile a quella sovrasensibile. Il favore che noi accordiamo agli oggetti che ci sembrano belli è l’unica libera e disinteressata. Esprime la collaborazione tra il sensibile e il sovrasensibile in noi. 57 Terzo momento dell'analitica del giudizio di gusto legato al fine In questo terzo momento Kant introduce correzioni ed integrazioni, così che il giudizio di gusto puro renda conto della completezza e della pluralità dell'esperienza estetica: l'indagine sul giudizio di gusto stando alla relazione, momento in cui emerge la tematica ed il principio a priori della finalità. Nel paragrafo I del III momento (§10) Kant definisce la finalità:“si dà uno scopo quando pensiamo il concetto di un oggetto come la causa di esso, ovvero il fondamento delle sue possibilità” (ES:se io voglio produrre un orologio devo avere il concetto dell'orologio, devo sapere come si fa, altrimenti produrrò qualcos’altro). Ciò rimanda all'idea di una volontà che possa produrre un determinato oggetto secondo il suo concetto: alcune cose che troviamo nella nostra esperienza -a causa della costituzione delle nostre facoltà rappresentative- ci appaiono come il prodotto di una causalità secondo fini, ovvero una volontà che le abbia così ordinate secondo la rappresentazione di una certa regola (che non possiamo conoscere) --> La rappresentazione di una cosa bella ci sembra fatta bella apposta per noi (secondo una regola inconoscibile), e dunque pensiamo che sia stata fatta da qualcuno (una volontà che non si può determinare). -I momento: contemplazione disinteressata alla reale esistenza dell'oggetto; -II momento: validità universale ma senza concetto dunque soggettiva; -III momento (o formulazione della tensione concettuale dentro di sé): la finalità secondo cui giudichiamo nell'estetica è senza scopo (=senza concetto), cioè è una finalità che noi presupponiamo senza poter conoscere la regola secondo cui quelle cose sarebbero state fatte. (§11) Il giudizio di gusto si fonda esclusivamente sulla forma della finalità di un oggetto. Perché questa finalità è senza scopo (=senza concetto)? A fondamento del giudizio non può esserci una finalità soggettiva, poiché altrimenti saremmo interessati alla reale esistenza dell'oggetto: se la rappresentazione bella di una cosa ci piacesse in base ad uno scopo soggettivo, allora vorremmo che esistesse quella cosa, e probabilmente vorremmo consumarla (Kant esclude ed isola continuamente ciò che è estetico da ciò che ha a che fare con l'interesse). Non può avere neanche uno scopo oggettivo, poiché implicherebbe un interesse nella reale esistenza dell'oggetto: sia un interesse nella sua esistenza ove parlassimo di qualcosa di buono in sé (ciò che è assolutamente buono desideriamo che esista), sia se questo buono fosse inteso come relazione di un mezzo a un fine (=un buono a qualche cosa), perché avremmo bisogno del concetto dell'oggetto per sapere a che cosa è utile, a che cosa è buono. Stando alla finalità nel caso del giudizio di gusto abbiamo solo un rapporto tra le facoltà rappresentative e la rappresentazione d'un oggetto, non c'è altro. Il sentimento di piacere che ci dà la riflessione sulla rappresentazione non può essere determinato dalla perfezione: dovremmo avere il concetto dell'oggetto, poiché una cosa è perfetta quando è compiutamente adeguata al concetto che abbiamo di essa. Ciò che qualifica il giudizio di gusto è allora una finalità soggettiva senza fini determinati nella rappresentazione di un oggetto: sembra che le cose siano finalizzate a me, senza che tuttavia si conosca lo scopo di questa finalità. Dunque, quello che resta è la mera forma della finalità, non sostanziata da un concetto che la riempia. "Il fatto che vi sia qualcosa che, come il bello, appare come fatto per corrispondere alle esigenze formali delle facoltà conoscitive testimonia un legame profondo tra queste facoltà ed il mondo, legame che la filosofia non può limitarsi a constatare come un fatto marginale o un'esperienza- limite."(Commento Gianni Vattimo, slide 238) 60 Cosa vuol dire finalità soggettiva formale? Tolti il concetto e l'intuizione non abbiamo né la materialità né il significato dell'oggetto in termini conoscitivi, resta solo la mera forma di esso, ciò testimonia il legame tra le nostre facoltà e il mondo e che tuttavia non è oggetto di conoscenza: rimangono dunque la forma dell'oggetto e lo stato del soggetto. Cos'è la forma? È unità del molteplice dell'oggetto. La forma è qualcosa di unitario, ma nella conoscenza ciò che unifica secondo la regola del concetto è l'intelletto. Dunque, l'unità a cosa si riferisce se non è data da un concetto? È riferita al soggetto rispetto al quale è finale: l'oggetto è pura forma, ma l'unità della forma sembrerebbe esigere un fine che stia a fondamento di essa, un fondamento che non conosciamo: resta dell'oggetto solo la forma nella finalità che ha come termine di riferimento il soggetto. "Il giudizio estetico non è determinato da un concetto con cui l'oggetto si accorda, ma dal sentimento dell'accordo della forma dell'oggetto con le facoltà del soggetto. La finalità soggettiva è una finalità solo formale, e la finalità formale è solo soggettiva"(Pareyson, slide 239). Come si fa a dire che la forma è una? Perché è riferita al soggetto, ed è riferita allo stato del soggetto, che è il libero gioco delle facoltà rappresentative, quindi anche stavolta è una finalità soggettiva non determinata da un concetto. (Finalità soggettiva= finalità formale) I primi due momenti del giudizio di gusto – qualità e quantità - insistono sulle condizioni del soggetto contemplante; il terzo momento ci informa anche sul modo d’essere dell’oggetto contemplato nel giudizio estetico, cioè quello di non darsi come oggetto ma come pura e semplice forma. La finalità senza scopo (=senza concetto di quello scopo) evidenzia una sorta di movimento per cui gli oggetti come mere forme sembrano venire incontro a noi. Dalla parte del soggetto noi siamo liberati dal vincolo del conoscere e dal tormento del desiderio, mentre l’oggetto si svincola dalla sua materialità secondo una corrispondenza quasi amorosa tra il modo d’essere dell’oggetto contemplato – pura forma libera dalla materialità – e il modo d’essere del soggetto contemplante -libero dalla schiavitù del conoscere e dal desiderio-. Cosa significa che l’oggetto è una forma svincolata dalla materialità? È un altro modo di dire analiticamente che la rappresentazione dell’oggetto che noi giudichiamo bella è solo apparenza: la forma è solidale con la dimensione dell’apparenza. Ciò su cui riflettiamo e che sembra venirci incontro è solo l’apparenza dell’oggetto. “Liberare il mondo dalla sua effettualità e sospenderlo per un attimo nella sfera libera dell’apparenza” - dove noi siamo liberati dal dovere di conoscere, dove siamo liberi dal desiderio, dove la ragione non si impone come unico motivo determinante dell’agire perché stiamo solo contemplando, dove l’oggetto sembra svincolato dalla sua materialità – “ecco il senso complessivo del progetto critico-estetico kantiano.” (Gianni Carchia slide 240) Dunque, il giudizio di gusto si fonda su principi a priori: se la forma degli oggetti -la loro mera apparenza- sembra nel giudizio venirci incontro, allora questo giudizio affonda le sue radici in qualcosa che è dentro il soggetto, e poiché non parliamo della materialità degli oggetti che intuiamo coi sensi, tutto questo si può dire a priori. Questa corrispondenza tra contemplante e contemplato avrà certamente poi un aspetto empirico, nel senso che il giudizio può essere riformulato in momenti diversi (es: oggi che sono al Louvre posso definire bella la Monna Lisa, domani sarò ai Musei Capitolini e definirò bello qualcos’altro), ma il dispositivo formale del giudizio di gusto ha un 61 elemento a priori che sta nella corrispondenza tra contemplante e contemplato, che è l’esito di un bisogno trascendentale radicato nel soggetto. Il secondo capoverso del §12 (slide 241): l’interesse puramente contemplativo del soggetto, scevro di interesse per l’oggetto, è ciò in cui abbiamo “coscienza della finalità puramente formale nel gioco delle facoltà conoscitive del soggetto, in occasione di una rappresentazione che è tutt’una col piacere stesso, perché implica che l’attività del soggetto si volga a ravvivare le sue facoltà conoscitive”. Il libero gioco di cui si parla nel §9 (fine del secondo momento secondo la quantità) “è una finalità puramente formale ed è tutt’uno con il piacere” (slide 241) che abbiamo detto accompagna un giudizio di gusto. Da dove viene il piacere? Riflettendo su alcune forme, quando queste sembrano fatte apposta per noi, si produce l’armonizzazione tra intelletto e immaginazione che porta come un grandissimo sollievo, una liberazione, e questa armonizzazione è tutt’una col piacere, non c’è rapporto di causa-effetto. L’armonizzazione delle facoltà è il piacere stesso del giudizio di gusto. Kant usa il termine ravvivare (=Belebung) perché quest’armonizzazione delle facoltà conoscitive sembra ravvivarci, darci una carica di vita, e questo perché ci consente di sentire noi stessi nell’esercizio della nostra libertà più pura, dove ogni facoltà sembra agire in maniera spontanea (a differenza di quanto accade nell’esercizio della libertà morale quando agiamo). Infatti, cosa abbiamo voglia di fare quando contempliamo una bella forma? Soltanto di continuare a contemplarla, indugiare nella contemplazione. Dice Kant (quinto rigo dalla fine del §12, slide 241): noi vogliamo conservare questo stato di incantevole armonia e “indugiamo nella contemplazione del bello, contemplazione che rafforza e riproduce sé stessa.” La contemplazione cosa chiama? Contemplazione e null’altro, ci appaga e non ci suscita dei desideri -altrimenti saremmo fuori dal dominio dell’estetico-. Il puro giudizio di gusto è indipendente da attrattive ed emozioni, e la sospensione dalla dimensione teoretica e pratica chiama continuamente l’indugiare in questo stato di sospensione. L’approvazione che esige il giudizio di gusto non può dipendere da attrattive dei sensi ed emozioni sensibili. Dice Kant alla fine del primo capoverso del §13 (slide 242): “il gusto rimane sempre barbarico se ha bisogno di mescolare alla soddisfazione allettamenti e componenti emotive giungendo a farne il criterio della sua approvazione.” È grave il fraintendimento per cui la bellezza viene ritenuta come fonte di stimoli sensibili, fonte di eccitazione sensuale - che non è illecita, semplicemente non è oggetto di un giudizio di gusto-. Kant non nega che l’esperienza nella sua concretezza sia plurale e mista, l’attrattiva e l’emozione possano congiungersi col piacere del bello, ma il momento precisamente estetico va distinto a rigore: Il giudizio di gusto non è influenzato da attrattive ed emozioni, anche se queste nell’esperienza quotidiana possono mescolarsi con una contemplazione. (slide 243 sul §14) I giudizi estetici possono essere distinti in empirici (giudizio dei sensi legati alla materialità dell’oggetto) e puri (giudizi della riflessione formulati rispetto alla forma della rappresentazione). Il piacere del giudizio di gusto non è empirico: solo ciò che non dipende dalla sensazione è universalmente comunicabile -ha una dimensione pubblica- altrimenti è un piacere privato (ripresa del §7). Anche i suoni o i colori possono dare luogo a giudizi di gusto, ma solo se li consideriamo come pure forme e non qualcosa che eccita i nostri sensi . “Le attrattive recano danno al giudizio di gusto quando si mostrano come motivi determinanti della bellezza”. Il §14 è il paragrafo più esclusivo nella definizione di ciò che è giudizio estetico puro, di conseguenza Kant porta degli esempi esclusivi, ma i paragrafi successivi faranno un tentativo di maggiore inclusività. 62 §17 (slide 251) “Non può esserci una regola oggettiva del gusto capace di determinare tramite concetti che cosa sia bello. Ogni giudizio che scaturisca da questa fonte è estetico; trova il principio di determinazione nel sentimento del soggetto, e non nel concetto di un oggetto. Fatica sprecata è cercare un principio del gusto che fornisca il criterio universale del bello mediante concetti. Semmai abbiamo soltanto una prova empirica di questa comunicabilità universale, cioè del fatto che c’è un’unanimità di tutti i tempi e di tutti i popoli riguardo ad alcune cose che tutti noi abbiamo sempre ritenuto belle.” Il gusto (nell’ultimo momento stando alla modalità) è esemplare ma non si acquista imitando, è personale: ha gusto non chi imita il modello -anzi imitare è testimonianza di assenza di gusto-, ma chi giudica anche il modello. Avere gusto è giudicare anche ciò che si propone come modello. Nel §3 o §4 si è detto che il gusto è selezione e capacità critica (“chi è di bocca buona è senza gusto”), quindi il gusto è essere selettivi. Dov’è la fonte del gusto? “è una mera idea che ognuno deve produrre in sé stesso, e secondo cui deve giudicare tutto ciò che è oggetto del gusto, tutti gli esempi dei giudizi di gusto e persino il gusto di ciascuno”. L’archetipo è una mera idea=l’ideale del bello. Questa osservazione fa da pendant a quella del secondo momento del giudizio di gusto stando alla quantità, in cui Kant parla di una voce universale (§8): quando esprimiamo un giudizio è come se una voce universale parlasse per bocca nostra - qui però lasciava in sospeso cosa volesse dire precisamente-. (Ultimo capoverso §8) “La voce universale è soltanto un’idea, per ora non ne cercheremo il fondamento”. Adesso nel §17 riprende il tema: l’archetipo del gusto che parla una voce universale è una mera idea che ognuno deve produrre in sé stesso e secondo la quale giudica. L’ideale del bello è la rappresentazione di un essere in quanto adeguato NON ad un concetto -la qual cosa sarebbe mera perfezione- bensì in quanto adeguato all’idea della ragione. La bellezza aderente ci consente di pensare una bellezza che contempli e che possa accogliere in sé la perfezione, e ancora di più ci consente il pensare la rappresentazione di un essere in quanto adeguato ad un’idea di ragione. Noi non possediamo l’ideale, nella vita non abbiamo conoscenza delle idee perché non ne abbiamo intuizione, però possiamo produrle nell’arte: non abbiamo intuizione di ciò che è sovrasensibile, ma l’arte produce contenuti che vi si riferiscono, e mediante lei possiamo farne esperienza. Cos’è questa bellezza ideale? Una bellezza aderente che è adeguata ad un’idea di ragione. Vista la concordanza tra un certo oggetto e un’idea ci deve essere un rapporto di finalità tra i due, ma questa finalità non può essere esterna all’oggetto poiché altrimenti saremmo nell’ambito meccanico (Es: l’orologio non è ideale, ha uno scopo esterno ad esso -misurare il tempo). L’ideale deve avere un fine dentro sé stesso. L’unico essere di cui possiamo dire che abbia un fine entro sé stesso è l’uomo, l’uomo considerato in quanto agente morale. Quando giudichiamo esteticamente l’uomo è sempre una bellezza aderente; non lo giudichiamo in base ad un’idea media della bellezza (una mela ha un bell’aspetto considerando la bellezza comune delle mele, non esiste un ideale di mela), ma giudichiamo la figura di un essere umano in base a un’idea della ragione. La natura è bella quando sembra fatta apposta per noi e ci riconosciamo in lei, natura che altrimenti sarebbe estranea e indifferente o addirittura contraria: dov’è che ci possiamo riconoscere di più se non nella rappresentazione artistica dell’uomo? Quando davanti a noi c’è la nostra stessa natura, la nostra stessa immagine, messa in rapporto con ciò che per noi è di massimo interesse: le idee della ragione, che sono le cose più importanti ma di cui non possiamo fare esperienza, ciò per cui la metafisica è necessaria ma impossibile. Nell’ideale del bello, 65 rappresentazione artistica dell’uomo, noi ci possiamo riconoscere al massimo in una dimensione che fa riferimento anche all’idea morale e alla ragione. Con ideale del bello non si intende il canone di Policleto (slide 253), che è un’idea media della bellezza, ossia l’idea che mediamente una rappresentazione corretta del corpo umano sia fatta in modo tale che ci siano testa, busto, gambe di certa dimensione, ecc.: questa è una rappresentazione corretta più che bella e ideale dice Kant. L’arte ci mostra la figura umana come espressione della moralità, e cosa c’è di più difficile da fare che riuscire a incarnare nelle fattezze di un essere umano l’afflato morale che anima ogni uomo? Bisogna che una grande immaginazione si congiunga sia in chi giudica sia in chi produce un’arte capace di ciò → Elemento prolettico che rimanda ai paragrafi dedicati al Genio: colui che anima la sensibilità, il disegno delle fattezze sensibili, per insufflare in esse il rimando all’afflato morale che anima ogni uomo. Pur non basandosi sul'attrattiva sensibile, l’arte di genio che produce l’ideale suscita un forte interesse: anche se il giudizio sul bello è disinteressato il bello può suscitare interesse di tipo intellettuale, come nel caso della fruizione della grande arte. Ultimo momento dell’analitica del bello secondo la modalità Si aggiunge l’ultimo dei paradossi dell’analitica: un giudizio è disinteressato alla reale esistenza dell’oggetto, universale ma soggettivo, finale ma senza scopo E necessario. Presupponiamo come necessario l’accordo con gli altri, e vedremo che questa necessità non è un carattere obbligativo nell’esperienza, ma una promessa. Questa necessità, per essere distinta da quella logica che si basa su concetti, si chiama necessità esemplare. Con questa necessità non apodittica Kant individua un terzo ambito dell’esperienza: accanto alla forza dei fatti -che è quello che è cogente fattualmente- e alla forza delle leggi morali -che è un dover essere dove la cogenza è quella della ragione-, l’esemplarità dell’arte è quella di un universalismo non cogente= ciò che non è rigidamente disciplinato da un concetto univoco (il giudizio riflettente) può legittimamente ambire ad avere una validità comune. Qui vi cito per spiegare l’esemplarità “La forza dell’esempio” di Alessandro Ferrara (slide 256): “l’esemplarità è qualcosa di simile alla capacità propria dell’opera d’arte esemplare di suscitare un’esperienza estetica oltre i confini del proprio contesto di origine senza affidarsi a principi o a leggi”. I greci fruivano le proprie tragedie diversamente da noi, le arti che provengono da culture molto diverse dalla nostra in teoria verranno fruite diversamente da come le fruiamo noi: ciò non toglie che l’arte, in virtù di questa sua esemplarità, possa essere fruita anche da chi non conosce il codice di interpretazione di una certa cultura del passato, lontana nello spazio. L’universalismo senza legge è anche un po’ la stessa idea che sta alla base di alcune missioni di ricerca di intelligenze extraterrestri, nelle quali vengono lanciati nello spazio oggetti e documenti che testimoniano che siamo intelligenze. Tra questi ricorrono formule matematiche e forme geometriche dell’opera d’arte, con l’idea che l’arte nella sua forza esemplare possa essere fruita anche in assenza del concetto, della regola che solitamente serve per fruire tutte le altre cose. Lezione #14 Abbiamo visto il sublime matematico e quello dinamico, e abbiamo visto che così come dall’ultimo momento dell’analitica del giudizio relativo al bello emerge l’esistenza di un senso a tutti comune, che verrà ripreso anche nella deduzione del giudizio di gusto (paragrafo 40). Ugualmente, l’analitica del sublime, mette capo all’esigenza di dover presupporre un sentimento morale a tutti comune (“chi non ha sentimento per il bello si dice che è privo di gusto, ma chi non si commuove per quelle 66 circostanze per le quali noi proiettiamo l’esperienza del sublime si dice che è privo di sentimento morale oppure lo si definisce “senza cuore””). La soddisfazione per il sublime è quindi negativa, un momento di dispiacere (slide 269) Frase fondamentale, in grassetto → Il bello ci prepara ad amare qualcosa (anche la natura) in modo disinteressato; il sublime a stimarlo anche contro il nostro interesse. = vediamo la centralità che l’esperienza del bello e il sublime giocano nella faticosa ricomposizione di questo crepaccio che si da tra la natura e la libertà. Un’ultima cosa che fa Kant: nel momento in cui si tratta di una proiezione della nostra stima, il sublime ci insegna anche a non cadere nella tentazione del fanatismo (slide 271). Con questo concludiamo l’analitica del bello e del sublime. Dopo l’analitica c’è una parte dedicata alla deduzione del giudizio di gusto. Deduzione è un termine giuridico, dunque vuol dire legittimazione. E perché si rende necessaria? Stante che, l’analitica sia del bello che del sublime ha messo alla luce delle definizioni paradossali, una universalità ma soggettiva, una finalità ma senza scopo, una necessità esemplare, una soddisfazione disinteressata alla reale esistenza dell’oggetto… Nel progetto originario questa parte non c’è, quindi è frutto del fatto che Kant procedendo nella scrittura si avvera delle esigenze di consolidare alcune delle proposte teoriche fatte. E noi adesso ne vediamo 2: quella dell’esigenza di postulare l’esistenza di un senso a tutti comune, è particolarmente significativa (ultimo momento dell’analitica del giudizio di gusto relativo al bello). Quando Kant parla di una necessità esemplare, ipotizza appunto anche l’esistenza di questo senso comune sul quale ritorna in sede di deduzione. Un altro tema che emerge è quello dell’arte, del momento produttivo dell’arte. Non c’è infatti fruizione dell’arte ove non ci sia produzione dell’arte. Vediamo il paragrafo 40 della slide 174, che ritorna sul tema del gusto, considerato come una sorta di sensus communis: questo paragrafo riprende sia il quarto momento (paragrafo 20) e riprende l’idea che Kant fa nella nota generale sull’esposizione dei giudizi estetici riflettenti… ciò per cui coloro che, come gli empiristi, analizzano, pensano che il gusto e l’esperienza siano relativi al bello e al sublime, a partire da un’analisi fisiologica qui Kant fa riferimento a Burke → pensa il piacere che viene dal bello come un rilassamento dei nervi, dei muscoli, quindi corporeo, e pensa al sublime come una specie di abreazione, cioè quel sollievo che viene dopo che il corpo si è teso). Ma cosa dice Kant? Se noi intendiamo così l’esperienza del bello e del sublime, questa non avrebbe che un valore egoistico (ultime righe della nota generale ai giudizi estetici riflettenti). Il giudizio estetico ha un valore “pluralistico”. Questa dimensione del rapporto dell’egoismo, di contro al pluralismo, proietta il tema del giudizio di gusto non solo all’interno di un tentativo di conciliazione tra la natura e la libertà, ma gli conferisce un significato politico. Questo tema lo vediamo anche ripreso dal paragrafo 40 dedicato al senso comune → l’aggettivo “comune”, ha anche un’accezione negativa in tedesco: comune nel senso di dozzinale, volgare. Il senso del “comune” rimanda al senso di una comunità, di una società, le cui basi passano anche attraverso l’esercizio del giudizio estetico, che però non consente ovviamente nel confrontare il mio giudizio con quello che di fatto da x. Confrontarsi, tenere a priori il giudizio che gli altri potrebbero dare, quindi parliamo di una dimensione ipotetica e condizionale. È proprio questa considerazione che consente di astrarre anche da accidentalità particolaristiche attrattive ed emozioni, cui ognuno di noi, in qualunque momento, può andare soggetto. Slide 275: questo senso comune rimanda alla comunità dei giudicanti, ma il lettore non ne sarà sorpreso visto che la validità del giudizio di gusto è estesa all’intera sfera dei giudicanti. A chi mai dovrei comunicare il giudizio di gusto se non agli altri che come me fanno parte della medesima 67 L’ARTE E LA STORICIZZAZIONE DELL’ESTETICA Nell'estetica post kantiana, il primo autore con il quale si compie questa storicizzazione dell'estetica è Schiller. Il concetto di storicità ha una sua genesi e nel corso del tempo subisce profonde trasformazioni, tanto da avere un significato diverso a seconda dell'epoca. Come per l’estetica, il concetto di storicità ha a che fare con il moderno, in quanto la storia diventa una disciplina universitaria, dunque scientifica solo in età moderna. Es1. L'insegnamento universitario della storia è un insegnamento moderno: la prima cattedra di storia si trova alla Humboldt Universitatn (Berlino), che allora si chiamava Friedrich Wilhelm Universitet. Nel 1949 viene rinominata Humboldt in onore dei fratelli Vilma e Alexander von Humboldt, due storici geografi. L'Università di Berlino entra in attività nel 1810. La seconda cattedra di storia in Europa è l'Università di Parigi, la Sorbona 1812. Es2. Il Museo del Louvre viene aperto nel 1793, quindi dopo la rivoluzione francese, e si chiamava Museum Social Design della République. Quando arriva Napoleone lo chiama Museo Napoleone. All'epoca la collezione del Louvre era minore rispetto a quella di oggi, ma era comunque la collezione d'arte più grande d'Europa. Napoleone voleva fare di Parigi la nuova Roma e attribuisce un ruolo strategico alla collezione e alla rappresentazione artistica. Così iniziò ad accrescere la raccolta del museo, alle volte anche quasi saccheggiando il patrimonio artistico culturale delle nazioni limitrofe. E l'idea era di raccogliere opere d'arte da tutto il mondo per dare loro un ordinamento storico. E Napoleone nel 1802 nomina un direttore generale (Dominique Vivant Denon), per organizzare l'allestimento del Louvre. Negli anni venti Hegel, accompagnato dallo storico e filosofo Victor Victor Cusan, andrà a Parigi e farà una approfondita visita delle collezioni del Louvre. Hegel di ritorno da Parigi si ferma a Weimar da Goethe un importante poeta, scrittore, pensatore, filosofo, tra i più importanti al punto tale che un'intera fase della storia della Germania si chiama Gaethezeit (1770-1830) cioè l'epoca di Goethe. Dominique Vivant Denon allestisce il museo secondo due principi guida: · Il museo doveva raccogliere i capolavori delle principali correnti artistiche del continente; 70 · L’esposizione doveva dare l'idea di un percorso lunghissimo che fosse una camminata nella storia. L'idea che Napoleone e Vivant era di rendere la collezione del Louvre come una lunga camminata nella storia dell'arte, dal passato al presente, un vero e proprio viaggio nel tempo alla riscoperta della propria identità. Ciò testimonia il consolidarsi della coscienza storica all'inizio dell'Ottocento. Un pensatore del 900 che si chiama Reinhart Koselleck, che è uno storico dell'idea di storia, scrive “la formazione del concetto moderno”. Il concetto di storia è esso stesso un concetto storico che diventa un principio guida politico, ma anche culturale o sociale. Solo alla fine del 700 la nozione di storia viene pensata come una retta priva di soluzione di continuità, che comprende in sé passato, presente e futuro. Prima della tarda modernità (prima della fine del 700) abbiamo delle storie sì, ma al plurale. Più celebri di tutti i tempi sono le storie di Erodoto, ovvero una collezione di storie, ognuna della quale comincia e finisce da sé. LA storia, come sostantivo, invece è un concetto diverso. È al contempo soggetto e oggetto di se stessa, un sistema organico. Questa trasformazione della nozione di storia si esprime anche in un cambiamento linguistico. Geschichte, viene dal verbo geschehen, accadere, e si differenzia dal calco latino Històrie: Historie, diversamente da Geschichte, è una narrazione singola, cronachistica. Dalla fine del ‘700, di contro a queste storie al plurale, la storia, die Geschichte, diventa la totalità di tutto ciò che è accaduto nel mondo. Detenendo un così alto livello di astrazione, poteva caratterizzare anche unità molto estese del tempo storico e, soprattutto, poteva diventare soggetto di se stessa. Anche in termini teologici si valorizza un ordine della storicità indipendente dalla verità della rivelazione, non per separare l’uno dall’altro ordine, ma proprio per avvalorare il secondo. La storicità diventa talmente tanto importante da diventare una fonte di legittimazione. La coscienza moderna è caratterizzata da un’esperienza della storicità come costitutiva della propria soggettività. Il fatto che la modernità si autoproclami Neuzeit, tempo nuovo, tempo moderno, è sintomo di una nuova esperienza del tempo. John Joachim Winckelmann (è uno storico dell'arte tedesco che dagli anni sessanta ha uno straordinario successo in Germania) pubblica nel 1764 Genschichte der Kunst des Altertum, la storia dell'arte dell'antichità, dove appunto il lemma Geschichte soppianta quello di historie. Winckelmann è il fautore del Neoclassicismo, ovvero l'idea che noi si possa guardare al modello dell'arte antica per continuare a fare nuova arte, dunque, per fare arte moderna. Per cui la storia dell'arte dell'antichità di Joachim Winckelmann è considerabile la prima storia dell'arte moderna di contro “Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architettori” di Giorgio Vasari 71 poiché la storia di Vasari è un insieme di storie dei singoli pittori. Non casualmente il titolo è al plurale. Ehm, che la. Gadamer in “Verità e metodo” (1960), osserva come Winckelmann, mettendo sullo stesso piano l'arte antica e le esigenze artistiche del suo tempo, dunque facendo dell'arte antica un luogo che poteva rispondere al bisogno di senso dei moderni, scrive appunto una storia dell'arte nel senso moderno del termine. Il moderno guarda all'antico, a partire da dei bisogni di senso e che dunque fa sì che ci sia un vero e proprio dialogo tra l'antico e il contemporaneo, tra l'antico e il moderno. Nonostante l'atteggiamento di Winckelmann possa sembrare antiquario, una storia dell'arte antica che vuole rispondere ai bisogni del moderno, è già intrinsecamente moderna perché pensa all'antico a partire dal contemporaneo, ovvero vede il futuro nel passato. Scrive Winckelman nella prefazione alla sua storia dell’arte: “La storia dell’arte dell’antichità, che ho cercato di scrivere, non è una semplice narrazione della sequenza temporale e dei cambiamenti in essa accaduti; al contrario, intendo la parola storia (Geschichte) nel significato più ampio, è infatti mia intenzione offrire un saggio di dottrina sistematica”. Questa nuova esperienza è resa possibile dal piano teorico, si tratta di un’esperienza anche cognitivamente determinata. Il superamento della narrazione meramente cronachistica implica una prestazione teorica, senza la quale la moderna esperienza della storia non si darebbe. In altre parole, il concetto moderno di storia è insieme un’esperienza nuova della storicità e nuova teoria della storia. Questo significa anche che, nel concetto di Geschichte, il piano descrittivo-narrativo e quello degli eventi concreti, delle res factae, fondono l’uno nell’altro. La prestazione narrativa è costitutiva della storicità degli eventi, che sono pensabili in quanto tali solo all’interno di un orizzonte discorsivo. È l'idea di una concatenazione interna, di un legame immanente tra gli eventi, dove il passato anticipa il futuro e il futuro è pieno dei segni del passato. Nella nuova teoria del tempo, si dà una concatenazione unitaria degli eventi e dunque anche una concatenazione potenzialmente dotata di significato. Non casualmente un pensatore come Hegel, che da un lato vede l'estetica come una filosofia della storia dell'arte, è anche un pensatore che radicalizza la centralità dell'esperienza ancora più di quanto già non abbia fatto Kant. E per Hegel l'esperienza è pensabile come il luogo della trasformazione. Non c'è vera esperienza ove non ci sia trasformazione. C'è trasformazione solo dove l'asso del tempo viene pensato come un unicum, dove succedono cose nuove. È infatti questa in epoca che si sviluppa un nuovo regime discorsivo della filosofia: la filosofia della storia. 72 E appunto dico, perché Shakespeare è il drammaturgo moderno per eccellenza perché è quello che tra tutti i drammaturghi moderni, ha infranto pressoché tutte le regole prescritte da Aristotele nella poetica. Una delle prime regole che prescrive Aristotele è l'unità di spazio e di tempo. Nelle tragedie di Shakespeare: · non c'è più un medesimo luogo e soprattutto non c'è più un medesimo tempo. La tragedia di Shakespeare si dilata nel tempo e si dilata nello spazio; · c'è una costante mescolanza di registri tra drammatico, alle volte comico e addirittura osceno; · non c’è il coro. Shakespeare riunisce nella tragedia elementi che vengono dai misteries, dalle rappresentazioni religiose medievali. Nel Medioevo, infatti, si era perso il legame tra la tragedia e la forma propriamente drammatica (se ci pensate, Dante chiama la sua divina una commedia perché il registro linguistico non è elevato: il che significa che la distinzione tra commedia e tragedia veniva pensata come stilistica, e che di entrambe si era dimenticato il costitutivo legame con la forma drammatica, con il teatro). Shakespeare, pertanto, riunisce la tradizione dei misteries medievali, che erano rappresentazioni teatrali, con l’idea di tragedia per come la definisce, per esempio, Chaucer nel XIV secolo nel “Racconto di Monaco”: la tragedia è una specie di storia, come ci viene ricordato nei libri antichi, di qualcuno vissuto in grande prosperità, poi caduto dal suo rango nella miseria e finito male». Con Shakespeare abbiamo davvero una infrazione di tutta la poetica di Aristotele. Infatti tra le fonti di Shakespeare, non c'è Aristotele. Lezione #16 Siamo rimasti al tema/problema di una poetica che, tra fine ‘700 e inizio ‘800, si interroga su quale sia una poetica moderna. La domanda è già di per sé moderna. Per rispondere a tale domanda il termine di confronto diventa l’antico; un antico modernizzato, dato che diventa il termine di paragone, talvolta irenico, talaltra polemico, con il quale pensare le istanze del presente. Quest’idea di un antico che è ripensato dal moderno, lo troveremo anche in Schiller nel “Saggio su poesia ingenua e sentimentale”. Nonostante la coppia “poesia ingenua e sentimentale” sembri un’opposizione (poesia ingenua degli antichi/poesia sentimentale dei moderni), queste categorie si co- implicano. Perché si co-implicano? Perché gli antichi sono ingenui. Non perché si sentissero tali: siamo noi a pensare l’ingenuità dell’antico di contro al carattere sentimentale, laddove con ciò Schiller intende “riflesso”, “mediato”. In generale, la diversità è il carattere immediato, irriflesso, spontaneo dell’antico di contro ad un moderno che è mediato e riflesso. Gli antichi non si chiedevano: “Come è la poetica dell’oggi?”; sono piuttosto i moderni che, confrontandosi con un lunghissimo passato alle spalle, si interrogano su come debba essere la poetica dell’oggi. In generale, tra modernità e riflessione, come dice Habermas, c’è un doppio filo. A tal punto, se ci pensiamo, lo stesso termine “autocoscienza”, che fa parte sia del lessico colto che di quello comune, è un neologismo: non esiste prima del ‘5-600. Tale circostanza linguistica denuncia un vero e proprio choc legato a questa dimensione riflessiva, che si rispecchia nel conio di un nuovo termine: “autocoscienza”, appunto. 75 Lo stesso concetto di “classico” è un conio di questo periodo; la Grecia diventa “classicità”, il cui valore è inesauribile. Si diceva, l’esempio specifico di Lessing, punto di riferimento culturale di Hegel. Lessing insieme a Schiller sono due autori importanti anche per Nietzsche. Due autori così diversi, come Nietzsche e Hegel, condividono, almeno in parte, un certo retroterra culturale. La domanda da cui parte Lessing è come debba essere un teatro nazionale tedesco. Lessing fa un’operazione apparentemente contraddittoria: da una parte come debba essere un teatro nazionale tedesco; dall’altra un ritorno ad Aristotele. La “Drammaturgia d’Amburgo”, redatta tra il 1767 e il 1769, è pensata come una nuova poetica per l’oggi analoga a quella scritta da Aristotele al termine della grande stagione tragica. Quest’esigenza teorica conviveva, in maniera problematica, con la consapevolezza della diversità tra tragedia antica e tragedia moderna. Consapevolezza della diversità che caratterizza la cultura tedesca di contro alla cultura francese. Il teatro di Jean Racine. È pensato come riproduzione del teatro antico. Le lancette dell’orologio della storia tuttavia non si possono portare indietro. I tedeschi hanno un senso storico molto sviluppato. Hegel, infatti, nelle sue “Lezioni di estetica”, prende in giro il modo in cui, nei drammi di Racine, si vedano eroi della Grecia classica vestiti con la redingote e gli scarpini coi tacchi. Questo crea un effetto parodistico: la riproduzione è in realtà super- francesizzata. Il linguaggio parlato dai personaggi risuona delle frasi invalse nella cultura di corte, tanto che il teatro di Racine si dice sia poco traducibile. Lessing, dunque, non può guardare al modello francese, perché tale modello è povero di senso storico. Si diceva delle difficoltà a tenere insieme Aristotele e Shakespeare, il genio della tragedia moderna, perché Shakespeare infrange tutti i precetti stabiliti ad Aristotele nella poetica: vengono persi l’unità di luogo e di tempo ed il coro, la struttura centrale della tragedia antica. Come tenere insieme Aristotele con Shakespeare? La innovazione di Lessing è quella di contestare una interpretazione rigidamente letterale di Aristotele: l’idea rigidamente deontologica di unità di luogo e di tempo non è qualcosa che qualifica la poetica bensì qualcosa che si è creata nella tradizione della lettura di Aristotele; in altri termini, sarebbe una sclerotizzazione dei seguaci di Aristotele, una pedanteria nella sua lettura che non farebbe parte della medesima poetica. Shakespeare è importante per la cultura tedesca non solo perché è il genio della tragedia moderna per eccellenza ma anche perché è grazie alla traduzione in tedesco delle opere di Shakespeare che si forgia una lingua tedesca moderna; la lingua tedesca si forma grazie alla traduzione di Lutero della bibbia, nel ‘500. Prima di allora esistevano vari dialetti. Tra ‘7-800, grazie alla massiccia traduzione delle opere di Shakespeare ad opera Schlegel e Tieck, si forma la sensibilità e forma del tedesco moderno. Quando Lessing guarda a Shakespeare dicendo di cercare in lui un teatro nazionale tedesco, sullo sfondo sta anche l’idea che la traduzione di Shakespeare ha dato alla Germania un tedesco moderno, contribuendo al farsi della cultura e nazione tedesca; Lessing, infatti, mentre auspicava che si consolidasse un modello di teatro nazionale tedesco, lamentava che “noi tedeschi non siamo ancora una nazione”, anche per via del sussistere della frammentazione linguistica. Non solo traduzione, ma anche critica shakespeariana: nell’800 in Europa i maggiori esperti di Shakespeare non li si trovava nei paesi anglofoni bensì in Germania. Torniamo, per concludere, a come può stare insieme Aristotele con Shakespeare. Epistolario tra Schiller e Goethe. È uno degli epistolari più famosi della letteratura e, forse, della storia del pensiero. Goethe è più vecchio di Schiller: ciononostante, i due divengono migliori amici. Il loro epistolario è una miniera della poetica del tempo. Per lettera, si interrogano e si scambiano sulle loro opere e ciò che stanno facendo; in larga parte 76 riflettono anche su Shakespeare. In una lettera del 5 maggio 1797, Schiller scrive a Goethe: “Shakespeare, che pure ha molto peccato contro Aristotele, si sarebbe inteso meglio con lui più di quanto avrebbe potuto fare con l’intera tragedia francese” L’intuizione rivoluzionaria di Lessing, consentaneo con questo clima in cui anche Schiller concorda sul fatto che, nonostante Shakespeare abbia dismesso tantissimi dei precetti formali di Aristotele, si sarebbe inteso meglio con Aristotele che non Racine. L’intuizione di Lessing è che il neoclassicismo di Racine non era un nuovo classicismo ma un falso classicismo. Il neoclassicismo è la traduzione della lettera morta del dramma greco, non del suo autentico spirito. Proprio coloro che sembrano incarnare lo spirito del dramma greco, in verità lo tradiscono: costringere la natura del dramma in una serie di regole formali significa uccidere lo spirito di quel dramma. Lessing respinge che sia possibile riprodurre le qualità di un Eschilo o di un Sofocle semplicemente rispettando delle regole formali. Lo spirito della tragedia non sta nella convenzione dell’unità di luogo o di tempo, nel materiale mitologico o nella presenza del coro. In un sol colpo, Lessing dichiara che il neoclassicismo non è continuazione della tradizione classica ma il suo più grande tradimento. Ecco perché, quella che sembrava un’alternativa, “Sofocle o Shakespeare”, che aveva dominato l’estetica del dramma fino ad allora, era una falsa alternativa; non si trattava, per Lessing, di dire “Sofocle o Shakespeare” bensì “Sofocle e Shakespeare”; Shakespeare come moderna e dunque diversa interpretazione dello spirito della tragedia attica. La vera alternativa non è tra Sofocle e Shakespeare ma tra Shakespeare ed il neoclassicismo; dunque, non alternativa tra antichità ed epoca elisabettiana (nel caso di Shakespeare) ma alternativa tra neoclassicismo e Shakespeare. Il tema del confronto con l’antico non è un conflitto tra antico e moderno. Quello con l’antico non può essere un conflitto, né un dibattito sulla possibilità di poter imitare più o meno pedissequamente l’antico, perché l’idea di copiare l’antico è una cattiva idea dell’antico. Il tema del confronto con l’antico sta in due idee diverse di modernità: una modernità mal compresa e con una coscienza cattiva di quello che fa (neoclassicismo) ed una modernità più consapevole ed autocosciente di sé stessa quindi della differenza notevole ed irriducibile rispetto all’antico (Shakespeare). Un altro testo importante di Lessing, in cui fa un’operazione con un case study specifico per sconfessare le posizioni del neoclassicismo non francese ma tedesco (Winckelmann). Finanche in Winckelmann, abbiamo visto, ci sono delle tensioni che rimandano al moderno, di cui Winckelmann non è consapevole. Il testo in cui Lessing si confronta col cattivo neoclassicismo di Winckelmann è un testo del 1766 intitolato “Laocoonte”, dedicato al gruppo marmoreo di età ellenistica che è il gruppo, appunto, del “Laocoonte”. Ricordiamo un altro errore cui Winckelmann va incontro, suo malgrado. Winckelmann erige ad alte greca più alta la statuaria. Definisce l’impressione che scaturisce dalla statuaria è quella di “quieta serenità e nobile grandezza” (l’abbiam visto la scorsa lezione). Quest’idea gli nasce da un errore che lui fa. Le statue dei greci le vediamo bianche. Questo candore suggerisce a Winckelmann l’implementazione di quiete e grandezza. In verità le statue dei greci ci sono arrivate così; in realtà erano coloratissime. Il discorso sulla “quieta serenità e nobile grandezza” che sarebbe derivata dal bianco marmo è antistorico: è qualcosa che pensa solo perché non sa com’erano le statue dell’epoca. Cosa rappresenta il gruppo marmoreo del “Laocoonte”? Rappresenta un momento della guerra di Troia. Laocoonte è il protagonista principale del gruppo, l’uomo adulto che si trova nel mezzo tra due giovani. Laocoonte, nella mitologia greca, è un sacerdote troiano. Si narra che, quando i Greci arrivano a Troia col loro cavallo gravido di guerrieri, Laocoonte 77 Da questo punto di vista, l’arte è ideale nella misura in cui non è reale: l’arte è arte e non si deve confondersi con il reale, anche se ci parla della realtà. In questo, è consentaneo alla realtà di Schiller, per il quale il coro nella tragedia deve essere il muro vivente che separa l’arte da ciò che arte non è. Qual è, per Goethe, il problema della tragedia moderna? Abbiamo detto che il soggetto della tragedia moderna è un soggetto riflessivo; come noterà anche Hegel, è poco incline tale soggetto a quelle grandi azioni che fanno deflagrare l’esito tragico della tragedia. Una tragedia moderna per eccellenza è la tragedia di Amleto di Shakespeare, dove abbiamo un continuo procrastinarsi dell’azione – è la tragedia dell’inazione. Ma c’è una questione più sottile, relativamente al problema di una tragedia moderna, poiché non c’è tragedia ove non ci sia rapporto tra una soggettività ed un qualche fato, laddove il personaggio moderno, sempre più riflessivo, è un personaggio anche sempre più determinato, rispetto l’esistente. Se le cose, anche le più luttuose, gli accadono solo per il volere della gente, che può portarlo verso la disgrazia, allora, però, viene meno quell’intreccio fatale tra volere e dovere, tra volere non volere, come il caso di Edipo che compie del male e va incontro alla sciagura ma perché non sapeva ciò che stava facendo, e dunque viene meno la tragicità che sta in seno alla tragedia. Come dirà anche Hegel, sembra che nella tragedia moderna gli eroi non abbiamo né più e né meno di ciò che si meritano. Macbeth è un terribile ambizioso che finisce per uccidere il suo rivale; alla fine le cose vanno molto male per lui ma è stato la causa del suo male. Affinché ci sia tragedia, bisogna che la causa del male in cui i soggetti incorrono non sia in totale potere del soggetto, altrimenti vien meno l’effetto tragico; vediamo alla fine in cui incorre il soggetto è un male che il soggetto, in maniera quasi sistematica come accade nel “Macbeth”, si è andato a cercare. Dice Goethe che Shakespeare ha comunque scritto delle grandi tragedie, perché ha saputo tenere insieme, nella narrazione, il momento soggettivo con quello oggettivo; la volontà che muove i suoi eroi non nasce esclusivamente dall’interiorità ma è condizionata dall’esteriorità. L’esempio che, secondo Goethe, mostra il carattere tragico della tragedia moderna in Shakespeare è “Romeo e Giulietta”, dove la volontà dei due agenti viene fatalmente impedita e danneggiata da una circostanza oggettiva (l’appartenenza degli innamorati a due famiglie fatalmente ostili l’un l’altra). Troviamo, ancora, in Shakespeare, quella mescolanza tra elemento soggettivo, ossia la volontà dei due innamorati, e elemento oggettivo, ossia le circostanze esterne e avverse, che fanno sì che il volere in Shakespeare si trasforma in dovere: qualcosa di oggettivo si intreccia a qualcosa di soggettivo, avvicinandosi così agli antichi; in tal modo, Shakespeare lega mondo antico e mondo moderno. Leggiamo altri due stralci di Goethe commentatore di Shakespeare, che si trovano in una raccolta tradotta in lingua italiana - “Scritti sull’arte e sulla letteratura”: “La prima pagina che lessi di Shakespeare mi conquistò per la vita, e quando ebbi terminato il primo dramma rimasi come un cieco a cui una mano miracolosa avesse d’un tratto donato la vista. […] La mia esistenza si espandeva senza fine. […] A poco a poco imparai a vedere. Non esitai un attimo a ripudiare i canoni tradizionali del teatro.” Goethe rivela di essere stato allievo di Shakespeare. “L’unità di luogo e tempo mi parve opprimente come un carcere, le unità di azione e tempo briglie gravose alla nostra immaginazione.” Ancora, sull’intreccio tra volere e dovere dunque tra momento soggettivo e momento oggettivo: “Il dovere conferisce grandezza e forza alla tragedia, mentre il volere la rende debole e meschina. […]Shakespeare è impareggiabile nel congiungere in modo grandioso antico e moderno. Nelle sue 80 opere il volere e il dovere cercano di realizzare un equilibrio; si battono furiosamente l’un contro l’altro, ma sempre in modo che sia il volere a soccombere.” Non c’è tragedia ove non ci sia una disfatta del soggetto. “[…] Un volere che eccede le forze dell’individuo è moderno. Ma Shakespeare non lo fa scaturire da dentro, ma lo fa suscitare da una causa esterna, così che il volere si trasforma in una sorta di dovere, approssimandosi agli antichi.” Ancora per anticipare Hegel; un motivo per cui Hegel, grande ammiratore di Shakespeare, dubita che quella di Shakespeare si possa chiamare tragedia è il venir meno di un conflitto etico. Mentre nell’antico troviamo conflitti che sono leggi universali che si fronteggiano tra di loro – una su tutte è “Antigone”, che è anche l’esempio che fa Hegel e la sua tragedia preferita che tradusse in tedesco da ragazzo, dove una legge della città si oppone ad una legge della famiglia – nel momento in cui, nella tragedia moderna, i vettori dell’agire sono passioni individuali (come l’ambizione in “Macbeth”, la gelosia in “Otello”). Tutta quella tragedia che nell’antico è anche scontro tra forze della città, nel moderno diventa qualcosa che si svolge soltanto all’interno della soggettività dell’eroe; la soggettività moderna è una soggettività riflessiva e straordinariamente sviluppata, rispetto alla soggettività degli antichi. Non a caso, alcuni strumenti diegetici della letteratura nascono soltanto nella modernità e nella contemporaneità, come il monologo interiore, che serve per narrare la soggettività e l’intimità dei personaggi. È uno strumento moderno: solo nella modernità, d’altronde, ci sono una soggettività, un’emozionalità, una vita interiore così articolate da richiedere l’introduzione di un nuovo strumento diegetico per raccontarle. Arthur Schopenhauer (1788-1860). Pur dichiarandosi erede di Kant, lo unisce in un quadro di pensiero diversissimo dal kantismo. È lettore di Kant e maestro di Nietzsche. Dove troviamo l’estetica di Schopenhauer? Nel terzo libro della sua opera principale, “Il mondo come volontà e rappresentazione”. È un filosofo particolare: ha scritto solo un’opera. Ha dedicato tutta la sua vita alla scrittura e alla riscrittura de “Il mondo come volontà e rappresentazione”. Esce per la prima volta nel 1819. Dopo venticinque anni passati a lavorarci, pubblica una seconda edizione, molto diversa e, infine, una terza nel 1859. Troviamo la sua estetica anche nelle lezioni che tenne all’università di Berlino nel 1820, che vanno sotto il nome di “Metafisica del bello”. Anche a questi appunti lavorò una ventina d’anni. Schopenhauer venne scelto non casualmente da Nietzsche come maestro di vita e di filosofia. Non fu un professore universitario, a differenza di Hegel (fu addirittura rettore dell’università di Berlino). È un figlio di commercianti: impara diverse lingue perché il padre lo fa viaggiare per tutta Europa. Il padre avrebbe voluto che egli ereditasse l’azienda di famiglia. Alla morte di questi, infrange la promessa fatta al padre e si iscrive all’università. Nel 1819 pubblica “Il mondo come volontà e rappresentazione”. Nel 1820 tiene il suo unico corso di filosofia all’università. Perché fu l’unico corso all’università? Perché Schopenhauer era un docente a contratto. I docenti a contratto avevano il contratto rinnovato a seconda della quantità di studenti che attiravano. All’epoca, Schopenhauer mise le sue lezioni nel medesimo orario in cui si tenevano quelle di Hegel, che era il filosofo più importante di tutta la Germania; quindi le lezioni di Schopenhauer furono frequentata da una, due persone. L’università di Berlino non gli rinnovò il contratto. Continuò a fare qualche altro tentativo di esplorare la carriera universitaria ma non ebbe successo. “Il mondo come volontà e rappresentazione” dopo il 1819 non la leggeva nessuno; tanto che, non trovando un editore disposto a pubblicarlo, dovette aspettare 25 anni per pubblicare la seconda edizione. Il successo arrivò tardi: solo dopo la pubblicazione di “Parerga e paralipomena” nel 1751; forte del 81 successo che ebbe la sua filosofia, poté, in breve tempo, procedere ad una terza edizione, nel 1759, de “Il mondo come volontà e rappresentazione”. La filosofia di Schopenhauer si presenta come un ritorno a Kant, un Kant molto rimaneggiato. Da questo punto di vista, Schopenhauer viene influenzato da altre letture filosofiche; in particolare, l’altra fonte della sua ispirazione è Platone: il fenomeno di Kant diviene, come il fenomeno di Platone, ingannevole, apparente, illusorio. Il fenomeno che per Kant è l’unica conoscenza che possiamo avere diventa per Schopenhauer apparenza, illusione. Del resto, “fenomeno” in tedesco è “erscheinung” ovvero “sembrare”. Altra trasformazione di Kant è la seguente. Per Kant, l’essere umano è “fenomeno tra i fenomeni”; per Schopenhauer c’è qualcosa in noi che ci permette di accedere alla dimensione noumenica. Da dove viene la capacità di poter conoscere il noumeno, la cosa in sé? Da un elemento che raramente trova cittadinanza in filosofia. La filosofia solitamente pensa a soggette disincarnati. In Kant, ad esempio, il corpo non ha nessun rilievo filosofico. Per Schopenhauer, il corpo è ciò attraverso il quale possiamo avere accesso alla cosa in sé. Il corpo è l’unica cosa che non ci viene data in maniera mediata: io sono il mio corpo, dice Schopenhauer. Il corpo è animato, secondo Schopenhauer, dalla volontà. Grazie al corpo, dunque, abbiamo accesso alla cosa in sé, sottostante i fenomeni, che è la volontà. Ecco perché i fenomeni sono ingannevoli e apparenti: perché la volontà è una; noi tutti ne siamo declinazioni. La pluralità dei fenomeni è un inganno, che nasconde l’unica cosa in sé, ovvero la volontà. Ecco un rimando di impostazione a Platone: la pluralità delle cose è illusione, inganno mentre di contro ciò che vi è sotto veramente è. La volontà non governa solo l’umano: è principio ontologico, governa tutto ciò che è, ivi compresa la natura. Ciò per cui questa volontà si declina nei singoli fenomeni è il “principium individuationis” che è il principio dei fenomeni e, al contempo, principio dell’illusione ai fenomeni connessa. Schopenhauer inserisce da ultimo l’elemento platonico propriamente detto ovvero l’idea che ogni cosa è soltanto l’apparenza transitoria ed ingannevole di alcune idee. Lezione #17 Parlavamo di Artur Schopenhauer. La filosofia di Schopenhauer da una parte rimanda a Kant (per l’idea che il mondo sia fenomeno) ma lo trasforma radicalmente nel momento in cui ritiene che il noumeno ci sia accessibile. Il noumeno che sta al di là del fenomeno (inteso da Schopenhauer non solo come ciò che si manifesta ma anche ciò che inganna) è accessibile attraverso il nostro stesso corpo, il quale, in filosofia, non trova spesso cittadinanza. Pensiamo al soggetto kantiano: la sua corporeità è ignorata dalla filosofia critica. Tramite il corpo, che non è qualcosa che conosciamo ma qualcosa che siamo, accediamo alla dimensione noumenica, rispetto alla quale Schopenhauer contesta la definizione kantiana; il noumeno in quanto cosa in sé riduce la dimensione noumenica a quella cosalità che è la cifra del fenomeno. Dire che il ‘noumeno’ è una cosa significa pensarlo nel mondo del fenomeno, dove le cose apparenti si danno nella loro molteplicità transeunte. Queste cose, stando al principio dell’individuazione, che si danno molteplici e transitorie sono il riflesso delle idee: qui Schopenhauer elegge a proprio maestro Platone. L’idea della sovrapponibilità di Kant e Platone è sostenuta solo da Schopenhauer. C’è una profonda e radicale differenza tra i due; tale accoppiamento è l’esito della rielaborazione di Kant e Platone nel pensiero di Schopenhaur. Attraverso il corpo abbiamo accesso diretto al noumeno, vi partecipiamo direttamente. Possiamo sapere cos’è il noumeno: è la volontà. Tale volontà, cui partecipiamo come uomini e cui partecipa anche la natura; ne “Il mondo come volontà e rappresentazione” ci sono descrizioni di come la 82 L’emancipazione dalla volontà, durante la contemplazione estetica, è temporanea: fin quando partecipiamo a tale contemplazione siamo liberi dalla volontà; quando, però, il nostro occhio ricade fatalmente, come sempre succede, su qualcosa altro dalla cosa bella ricadiamo nella logica reiterativa del desiderio. La contemplazione estetica, in quanto affrancamento dalla volontà è anche liberazione. Anche in questo possiamo notare una somiglianza con Kant: fin dalla fine dell’introduzione della ‘Critica del giudizio’ l’ultima parola inserita nello schema è ‘libertà’ ed altresì i momenti (quattro) dell’analitica del bello ci mostrano variazioni sul tema della libertà. In Schopenhauer la bellezza non è prettamente artistica (come sarà nella filosofia di Hegel, che comincia escludendo il bello naturale dal bello artistico) ma anche naturale: questo giustifica il motivo per cui essere nella natura, immersi in bei posti e circondati da bei paesaggi, ci fa sentire bene. Il benessere è esito della contemplazione della bellezza della natura che ci sospende dall’asservimento, altrimenti consueto, della volontà. “È grazie alla sua bellezza estetica, pertanto, che la natura fa così bene all’animo.” Metafisica del bello, p. 86 È grazie alla sua bellezza estetica che la natura fa bene all’animo; la contemplazione del bello di natura è una specie di balsamo alla coazione a ripetere che impone la volontà. “La potenza con cui ci esorta a intuire in maniera pura è così grande che spesso si rivelaal nostro sguardo tutto d’un tratto, riuscendo quasi sempre a strappare l’essere umano dal suo brigare – con le mestizie del Sé e coi suoi scopi –, e dalla soggettività, a liberarlo dalla schiavitù della volontà e a metterlo nella condizione del puro conoscere. Dalla facilità con cui la vista della natura ci sottrae alla nostra individualità con tutto il suo patire si capisce come persino chi è interiormente tormentato dall’indigenza, dalle preoccupazioni, dalle passioni viene inaspettatamente confortato, rasserenato, ristorato da un singolo, libero sguardo sulla natura: la tempesta delle passioni, l’impeto dei desideri, l’inquietudine della paura e la preoccupazione sono infatti d’un tratto prodigiosamente placati – proprio perché siamo sottratti all’individualità” Metafisica del bello, p. 86 Perché c’è una superiorità del bello artistico rispetto al bello naturale? Perché per apprezzare il bello naturale bisogna avere una particolare disposizione a coglierlo. “Questo è il comune punto di vista dal quale la maggior parte degli esseri umani non si libera quasi mai, proprio perché manca loro l’oggettività, cioè la qualità estetica o geniale dello spirito.” Come in Kant c’è un genio che produce l’arte e c’è un gusto che il correlativo della fruizione, così c’è una qualità geniale (quella di chi produce arte) e una qualità estetica nel soggetto che lo porta a fruire del bello, in Schopenhauer. Per apprezzare il bello di natura ci vuole una maggiore qualità estetica, rispetto all’arte che è creata appositamente per esser contemplata. La maggior parte degli uomini “non sono capaci, almeno non per un qualche periodo durevole, di comprendere esteticamente la natura, il che è denunciato dal fatto che, malgrado tutte le bellezze che può dispiegare, non amano starci da soli, a tu per tu. Poiché il modo di considerare oggettivamente le cose non riesce a conquistare la loro coscienza, per avere la sensazione di azione e reazione hanno bisogno di compagnia. In alternativa, si portano dietro un libro, e durante la passeggiata, per ingannare con pensieri astratti la noia che la vista della natura procura a chi è incapace di intuizione oggettiva, leggono. Tutto questo solo perché la loro conoscenza resta sempre vincolata al servizio della volontà; in tutti gli oggetti cercano quindi sempre e solo i rapporti che potrebbero avere con la loro volontà, e tutte le volte che non ce l’hanno risuona nel loro intimo, come una specie di basso fondamentale, un 85 reiterato, sconsolato: “non mi serve”. È per questo che in solitudine anche l’ambiente più bello ha per loro un aspetto ostile, estraneo, sinistro, desolato. La condizione del puro conoscere interamente privo [la contemplazione estetica pura] di volontà è anche l’unica in assoluto a fornirci un esempio della possibilità di un’esistenza che, a differenza della nostra attuale, non consista nel volere.” Metafisica del bello, p 86-87 A margine: “oggettivamente” vuol dire “indipendentemente da qualunque scopo”. È difficile individuare nella nostra esperienza un momento di contemplazione estetica pura. Abbiam visto, siccome la contemplazione si ridurrebbe tantissimo, Kant elabora una serie di correttivi, grazie ai quali la contemplazione estetica diviene più inclusiva, come la distinzione tra bellezza libera e bellezza aderente. La contemplazione pura, dunque, anche in Kant è molto rara; i tipi di contemplazione integrati sono contemplazioni miste. La condizione del puro conoscere, privo di volontà, è la condizione estetica pura, rara da prodursi nell’esperienza, “unica in assoluto a fornirci un esempio della possibilità di un’esistenza che, a differenza della nostra attuale, non consista nel volere”. Questo momento unico della nostra vita equivale all’unico momento completamente libero che esperiamo anche nella ‘Critica del giudizio’ quando contempliamo la rappresentazione di qualcosa che ci sembra bello. La contemplazione pura è l’unico momento che ci consente di vivere un’esperienza di perfetta libertà, come mai si dà nella nostra esperienza. È uguale ciò che sta dicendo Schopenhauer: un esempio della possibilità di un esistenza che non consista nel volere che è contemplazione pura dove la libertà completa è assenza di desiderio, laddove il desiderio ci mette in condizione di dipendenza da qualcosa e dunque di costrizione. Quando si apre di fronte a noi un bel paesaggio, “tutto ad un tratto” le differenze di individualità e tutto ciò che ad esse è relativo vengono meno: siamo affrancati dalla volontà e diveniamo un soggetto puro. Anche qui potremmo sentire un’eco kantiana: soggetto puro quando svanisce ciò che differenzia me dagli altri. Abbiam detto che la contemplazione estetica è ciò che apre alla comunità perché nella pura contemplazione estetica ciò che viene sollecitata è ciò che rende me uguale a tutti gli altri, quella soggettività universale di cui parla il secondo momento dell’analitica del giudizio di gusto. “[…] Non appena questa condizione sopraggiunge (e lo fa non appena consideriamo le cose esteticamente, cioè in maniera puramente oggettiva), tutte le differenze di individualità e tutto ciò che è ad esse relativo vengono tolti; non conta nulla se l’occhio che guarda, la coscienza che conosce in maniera pura, sia di un potente re o di un martoriato mendicante. Guardare il tramonto del sole da una galera o da una reggia è la medesima cosa. Siamo, infatti, trasposti in un dominio nel quale né felicità né pena possono seguirci: è il dominio del puro conoscere.” Perché è difficile mettersi nella posizione di pura contemplazione? Perché siamo abbandonati all’intuizione puramente oggettiva anche nella realtà ed un qualche rapporto degli oggetti che contempliamo con noi va ad inficiare la pura contemplazione. Ad esempio mentre contempliamo un parco bellissimo ci viene in mente che potrebbe essere nostro. La contemplazione disinteressata viene sempre inquinata fatalmente da un interesse. Ci può venir in mente “Ci può per esempio venire in mente che il paesaggio che stiamo considerando in maniera puramente oggettiva è una proprietà che ci potrebbe toccare in eredità, ed ecco che quella libertà e 86 quiete spirituale che accompagnavano il puro conoscere svaniscono subito: non siamo più il soggetto che conosce in maniera pura, ma torniamo a essere l’individuo. Quello che conoscevamo poco prima [mentre contemplavamo la cosa indipendentemente da tutto] era l’idea, che sta al di fuori di ogni relazione; ora è la cosa singola [il fenomeno], che viene conosciuta solo attraverso le relazioni poste dal principio di ragione [e] che è dunque l’anello di una catena cui appartiene anche l’individuo contemplante, il quale è nuovamente esposto a tutta la miseria che accompagna l’individualità e il volere.” La contemplazione pura avviene in un momento e guastata in un altro dalla forza della volontà, dice Kant. La contemplazione pura si produce più difficilmente quando uno scorcio naturale si apre improvvisamente e le persone sensibili rimangono a contemplarlo ma anche nel caso delle opere d’arte. La facoltà produttrice di arte è il genio. Chi è il genio? Il Genio è uno che naturalmente di una straordinaria forza di spirito, di una tremenda forza di spirito al punto tale da poter competere con la tremenda forza della volontà. Il genio sa guardare le cose come se fosse un puro occhio del mondo, dice Schopenhauer. In altri termini, il genio ha una capacità di contemplare il reale tale da riprodurre non il fenomeno bensì l’idea della cosa. Si potrebbe dire che impariamo a conoscere davvero le cose una volta viste rappresentate nell’arte, al punto tale che anche gli oggetti più utili del quotidiano divengono conoscibili solo quando son passati attraverso il puro occhio del genio. Pensiamo alla rappresentazione della pittura olandese che rende oggetto di arte oggetti del quotidiano (donna che versa acqua nella brocca, bambini che giocano nel cortile): nel quotidiano li guardiamo a malapena. Quando ci vengono ripresentati sul terreno dell’arte diventano qualcosa di cui si può propriamente parlare: noi conosciamo. Il genio non riproduce fenomeni ma l’idea delle cose. Dunque, il genio consente a chi non ha tale straordinaria potenza mentale di contemplare le idee delle cose. L’arte contempla l’essenza delle cose mentre la scienza si occupa sempre e solo dei fenomeni. Si dà un’egemonia dell’arte sulla conoscenza scientifica. Il luogo effettivo, privilegiato della conoscenza è per Schopenhauer l’arte, l’ambito estetico. Da questo punto di vista, anche Schelling vede nella intuizione artistica un primato conoscitivo. È un’epoca in cui ci si interroga sulle possibilità conoscitive dell’arte e non di rado questa svetta sulla scienza. Tra arte e scienza c’è non solo una differenza di grado ma una differenza qualitativa, anzi, c’è una soluzione di continuità. “«Ho detto che l’essenza del genio è la capacità di cogliere nelle cose reali le loro idee, e siccome ciò si può verificare solo in una contemplazione puramente oggettiva, in cui tutte le relazioni si dissolvono e specialmente i rapporti delle cose con la volontà individuale passano di mente, essa è la capacità di esprimere la più perfetta oggettività dello spirito […] di smarrirsi nell’intuizione, di sottrarre la conoscenza dal suo asservimento alla volontà, cioè perdere totalmente di vista il proprio interesse, il proprio volere, i propri scopi, quindi alienarsi la propria personalità restando puro soggetto conoscente, limpido occhio del mondo” Capacità di alienarsi dal proprio volere, dai propri scopi, dal proprio interesse. Come vedremo, questo approssima il genio al folle, perché è alieno dai propri scopi, interessi ed è proprio questo che lo distingue dall’uomo comune “Costui non è infatti capace, almeno non con assiduità, per una certa durata di tempo, di una vera e propria meditazione, cioè di una considerazione pienamente disinteressata in ogni senso. Egli può 87 approfondita presentazione di caratteri significativi e l’invenzione di situazioni di rilievo in cui i primi si dispiegano.” Il poeta deve costruire personaggi e porli in condizione di esibire i loro caratteri significativi nella loro idealità. “Faccio un paragone tratto dalla chimica. Al chimico spetta anzitutto di presentare in maniera pura, indipendentemente da contaminazioni, le sostanze semplici e i loro principali legami, ma ciò non è sufficiente; il chimico deve infatti, davanti ai nostri occhi, anche esporle all’influsso di quei reagenti nei quali esternano le loro specifiche peculiarità, affinché queste diventino palesemente e distintamente visibili. Altrettanto tocca al poeta, il quale ci presenta caratteri significativi in maniera fedele e veritiera come la natura stessa, ma questo non è sufficiente; affinché noi si possa conoscerli bene, egli deve escogitare situazioni in cui si dispiegano interamente quelle peculiarità grazie alle quali i caratteri si presentano chiaramente in un profilo netto: queste sono le situazioni rilevanti» Met, p. 181 Di contro al quotidiano, in cui alle volte siamo così diversi da noi stessi da non essere riconoscibili neanche a chi ci conosce bene. Schopenhauer qui cita La Rouchefoucald: “Talvolta siamo tanto dissimili da noi stessi quanto dagli altri.” Nell’esperienza comune, non troveremo mai un uomo presentato in maniera così compiuta e perfetta come troviamo invece i personaggi nella letteratura. La tragedia è, secondo Schopenhauer, la regina delle arti, salvo la specificità della musica, perché presenta personaggi che nella loro vicenda rinunciano alla volontà. Unisce due cose: la presentazione del lato più terrificante della vita (il modo in cui la volontà ci espone a sciagure inimmaginabili) e c’espone anche la cura a tali sciagure, ossia la rinuncia alla volontà. Questo avviene o con la fine del personaggio o con una conversione interiore, come nel caso di “Edipo a Colono”. La conversione, disse Hegel, sembra anticipare la conversione in senso. La musica è arte a sé stante. Tema ereditato da Nietzsche: la musica è un’arte diversa da tutte le altre, può esprimere la volontà, non è immagine delle idee. “L’arte di cui vi consiglio di godere più di tutte è la musica. Nessuna arte agisce sull’uomo così immediatamente e profondamente come questa: proprio perché nessuna più di lei ci fa conoscere la vera essenza del mondo così profondamente e immediatamente. L’ascolto di una grande, bella musica polifonica è per così dire un bagno dello spirito: trascina via tutto ciò che è impuro, meschino, cattivo, accorda ognuno al più alto grado spirituale che la sua natura gli consente; e durante l’ascolto di una grande musica ognuno sente chiaramente qual è il suo valore complessivo, o quale dovrebbe essere” Metafisica, pp. 203-204 Lezione #18 Friedrich Nietzsche (1844-1900) Una delle sue opere più importanti è “La Nascita della Tragedia", tema del confronto tra il moderno e l’antico. Compone delle prose autobiografiche, è autore di alcuni pezzi musicali, e comincia i suoi studi alla facoltà di Teologia, ma segue fin da subito lezioni di filologia, di conseguenza intraprende l'aspirazione di diventare filologo. 90 Nel 1865 legge “Il mondo come volontà e rappresentazione” di Schopenhauer, legge anche la critica del giudizio e che scriverà un saggio. 1869 diventa docente di lingua e letteratura greca all’università di Basilea. Rinuncia alla cittadinanza Persiani per diventare apolide. Lavora sul dramma musicale greco e Socrate sulla tragedia. Nel 1872 esce la nascita della tragedia dallo spirito della musica che non trova approvazione nella cultura accademica dell’epoca, molti critici stroncano il libro. 1889 va incontro a dei disturbi psicofisici che gli tolgono il senno. 1900 anno di morte. “Nascita della tragedia” (1872) Contributo principale alla storia dell'estetica. Sperimentatori di generi filosofici, scrive aforismi e un’opera il cui stile è un fenomeno unico. Ci consente di tornare sul tema del classicismo e del neoclassicismo, secondo lui la Greca di Winckelmann, di Goethe (si confronta sull’antico e riscrive una versione del libro di Euripide), ecc. è incompleta. Nel corso dell’800 a questa Grecia serena, olimpica, si contrappone una lettura anticlassica che mette in luce l'aspetto più oscuro della grecità. Nietzsche tiene insieme i due aspetti: lettura classica, lettura anticlassica. Ovviamente non disprezza la Grecia classica, dice che questi autori sono guide e mistagoghi, per essere introdotti allo studio possiamo prendere la loro mano, ma la loro visione è unilaterale, quindi dovremmo integrare il punto di vista che si concentra sugli assetti irenici della cultura greca. Lo studio dell’antico non deve essere antiquario, ma serve per forgiare la nostra coscienza di contemporanei, tanto che sullo sfondo dell’interessa di Nietzsche c’è il progetto artistico di Butler, il quale proponeva un tipo di opera in cui si desse la fusione totale di musica e parole. Il maggiore artista contemporaneo è ciò che sta sullo sfondo dell’interesse di Nietzsche sulla tragedia. Questo perchè nella modernità sicda una divisione tra il linguaggio cantato e parlato. Il progetto Butleriano dove parola, musica e zione devono costituire un unicum, ha un precedente che possa sembrare nella tragedia attica. Questo libro esce nel 1872 e ripubblicato nel 1886 con l'aggiunta di un tentativo di autocritica. E’ un'opera alla quale pensa molte volte al punto tale di pubblicare una seconda edizione dopo 14 anni. Il tema della musica rimanda alla capacità dei greci di ricordare le cose mettendole in musica, dove la sensibilità moderna la parola e la musica sono separate, perché sembrano disturbare la musica. Nitsche stabilisce lo sviluppo dell’arte legato all'intreccio e alla dinamica di due principi: Apollineo e Disioniaco. Non si tratta di due principi astratti, ma si esplicano in due fisionomie: Apollo e Dioniso (figure di due divinità). Questi due rappresentano in arte due stili artistici: Principio apollineo prevale sulla scultura, il secondo sulla musica. Due stati dell’esistenza: Apollineo bella apparenza, dimensione del sogno. Nell'arte le cose diventano individuali: Dionisiaco principio dell'ebbrezza, preside all’unità originaria, all’estasi (l’uomo è fuori di sé) in cui ogni uomo è in comunanza con la natura. Questo principio Dionisicao è meno irenico. I greci sentono l’esigenza di tenere insieme, qualcosa rivela che i due non sono principi contrapposti, ma sono i due lati della stessa medaglia. I greci furono protetti perchè erano anche sotto la protezione di Apollo, non solo sotto a Dionisio. Il momento più alto della cultura greca non è lo scontro tra i due, ma l’abbraccio tra i due, la conciliazione. L’aspetto doloroso del dionisico si allevia con la forza di contenimento di Apollo, questo dà luogo all’arte. 91 Il fenomeno ingannevole diventa un fenomeno ingannevole ma bello nell'arte dei greci. Quell'immagine della grecia che hanno i neoclassici, è l’esito di un processo di una lunga storia precedente dei rapporti di tensione e di riconciliazione tra Apollineo e Dionisiaco. Questa luminosità della grecia che rifulge nella lettura neoclassica è una risposta a questa scommessa che i greci fronteggiarono. Le divinità olimpiche cantate da Omero, sono l'espressione dell'esigenza di contenere il dolore senza forma del dionisismo. Le divinità olimpiche rispondono all'esigenza di misurare questa esperienza orribile della deindividuazione che l’essere umano non può sopportare. La risposta a questa esperienza è poetica, e artistica, le divinità olimpiche sono un prodotto di Omero. Religione dove l'aspetto rituale è indistinguibile dalla fruizione artistica. La Grecia armonica non è un dato naturale, è il risultato di un processo di addomesticamento del dolore, di contenimento. Di contro all’idea di una grecità in virtù dei popoli non è casuale che Omero ci venga tramandato come un personaggio anziano. Questo equilibrio della grecia classica è precario che presto si perde. Anche per Hegel la grecia classica è un esito di un processo, ed è caratterizzata da un equilibrio bello, ma precario. Si dice nella letteratura classica che la tragedia durò la durata di un mattino. Grecia classica: sito di un processo. Questo istinto alla bellezza viene paragonato da Nietzsche ad una rosa che sboccia per proteggersi dalla spine. Questo dipende anche dal fatto che i greci erano un popolo vigorso, in grado di soffrire molto, che quindi inventano l’arte per schermare il dolore. Lo schermo che protegge dal grido di dolore del dionisismo è una giustificazione estetica, solo apparente. L’apparenza bella dell'arte è il contrasto, quindi il simbolismo dell’arte convoca il principio di Apollo e quello di Dioniso. La lettura classica è unilaterale, bella apparenza dietro la quale c’è una terribile saggezza, quella del sileno. Anche nelle opere in cui troviamo un momento di conciliazione dietro essa c’è la terribile saggezza. Quella dei greci è una sorta di teoricea (giustificazione) artistica, quindi una giustificazione apparente. Ci mostra come Dionisiaco e Apollineo sono le facce delle stesse medaglie. Il dio della misura è imparentato con un dio dell’oscurità e della dismisura con il dio della.. Dietro la faccia che vediamo c’è sempre qualcosa che non vediamo, ma che in verità è la radice dell’Apollineo (Apollo non poteva vivere senza Dionisio, la bella parvenza in verità dipende dalla terribile saggezza di Dionisio). L’architettura più antica, lo stile dorico, è caratterizzato da: colonne grandi, spigoli netti (apollo deve presidiare militarmente). La tragedia attica è il momento della massima compenetrazione tra Apollo e Dioniso, è la forma in cui il connubio tra i due principi è risultato perfetto. La “Nascita della tragedia” parla di una morte della tragedia che fu l’esito di un suicidio, l’abbraccio di cui ci parla è fugsce e non accadrà mai più. Questo abbraccio dipende anche dalla musica, il linguaggio poetico ha sempre come base la musica. La differenza tra linguaggio poetico e quello in prosa è che noi sforziamo le parole. A differenza delle lingue moderne, quelle antiche sono basate sulla quantità delle sillabe lunghe o corte. Nietzsche sta pensando che la tragedia antica è scritta in metrica, ogni battuta è una battuta del tempo. In una poesia antica abbiamo una strofe che è il tipo di tempi ,e poi abbiamo … ognuno dei quali ha un ritmo preciso. Nell’antico c’era un’analogia profonda tra l'analogia e la musica. Da questo punto di vista Nietzsche pensa ad una tragedia originaria di cui a noi non sono arrivate delle testimonianze. Se la immagina come coro, campo poetico intonato dal coro. Per lui è il fulcro principale, l'unico protagonista, della tragedia originaria. Il moderno sopprime la funzione del coro, come vediamo in Shakespeare. La tragedia, in quanto coro unico protagonista, era una poesia cantata, ballata. quello che per noi è il modello della tragedia, sarebbe qualcosa di sopraggiunto dopo, perché la tragedia originaria non era azione, all’inizio non succedeva nulla, solo coro (patos). 92 dei poeti, re e principi. Per di più, quello che piace a Nietzsche è che questa cultura si sviluppa in un senso, se non propriamente anticristiano, ma certamente molto tangente rispetto alla cristianità. Nella cultura provenzale ci sono influenze greco antiche, ci sono influenze arabe, ci sono ovviamente anche influenze cristiane, ma sta di fatto che questa cultura viene distrutta, distrutta nel sangue, col ferro e col fuoco dalla crociata degli albigesi. Nietzsche cosa sapeva della cultura provenzale? Ha letto un solo libro, di Stendhal, che si intitola de L'amour in cui S. celebra le varie concezioni dell'amore e prende ad esempio l'amore della cultura dei poeti provenzali per illustrare quello che chiama la passion, l'amore, passione. Perché decide di intitolare questo Libro la Gaia scienza? Una ipotesi stata formulata da un nostro nostro grande studioso di Nietzsche, che è Giuliano Campioni, che è anche il curatore dell'edizione italiana di Adelphi delle opere di N, il quale nota che Nietzsche, si sposta a Genova e la trova noiosa in quanto piove sempre. Allora, scrive alla madre e le chiede di inviargli una guida turistica che parli della Provenza perché a lui è stato detto che a pochi chilometri, cioè a Nizza, il tempo è sempre meraviglioso, e credeva di potersi rimettere dalle sue infermità. Su questa guida trova per la prima volta accostate “gaia” e “scienza”. Lui vuole una scienza che sia divertente. La scienza seria si occupa della verità, al suo tempo materialistico-positivista, e la filosofia è ancora più seria in quanto nasce come riflessione sulla morte (in punto di morte socrate dice di dovere un gallo ad asclepio, il dio delle guarigioni, come se lo stesse guarendo da quella malattia che è la vita). La Gaia scienza si apre in modo inusuale, cioè si apre con una raccolta di poesie , una raccolta di poesie che Nietzsche stesso definisce, nella lettera che invia all'editore, accompagnando l'espressione epigrammi con tre punti esclamativi. (N. era anche poeta e musicista). Con la seconda edizione, poi di quella del 1887, Nietzsche aggiunge un'appendice di poesie intitolata canzoni del principe vogel frei (“uccel di bosco”, darsi alla macchia, essere bandito, ma anche che chiunque poteva ucciderti). Perché fa ciò? laddove la scienza cerca la verità, la poesia non può cercare la verità, perché la poesia è finzione e illusione. Nietzsche intende introdurre un correttivo scettico nella concezione della scienza: la scienza cerca la verità, la poesia che è in sé menzogna, illusione, finzione, ci dice che la verità, benché debba essere cercata, non può essere trovata e se dovessimo trovare la verità ci siamo sbagliati. L’argomento della Gaia scienza è la scienza, di cui N si sforza di mettere in risalto la dipendenza dalla fede: nel materialismo dei positivisti c’è una ricerca dell'assoluto che è assolutamente identica alla ricerca dell'assoluto che troviamo nella tradizione religiosa cristiana, c'è solo una sostituzione di termini, se la scienza cristiana o la cultura cristiana cerca l'assoluto in Dio, il materialismo positivistico lo cerca nella materia. Aforisma 347: Il bisogno della metafisica è posto esplicitamente sotto il segno di una richiesta di certezza che ha la sua origine nella fede cristiana e che sfocia oggi in larga misura in una risposta scientifico-positivistica, la richiesta di voler assolutamente possedere qualcosa in modo solido. 344:afferma che è pur sempre una fede metafisica quella sulla quale riposa la nostra fede nella scienza; e questa fede che caratterizza anche la scienza moderna noi uomini della conoscenza di oggi, noi atei e anti metafisici. “Questa scienza è un fuoco che continua ad alimentarsi dall'incendio che una fede millenaria ha acceso, quella fede cristiana che fu anche la fede di Platone per cui Dio è la verità e la verità è divina. Perfino noi (“noi” riferito non tanto a lui, perchè essere atei vuol dire credere in qualcosa) atei e antimetafisici, e la scienza moderna è atea.” Ora però che succede a questo modello di scienza? Se noi dobbiamo constatare che Dio è diventata la nostra più grande menzogna? Dove sta l'essenza dell'insegnamento cristiano? sta nell'insegnamento della veridicità, nell'obbligo a dire sempre la verità. è la morale cristiana che ci obbliga alla veridicità che a un certo punto ci impedisce di continuare a credere nella menzogna di Dio. Questo è il senso paradossale della morte di Dio, e Nietzsche non è un semplice ateo, non è positivista, non è un materialista. La morte di Dio è l’esito inevitabile del cristianesimo.Questo non vuol dire che dobbiamo buttare via tutto, per N. le menzogne sono cose che ci aiutano a vivere. Sono false verità, ma per N una verità vera non esiste, quindi nel 95 momento in cui io dico che non esiste la verità, se dico che è una cosa è menzogna, non riceve un crisma negativo. Perché l'arte ha un vantaggio rispetto alla scienza? Perché l'arte riesce a dire alla scienza “guarda che anche tu menti”, perché la scienza cerca la verità, ma è menzogna e non sa di esserlo. Quindi la menzogna della scienza è una menzogna in cattiva coscienza, la menzogna dell'arte è una menzogna in buona coscienza. D'altra parte, chi ci ha insegnato questo? ce l'hanno insegnato i greci: che cosa sono gli dei dell'Olimpo se non menzogne? Sono belle forme, fidando nelle quali risulta possibile vivere. Questo è il senso del Dionisiaco, che è l'abisso dell'orrore, il gettare lo sguardo in quell'abisso che ci dice che l'esistenza umana è votata alla morte e votata alla malattia e votata alla sofferenza. Come si può trarre lo sguardo fuori da questo abisso di orrore? Inventando letteralmente la bellezza. Le ultime parole della nascita della tragedia sono messe in bocca ad un vecchio ateniese, che dice “quanto dovette soffrire questo popolo per diventare così bello”. Spesso si sente dire che i greci erano un popolo superiore, bellissimi. Ma nella realtà erano brutti tanto quanto noi, forse di più: la pittura vascolare, che non aveva una funzione specifica, ci restituisce un’immagine un po’ storta dei greci, mentre nella statuaria dell’età di pericle, che serviva per dare lustro al regime, vediamo rappresentato il canone di bellezza. Ma era un'invenzione. I greci si rappresentano così proprio per trovare in questa bellezza inventata un risarcimento alla crudeltà, all'orrore dell'esistenza. Se questo è vero per le divinità greche, vale anche per il Dio della cristianità? per N si, e lo fa proprio in quella nuova introduzione che scrive nel 1886 per la terza edizione della nascita della tragedia, cioè nel tentativo di autocritica, quando spiega con l'arte la creazione divina del Dio della tradizione ebraico-cristiana. Dice: Questo Dio artista, assolutamente non curante e immorale (nella visione tradizionale Dio è il presupposto della morale, non può essere soggetto alla morale. Quindi Dio è amorale, sta fuori dalla morale, se no non potrebbe fondare la morale) vuole liberarsi creando mondi dall'oppressione, della pienezza e della sovrabbondanza, dalla sofferenza dei contrasti in lui compressi, il mondo è in ogni momento la raggiunta liberazione di Dio che sta a liberarsi solo nell'illusione. C'è questa pressione dentro Dio, questa pressione di mondi, come per un’artista che sente l’urgenza della creazione. Dionigi areopagita: è una grande fake news. Negli atti degli apostoli è raccontata la predicazione di San Paolo ad Atene, quando sale la collina dell’areopago vede l'altare con su scritto “al Dio ignoto”. E allora dice agli ateniesi quel “Dio ignoto che voi venerate, io sono venuto ad annunciare". Dice il racconto degli atti degli apostoli che a un certo punto San Paolo si mette a parlare dell'immortalità dell'anima, della vita dopo la morte, allora i greci si mettono a ridere. Solo 2, 1 donna che si chiama Damaride e uno che si chiama Dionigi, che è un giudice, lo seguirono. Allora un autore del sesto secolo d.C. che non sappiamo chi sia, si prende come pseudonimo il nome di Dionigi Areopagita. Scrive questi testi dicendo di sé addirittura che aveva conosciuto gli apostoli, che aveva assistito alla morte della Vergine Maria, eccetera eccetera. E così viene creduto per secoli. Insieme a Sant'Agostino è uno dei grandi fondatori della teologia cristiana. Nelle pagine di Dionigi areopagita si legge questa frase: L'amore divino è buono a causa del bene verso il buono. Può voler dire solo una cosa: tutte le difficoltà teologiche che il cristianesimo e di tutte le le religioni monoteistiche, quindi l'ebraismo e anche l'islam, derivano dal concetto che esista un solo Dio. Perché se esiste un solo Dio e questo Dio è il bene ed è in sé perfetto, come si spiega la creazione? Come si spiega la creatura? 96 Perché Dio sente questo bisogno della creatura, se è il bene ed è in sé perfetto, allora Dionigi non può altro che dire che l'amore è causa del bene verso il buono, cioè c'è il destino, diciamo una vocazione a oggettivare verso qualcosa del bene che non può essere altro che la creatura. Infatti dice Dionigi questo amore che fa il bene di tutte le cose che sono preesistenti nel bene, in maniera eccellente, non ha permesso che Dio rimanesse sterile in se stesso, cioè, benché il bene sia in Dio e anche ciò che costringe. Ma insomma, Dio non può essere costretto, chi costringe Dio? ma D. dice che quest'obbligo lo ha spinto ad adoperare secondo una sovrabbondanza generatrice di tutte le cose; è il concetto di Nietzsche. Non c'è nessuna traccia che lui abbia letto questo de Divinis nominibus in cui Dionigi scrive queste cose. Però c'è un grande buco nella cultura teologica di Nietzsche, che non saremo mai in grado di colmare, perché dal 1870 al 1875, quando è a Basilea a insegnare filologia e letteratura greca, Nietzsche condivide il suo appartamento di Basilea con Franz Hoferbeck, il suo grande amico, che è un teologo che si occupa della prima formazione del pensiero cristiano. 5 anni vissuti insieme. Noi non sapremo mai che cosa Nietzsche e Hoferbeck si sono detti, che cosa si sono raccontati. Fatto sta che molta della straordinaria cultura teologica che Nietzsche dimostra di avere probabilmente deriva proprio dalla sua amicizia con Hoferbeck. Ma come è possibile fosse così amico di Nietzsche se era un teologo? Karl Barth, il grande teologo protestante, ha definito Hoferbeck il primo teologo che non crede in Dio, è il primo teologo ateo, E questo, naturalmente in qualche modo giustifica l'amicizia e non solo l'amicizia, ma la fraterna amicizia. L’origine della poesia è il titolo dell’aforisma 84, del secondo libro della Gaia scienza. l'aforisma ha inizio con una presa di posizione contro l'estetica di Schiller. Schiller dice che gli anti utilitaristi una volta tanto hanno torto, cioè coloro che dicono che la poesia è celebrazione del culto dell'inutile, l'arte e la civiltà, la cultura in genere nascono dall'inutile da ciò che non ha utilità immediata, che è esattamente quanto Schiller sostiene nella lettera ventisettesima delle lettere sull'educazione estetica dell'uomo. Scrive Nietzsche, in questo caso gli anti utilitaristi, si sbagliano, perché la poesia ha una sua utilità. Una sua utilità elementare che Nietzsche deriva ancora una volta, anche in questo caso, da stendhal, sempre da quel de l'amour che stendhal scrive sulla Provenza. La poesia è utile perché, dice, si era osservato che l'uomo tiene meglio a memoria un verso piuttosto che un discorso in prosa. Ma ciò che aiuta più di tutti è la forza del ritmo, scrive Nietzsche, quel potere che dà nuovo ordine a tutti gli atomi della proposizione e che esercita una costrizione che impone la scelta delle parole. Ebbene, questa costrizione non ha effetto soltanto sugli uomini, ma anche sugli dei: riprende la concezione greca della divinità che è esposta bene nella nascita della tragedia, per i greci non c'è differenza di essenza tra l'uomo e la divinità, semplicemente la divinità non fa altro che ripetere ciò che è umano in una scala più grande. è per questo che agli dèi ci si rivolge con preghiere in versi, la prima forma della poesia è la preghiera che si rivolge agli dei perché anche gli dei vengono in questo modo presi nel laccio del ritmo. nell’aforisma 220, che si intitola “ciò che è veramente pagano di opinioni e sentenze diverse”, “Dopo aver ribadito che tutto ciò che nell'uomo ha potenza, i greci lo dissero divino, Glielo scrissero sulle pareti del loro cielo, N si chiede da dove i greci derivassero questa libertà e questo senso per il reale . Risponde probabilmente da Omero e dai poeti a lui anteriori, i poeti greci sono poeti teologi, poeti epici. Dice: benché la natura dei poeti non sia la più giusta, la più saggia, essi posseggono il giusto il giusto dell'effettivo, dell'efficiente di ogni specie e non vogliono completamente negare nemmeno il male. L'importante è che il male si moderi. Presenta il problema della natura del male, che per i greci non era misteriosa perché essendo la loro cultura, la loro religione, politeistica, il male derivava semplicemente dalla contraddizione, anzi, dalla contraddittorietà del volere degli dei, mentre nella 97
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