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Sbobine Linguistica Generale complete 2021/2022, Sbobinature di Linguistica Generale

Sbobine Linguistica Generale complete 2021/2022

Tipologia: Sbobinature

2021/2022
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Scarica Sbobine Linguistica Generale complete 2021/2022 e più Sbobinature in PDF di Linguistica Generale solo su Docsity! 04-10-2021 IL CIRCUITO DELLA PAROLE “Parole” non significa “parola” ma è un tecnicismo della linguistica introdotto in linguistica da quello che è considerato il fondatore della linguistica generale, cioè il ginevrino Ferdinand de Saussure che negli ultimi anni della sua vita (1910-1913 circa) tenne tre corsi all’Università di Ginevra che sono stati in Europa i primi corsi di linguistica generale. I suoi allievi misero insieme i loro appunti e postumo, cioè dopo la morte di Saussure, nel 1916 esce il “Cours de linguistique générale”, che ha avuto un’importante traduzione ed edizione italiana curata da uno dei nostri più grandi linguisti del ‘900, cioè Tullio de Mauro. Il “Cours de linquistique générale” contiene i principi della linguistica strutturale che valgono a prescindere dalle correnti teoriche che si sono succedete dopo la morte di Saussure e a prescindere dall’appartenenza dei linguisti alle varie scuole del ‘900. “Il circuito della parole” spiega come avviene la comunicazione verbale tra due esseri umani nelle lingue storico-naturali che si basano su suoni che hanno una rilevanza linguistica: un parlante A elabora nel cervello un’idea di ciò che vuole dire e, attraverso un complessissimo, e in parte ancora ignoto, meccanismo di tipo neuronale, trasmette questa idea, cioè la trasforma in quella che si chiama immagine acustica (in suoni). Ad esempio, penso alla parola “mela”, trasformo la parola in suoni e questi suoni si propagano nell'aria, attraverso onde acustiche che arrivano all’orecchio dell’ascoltatore, cioè di B; ciò non è ovvio in quanto ci sono tantissimi sistemi semiotici, cioè che si basano su segni, che non avvengono attraverso l'aspetto materiale. Molte correnti di teoria linguistica del ‘900 hanno cercato di ridurre l'importanza della parte materiale nella comunicazione verbale. In realtà, quello che viene indicato dalla prima freccia è nella comunicazione umana assolutamente fondamentale, cioè è la parte materiale dell'atto linguistico; materiale significa la trasmissione del suono (che abbia rilevanza linguistica) nello spazio; se non c'è questa trasmissione, non c'è comunicazione tra gli esseri umani che parlano lingue storico-naturali. Dunque, qualunque orientamento teorico sminuisca questo momento lo fa in maniera assolutamente errata e preconcetta perché se non c’è questo non c’è niente, c’è quella comunicazione che si chiama endofasica; anche nell’endofasia trasformata in linguaggio verbale, cioè io parlo con me stesso ma parlo ad alta voce, il momento concreto è un elemento imprescindibile. Nel caso dell'esempio che stiamo facendo di pronunciare la parola “mela”: • la sequenza di suoni “m-e-l-a”, attraverso le onde acustiche che si propagano nell'aria, è un momento assolutamente fondamentale e prende il nome di significante • l'idea di “mela” che elaboriamo all'interno del nostro cervello, quindi il significato che noi associamo all’oggetto, è appunto quello che si chiama da Saussure in poi, significato → significato e significante formano il segno linguistico. Il primo apparato che mette in moto B è l'apparato uditivo; è un apparato molto complesso perché è stato difficile da studiare dato che, quando l'Occidente ha iniziato a studiare la fonetica, nel mondo prima greco e poi latino, ci si è occupati solo di fonetica articolatoria perché essa è empiricamente osservabile, cioè quando pronunciamo un suono possiamo vedere i movimenti delle labbra, della bocca, di tutta la parte anteriore, cioè dal palato duro in avanti. L’apparato uditivo è interno ed è molto più difficile da osservare e dunque da descrivere; questo è il motivo per cui gli esordi della licenza fonetica in Occidente sono iniziati con la fonetica articolatoria e, solo nell'ultimo cinquantennio, ci sono state delle novità importanti di fonetica uditiva. Dall'orecchio il suono viene decriptato, codificato nel cervello dove il parlante associa il significante, cioè la sequenza di suoni “m-e-l-a” della parola “mela”, al significato di “mela”; quindi, fa una specie di riassociazione tra le due parti, tra significante e significato, ed eventualmente ritrasmette un secondo messaggio al parlante A. Il circuito, come si può vedere dallo schema, unisce un concetto, cioè il significato, quindi la nozione a cui associamo una certa idea, un certo referente della realtà all’immagine acustica (come la chiamava Saussure) e che chiamiamo significante. L’unione di significante e di significato compone il segno linguistico che è formato: • da una parte astratta, cioè un'operazione mentale che avviene nel cervello degli individui • e un'operazione invece concreta, che è la trasmissione del messaggio linguistico nello spazio attraverso le onde sonore → unendo la parte concreta a quella, per così dire, astratta, gli individui riescono a comunicare attraverso questo sistema. In seguito vedremo che il linguaggio umano è complesso per altri motivi, ma si può già notare come vi sia un’unità di complessità rispetto ad altri sistemi di comunicazione perché qui si unisce una parte mentale ad una parte fisica, tanto che la trasmissione del suono attraverso le onde sonore è oggetto di un'altra branca della fonetica, che è la fonetica acustica. • la fonetica acustica si occupa della trasmissione di foni attraverso le onde sonore • la fonetica articolatoria si occupa della produzione di foni • la fonetica uditiva si occupa della ricezione dei suoni, quindi come vengono “decriptati” e riassociati al loro significato nella corteccia cerebrale A livello linguistico, il cervello era un grande punto interrogativo, e in parte lo è ancora adesso, ma con le nuove tecniche di neuro immagini si riesce anche a vedere, per esempio, come l'area cerebrale non si attivi in maniera così random e indiscriminata nella produzione del messaggio linguistico ma che esistono precise aree della corteccia cerebrale che sono deputate a precise funzioni. Per esempio, oggi sappiamo con un certo margine di sicurezza che la sintassi, quindi il modo in cui si costruiscono le frasi nelle lingue del mondo, dipende da una specifica area della corteccia cerebrale come mostrano le neuro immagini che illuminano esattamente una certa area e non l'intera corteccia. Nel caso di queste articolazioni pneumoniche, che sono maggioritarie nelle lingue del mondo: -- → l’aria parte dai polmoni → dai polmoni, passa attraverso la trachea arrivando nella laringe → nella laringe le pliche vocali possono formare delle eventuali chiusure totali o parziali → in seguito, in ogni caso (anche quando sono chiuse), l’aria continua il suo percorso e va nelle cavità sopra laringee, cioè che stanno sopra la laringe, cominciando dalla faringe e poi proseguendo la sua uscita o dal naso o dalla bocca: - tutti i suoni che passano attraverso il naso, si chiamano nasali - tutti i suoni che passano per la bocca, si chiamano orali → la differenza dipende dalla posizione del velo del palato (la parte finale del palato) o palato molle Quando il velo del palato è nella posizione di default, cioè la posizione inerte, costituisce una sorta di “porta” chiusa che impedisce l'accesso dell'aria alla bocca e quindi l'aria, non potendo uscire da qua, passa attraverso le fosse nasali. Ad esempio, quando si pronuncia la “m” di “mamma”, il velo del palato si trova abbassato, quindi l’aria non passa per la bocca perché trova un ostacolo ma passa per le fosse nasali; se invece il velo del palato si alza, va a chiudere l'accesso alle fosse nasali e quindi l'aria esce attraverso la cavità orale. Quindi, l’unico responsabile della distinzione tra suoni nasali e suoni orali è il velo del palato; non esistono altre possibilità che differenziano un suono nasale da un suono orale in quanto il velo del palato agisce come una “porta”: • se è chiusa verso la bocca, cioè inerte, l’aria passa per il naso • se si solleva, chiude la cavità nasale e l’aria esce attraverso la bocca A prescindere da dove esca l'aria, sia che esca dal naso che dalla bocca, gli organi che si trovano all'interno della cavità orale vanno a formare i luoghi diaframmatici, cioè degli spazi/delle cavità dove si generano aree di pressione all’interno della bocca che si formano unendo degli organi della bocca, chiamati mobili, ad altri organi, chiamati fissi. ESEMPI: - se si pronuncia la “p”, si coinvolgono il labbro superiore e il labbro inferiore (suono bilabiale) - se si pronuncia la “t”, si coinvolgono i denti e l’apice (punta) della lingua (suono dentale) In alcune lingue, come ad esempio l’italiano, la lingua in realtà non va a toccare i denti ma va a toccare delle capsule nella quale si inseriscono gli incisivi superiori, chiamate alveoli: dunque, in italiano la “t” è più propriamente un suono alveolare. Ci sono altre lingue, come l’inglese, in cui l’apice della lingua va a toccare proprio i denti e si parla di suoni dentali (è una differenza davvero minima, impercettibile). - se si pronuncia la “c” di “chiesa” o di “chiodo”, si coinvolgono l’apice della lingua e la prima parte del palato, chiamata palato duro o anteriore PARTI DEL PALATO: • la parte anteriore (vicino alle labbra) si chiama palato duro o, appunto, palato anteriore • la parte della zona centrale si chiama palato centrale o palato mediano • la parte posteriore si chiama velo o palato molle o, appunto, palato posteriore - tutti i suoni che vengono pronunciati con il velo del palato si chiamano posteriori - tutti i suoni che vengono pronunciati sul palato duro si chiamano anteriori - se si pronuncia la” k” di “casa” la parte posteriore della lingua, cioè il dorso, va a toccare il velo del palato → consonanti velari Qual è la differenza tra la “ɟ”e la “g”? - la “ɟ” di “ghianda” è l’apice della lingua nel palato duro/anteriore → palatale - mentre la “g” di “gatto” è con il dorso della lingua (la parte posteriore) che va a toccare il velo → velare Sia quando si pronuncia un fono orale, sia quando si pronuncia un fono nasale, parti mobili e parti fisse della cavità orale formano dei luoghi diaframmatici, detti anche luoghi di articolazione, cioè vanno a formare delle zone di pressione nella bocca combinando la possibilità di alcuni di questi organi di muoversi. Le labbra e la lingua sono mobili e vanno a formare i luoghi diaframmatici con l’ausilio di parti rigide (non mobili), come il palato o i denti. In gran parte dei suoni delle lingue d'Europa, le articolazioni si fermano nell'aria velare con alcune eccezioni in cui viene coinvolto l'apice finale del velo del palato che è l'ugola; qua si formano le consonanti uvulari. Ad esempio una delle possibili realizzazioni della “r” in francese, o anche in alcune varietà regionali del tedesco, è una uvulare, cioè quella che noi chiamiamo “r moscia”, che è un termine molto generico; la “r” francese ha varie realizzazioni a seconda della posizione che occupa all'interno della parola ma una delle possibili realizzazioni, quella più famosa, coinvolge la parte “finalissima” del velo del palato, cioè l'ugola. In lingue di altri gruppi linguistici, come per esempio l'arabo, che appartiene alla famiglia linguistica delle lingue semitiche (a cui appartengono anche l’ebraico e l’aramaico di fase antica), è possibile, in alcuni casi con il dorso, in altri con la radice della lingua, portarsi ancora più indietro e andare a intaccare, cioè ad avvicinarsi, alla faringe da cui abbiamo la possibilità di articolare dei suoni che si chiamano appunto faringali. Per esempio, una delle difficoltà che tutti gli europei hanno quando imparano l'arabo è la pronuncia di una delle famose “h”; l’arabo ha tante “h” grafiche perché, rispetto alle nostre articolazioni europee, ha anche le faringali mentre gran parte delle lingue d’Europa, soprattutto quelle occidentali, arrestano la lingua fino all’altezza del velo o dell’ugola perché, più si va indietro, più è difficile la mobilità della lingua. Infatti, là dove ci sono articolazioni faringali, la lingua non riesce mai a toccare la faringe ma si avvicina solo ad essa; questa è la ragione per cui nelle lingue del mondo, il numero di suoni che arriva nella parte arretrata all’ugola è molto superiore alle lingue che hanno articolazioni faringali. La sezione della faringe, rispetto a tutta l'area che è contenuta all'interno della bocca, è molto più indietro, è praticamente sopra la laringe; infatti, una volta uscita dalla laringe, la prima cosa che incontra l'aria è la faringe. LUOGHI DI ARTICOLAZIONE Si è soliti elencare i luoghi di articolazioni partendo dalle labbra: • le consonanti che sono articolate con le due labbra, inferiore e superiore, prendono il nome di bilabiali • le consonanti in cui la lingua si avvicina o tocca i denti, prendono il nome di dentali • le consonanti in cui la lingua si avvicina o tocca gli alveoli, prendono il nome di alveolari • le consonanti in cui la lingua si avvicina o tocca il palato duro, prendono il nome di post-alveolari o pre-palatali o palatali * • le consonanti il cui il dorso della lingua tocca il velo del palato, prendono il nome di velari • le consonanti in cui il dorso della lingua tocca l’ugola (o uvula), prendono il nome di uvulari • le consonanti in cui il dorso, o la radice della lingua si avvicina alla faringe, si chiamano faringali *L’area subito dopo gli alveoli è il palato duro: ci sono alcuni manuali o alcune scuole di fonetica articolatoria che chiamano la zona subito dopo gli alveoli “post-alveolare” perché in realtà non è ancora il vero e proprio palato ma è una zona subito dietro gli alveoli In alcune tradizioni di studio la si trova come “pre-palatale” o direttamente come “palatale” perché la lingua va a toccare o si avvicina al palato duro, la primissima zona del palato. SEZIONI DELLA LINGUA La lingua si divide in 3 sezioni: • PUNTA: nella punta si distingue la vera e propria parte terminale, il cosiddetto apice, dalla lamina che è la prima sezione della lingua, quella più vicina alla punta • lamina e apice formano la CORONA; ciò è importante a livello linguistico perché in alcune scuole di fonetica e fonologia, proprio dal nome “corona” è stato fatto un raggruppamento di consonanti che vengono dette coronali. • DORSO (parte posteriore) • RADICE (base) In molti dialetti italiani meridionali esistono delle medio palatali. In molte lingue del mondo il palato dà luogo a due diverse articolazioni e non a tre: sono molto più frequenti palatali e velari che palatali, medio palatali e velari. Possono esistere delle vie di mezzo: ad esempio tra le labiali e le dentali esiste una via di mezzo in cui non si usano tutte e due le labbra ma i denti con il labbro inferiore, in questo caso si parla di labio-dentali. Ad esempio, nella pronuncia di “f” di “fiore” o di “v” di “vaso” si uniscono i denti con il labbro inferiore e si hanno delle labio-dentali. Qual è la differenza tra la “t” e la “θ”? - se si pronuncia la “t” di “tavolo” (occlusiva alveolare), l’apice lingua tocca gli alveoli. - se si pronuncia la “θ” dello spagnolo o dell’inglese “think” (fricativa dentale) si deve mettere la lingua tra i denti perché in questo modo si impedisce l’occlusione e quindi l’aria passa attraverso una strettoia La “t” e la “θ” sono molto vicine come luogo diaframmatico (o denti o alveoli) ma sono diverse come modo di articolazione in quanto: - la “t” di tavolo è un’occlusiva perché c’è la chiusura totale e lo scoppio improvviso - la “θ” dell’inglese “think” è una fricativa perché l’aria continua a passare attraverso la strettoia creata dal movimento della lingua tra i denti Qual è la differenza fra la nostra “k” e la “x” dello spagnolo? - se si pronuncia la “k” di “casa” (occlusiva velare), il dorso della lingua tocca il velo del palato - se si pronuncia la “x” (fricativa velare) spagnola, cioè la “xota”, si sente da questa particolare frizione che il dorso della lingua non va a toccare il velo, ma si avvicina solamente ad esso: Il modo di articolazione è la modalità con cui avviene la chiusura del passaggio dell’aria all’interno della cavità orale; all’interno di questi modi, distinguiamo due grandi famiglie che sono:  le ostruenti, con una chiusura totale  le continue, con un passaggio continuo/ ininterrotto dell’aria Come si legge la tabella? Ogni cella contiene due grafemi:  quello che si trova a sinistra è quello sordo  le pliche vocali sono aperte  quello a destra è sonoro  le pliche vocali vibrano Come abbiamo visto, nella prima colonna di sinistra sono indicati i modi di articolazione mentre nel primo rigo in alto sono indicati i luoghi diaframmatici: “p” occlusiva bilabiale sorda  si dice prima il modo, poi il luogo e infine il grado (sorda/sonora) Le nasali basta specificarle per modo e per luogo in quanto sono tutte sonore perché, nel momento in cui l’aria passa attraverso le fosse nasali, si origina un meccanismo fisico detto di risonanza che provoca sonorità; tutti i foni che implicano il velo del palato abbassato e il passaggio dell’aria attraverso le fosse nasali, sono tutti sonori. Le aree in grigio indicano assenza di articolazioni:  o perché non sono state ancora trovate nelle lingue del mondo  o semplicemente perché l’apparato fonatorio non è in grado di produrre questi suoni All’interno dei suoni possibili infiniti, il nostro linguaggio umano non è in grado di produrre qualsiasi suono perché è condizionato dalla struttura anatomica. Possiamo combinare gli organi mobili con gli organi fissi per formare i vari suoni che compongono le lingue del mondo ma può essere che certe articolazioni siano impedite dal nostro apparato fonatorio che è un sistema, come tutti i sistemi, che ha delle limitazioni di tipo fisiologico. OCCLUSIVE Le occlusive sono caratterizzate dalla totale chiusura (occlusione) e da una brusca riapertura che si segna nello spettrogramma con il cosiddetto “bust”, lo scoppio.  Le prime che incontriamo sono le bilabiali ( p / b ) che si articolano con il labbro superiore e il labbro inferiore che sono congiunti in maniera totale e non lasciano passare aria.  Subito dopo, incontriamo le alveolari ( t / d ) : in alcune lingue del mondo non sono alveolari ma dentali, cioè l’apice della lingua tocca i denti, mentre in altre lingue tocca gli alveoli, cioè le capsule nella quali si inseriscono gli incisivi superiori.  Le retroflesse o cacuminali o cerebrali ( ʈ / ɖ ) non si trovano nell’italiano standard, si trovano in diverse varietà dell’inglese britannico, nelle lingue indoeuropee dell’India e in alcuni dialetti italiani compresi quelli di Sicilia e Calabria meridionale. Con “retroflessa” si indica il fatto che la lingua si rovescia a cucchiaio verso la parte centrale del palato e va a chiudere; questi sono i suoni che si ritrovano dialettalmente in sequenze del tipo “tr” o “str”; la “t” e la “r” di “treno” sono entrambe retroflesse che non si trovano nell’italiano standard. Vengono chiamate anche “cerebrali” o “cacuminali” perché l’idea con cui la descrivevano i trattati pre- scientifici della fonetica è la lingua che si rovescia a cucchiaio direzionandosi verso il cervello.  Nelle palatali ( c / ɟ ) la lingua tocca il palato duro (o anteriore) - la “c” occlusiva palatale sorda è il suono “chi” di “chiodo”, “chiesa”, “chiave”, “chiamare” - la “ɟ” occlusiva palatale sonora è il suono “ghi” di “ghiotto”, “ghianda”, “ghisa” Come si scrive in questo alfabeto? La prima cosa da fare è utilizzare le parentesi; esistono 2 tipi di parentesi: - Le parantesi quadre indicano la trascrizione stretta (in inglese “narrow”); con questa trascrizione, lo scopo è quello di dare conto dei foni e delle loro varianti perché, quando si pronuncia una parola o una frase, il fono non è isolato ma è “circondato” da altri foni che lo influenzano. La nasale in italiano prende dei luoghi diaframmatici diversi a seconda della consonante da cui è seguita. Ad esempio, nella parola “ancora” la “k” è una velare perché la lingua va al velo del palato e quindi la nasale, poiché è seguita da una velare, viene influenzata e prende il luogo di articolazione della velare diventando nasale velare. In una trascrizione stretta bisogna dare conto di questi fenomeni, chiamati fenomeni di coarticolazione, cioè di reciproca influenza tra i foni. - Se invece si rappresenta una parola con la barra obliqua /, si utilizza un tipo di trascrizione sempre IPA, ma diversa, chiamata trascrizione larga (in inglese “broad”) nella quale non si rappresentano i foni condizionati gli uni dagli altri, ma come entità astratte. Dunque, nella parola “ancora”, si rappresenta una “N” generica che si segna con una “n” maiuscola: in questo modo non si comunica al lettore se quella “n” è velare o labiodentale o da cosa è influenzata bensì si dà il suono generico, il fonema, l’unità astratta e non l’unità concreta.  nella trascrizione larga si è interessati ad una rappresentazione di tipo fonologico  nella trascrizione stretta si è interessati ad una rappresentazione di tipo fonetico Papà [ p a . ‘ p a ]  “p”  occlusiva bilabiale sorda  è una parola bisillabica, cioè composta da due sillabe  struttura sillabica: CV CV  entrambe le sillabe sono aperte (perché terminano in vocale) ma la prima sillaba è atona, cioè non ci cade l’accento, mentre sulla seconda cade l’accento e quindi la sillaba è tonica  non si mettono i : dopo il secondo “pa” perché è sillaba aperta, tonica ma finale di parola La prima cosa da fare è individuare il confine tra una sillaba e un’altra sillaba; il confine di sillaba si segna con un punto. Una sillaba è un insieme di uno o più suoni che hanno al loro interno un nucleo o apice, cioè un fono sul quale cade, o può virtualmente cadere, l’accento. Il nucleo sillabico, in italiano, può essere rappresentato solo dalle tre vocali “a”, “e”, “o” e dalle due semivocali “i” e “u” quando hanno valore vocalico, cioè quando possono rappresentare il nucleo di quella sillaba  tutto ciò che è nucleo, in una sillaba, si rappresenta simbolicamente con la lettera V (vocale); quando si parla di vocale, non si deve pensare alle vocali dell’italiano, bensì si deve pensare in termini sillabici, cioè al nucleo.  tutto ciò che non è nucleo, si rappresenta con la lettera C (consonante) Nelle lingue del mondo, la sillaba CV è la sillaba più frequente ed è detta sillaba non marcata; in linguistica, quando si parla di elemento non marcato, è sinonimo di frequenza. Ciò è interessante perché nella storia fonologica di molti sistemi delle lingue del mondo ci sono stati dei mutamenti che hanno cospirato per far sì che queste lingue avessero solo sillabe CV. Ad esempio, questa è la famosa legge delle sillabe aperte delle lingue slave, a cui appartiene il russo: nella fase preistorica e protostorica delle lingue slave, ci sono stati una serie di cambiamenti molto complessi che hanno portato alla costituzione di sole sillabe aperte, cioè solo sillabe del tipo CV; non esiste nelle lingue slave una sola sillaba del tipo CVC, con la consonante finale. Ciò vuol dire che c’è una tendenza nelle lingue del mondo a cercare la sillaba ottimale, che è la sillaba CV.  una sillaba che termina con il nucleo, si chiama sillaba aperta  invece, se termina per consonante, si chiama sillaba chiusa e la consonante si dice che è la coda della sillaba Papa [ ‘ p a : p a ]  i : indicano la lunghezza vocalica perché è sillaba tonica, aperta, non finale di parola L’accento in IPA è una barretta verticale che non si mette sulla vocale colpita dall’accento ma prima della sillaba tonica. In IPA, la lunghezza si rappresenta con due punti (:); in fonetica, dire che un fono è lungo o dire che ha una durata è la stessa cosa: lunghezza e durata sono sinonimi - “lacte” > “latte”  assimilazione regressiva totale a contatto - “nocte” > “notte”  assimilazione regressiva totale a contatto Il simbolo “>” indica derivazione diacronica, cioè vuol dire che una parola è diventata, nel corso del tempo, un’altra parola, un suono è diventato un altro suono (mutamento diacronico) 06-10-2021 Canile [ k a ‘ n i : l e ]  la prima sillaba “ka” ha struttura CV  la seconda sillaba “ni” ha struttura CV: è una sillaba aperta, tonica e non finale di parola, quindi la vocale “i” è lunga  la terza sillaba “le” ha struttura CV Chiodo [ ‘ c ɔ : d o ] o [ ‘ k j ɔ : d o ]  ++++++++++++++++++++++ +  “c”  occlusiva palatale, è la “ch” di “chiodo”, “chiave”: abbiamo una palatale perché è seguita da una “j” che è una palatale, davanti a palatale questo suono diventa palatale perché i suoni si influenzano l’uno con l’altro e subiscono delle assimilazioni; generalmente, se scriviamo la lettera “c” sottintendiamo il suono “chi” e non si scrive la “j” che segue  invece che scrivere la lettera “c” si può scrivere la “k” (occlusiva velare sorda) e, per indicare al lettore che è una velare che però seguita dalla “j” si è palatalizzata, sotto la “k” si mette il “+” che fa parte dei simboli diacritici dell’IPA e indica l’avanzamento articolatorio, cioè indica il fatto che una consonante o una vocale è passata dal velo del palato al palato duro. Ghiotto [ ‘ ɟ o t. t o ] o [ ‘g j o t : o ] ++++++++++++++++++++  “ɟ”  occlusiva palatale sonora  si può scrivere anche con la lettera “g” (occlusiva velare sonora) con il “+” sotto che indica l’avanzamento articolatorio, cioè indica che la velare, seguita dalla “j”, che è un suono palatale, si è palatalizzata, passando dal velo del palato al palato duro.  La prima sillaba è tonica ma chiusa: quando c’è una consonante lunga, cioè doppia, la prima parte forma sempre la coda della prima sillaba mentre la seconda parte forma l’attacco, cioè l’inizio, della seconda sillaba; quindi il confine di sillaba, nel caso di “ghiotto”, cade tra le due “t”. Inverno [ i ɱ ‘ v ɛ r n o ]  “ɱ”  nasale labiodentale perché è seguita dalla “v” che è una labio-dentale (sonora) per un fenomeno di assimilazione regressiva a contatto parziale; la “v” influenza il luogo di articolazione della nasale che, a sua volta, diventa labio-dentale.  Non si mettono i : dopo la “ɛ” perché la sillaba “v ɛ r” ha struttura CVC, cioè è una sillaba chiusa, si dice tecnicamente che è provvista di coda Infernale [ i ɱ f e r ‘ n a : l e ]  “ɱ”  nasale labiodentale perché è seguita dalla “f” che è una labio-dentale (sorda)  si mettono i : dopo la “a” perché la sillaba è tonica, aperta e non finale di parola, cioè è lunga NASALI Il meccanismo che consente la produzione delle nasali è l’abbassamento de velo del palato; quando esso si trova in questa posizione, l’aria è impedita ad entrare attraverso le cavità orali e passa dalle cavità nasali. Nella bocca, anche se l’aria fuoriesce dal naso, avvengono una serie di chiusure, cioè si formano i luoghi diaframmatici che nelle nasali danno luogo a delle chiusure complete; quindi, nella bocca succede la stessa identica cosa che succede nelle occlusive, cioè la chiusura è totale, però l’aria passa per il naso.  La nasale alveolare è la “n” standard dell’italiano di “naso”, “notte”, “noce”, “annaspare”… In alcuni parlanti e in alcune lingue, come abbiamo visto, le alveolari sono in realtà dentali; in altri parlanti e in altre lingue sono, invece, alveolari, cioè la lingua va a toccare gli alveoli, le capsule nelle quali sono inseriti gli incisivi superiori.  La nasale retroflessa è molto rara.  La “ɲ” nasale palatale si scrive con il primo gambo allungato che esce a sinistra ed è il tipico suono di parole come “ragno”, “stagno”, “fogna”, “bagnare” Questo è il primo fono che incontriamo nell’italiano standard che, quando è in posizione intervocalica, va scritto doppio, cioè ha una lunghezza naturale, detta intrinseca, ovvero specifica di questo suono. La “ɲ” è sempre doppia nell’italiano standard e nell’italiano centro-meridionale: questa è una delle tante differenze tra l’italiano parlato nel centro-meridione e l’italiano parlato su una base dialettale settentrionale; in tutte le regioni dell’Italia settentrionale, le consonanti che hanno una lunghezza naturale si scempiano, cioè sono pronunciate come consonanti singole e non doppie. Ciò vale per tutti i dialetti e per tutto l’italiano regionale parlato a nord di una linea ideale, che congiunge idealmente La Spezia a Rimini; questa è la famosa linea di demarcazione che separa i dialetti settentrionali dai dialetti centrali. Questa linea, o più in generale tutte le linee ideali che separano un fenomeno linguistico da un altro fenomeno linguistico, e che quindi separano delle aree linguistiche (o dialettali), prendono il nome di isoglosse. La prima isoglossa che incontriamo è l’Isoglossa La Spezia-Rimini che fa riferimento ad una linea ideale che separa i dialetti settentrionali e l’italiano regionale parlato in queste regioni di Italia dal resto dei dialetti italiani e dal resto degli italiani regionali. Bagno (italiano standard) [ ‘ b a ɲ . ɲ o ] o [ ‘ b a ɲ : o ]  poiché la ”ɲ” è doppia, il confine di sillaba cade tra le due “ɲ”; quindi la prima sillaba [ b a ɲ ] ha una struttura chiusa e la vocale “a” non è lunga Bagno (milanese) [ ‘ b a : ɲ o ]  in questo caso, la “ɲ” non è doppia e la sillaba [ b a ] diventa sillaba aperta (CV), dunque scatta la lunghezza vocalica perché è tonica, aperta e non finale di parola. POLIVIBRANTI (TRILL)  Il classico esempio di polivibrante dell’italiano è la “r” standard, cioè quella alveolare, con la lingua che va sugli alveoli es: “Roma”, “rosa”, “rosso” Il primo movimento che avviene nella produzione di una polivibrante è quello di un’occlusione; nel caso della “r” alveolare, la lingua va a toccare gli alveoli ma non è una normale occlusiva perché in questo caso l’occlusione è molto debole e l’aria espiratoria che proviene dai polmoni la interrompe immediatamente, subito dopo però si ricostituisce e di nuovo viene interrotta in un ciclo di chiusure e di riaperture continue. MONOVIBRANTE (TAP or FLAP) La monovibrante non c’è in italiano ma c’è, ad esempio, in posizione intervocalica in spagnolo es: “pero”. Nella monovibrante l’occlusione avviene una sola volta e l’aria espiratoria la interrompe. DIFFERENZA TRA POLIVIBRANTE E MONOVIBRANTE: - Nella polivibrante l’occlusione e la sua riapertura avvengono più volte: ciclo di aperture e di chiusure nella polivibrante c’è un ciclo di aperture e di chiusure che determina una vibrazione / uno spostamento e che dipende dal flusso dell’aria che interrompe l’occlusione che immediatamente dopo si ripristina e immediatamente dopo viene di nuovo spezzata e così via… - Nella monovibrante la lingua va a toccare gli alveoli (nel caso della “r” intervocalica dello spagnolo) e immediatamente dopo l’aria espiratoria interrompe questa occlusione, quindi c’è una riapertura nella monovibrante c’è una sola occlusione e una immediata riapertura dovuta alla corrente espiratoria che spezza quest’occlusione e che riapre gli organi articolatori  La “R” polivibrante uvulare (scritta in maiuscolo) è una delle possibili realizzazioni della “r” uvulare, cioè quel suono che si trova in alcuni parlanti che hanno la cosiddetta “r moscia”. Nelle lingue del mondo che hanno la polivibrante uvulare, in generale, si trova molto più spesso come fricativa (la “r” rovesciata). Ogni fono è costituito da 3 fasi: - IMPOSTAZIONE  gli organi articolanti si dispongono per la pronuncia - TENUTA  fase molto breve in cui gli organi articolanti si bloccano, cioè mantengono la posizione per pronunciare quel suono Ad esempio, nel caso dell’occlusiva “p”, la tenuta è il momento in cui le labbra si serrano l’una contro l’altra e non lasciano passare il suono - SOLUZIONE  è la fase in cui si produce il suono vero e proprio, cioè in cui gli organi articolanti si separano e l’apparato fonatorio si dispone a pronunciare il fono seguente La differenza più importante tra occlusive e fricative riguarda proprio l’ultima fase: - nella soluzione, le occlusive presentano un bust (lo scoppio); occlusive  ostruenti (c’è una completa chiusura) es: se si pronuncia la “p” si vede come per un momento non passi l’aria - nella soluzione, nelle fricative l’aria esce attraverso una strettoia (da cui il caratteristico rumore di frizione) fricative  continue (l’aria non viene mai interrotta) es: se si pronuncia la “f” si vede come l’aria passi attraverso gli interstizi dei denti superiori. FRICATIVE L’IPA si avvale di caratteri dell’alfabeto latino, tranne alcune lettere che sono riprese dall’alfabeto greco.  Per capire cos’è la fricativa bilabiale sorda (“ɸ”) si pensi a cosa succede se nel pronunciare la “p”, la si pronuncia, invece che chiudendo completamente le labbra, facendo passare un minimo di aria tra labbro inferiore e labbro superiore  si passa da occlusiva a fricativa Ciò è un classico esempio di mutamento linguistico in quanto, dato che fricative e occlusive sono molto molto vicine come luogo di articolazione, può succedere, e succede spesso, che un suono che era occlusivo, con il tempo diventa fricativo perché, ad esempio, si pronuncia un suono con minore energia articolatoria. Se si pronuncia la “p”, si deve mettere una certa forza nel chiudere le labbra e, se questa forza si indebolisce, non è più una forte ma diventa una lene; questo passaggio da forte a lene, da occlusiva a fricativa, prende il nome di lenizione. Per esempio, nei dialetti toscani, in alcune aree in maniera più pronunciata di altre, la “p”, se pronunciata tra due vocali anche di parole diverse, diventa fricativa bilabiale.  La “β” fricativa bilabiale sonora (lettera greca “beta”) è quel suono che si pronuncia come l’occlusiva “b” ma con le labbra non serrate. Ad esempio, nel castigliano la “b normale” è la “b” di “Barcelona” ma se si pronuncia “a Barcelona”, la “b” diventa fricativa (“β”); si fa l’esempio del castigliano e non dell’italiano perché nell’italiano è un’occlusiva mentre nel castigliano è una fricativa. Si differenza dalla “b” solo per l’energia articolatoria, il luogo di articolazione è lo stesso perché sono entrambe bilabiali. In un blocco di lingue romanze occidentali, che comprende tutte le lingue romanze (derivate dal latino) della Penisola Iberica e della Francia ma anche i dialetti dell’Italia settentrionale sopra l’isoglossa La Spezia-Rimini, le occlusive sono diventate fricative, almeno in posizione intervocalica.  Nelle fricative labiodentali ( f / v ) cambia il luogo di articolazione: non sono più le due labbra coinvolte ma il labbro inferiore con gli incisivi superiori es: “f “di “fiore” “v” di “vaso” Quando sono coinvolti gli incisivi superiori e il labbro inferiore, non si ha mai un’occlusiva perché, anche in chi ha una dentatura perfetta, negli interstizi degli incisivi superiori passa sempre un minimo di aria. Quando sono coinvolti il labbro inferiore e gli incisivi non c’è una chiusura totale e un blocco completo dell’aria (non c’è mai il bust) bensì c’è il passaggio dell’aria ininterrotto e quindi abbiamo una labiodentale. Nelle occlusive, come abbiamo visto, anche all’interno di una stessa comunità di parlanti, alcuni pronunciano le dentali, altri le alveolari. Invece, nelle fricative la distinzione tra alveolari e dentali è fondamentale in quanto: - se si pronuncia una dentale, si ha il suono rappresentato dalla lettera greca theta (“θ”), con la lingua tra i denti che impedisce l’occlusione, quindi l’aria continua a passare e si ha una fricativa es: “think” - se ci spostiamo anche di pochissimo dietro, cioè dai denti ci avviciniamo agli alveoli, abbiamo un’alveolare, la “s” es: “sasso” La differenza tra la “θ” di “think” e la “s” di “sasso” è talmente minima che in molte lingue ci sono delle variazioni tra dialetto e dialetto, tra area e area. La più evidente di queste distinzioni riguarda la differenza tra lo spagnolo castigliano e lo spagnolo dell’America Latina, dove non si realizza mai la fricativa dentale bensì quest’ultima diventa sistematicamente fricativa alveolare; questo è il notissimo fenomeno conosciuto come “seseo”, una delle grandi differenze che distinguono lo spagnolo dell’America Latina dallo spagnolo del continente. Dato che questi due suoni sono estremamente vicini perché tra denti e alveoli la differenza, a livello di distanza, è davvero minima, ci sono dei parlanti che hanno quella pronuncia popolarmente detta “s con la lisca” (“sole” > “ θole”)  La “ð” fricativa dentale sonora si ritrova, ad esempio, nell’inglese “that” o “this”. In generale, nelle lingue d’Europa le fricative dentali si trovano nello spagnolo, in inglese e in neogreco (greco moderno), non ci sono in italiano ma sono molto frequenti nei dialetti italiani soprattutto settentrionali.  La “z” fricativa alveolare sonora non è la “z” grafica dell’italiano ma è la realizzazione sonora di “s”: se invece di pronunciare “rosa” (fricativa alveolare sorda), compio una vibrazione delle pliche vocali, pronuncio “roza”. Questa differenza tra “rosa” e “roza” è una differenza di ordine diatopico, cioè legata al luogo. Nell’italiano settentrionale, non si dirà mai “I Promessi Sposi” ma “I promessi Spozi” con la vocale chiusa e con la “z”, cioè con la variante sonora. Invece, nell’italiano centro meridionale la “s” in posizione intervocalica è sempre sorda (“I promessi sposi”) “rosa”  pronuncia centro-meridionale vs “roza”  pronuncia a nord della linea La Spezia-Rimini In italiano, possiamo avere la “s” e la “z” intervocaliche come varianti diatopiche, cioè legate al luogo di origine; invece, davanti a consonante c’è un fenomeno di assimilazione:  stupido: [s t …]  la “t” è sorda, quindi la “s” è sorda per assimilazione regressiva parziale a contatto  sbadato: [z b …]  la “b” è sonora, quindi la “ s” è sonora (“z”) per assimilazione regressiva parziale a contatto del grado di sonorità Può succedere che si abbia un fono con lo stesso luogo di articolazione (o diaframmatico), ma il modo di articolazione cambia: - se si pronuncia la “p” con energia articolatoria (quindi con le labbra chiuse) abbiamo un’occlusiva bilabiale - se si pronuncia la “p” con minore energia articolatoria abbiamo una fricativa bilabiale  non varia il luogo di articolazione bensì varia il modo Noi che non abbiamo la fricativa bilabiale sonora, la avvertiamo come una “v”. Qual’ è la differenza tra “β” e “v”?  nella “β”si usano le labbra  nella “v” si usano i denti e le labbra; Questo è uno dei grandi fenomeni che distingue la Romania occidentale, cioè l’area dove si parlano lingue romanze. In tutto il Galloromanzo (odierna Francia) e in tutto l’Ibero-romanzo (le lingue romanze della penisola iberica eccetto il basco che non è né romanzo né indo-europeo), le occlusive, specialmente quelle sonore, se posizionate tra due vocali si leniscono, cioè perdono la loro forza articolatoria e passano da forti a leni, cioè da occlusive a fricative. Questi suoni fricativi si trovano, ad esempio, ma non solo, in spagnolo, in inglese (quelle dentali) e in neogreco (greco moderno). Il “problema” di queste lingue è che devono rappresentare nella scrittura le fricative distinte dalle occlusive; se una lingua ha sia la “β” che la “b” come fa a distinguerle? - lo spagnolo, ad esempio, scrive “b” per entrambe: non ha soluzioni grafiche per distinguerle - in neogreco, per distinguere la fricativa dall’occlusiva, hanno adottato dei digrammi, cioè due grafemi che rappresentano un suono solo Ad esempio, la parola “birra” in greco moderno si scrive, in caratteri latini, “mpira” perché con il digramma “mp” si rappresenta la “b” occlusiva per distinguerla dalla lettera “β” che indica invece la fricativa  è uno stratagemma che usano molte lingue quando hanno occlusive e fricative identiche per luogo di articolazione. Dove l’italiano ha la “p” occlusiva, il toscano dialettale ha la “θ” : la “p” tra due vocali diventa fricativa. Ciò vale anche per altri suoni:  come la “t”  e come la “k” che diventa “x” fricativa velare o addirittura, in alcune varietà, dà luogo a 0, cioè sparisce completamente Ad esempio, in pisano “dio” significa sia “Dio” che “dico” perché la “k” si è lenita: è andata prima a fricativa e poi è arrivata 0. Come mai c’è questa particolare pronuncia nei dialetti toscani? Si è pensato per molto tempo che questa particolare pronuncia delle occlusive “alla toscana”, cioè pronunciate come fricative (“p”,”t”, “k”), fosse dovuta all’antica presenza degli etruschi (popolazione dell’Italia antica) nel territorio dell’attuale Toscana. L’etrusco, a differenza delle altre lingue parlate in Italia, a fianco e anche prima del latino, non è sicuramente indoeuropea, non appartiene alla grande famiglia a cui appartengono gran parte delle lingue dell’Europa moderna. Abbiamo qualche indizio per pensare che l’etrusco avesse dei suoni simili alle attuali fricative sorde del toscano perché se doveva, ad esempio, rappresentare una “k”, l’etrusco ricorreva a lettere dell’alfabeto greco e, in questo caso, ricorre alla lettera greca “𝑥” che di solito non rappresenta un’occlusiva bensì una fricativa. Si è utilizzata quella che si chiama oggi prova corografica, cioè prova legata alla variabile diatopica (il luogo): ciò vuol dire che se si ha un particolare fenomeno in un’area e quest’area era un tempo occupata da un’altra popolazione che parlava un’altra lingua, l’ipotesi è che questa coincidenza territoriale possa spiegare questa particolare pronuncia, questo particolare fenomeno. L’ipotesi è che una lingua, precedente a quella che poi si è insediata successivamente, abbia lasciato delle tracce (fonetiche o sintattiche) della sua antica presenza, come appunto la gorgia toscana; l’ipotesi è che questa particolare pronuncia delle occlusive sorde, pronunciate come fricative, sia dovuta all’antica presenza degli etruschi. Quando una lingua lascia delle tracce della sua antica presenza, questo fenomeno prende in linguistica il nome di sostrato linguistico e quindi si diceva che la gorgia fosse un fenomeno di sostrato etrusco, cioè una traccia lasciata dagli etruschi che avrebbero pronunciato le occlusive come fricative. Quindi abbiamo la prova corografica, cioè gli etruschi occupavano il territorio dell’attuale Toscana, dove c’è la gorgia e abbiamo una prova strutturale, cioè gli etruschi pronunciavano le occlusive come fricative, come rivelano i grafemi per rappresentare “p”, “t” e” k”. Però, in un particolare periodo del ‘900, in Italia c’è stata una vera e propria moda “sostratista”, cioè quando c’era un fenomeno tipico di una zona si diceva “Questo è dovuto al sostrato”, anche quando le lingue di sostrato erano, o sono, poco documentate. Ad esempio, c’è una particolare area tra Liguria e Piemonte in cui la “l “di “luna” diventa “r” ma questo mutamento è “banale”, c’è in molte altre lingue del mondo; però all’epoca si credeva molto al sostrato e, dato che una popolazione dell’Italia antica che occupava questa zona erano gli antichi liguri, di cui abbiamo pochissime tracce documentarie, Clemente Merlo, uno dei più grandi dialettologici italiani, la definì “l’acutissima tra le spie liguri”, ma non è per niente acuta perché in realtà del ligure antico non sappiamo niente. La lenizione è stato un fenomeno imputato al sostrato celtico (c’era una vera e propria celto-mania), cioè sappiamo che i territori della Francia e della Spagna, occupati poi dai romani, precedentemente all’invasione romana erano occupati da tribù celtiche e, poiché nelle lingue celtiche c’era un ampio fenomeno di lenizione, in questo caso è molto probabile che il fenomeno della lenizione romanza sia dovuto alla lenizione celtica. Però, per avvalorare queste ipotesi, bisogna avere delle prove documentarie molto antiche e, nonostante per secoli tutti i manuali italiani scrivevano “La gorgia toscana è dovuta al sostrato etrusco”, in realtà le prove documentarie sono molto scarse perché nei testi toscani antichi non ci sono molte prove della gorgia. Dato che, un autore, quando scrive un testo letterario, cerca di evitare gli elementi più fortemente dialettali, si potrebbe pensare che gli autori toscani non segnassero la gorgia perché ritenuta troppo bassa da un punto di vista socio-linguistico. La prima prova della gorgia è una prova del tutto incerta che si trova nel portico della chiesa di San Girolamo a Volterra, dove si dice “Questa chiesa ha fatto fare tale Nicola Ceherelli” e questo “Ceherelli” potrebbe stare per il cognome “Cecherelli” dove questa “h” potrebbe stare per una “k” diventata “fricativa nella pronuncia. Però, è anche possibile che chi ha redatto questo su marmo o su pietra abbia semplicemente sbagliato, abbia commesso un errore, anche perché incidere con lo scalpello sul marmo non è un’operazione facile, ci sono tanti casi di errore. Questa prova del 12° secolo è un enorme punto interrogativo, per cui l’aggancio tra l’etrusco e le più antiche attestazioni toscane ha un gap cronologico molto importante: per avere la certezza, o comunque l’alta probabilità, che il fenomeno sia attribuibile al sostrato, bisogna avere delle prove documentarie molto antiche, che nel caso della gorgia non abbiamo. Stessa ipotesi era stata fatta per le famose retroflesse, quei suoni tipici dei dialetti detti “meridionali estremi”, cioè i dialetti di Calabria meridionale, Sicilia e parte del Salento. Un tempo, quando c’era la mania “sostratista”, si era fatta questa riflessione: || Sicilia e Calabria (rappresentanti dell’estremo occidente del dominio indoeuropeo) || India (rappresentante dell’estremo oriente del dominio indoeuropeo) || lingue semitiche dell’Africa Bianca (del nord) Le retroflesse si trovano anche nelle lingue indoeuropee dell’India; l’India è una degli avamposti orientali del dominio occupato da lingue di questa grande famiglia, chiamata indoeuropea. Le lingue moderne dell’India (le lingue del nord) presentano, come anche nella fase antica, questi stessi suoni, cioè le retroflesse; inoltre, i dialetti arabi del Maghreb hanno delle consonanti, chiamate enfatiche, che possono essere foneticamente assimilate alle retroflesse. Quindi abbiamo:  retroflesse in India  retroflesse in Sicilia e in Calabria  enfatiche nelle lingue semitiche dell’Africa Bianca (del nord) La situazione rappresentata da queste linee è un classico fenomeno studiato dalla geografia linguistica che si chiama fenomeno delle aree laterali; se immaginiamo queste linee come le aree laterali, cioè estreme (o periferiche) di un dominio linguistico: - la periferia, cioè le aree laterali, conservano i tratti più antichi - mentre l’area centrale è, in generale, l’area più innovativa  l’idea è che un’innovazione linguistica parta da un centro di un’area linguistica e che poi si diffonda ai lati, che conservano i tratti più antichi. Su questo principio di geolinguistica, chiamato principio delle aree laterali, si è formulata l’ipotesi che le retroflesse appartenessero alla pronuncia di una lingua non meglio specificata, detta Indo-mediterranea, che ha lasciato tutta una serie di relitti lessicali anche nel lessico delle lingue indo-europee antiche (greco, latino) Il fatto che l’area occidentale e l’area orientale conservano dei tratti più antichi del centro è sicuramente vero; si pensi che le lingue indoeuropee centrali, in maniera diversa, hanno innovato e hanno ricreato una parola per il termine “re”: - quello che probabilmente è il termine più antico, si ritrova, non a caso, nel latino che ha “rex” - nel celtico, altra lingua occidentale, che ha “-rix” (“Asterix”) - e nel sanscrito, cioè nell’antica lingua dell’India indo-europea, che ha “-raja” (“Maraja”) * ll piazzese è il dialetto di Piazza Armerina in Sicilia ma, come abbiamo visto, la lenizione è tipicamente romanza occidentale e non scende sotto La Spezia-Rimini, quindi come mai c’è lenizione in un dialetto siciliano? Ciò avviene perché il piazzese è parlato in Sicilia ma non è un dialetto siciliano bensì è un dialetto gallo italico. Piazza Armerina fa parte di quei comuni della Sicilia che rappresentano il risultato di migrazioni medievali dal Piemonte e da una parte della Liguria; per alleanze matrimoniali tra un casato nobiliare del Monferrato (basso Piemonte) e i Normanni, una serie di coloni provenienti da varie parti dell’Italia settentrionale, ma soprattutto dall’area piemontese e ligure, scesero in Sicilia dopo l’espulsione degli Arabi per ripopolare dei territori lasciati vuoti. Dunque, questi dialetti sono il risultato di migrazioni dall’Italia settentrionale e per questo motivo si chiamano gallo-italici; se troviamo una lenizione di questo tipo, questo è un segno abbastanza forte che quel dialetto non è siciliano ma è appunto gallo-italico, cioè settentrionale. *La stessa cosa vale per il potentino, cioè il dialetto di Potenza, che, nonostante si trovi nel cuore della Basilicata, è pure frutto di migrazioni un po’ più tarde dall’Italia settentrionale (migrazioni gallo-italiche). *Nel caso di “habere” e nel caso di “patella”, l’Italiano ha rispettivamente “avere” e “padella”, cioè ha una lenizione. L’italiano standard si fonda su una varietà toscana, cioè sul fiorentino illustre; abbiamo detto però che la lenizione è un fenomeno tipico della Romania occidentale che non scende sotto la linea La Spezia-Rimini. Come mai, allora, ci sono parole italiane che presentano lenizione? (habere > avere / patella > padella) Su questo c’è un grandissimo dibattito, sono apparsi anche negli ultimi anni degli articoli su prestigiose riviste scientifiche e c’è un’ipotesi, che va per la maggiore, per cui questo fenomeno, nato nell’Italia settentrionale, è stato imitato dalle parlate toscane. A causa anche del prestigio letterario di alcune tradizioni (milanese antico, veneziano antico), l’Italiano settentrionale è stato preso come varietà di prestigio e quindi diverse parole toscane entrate nell’Italiano standard imitano la lenizione settentrionale e presentano lenizione pur trovandosi sotto La Spezia-Rimini. Arrigo Castellani, uno dei più grandi storici della lingua italiana, in una delle sue ultime opere, chiamata “La grammatica storica dell’italiano”, ha mostrato che in molti testi toscani del ‘200 e del ‘300, dove l’influsso settentrionale è abbastanza difficile perché sono testi troppo antichi per essere influenzati dalla varietà settentrionale, esistono molti casi di lenizione anche dove l’italiano non li presenta. Ad esempio, ci sono testi toscani antichi in cui il nome dell’”ape” è scritta come “ave” con la “p” che è passata a fricativa sonora; quindi, forme come “ave” farebbero pensare a un fenomeno di lenizione che scendeva in origine sotto la Spezia-Rimini, cioè che deve avere intaccato almeno una parte della Toscana. Questa è una questione ancora aperta però quando troviamo parole come “avere” da “habere” o padella da “patella”, quella è sicuramente una lenizione. FRICATIVE  La “ʃ” fricativa post-alveolare sorda è la di “ʃ” “shampoo”, “sciocco”, “scemo”, “ascia”. La “ʃ” è il secondo fono che incontriamo ad avere una lunghezza intrinseca in posizione intervocalica. Quando parliamo di intervocalico, non significa solo tra due vocali della stessa parola ma significa tra due vocali in genere es: “Lo scemo” [ l o ʃ ‘ʃ e : m o ] oppure [ l o ‘ ʃ : e : m o ] Ascia [‘ a ʃ . ʃ a ]  nel fiorentino duecentesco era [‘ a ʃ ʃ j a ], in seguito la “j” originaria è stata assorbita dalla “ʃ” e la pronuncia è diventata [ ‘a ʃ ʃ a ] ( come in “sciare”, plurale di “sciara”)  non si mettono i : dopo la prima “a” perché la sillaba è chiusa in quanto la “ʃ” è doppia e quindi la prima è coda e la seconda è attacco  in italiano settentrionale, dove si pronuncia [ ‘a : ʃ a ], la “a” è lunga perché si trova in sillaba aperta  La “ʒ” fricativa post-alveolare sonora si ritrova, tra le lingue europee, per esempio in francese o in inglese (es: “vision”) ma non in italiano tranne nei prestiti dal francese, quali “garage” o “abatjour”  La “ʂ” e la “ʐ” fricative retroflesse si trovano in questi dialetti nei gruppi “str” o “zdr”  Una lingua che ha le fricative palatali ( ç / ʝ ) è il tedesco In “Ich” (pronome di 1° persona) [I ç ], le pronunce variano a seconda dell’area della Germania ma una delle realizzazioni di “Ich” è con la palatale; non è un caso che la fricativa palatale si realizza palatale dopo la vocale palatale “i”. In “milch” [ m I l ç ] (“latte”), la “i”, pur non essendo contigua ma a distanza, influenza la produzione di questo fono.  La “x” fricativa velare sorda è tipica del tedesco e dello spagnolo (la “xota”); in tedesco, la “x” si trova davanti o vicino a vocali velari per assimilazione. A cosa è dovuta l’aspirazione che sentiamo? Nella “k” occlusiva, la chiusura del dorso della lingua sul velo del palato è totale mentre nella fricativa velare no perché il dorso si avvicina al velo senza toccarlo e questo passaggio dell’aria attraverso una strettoia prova un caratteristico rumore di frizione.  La “ɣ” fricativa velare sonora si scrive simile alla lettera greca “gamma”. La “g” occlusiva velare è con il dorso della lingua che va a chiudere completamente sul velo ma la fricativa sonora è con il dorso della lingua che si avvicina al velo ma non lo tocca. 12-10-2021 FRICATIVE  Una lingua che ha le fricative palatali ( ç / ʝ ) è il tedesco es: [ I ç ] pronome persona tedesco, cioè “io”. Non in tutta la Germania ma nella varietà del tedesco standard, la “ç” è palatale e quindi si scrive “c” con la cediglia. Non è un caso che nel pronome “ich” (“io”), come nella parola “milch” (“latte”), la fricativa sia palatale perché c’è una “i” che è un suono palatale e dunque, in contesto palatale, quella fricativa diventa palatale per un fenomeno di assimilazione progressiva (perché la vocale viene prima) e nel caso di “milch” a distanza perché i suoni non sono contigui.  La “x” fricativa velare sorda è la “xota” dello spagnolo; è il suono di “auch” (“anche”); tenendo presente che la “u” è una vocale velare, anche qui abbiamo un fenomeno di assimilazione.  La “ɣ” fricativa velare sonora è tipica dello spagnolo in posizione intervocalica es: “fuego” (“fuoco”). Come mai dal latino “focu”, l’italiano ha “fuoco” e il castigliano ha “fuego”? È una lenizione; la consonante latina era occlusiva velare sorda > si è sonorizzata > è diventata fricativa > è diventata fricativa sonora e, se la lenizione proseguisse, arriverebbe a 0, come succede molto spesso.  Le fricative uvulari ( χ / ʁ ) implicano che il dorso della lingua va ancora più indietro del velo del palato e va ad avvicinarsi all’ugola. Ad esempio, nella parola tedesca che vuol dire “ruscello”, cioè “bach”, la “a” è una vocale centrale (non anteriore e non posteriore) e dopo la “a”, in un contesto non palatale, quella consonante del tedesco che davanti alla “i” era palatale, qui diventa uvulare, cioè posteriore. RICORDA:  quando ci sono le vocali palatali, abbiamo la fricativa palatale (“ç” fricativa palatale sorda)  quando c’è un contesto non palatale (“a” vocale centrale, “u” vocale velare) possiamo avere o la variante velare (“x” fricativa velare sorda) o la variante uvulare (“χ” fricativa uvulare sorda) - Nella “x” fricativa uvulare sorda, questa lieve aspirazione è dovuta al fatto che la lingua non va a toccare l’ugola; si sente questa frizione che dipende dal fatto che gli organi articolanti sono vicini ma non arrivano a toccarsi e quindi l’aria passa in maniera continua (questo avviene per tutte le fricative). - La “ʁ” fricativa uvulare sonora si scrive come una “r” rovesciata ed è una delle tante varianti possibili della “r” francese; es: francese “rose” [ ʁ o z ]  è la caratteristica “r” del francese che però può assumere diverse modalità (può diventare anche un’occlusiva) a seconda della posizione che occupa nella parola. Questa pronuncia uvulare è particolarmente diffusa in molti paesi del nord Europa, comprese le lingue germaniche della Scandinavia, perché è una pronuncia che è nata nell’area parigina dell’ Île-de-France e, dato che il parigino è diventato la base della lingua nazionale, ha avuto un tale prestigio, da un punto di vista socio-linguistico, da diffondere questa pronuncia come pronuncia di prestigio, come marca socio-fonetica, cioè una sorta di segno di riconoscimento di una pronuncia di uno strato sociale alto.  Nelle affricate alveolari la lingua va a toccare gli alveoli e quando si rilascia, cioè quando si allontana dagli alveoli, l’aria passa per una strettoia, cioè c’è una riapertura come in una fricativa con un rilascio graduale dell’aria. - “t͡s” affricata alveolare sorda es: “azione” - “d͡z” affricata alveolare sonora es: “azoto” Queste sono le altre due consonanti che in italiano, in posizione intervocalica, hanno una lunghezza intrinseca, cioè sono lunghe per natura. La lunghezza di queste affricate, però, si rappresenta solo con la “t” e la “d” doppie, non con la “s” e la “z” perché la lunghezza di queste affricate è nella parte occlusiva. Azione [ a t ‘t s j o : n e ] o [ a ‘t : s j o : n e ]  dato che la “ts” è in contesto sonorante * (tra vocale e semiconsonante), la “t” (parte occlusiva dell’affricata) è doppia  i : dopo la “o” perché è tonica, aperta e non finale di parole, quindi lunga  [s j o] CCV  si mette la “j” invece della “i” perché è già presente il nucleo, cioè la “o”; in questo caso, il dittongo si sente alla pronuncia in maniera molto distinta rispetto allo iato in quanto il dittongo è una sequenza fonica, mentre lo iato implica una pausa. * la posizione intersonorantica (vocale e semiconsonante) è identica alla posizione intervocalica “zio” [ d z i : o ] vs “lo zio” [ l o ‘d d z i : o ] si può scrivere anche con la sorda Azoto [ a d ‘ d z o : t o ] Un errore molto frequente nella trascrizione è che si confonde il digramma “dz” con “ds” e “ts” con “tz”: - “ds” non esiste perché all’affricata sonora, si devono associare i grafemi per la sonora - “tz” non esiste perché all’affricata sorda si devono associare i grafemi per la sorda Quando la lingua, rispetto alle alveolari arretra leggermente, andando a toccare il palato duro avremo:  l’affricata post-alveolare o pre-palatale sorda, cioè il suono “t͡ʃ “ di “cucina”, “cena”, “ciao”  invece, se le pliche vocali vibrano avremo un’affricata post-alveolare o pre-palatale sonora, cioè la “d͡ʒ” di “gioia”, “gianduia”, “Giotto”, “giavellotto”. Acciaio [a t .‘ t ʃ a . : j o ]  “t ʃ “  affricata post-alveolare sorda  si scrive la “j” invece che la “i” perché è già presente un nucleo vocalico, cioè la “o”  “jo” CV Gianduia [ d ʒ a n ‘ d u : j a ]  non si mettono i : dopo la prima “a” perché è una sillaba chiusa La differenza tra un’affricata post-alveolare e una fricativa post-alveolare è una differenza minima che riguarda solo il modo di articolazione; infatti, in molti dialetti italiani, l’affricata viene pronunciata come una fricativa. In moti dialetti centrali, la affricata post-alveolare sorda diventa fricativa e questo è sistematico nei dialetti toscani; infatti: - cucina (dialetto toscano)  [ k u ‘ʃ i : n a ]  non si mette la “ʃ” doppia perché non è la “ʃ” originaria ma è la riduzione dell’affricata, che non è doppia - cugina (dialetto toscano)  [ k u ‘ʒ i : n a ] è una delle spie fonetiche più evidenti della pronuncia toscana che non realizza le affricate post-alveolari dell’italiano standard ma le trasforma in fricative; questa alternanza tra affricata post-alveolare e fricativa post-alveolare è molto frequente in molte lingue del mondo proprio per l’enorme vicinanza che c’è tra queste consonanti. Qual è la differenza tra un’affricata post-alveolare e una fricativa post-alveolare? L’unica differenza pratica tra di esse è la tenuta perché: - se si pronuncia “cugina” in dialetto toscano (fricativa post-alveolare), la lingua non va a toccare il palato, ma si avvicina e basta e quindi l’aria passa attraverso una strettoia  NON c’è occlusione - se, invece, si pronuncia “cugina” (affricata post-alveolare), la lingua va a toccare il palato duro (l’area post-alveolare) e quindi l’aria passa solo dopo una fase di chiusura  c’è occlusione Giavellotto [ d ʒ a v e l’ l o t . t o ]  “dʒ” affricata post-alveolare sonora  non si mettono i : dopo la “o” di [ l o t ] perché la sillaba è chiusa Razza (tipo di pesce) vs Razza (genere, specie) [ ‘r a d d z a ] [‘ r a t t s a ]  “dz”  affricata alveolare sonora; è doppia perché è in posizione intervocalica  non si mettono i : dopo la “a” perché, essendo la “dz” doppia, il confine sillabico è [‘ r a d . d z a ] e quindi la sillaba è tonica ma chiusa (cioè “a coda”) RICORDA: Ci sono 5 consonanti nell’italiano standard che, quando si trovano in posizione intervocalica, hanno una lunghezza naturale; ciò vale per tutto l’italiano standard e centro-meridionale ma non per l’italiano regionale sopra la linea La Spezia-Rimini.  ʃ  fricativa post-alveolare sorda  ɲ  nasale palatale  ʎ  laterale palatale  ts  affricata alveolare sorda  dz  affricata alveolare sonora VOCALI Le vocali tradizionalmente si rappresentano attraverso un trapezio, tranne in italiano standard dove, invece, il trapezio è sostituito da un triangolo. Mettendo una piastrina sotto la lingua, si possono vedere i punti che la lingua occupa all’interno della cavità orale; congiungendo questi punti, si ottiene il trapezio. Trapezio e triangolo non sono due figure prese “a caso”, ma rispondono a un principio: riproducono i due principali movimenti della lingua, che nel pronunciare le vocali può muoversi: in senso orizzontale, si muove in 3 aree diverse del palato:  verso il palato duro  si pronunceranno vocali palatali (vocali nel lato di sx)  verso il palato medio  si pronunceranno vocali centrali (vocali posizionate al centro)  verso il palato molle (cioè il velo)  si pronunceranno vocali velari (vocali nel lato di dx) in senso verticale, si può avvicinare o allontanare dal palato:  più le vocali sono nel vertice alto del trapezio, più sono alte  più si scende, più sono basse - se si pronunciano la “i” e la “u”, la lingua è vicinissima al palato (area rossa) - se si pronunciano le “e” la “o “chiuse, la lingua si abbassa (area blu) - se si pronunciano la “ɛ” e la “ɔ” aperte, la lingua si abbassa ancora di più (area verde) - se si pronuncia la “a”, la lingua è nella massima distanza dal palato (area viola) Nell’italiano standard, del trapezio rimangono in posizione tonica, cioè nella sillaba accentata, 7 vocali. Il sistema vocalico dell’italiano standard, proprio perché ha 7 vocali, si chiama sistema epta vocalico. i  vocale palatale alta e  vocale palatale medio-alta ɛ  vocale palatale medio-bassa non c’è una “a” palatale nell’italiano standard, è presente solo in alcune varietà regionali; la “a” dell’italiano non è né palatale né velare, ma è centrale bassa u  velare alta o  velare medio-alta ɔ  velare medio-bassa 7 vocali vuol dire che in italiano, anche a livello fonologico, si distingue: - “pesca” (quella con la lenza) vs “pesca” (frutto) - “botte” (recipiente) vs botte” (percosse)  Isoglossa Taranto-Astuni (Puglia)  Isoglossa Lamezia-Catanzaro (Calabria meridionale)  Sicilia I dialetti e l’italiano regionale di queste 3 aree non hanno questo sistema vocalico perché nei loro sistemi mancano le vocali medio-alte (“e”, “o”) ma, da un punto di vista fonetico, queste vocali sono realizzate solo come vocali medio-basse in posizione tonica. Quindi, il vocalismo di queste aree non è un vocalismo epta vocalico (a 7 vocali) bensì è penta vocalico, cioè a 5 vocali toniche. Perché in tutte le varietà italo-romanze abbiamo 7 vocali e in queste aree ne abbiamo 5? Non è un caso che queste sono le aree che, rispetto a tutto il resto del meridione, hanno subito un’influenza duratura, secolare del greco. Il greco, dall’età classica a quella medievale, ha trasformato il suo sistema vocalico che nel greco bizantino (cioè di fase medievale) è proprio un vocalismo a 5 vocali, senza le medio-alte. Dato che il greco, almeno fino all’arrivo dei normanni (intorno al 1000), è stato in queste zone una varietà di prestigio, è molto probabile che i parlanti una varietà romanza di queste aree abbiano imitato il vocalismo greco e abbiano trasformato il loro sistema vocalico in un sistema penta vocalico. Qual è la conseguenza di tutto ciò a livello di trascrizione fonetica? Facciamo riferimento esclusivamente alla sillaba tonica (colpita dall’accento); quando c’è la sillaba atona non ci sono “problemi”, si scrivono “e”/ “o” “normali” perché non esiste la differenza tra medio-alta e medio-bassa in sillaba atona. pesca “con la lenza” (it. standard ) [ ‘p e s k a ] vs pesca “frutto” (it. standard) [ ‘p ɛ s k a ] dottore (italiano standard) [ d o t ‘ t o r e ] vs dottore (vocalismo siciliano) [ d o t ‘ t ɔ r e ] Nel vocalismo di queste 3 aree, chiamato “siciliano” perché la Sicilia è la più rappresentativa come area di estensione, non esistono in posizione tonica le vocali medio-alte, esistono solo le vocali medio-basse. [‘ p e s k a ] in siciliano non esiste esiste [‘ p ɛ s k a ] per entrambe le cose RICORDA: in sillaba atona non c’è questa differenza, ci sono solo le vocali medie “e”/”o” Come si classificano le vocali?  prima anteriore/posteriore  poi alta/medio-alta/medio-bassa/bassa  poi procheila/aprocheila Mi sveglierò più tardi [ m i z v e ʎ ʎ e , r ɔ p ‘p j u t’ t a r d i ]  la “s” davanti a consonante sonora (“v”) diventa “z” sonora per assimilazione regressiva  “ʎ” ha lunghezza intrinseca in posizione intervocalica  “sveglierò” appartiene al 1° gruppo dei polisillabi tronchi che provocano RF  “più”, a sua volta, provoca RF perché appartiene al 2° gruppo dei monosillabi forti Penserò dopo a che fare [ p e n s e , r ɔ d ‘ d o p o a k ‘ k e f ‘ f a r e ]  “penserò” appartiene al 1° gruppo dei polisillabi tronchi  “a” appartiene al 2° gruppo dei monosillabi forti  “che” appartiene al 2° gruppo dei monosillabi forti Qual è l’origine del raddoppiamento fonosintattico? Il nucleo originario di parole che hanno provocato RF è costituito da quelle parole che in latino avevano la consonante finale. Ad esempio, nel latino volgare, cioè il latino parlato che è alla base delle lingue romanze, la parola “domus” è sostituita da “casa”; una sequenza del tipo [ad casa(m)] (con la “m” dell’accusativo che poi cade) diventa [ a k ‘ k a : s a ]  quindi, l’origine del raddoppiamento fonosintattico è stato il fenomeno di assimilazione regressiva totale a contatto es: “et tu” > “e tu” per assimilazione regressiva totale tra la “t” e la “t” Con il tempo questa regola, che non c’entra nulla con l’accento, si è estesa in italiano a parole con l’accento finale e si è estesa a un contesto diverso da quello in cui era nato; infatti, nasce come regola di assimilazione e poi ingloba una regola di tipo accentuale, cioè provocano RF tutti i polisillabi tronchi, ma in origine era solo un fenomeno di assimilazione. Questa è la grande differenza che c’è tra il raddoppiamento fonosintattico dell’italiano standard, che coinvolge anche parole accentate sull’ultima sillaba, e i dialetti centro-meridionali in cui il RF si mantiene fedele alla regola originaria, cioè continua ad essere un fenomeno indotto solo da monosillabi di questo tipo che non ha nulla a che vedere con l’accento, cioè è ancora una regola di tipo assimilatorio. Nell’italiano standard, invece, diventa una regola che è sensibile anche all’accento perché “mangerò”, “perché”, “farò”, a prescindere se in latino finissero in consonante o meno, provocano raddoppiamento fonosintattico; quindi c’è una netta differenza tra la regola antica, che è una banalissima assimilazione, e la regola odierna del RF nell’italiano standard. FONOLOGIA Fin ora abbiamo studiato i foni (i suoni che hanno una rilevanza linguistica) da un punto di vista esclusivamente “fisico” e da un punto di visto articolatorio, cioè abbiamo classificato i suoni secondo modo, luogo, grado di articolazione e abbiamo visto le vocali a seconda della posizione della lingua e delle labbra. Abbiamo visto che “Il circuito della parole”, disegnato da Saussure nel famoso “Corso di linguistica generale”, implica nella comunicazione verbale tra esseri umani un canale fisico di trasmissione, cioè trasmettiamo il nostro pensiero attraverso un segnale sonoro che, attraverso le onde sonore, giunge all’orecchio dell’ascoltatore; quindi, è stata messa in evidenza l’importanza dell’atto fisico e concreto nella trasmissione linguistica. Dunque, può sembrare paradossale che proprio la parte più concreta della grammatica di una lingua, cioè la fonetica, sia stata oggetto della più importante e della prima attenzione teorica, ovvero che un gruppo di studiosi abbia, per la prima volta, valutato l’aspetto astratto dei foni. Sono foni, quindi entità concrete, come si possono studiare come entità astratte? Questi studiosi sono un gruppo di studiosi russi che all’inizio della loro attività non avevano interessi propriamente linguistici in senso stretto, ma erano interessati alla tradizione poetica innovativa, cioè agli sperimentalisti russi; in particolare si dedicarono allo studio di Chlebnikov che può corrispondere, come tematiche, ai nostri poeti sperimentali, quali ad esempio i futuristi, cioè a un genere letterario che si fondava molto su assonanze, giochi di parole, allitterazioni, cioè tutto l’aspetto formale della lingua poetica. Questo gruppo ha al suo interno due dei grandi nomi della linguistica moderna: Jakobson e Trubertzkoj: - tutti gli scritti di Jakobson, uno dei più grandi linguisti del ‘900, sono stati editi in una collana unica che comprende grosso modo 15 volumi - a Trubertzkoj viene attribuita per la prima volta la coniazione del nome “fonologia” come disciplina distinta dalla fonetica; fonetica e fonologia non sono sinonimi, sono due unità che vanno assolutamente distinte a partire dallo studio di questi primi linguisti. Dato che il circolo linguistico di Mosca dove si raccoglievano era dedito a poeti sperimentalisti e innovatori e in tutte le dittature questo genere poetico e artistico viene fortemente osteggiato, in contrasto con il regime bolscevico Trubertzkoj, Jakobson e gli altri esponenti del circolo linguistico di Mosca si trasferiscono a Praga, dove formano il celebre circolo linguistico di Praga. Durante il primo congresso internazionale dei linguisti, nel 1928, elaborano una seria di tesi note appunto come “le tesi del circolo di Praga” che contengono i fondamenti della fonologia. I principi elaborati all’interno di questa scuola, che è la fonologia di ambito strutturalista, sono contenuti in un celebre libro di Trubertzkoj che è uno dei grandi mattoni della linguistica moderna, intitolato “I principi di fonologia”, scritto prima in tedesco e poi tradotto in varie lingue tra cui l’italiano. COPPIE MINIME I foni possono essere studiati nel loro aspetto concreto ma hanno anche un valore astratto. Cosa significa? Prendiamo in esame una coppia (termine tecnico) di parole, quali “pollo”/ “bollo” e studiamole da un punto di vista puramente fonetico, articolatorio: pollo [ ‘ p o l : o ] vs bollo [ ‘ b o l : o ] la differenza tra pollo e bollo consiste nella sonorità: la prima è sorda, la seconda è sonora Ragionando a livello di astrazione possiamo affermare che in italiano il tratto sonorità (la distinzione tra sorda e sonora) permette di distinguere due parole che altrimenti sarebbero uguali e permette di distinguerle da un punto di vista del significato. Questi due foni sono capaci di opporre due parole di significato diverso, che altrimenti sarebbero uguali, cioè se non ci fosse la sonorità “pollo” sarebbero uguale a “bollo” (entrambe si pronuncerebbero “p”) e quindi non ci sarebbe nel lessico italiano una distinzione. Da un punto di vista fonetico, la differenza tra “legge” (voce del verbo “leggere”) e “legge” riguarda l’apertura della vocale che permette di distinguere due parole di significato diverso che altrimenti sarebbero uguali. Il ragionamento dei praghesi è che tutti i foni che sono capaci di distinguere due parole di significato diverso, che altrimenti sarebbero uguali, hanno un valore “astratto”, cioè hanno un valore distintivo (permettono la distinzione tra due parole). Questa loro proprietà distintiva fa sì che questi non siano semplici foni ma, nell’ottica praghese, sono fonemi, ovvero foni capaci di distinguere due parole di significato diverso che altrimenti sarebbero uguali. Come fa un linguista che va sul campo a studiare una lingua sconosciuta? (esempio Dixon) Succede ancora oggi che soprattutto i tipologi vadano a descrivere la grammatica di lingue fino ad adesso non documentate in quanto ci sono moltissime lingue che hanno una tradizione solo orale, non hanno testi scritti e quindi per documentarle bisogna andare sul campo (vale anche per molti dialetti). I tiplogi allora si portano il proprio registratore e cominciano a fare un inventario fonetico della lingua, poi passano a quello fonologico. Come fanno a capire in una lingua se quello è fono o anche fonema? Provano a costruire coppie di parole di questo tipo, chiamate coppie minime. Se, come per esempio avviene in tagalog (la lingua delle filippine), non si trovano coppie minime come “pollo”/”bollo”, evidentemente la “p” e la “b” non hanno potere distintivo perché, quello che è fonema in una lingua, non è detto che lo sia anche in un’altra perché i fonemi variano a seconda del sistema linguistico. L’italiano oppone “pollo”/“bollo”, il tagalog non li oppone perché ha solo sorde e non ha sonore. Questo, infatti, è un problema per i filippini che vengono in Italia perché non riescono a distinguere “pasta” da “basta”, “pollo” da “pollo” proprio perché nel loro sistema fonologico manca il tratto di sonorità. tolgo [ ‘t ɔ l g o ] vs dolgo [‘d ɔ l g o ] La differenza fonetica tra la “t” e la “d” è che è la prima è sorda e l’altra e sonora. “t” e “d” in italiano formano coppie minime, cioè coppie di parole che si distinguono solo per quel suono e che hanno significato diverso, quindi sono fonemi. cara [ ‘ k a : r a ] vs gara [ ‘ g a : ra ] Da un punto di vista fonetico, la prima è sorda e la seconda sonora Formano una coppia minima quindi, “k” e “g”, oltre che essere foni, sono anche fonemi, cioè hanno una proprietà distintiva che permette di distinguere una parola da un’altra Dato che “p -“b”, “t”-“d”, “k”-“g” hanno tra di loro un tratto in comune, cioè si oppongono per la presenza/assenza del tratto sonorità, a livello ancora più astratto si può affermare che sono fonemi perché formano coppie minime e più in generale si può affermare che la sonorità è un tratto distintivo; quindi, non solo i foni possono essere distintivi ma in una lingua lo possono essere anche i tratti. In particolare, Jakobson cercò di formulare una sorta di lista dei tratti fonologici più ricorrenti nelle lingue del mondo, basandosi sia su caratteristiche di tipo articolatorio (come la sonorità), sia su caratteristiche di tipo acustico. Egli cercò di elaborare dei tratti universali che però non funzionano uguali in tutte le lingue, ovvero ciò che è fonologico in una lingua, in un’altra potrebbe essere semplicemente un tratto fonetico e viceversa: ciò si vede facendo per ogni lingua la prova delle coppie minime. TRATTO DEMARCATIVO Abbiamo parlato di tratti fonologici, cioè di coppie minime, e la stessa funzione, ma in modo diverso, è con i tratti demarcativi o delimitativi. Esistono in tutte le lingue del mondo dei foni che possono occupare solo certe posizioni di parola e, in base alla loro posizione, involontariamente, permettono di distinguere il confine di una sillaba, il confine di una parola, il confine di una frase. Essi fungono da segni di confine e questa loro funzione si chiama demarcativa, un’altra funzione di tipo fonologico. In tedesco e in ceco, il cosiddetto colpo di glottide, quello che si segna in IPA con il punto interrogativo, precede tutte le sillabe che iniziano per vocale, specialmente le sillabe accentate; per cui, anche se non sapessi il tedesco, sentendo il colpo di glottide riuscirei a segnare il confine tra una sillaba e l’altra in quanto non si trova in nessun’altra posizione se non davanti a sillabe che cominciano per vocale. Prendiamo il caso della “h” fricativa e della “ŋ” velare dell’inglese: questi due foni non si trovano in qualsiasi posizione della parola, ma hanno una posizione obbligata:  la “h” si trova solo iniziale di sillaba  la “ŋ” velare si trova solo finale di sillaba  quando c’è una “h”, vuol dire che lì sta per iniziare una sillaba perché si può trovare solo all’inizio e dove c’è una “ŋ” velare (“sing”, “think”) vuol dire che lì finisce la sillaba; questi foni hanno un valore fonologico che non è quello che abbiamo visto prima, cioè non hanno una funzione distintiva, ma hanno una funziona delimitativa o demarcativa. Un esempio classico che si utilizza spesso è la “l” del veneziano: nel dialetto veneziano c’è il famoso problema che è stato oggetto di un’ampia bibliografia sulla cosiddetta “l evanescente”, cioè la “l” che scompare ovunque (o diventa qualcos’altro) in tutte le parole ma si mantiene solo in posizione finale di parola Es: “bello” > “beo” “collo” > cojo ma in “sol invernal” si mantiene  la “l” si trova solo in posizione finale di parola, quindi ha una funzione demarcativa, cioè serve per segnalare il confine tra una parola e un’altra parola ALLOFONI Al polo opposto dei fonemi, ci sono invece delle variazioni dello stesso fonema ad esempio, nella parola “prato” la “a” subisce delle modifiche di pronuncia a seconda delle varietà dialettali:  in italiano si pronuncia con la “a” centrale ['pra:to];  nelle varietà pugliesi questa “a” diventa una “a” anteriore e quindi viene pronunciata come [præ:to];  in altre varietà diventa posteriore e quindi viene pronunciata ['prɑ:to] con la “a” che tende ad essere una velare  in tutti e tre gli esempi, il significato non cambia (parliamo sempre di “prato”) Quando ci sono variazioni di questo tipo, non abbiamo a che fare con coppie minime perché non c’è valore distintivo ma c’è semplicemente una variazione di pronuncia che può dipendere dal dialetto o dall’italiano regionale ma che non ha a che vedere con la fonologia. Questi non sono fonemi, perché non formano parole di significato diverso, ma sono semplicemente varianti dello stesso fonema, che si chiamano allofoni. 14-10-2021 Con questa pioggia [ k o ŋ ‘k w e s . t a ‘ p j o d ʒ . ʒ a ]  la “ŋ” è velare perché è seguita dalla “k” che è velare per assimilazione regressiva a contatto (non c’è materiale fonico tra la “n” e la “k”)  [ k w e s ] C C V C: si mette la “w” perché nella sillaba c’è già una vocale che rappresenta il nucleo  “d ʒ”  affricata post-alveolare sonora  non si mettono i : dopo la “o” perché la sillaba è chiusa  nel vocalismo siciliano sarebbe [ k ɔ n ‘ k w ɛ s . t a ‘ p j ɔ d ʒ . ʒ a ] Non ci resta altro da fare che la trascrizione fonetica [ n o n t ʃ i ‘r e s t a ‘a l t r o d a ‘f a : r e ‘k e l l a t r a s k i t ‘t s j o : n e f o ‘n e : t i k a ]  non si mettono i : dopo la “e” di resta perché è sillaba chiusa  non si mettono i : dopo la “a” di “altro” perché è sillaba chiusa  “da” è uno di quei monosillabi che ha una forte variazione ragionale, in toscano provocherebbe RF ma nell’italiano centro-meridionale non comporta il RF  si mettono i : dopo la “a” di “fare” perché è lunga  “che” provoca RF  “ts”  affricata alveolare sorda: si mette doppia perché fa parte delle 5 consonanti che, in posizione intervocalica o intersonorantica, diventano lunghe  si mettono i : dopo la “o” di “trascrizione” perché è lunga  si mettono i : dopo la “e” perché è lunga  nel vocalismo siciliano sarebbe [ n ɔ n ] [ ‘r ɛ s t a ] [ k ɛ ] [ t r a s k i t ‘t s j ɔ : n e ] [ f o ‘ n ɛ : t i k a ] Ho comprato dei jeans e un maglione [ o k k o m ‘p r a : t o d e i ‘d ʒ i n s e u m m a λ’ λ o : n e ]  per quanto riguarda la pronuncia di forestierismi, cioè di parole di origine straniera, si trascrivono come si pronunciano  “ho”  fa parte dei monosillabi forti  si mettono i : dopo la “a” di “comprato” perché è lunga  “un” >“um” (“m” nasale bilabiale) per assimilazione regressiva a contatto totale;  “λ”  laterale palatale; si mette doppia perché ha una lunghezza intrinseca in posizione intervocalica  “dei”  dittongo, cioè una sequenza fonica ininterrotta; in questo caso però, rispetto a tutti i dittonghi che abbiamo visto fin ora, l’accento, cioè il cosiddetto pitch, sale sulla “e” e scende; Questo tipo di assimilazioni (“un” > “um”), che non avvengono all’interno di una stessa parola ma tra due parole diverse, prendono il nome di shandi esterno. “shandi” è una parola usata dai grammatici antico-indiani, cioè della grammatica sanscrita, che è entrato in voga anche nella linguistica moderna e indica quella che in francese è la jesòn (?), quindi un fenomeno di influenza reciproca tra foni collocati tra parole diverse (da qui il nome esterno)  “dei” è un esempio di dittongo discendente, in cui il pitch (l’intensità dell’accento) è sul primo dei due elementi es: “dei”, “mai”, “fai”  tutti i dittonghi che abbiamo visto fin ora hanno il pitch sul secondo elemento e quindi si parla di dittongo ascendente es: “ieri”, “uovo” Nei dittonghi discenti, la “j” e la “w” si scrivono rispettivamente “i” ed “u”, con un semicerchio sotto e valgono sempre consonante (C). Quando la “i” e la “u” sono vocali, si scrivono “i” ed “u”; quando sono consonanti:  se sono 1° elemento di dittongo, si scrivono “j “e “w” ( es: “jeri” , “wovo” )  dittongo ascendente  se sono 2° elemento di dittongo, si scrivono “i” ed “u” (“mai “, “fai” )  dittongo discendente [ b a u ] CVC La differenza tra la “u” di “uovo” e la “u” di “bau” è solo nella posizione, entrambe valgono consonante perché il nucleo è già occupato, solo che: - in “uovo”, la “u” è 1° elemento di dittongo  dittongo ascendente (l’accento è sulla “o”, sale) - in “bau”, la “u” è 2° elemento di dittongo  dittongo discendente (l’accento è sulla “a” e poi scende) FONETICA Saussure, il padre della linguistica moderna, è stato il primo linguistica che, prima che arrivassero gli strumenti di fonetica acustica che possono tracciare lo spettrogramma, individuare le frequenze e quindi davvero riuscire a dimostrare scientificamente le differenze minime di pronuncia tra un parlante e un altro, ha intuito qualcosa di geniale ma non l’ha potuto dimostrare, cioè che quando pronunciamo una parola, anche se ci sforzassimo di pronunciarla sempre uguale, sarà realizzata a livello concreto in maniera diversa, cioè è impossibile pronunciare una parola nello stesso identico modo. Se pronunciamo per cento volte la parola “prato”, questa parola non si realizzerebbe mai uguale a se stessa, ci sarebbe sempre una minima deviazione. In realtà, anche il significato che associamo a quella sequenza fonica cambia: l’esempio che fa Saussure è quello di una frase francese “La guerre. Je veux dire la guerre.” “ La guerra. Vi sto parlando della guerra”. Egli afferma che questa frase ha un senso molto diverso se pronunciata da un generale che mira a una carriera, e quindi si esalta per una possibile guerra che lo renderà famoso; invece, il senso di questa frase diventa completamente diverso se associato a una madre che ha perso il figlio in guerra  quindi non cambia solo la parte concreta, ma cambia anche il significato da parlante a parlante. Allora, se pronunciassimo la parola “prato” cento volte e se si dimostrasse, come di fatto si può dimostrare, che questa realizzazione è diversa da parlante a parlante e all’interno dello stesso parlante, come fanno i parlanti a comunicare e a comprendersi? Se questa variazione è infinita, come fanno ad avere coscienza che stanno pronunciando la stessa parola? Anche nei parlanti che hanno delle distorsioni foniche particolarmente gravi, anche in casi di afasia o di patologie linguistiche, questa parola riuscirebbe ugualmente ad essere comprensibile. *L’idea è quella di un fonema X che presenta delle realizzazioni diverse: questa realizzazioni diverse, che chiamiamo A, B, C, possono essere libere, cioè possono dipendere dalla pronuncia personale o dalla pronuncia regionale ma sono sempre varianti dello stesso fonema. Esiste un 2° gruppo di varianti che non sono libere ma sono obbligate dal contesto; ad esempio la nasale “N” si può dividere in tante realizzazioni diverse (labiodentale, velare..) a seconda dei foni che la seguono; dato che una non può stare al posto dell’altra, questa è la prova per poter affermare che queste sono varianti ma combinatorie, cioè sono delle varianti dello stesso fonema obbligate dal contesto. Non tutte le varianti combinatorie di una lingua lo sono anche in altre: la nasale velare che in italiano è una variante combinatoria (cioè un allofono), in inglese è un fonema perché esistono coppie del tipo “thin”/”think” in cui l’unica cosa che cambia è il luogo di articolazione della nasale. - VARIANTI LIBERE Allo stesso modo, esistono tantissime varianti di tipo regionale, cioè su base diatopica  varianti libere Nel caso di ['pra:to] [præ:to] ['prɑ:to] è una variante libera. La fricativa dentale sorda (“θ”) dell’ inglese “think” o dello spagnolo “cosér”, in America latina si realizza come “s” (fenomeno del “seseo”) Da questo esempio dobbiamo stabilire se “θ” e ”s” sono varianti libere, varianti combinatorie o fonemi (coppie minime): non è una coppia minima perché non cambia il significato, quindi devono essere delle varianti e in questo caso sono varianti libere perché non dipendono dal contesto fonetico ma dipendono da un fattore diatopico, cioè dal luogo:  nello spagnolo dell’America latina la “θ” è pronunciata “s”  nel castigliano di Spagna è pronunciata “θ”  la “θ” e la “s” sono degli allofoni e precisamente delle varianti libere. La “s” (fricativa alveolare sorda) si può realizzare in alcuni parlanti come “θ” (fricativa dentale sorda) es: “sole” > “θole”  non è una coppia minima, bensì sono varianti libere di uno stesso fonema. In tedesco, abbiamo la “ç” (fricativa palatale) e la ʁ (fricativa uvulare):  la palatale si trova sempre vicino a vocali palatali  l’uvulare o la velare (“x”) si trovano sempre dopo vocali non palatali ( “o”, “u”  vocali velari )  questo è un esempio di varianti combinatorie perché questa alternanza non è casuale, non dipende da una pronuncia regionale ma dipende esclusivamente dal contesto fonico; sono varianti di uno stesso fonema. Nei parlanti che hanno la “r moscia”, la “r” si può realizzare in tanti modi diversi ma non come polivibrante alveolare: siamo nel caso di varianti libere perché facciamo riferimento ad un “difetto” di pronuncia. Nei parlanti in cui la lingua non va a toccare il palato duro ma gli si avvicina soltanto, non si pronuncia “giglio”, “figlio”, “miglio”: questa differenza di pronuncia non è una coppia minima perché non cambia il significato, non è una variante combinatoria perché non è costretta dal contesto, bensì è una variante libera del fonema “λ”. MORFOLOGIA Fin ora abbiamo analizzato delle unità linguistiche che costituiscono le fondamenta di una casa, cioè i foni; i foni, delle due facce del segno linguistico, riguardano solo il significante, cioè la parte concreta; però abbiamo visto che da Saussure in poi il segno linguistico è un’entità composta da due facce:  da una parte concreta, chiamata significante  da una parte astratta, chiamata significato Da ora in poi inizieremo a studiare non solo i significanti della lingua, ovvero i foni, ma anche unità di livello superiore, cioè unità dotate sia di significante che di significato, quelli che Saussure chiama i segni linguistici e che, dalla linguistica americana in poi, si chiamano morfemi. Prendiamo come esempio la parola “penna”: - il significante di questa parola (cioè la parte concreta del fono) è la pronuncia, quindi la sequenza p + e + n + n + a - il significato è il concetto che associamo al referente, cioè all’oggetto “penna”; “penna” è un unico segno linguistico o si può scomporre?  per il significante abbiamo visto che si può scomporre ed è formato da quattro foni (p + e + n lunga + a)  per il significato si può scomporre perché la parola penna è costituita da una base a cui si possono aggiungere altri blocchi La base “penn”, quella che dà il significato generale dell’intera famiglia lessicale, è un morfema lessicale, cioè porta il significato generale. “penn”, come morfema, indica il referente, cioè l’oggetto “penna”. La “a” finale di “penna” esprime il numero, cioè il singolare opposto alla “e” di “penne” che esprime il plurale. In generale, la “a” ci dà un’informazione anche sulla classe flessiva, ovvero i nomi in “a”, in generale ma non sempre, sono in italiani nomi femminili; ci dà un’indicazione, anche se parziale, sul genere. La “a” indica che la parola penna è singolare e che appartiene alla classe flessiva del femminile (anche se poi vedremo che il generale non si determina con la desinenza finale ma in un altro modo); quindi, ha un valore completamente diverso rispetto a “penn”.  Tutti i morfemi come “penn-” che ci danno il significato lessicale, si chiamano appunto morfemi lessicali  Tutti i morfemi come la “-a” che ci danno un’indicazione di qualunque tipo sulla grammatica (genere, numero - per i verbi sul modo, tempo, modo, persona…), si chiamano morfemi grammaticali - Dividere “penna” secondo il significante  p e n doppia a (quattro unità) - Dividere “penna” in morfemi  p e n n + a ha due morfemi, quindi è ha un segno linguistico complesso formato da un morfema lessicale (ML) e da un morfema grammaticale (MG) MORFEMI CUMULATIVI Prendiamo una lingua che, oltre al genere e al numero, esprime il caso, cioè la relazione di quella parola con le altre parole che si trovano nella frase “rosas”  accusativo plurale, funzione sintattica di complemento oggetto ros  ML as  MG indica la classe flessiva femminile, il numero plurale e il caso accusativo In diverse lingue del mondo, un morfema grammaticale può indicare, al contempo, più categorie (numero, genere, caso) e questo vale anche per i morfemi grammaticali nel verbo. Ci sono però molte lingue del mondo, ad esempio il turco, in cui questo non si può fare: per indicare una funzione grammaticale si ha bisogno di un morfema e per indicare un’altra funzione grammaticale si ha bisogno di un’altra morfema, cioè tanti morfemi per quante sono le funzioni che si devono esprimere. In turco, se si dovesse indicare l’accusativo plurale femminile, si avrebbe bisogno di tre morfemi (uno per ciascuna funzione). Invece, una lingua come il latino, e in generale le lingue della famiglia indoeuropea, hanno morfemi come “as” che possono esprimere numero, genere e caso insieme: morfemi di questo tipo si chiamano morfemi cumulativi, cioè morfemi che accumulano su di loro più funzioni. DERIVAZIONE Le desinenze sono solo alcuni degli esempi di morfemi grammaticali; possiamo avere altri morfemi grammaticali che non costituiscono le desinenze ma che servono, ad esempio, a formare parole da altre parole, cioè a formare da parole semplici dei derivati. Ad esempio, se si prende la parola “esperto” e si aggiunge “in-” per formare la parola inesperto, “in-” non è una desinenza ma permette di formare da una parola un’altra parola: questi sono morfemi grammaticali (ma non desinenze) che permettono un processo morfologico chiamato derivazione, in cui si forma una parola partendo da un’altra, e prendono il nome di affissi. In italiano, riconosciamo all’interno di questa macro categoria di affissi, 2 grandi categorie; la loro classificazione dipende esclusivamente dalla loro posizione rispetto al morfema lessicale:  se lo precedono, sono prefissi es: “inesperto”, “ex marito”, “ex sciatore”  se si aggiungono dopo la base lessicale, sono suffissi es: “mut” + suffisso “ment “  “mutamento” In italiano, queste due categorie hanno una caratteristica molto diversa fra loro:  nei prefissi non muta mai la classe di appartenenza es: aggettivo “utile” + prefisso “in”  inutile si ottiene sempre un aggettivo  invece, nei suffissi la classe di appartenenza può mutare ESEMPI: - mutare + ment > mutamento  da un verbo si ottiene un nome - spegnere + ment > spegnimento  da un verbo si ottiene un nome - barba > barbone  da un sostantivo si ottiene un aggettivo che si sostantivizza ( viene usato come sostantivo ma in realtà è un aggettivo) - INFISSI es: cuoricino cuor-  base lessicale - ic-  si può analizzare in due modi diversi: se si prende da cuore il diminutivo “cuorino”, “ic” è un infisso che va dentro la base e dunque si comporta come la “m” del latino “rumpo” però, in realtà, la base non è “cuorino” in quanto è un diminutivo, la base è “cuor” oppure cuor (base) + ic (1° suffisso) + in (2° suffisso) + o (desinenza o morfo flessivo) es: “capisco” (“capisci,” “capisce”), rispetto a “capiamo” o “capite” ha un elemento “isc” tra la base e la desinenza che alcuni analizzano come un infisso. Infisso o meno, la cosa più importante da dire è che questo genere di affissi in italiano non è più produttivo, tanto che si ha difficolta ad analizzarli come infissi. In latino, invece, il processo di cui abbiamo già fatto l’esempio con “rumpo”, è un processo produttivo: data una base verbale, il presente si formava attraverso l’aggiunta di un infisso, quindi produceva nuove forme (per questo si dice produttivo). es: dalla base “fid” (“dividere”, “spezzare”), si ottiene il presente “findo” dove in rosso c’è evidenziato l’infisso es: “reliqui” (perfetto), dalla base “reliq” il presente è “relinquo” con l’infisso nasale  questo è un vero infisso perché è produttivo “Isc” in italiano è una forma “morta”, cioè non più capace di produrre nuove forme tramite il processo dell’infissazione. - CIRCONFISSI es: lingua del sud dell’Indonesia “reu” “rumore che si fa parlando” > ka-reu-k “parlare”  per fare il verbo non è stato aggiunto solo un prefisso o solo un suffisso, bensì sono stati aggiunti due elementi insieme es: lingua del pacifico meridionale “an” “mangiare” > na-‘an-ian “cibo” - TRANSFISSI I vocabolari di una lingua europea, e in generale di una lingua indoeuropea, contengono le liste per nomi; mentre, se si cerca nel vocabolario di arabo la parola “kitab” (“libro”), non si trova perché i dizionari delle lingue semitiche sono organizzati per radici. Non è una scelta editoriale ma risponde ad un principio su cui si basano queste lingue; infatti, in generale, nelle lingue semitiche il morfema lessicale (quello che dà il significato generale dell’intera famiglia) è una radice trilittere, cioè composta da tre consonanti. es: la forma per “studiare” è composta dalla radice “drs” questa radice si può realizzare in tante maniere: “darisa” “ha studiato” “durisa” “è stato studiato” es: dalla radice per “scrivere” “ktb”, aggiungendo diverse vocali abbiamo: “kitab” “libro” “katib” “scrittore” “kataba” “ha scritto” “kutiba” “è stato scritto” Come funzionano le lingue semitiche? All’interno del morfo lessicale trilittere si inseriscono le vocali che non portano nessun significato aggiuntivo, dal punto di vista del lessico, ma hanno un valore puramente grammaticale (servono ad indicare il tempo verbale, la persona, il numero…). Questo è un classico esempio di morfologia a pettine: le vocali si inseriscono dentro lo scheletro consonantico come tanti denti di un pettine e questi denti sono i transfissi. Intorno agli anni ’70-’80 del ‘900, si è sviluppato un indirizzo di morfologia conosciuto con il nome di morfologia naturale, il cui principale esponente è stato Wolfgang Dressler dell’Università di Vienna; l’idea è quella che esista un principio di iconicità nel linguaggio, cioè su una scala di trasparenza possiamo inserire le lingue a seconda del loro indice di iconicità o di trasparenza. Ciò cosa significa? Prendiamo l’esempio della parola “penna”: abbiamo visto che “penn” è il morfema lessicale e che “a” è il morfema grammaticale; se immaginiamo “penn” e “a” come due quadratini, questi morfemi si succedono in un ordine lineare, prima l’uno e poi l’altro. Invece, in una lingua semitica con una morfologia a pettine, è come se in un quadrato maggiore, che è la radice trilittere (morfema lessicale), si inserisse un altro quadrato più piccolo che sono le vocali (i morfemi grammaticali). Lingue che si rappresentano in questo secondo modo, si dice che hanno una trasparenza più bassa perché sono meno iconiche, ovvero non seguono un ordine che è quello lineare (nell’ordine lineare c’è prima il morfo lessicale e poi il morfo grammaticale); qua, invece, gli uni stanno dentro gli altri, cioè i morfemi grammaticali stanno dentro il morfema lessicale. Quindi, nell’ottica della morfologia naturale, queste lingue hanno un indice di trasparenza e di iconicità più basso, sono meno trasparenti perché la distinzione tra morfo grammaticale e morfo lessicale è molto più opaca, è meno netta. Nella parola “penna”, e in generale in lingue come l’italiano, cioè lingue flessive, il confine tra un morfo e l’altro è un confine piuttosto trasparente; qui, invece, i confini si dissolvono perché i morfemi grammaticali è come se stessero dentro quelli lessicali, appunto tramite i transfissi. PREFISSOIDI E SUFFISSOIDI Non esiste un limite nel numero di infissi che si possono aggiungere ad una base. Es: soci + al + izz + abil + ità  deaggettivale + deverbale + deaggettivale Uno statuto categoriale piuttosto diverso da quello dei veri e propri prefissi o dai veri e propri suffissi, si ha con forme dette rispettivamente prefissoidi e suffissoidi. es: sociologia  “socio”, fuori dal derivato, lo possiamo analizzare come un morfema lessicale vero e proprio però nella parola “sociologia” funziona da prefisso Morfemi lessicali che funzionano da prefissi o da suffissi prendono il nome rispettivamente di prefissoidi e di suffissoidi e sono facilmente riconoscibili perché hanno un’origine classica, cioè sono di origine greco- latina. es: in “cronometro” e in “cronologia” riconosciamo un suffissoide. Dunque, i morfemi lessicali, quando possono essere utilizzati come parole autonome, ma si comportano esattamente come un suffisso o un prefisso, prendono il nome di suffissoidi e prefissoidi. TRANSCATEGORIZZAZIONE Un caso particolare di prefissoide è il prefisso “auto” che ritroviamo in parole come “autonomia”, “autodistruttivo”, “autolesionista”; l’origine in tutti casi di suffissoide e prefissoide è dal greco “autos” (“se stesso”). Quando il prefisso “auto” forma “automobile”, letteralmente “che si muove da sé”, succede che può subire un processo morfologico cosiddetto di accorciamento per cui da automobile si ottiene “auto” (sostantivo); subisce un processo di accorciamento e di transcategorizzazione, ovvero passa da una categoria grammaticale ad un’altra: - è prefisso in “autonomia”, “autodistruttivo”, “autolesionista” e in “automobile” stesso - quando è usato come sostantivo (es: L’auto di mio padre…”), passa da una categoria al un’altra, cioè passa da prefisso a sostantivo In quanto sostantivo, può essere utilizzato come primo membro di parole composte, in nomi come “autostoppista” “autostazione” “autolavaggio” che non vogliono dire che fa l’autostop da solo o che è una stazione di se stessa “auto” in “autostop” e in “autostazione” non è più un prefisso bensì è il nome “auto” che si aggiunge ad un altro nome per formare un composto Ciò illustra la dinamica della morfologia, per cui un certo elemento morfologico in diacronia, cioè con il passare del tempo, può passare da una categoria ad un’altra. COMPOSIZIONE Dopo la derivazione, incontriamo un processo che forma parole composte. Qual è la differenza tra composti e derivati?  nei derivati, ad un morfema lessicale si aggiungono dei morfemi grammaticali (prefissi, suffissi…)  in un composto, invece, un morfema lessicale si aggiunge ad un altro morfema lessicale Sostanzialmente abbiamo, come nel caso di “copriletto” e “cassaforte”, due radici lessicali che mantengono il valore che avrebbero come parole autonome. In italiano, i composti si possono formare da ogni categoria grammaticale: - croce + via  nome + nome - mano + mettere  nome + verbo - copri + capo  verbo + nome - piano + forte  avverbio + avverbio UNITÀ PLURILESSEMATICHE O PLURIREMATICHE Diverso è il caso delle unità plurilessematiche o plurirematiche: gruppi di parole che non formano un composto, cioè i morfemi non sono uniti, ma insieme formano un significato che è diverso dalla somma delle singole componenti. es: “avviso di garanzia” “gatto delle nevi”, verbi sintagmatici (“andare via”, “mettere sotto”, “fare pressione”) Ad esempio il “gatto delle nevi” è la macchina che spiana le piste alla fine della giornata; questo significato non risulta dalla sommatoria delle singole componenti e non è immediatamente deducibile dalla semplice somma di “gatto” e “neve”, ma è un significato ulteriore che forma una sorta di espressione idiomatica che prende appunto il nome di unità plurilessematica. ALLOMORFI Parlando di morfemi, un’altra aggiunta che dobbiamo fare riguarda la loro possibilità di variazione formale; siamo in un campo, per la morfologia, che è molto vicino a quello già visto per gli allofoni dello stesso fonema. Così come esistono delle varianti di un fonema (chiamati allofoni), allo stesso modo possono esistere delle varianti di uno stesso morfema perché può succedere che un morfema si realizza in modi diversi. Un esempio è la “s” plurale dell’inglese:  il plurale del sostantivo “rock” è “rocks”  la “s” è una fricativa alveolare sorda  il plurale del sostantivo “fog” è “fogs”  la “s” è una fricativa alveolare sonora  la variazione fra la “s” sorda di “rocks” e la “s” sonora (“z”) di “fogs”, dipende da un fenomeno di assimilazione  il plurale di un sostantivo che termina in “s” è “es” “house”  ”houses” In queste tre varianti non c’è una variazione di significato perché tutte esprimono allo stesso modo il plurale, varia solo la forma, cioè il significante: variazioni di questo tipo, nella forma ma non nel significato, prendono il nome di allomorfi, cioè varianti di uno stesso morfema. es: “Gli uomini” vs “I bambini”  non c’è una differenza di significato dell’articolo in quanto entrambi esprimono il maschile plurale bensì c’è una variazione nella forma; quindi, gli articoli “gli”/”i” sono allomorfi, cioè varianti dello stesso morfema. Diverso è il caso di un’opposizione del tipo “L’uomo” vs “Gli uomini”  non sono allomorfi ma morfemi perché esprimono un significato diverso: uno esprime il maschile singolare e l’altro esprime il maschile plurale. es: “amico” vs “amici” - in “amico”, il morfema lessicale è “amic” con l’occlusiva velare - in “amici”, il morfema lessicale è “amic” con l’affricata palato-alveolare  entrambe le forme rimandano alla stessa nozione di “amicizia”, dunque sono due allomorfi dello stesso morfema Abbiamo due casi diversi a causa della vocale che segue, ma non cambia il significato: - in “amico”, la “o” è una vocale velare e quindi la consonante è velare - in “amici”, la “i” è una vocale palatale e quindi la consonante è palatale IL GENERE Corbett, noto linguista che ha ripreso studi precedenti in particolare sulle lingue slave, ha dato una nuova classificazione da cui si sono aperte nuove strade per quanto riguarda il genere. Cos’è il genere? Un sostantivo può essere maschile, femminile e, in alcune lingue, anche neutro; questi sono generi grammaticali che non sempre rispecchiano il genere naturale, cioè non è detto che un referente di sesso maschile in una determinata lingua sia sempre codificato al maschile  dobbiamo sempre distinguere il genere grammaticale dal genere naturale. All’interno del genere grammaticale distinguiamo due tipologie: - Il genere inerente è dato dalle desinenze stesse del nome; ad esempio, in italiano la “o” e la “a” selezionano due grandi classi flessive: rispettivamente quella dei nomi maschili e quella dei nomi femminili. Ciò però non avviene sempre: ad esempio, “il pilota” e “il poeta” sono sostantivi in “a” ma sono categorizzati al “maschile”, come si vede dall’articolo “il”. Ci sono tanti modi per cui un sostantivo può essere classificato come maschile o femminile; sono in generale criteri semantici, criteri di tipo culturale che determinano l’appartenenza di un nome in una lingua a una determinata categoria. - Il genere contestuale è determinato dai cosiddetti “target dell’accordo” (“associated words”); i target dell’accordo sono forme grammaticali come gli articoli o gli aggettivi, cioè tutto ciò che “circonda” il nome e che si accorda con il nome. Se guardiamo solo al genere contestuale, ci accorgiamo che lingue per la quale era stato stabilito che vi fossero solo due generi, in base all’accordo possono avere tre, o addirittura quattro generi: questa è la grande scoperta di Corbett, una tra le scoperte più significative degli ultimi 30 anni nella linguistica tipologica Egli insegnava in una piccola università inglese del Sussex e ha formato uno dei gruppi di linguistica più attivi in Europa che ha avuto grandi finanziamenti. Corbett si ispira ad una celebre frase di Ockett, uno dei grandi linguisti della metà del ‘900, che si rifà alla nozione di genere contestuale: “I generi sono classi di nomi riflessi nel comportamento delle parole associate”. Ad esempio, in “le forchette piccole”: - i target dell’accordo sono “le” e “piccole” - forchette” è il cosiddetto “controllore”, cioè l’elemento principale da cui dipende l’accordo  classifichiamo “forchetta” in genere e in numero a seconda della desinenza finale (genere inerente) ma possiamo classificare anche in base al genere contestuale, cioè in base ai target IL TERZO GENERE  il bambino buono l’accordo è al maschile, singolare  i bambini buoni  l’accordo è al maschile, plurale  la forchetta piccola l’accordo è al femminile, singolare  le forchette piccole l’accordo è al femminile, plurale  questo uovo buono l'accordo è al maschile, singolare  queste uova buone  l’accordo è al femminile, plurale Se prendiamo in considerazione solo il genere inerente, l’italiano ha 2 generi (maschile e femminile), ma ragionando “alla Corbett”, abbiamo 3 generi perché:  desinenze specifiche per il maschile, singolare e plurale  desinenze specifiche per il femminile, singolare e plurale  desinenze “sincretiche”, cioè maschile al singolare e femminile al plurale  genere alternante Corbett però, nonostante questo ragionamento sia valido, postula per l’italiano due generi perché parole in italiano standard che si comportano come “uovo” sono pochissime es: il braccio lungo/ le braccia lunghe Questo 3° genere, che ha un accordo sincretico, ha così pochi lessemi da far parte del cosiddetto “inquoreit gender”, cioè il gender che non raggiunge il quorum (un numero minimo di parole per poter essere un genere a sé). Si sono fatte molte ipotesi a questo proposito, ma quello che in italiano è un “inquoreit gender”, in molti dialetti italiani e in altre lingue romanze, è un genere vero e proprio, cioè rappresentato da un numero di lessemi molto alto. Questo per esempio, è il comportamento “normale” del rumeno (unica lingua romanza sopravvissuta nell’est Europa) che ha:  maschile singolare / maschile plurale  femminile singolare / femminile plurale  maschile singolare / femminile plurale  ha il genere alternante in un numero altissimo di lessemi Il rumeno, a differenza di tutte le lingue romanze occidentali, ha l’articolo definito “posposto”, cioè si mette dopo il nome, non prima: es. in italiano “l’uomo”  in rumeno “omul”, dove quella “l” è l’articolo es: “il vino è buono”  “vinul è bun” con l’accordo maschile singolare ma “vinuile sunt bune”, letteralmente “vini le sono buone”, con un accordo femminile plurale Tante varietà dialettali dell’italo-romanzo antico si comportato allo stesso modo del rumeno, come ad esempio il toscano antico: - “il castello” – “il prato” – “il nome”  maschile singolare - “le castella” – “le pratora” – “le nomora”  femminile plurale Da questa opposizione (“i castelli belli” vs “le castella bella”) deduciamo che, a differenza dell’italiano moderno, che ha in questi nomi l’accordo di tipo 1 (maschile singolare/maschile plurale), in toscano antico, questi nomi erano nel 3° genere (genere alternante) perché avevano un accordo al maschile nel singolare e un accordo al femminile nel plurale. L’articolo non è uguale perché se uno dà raddoppiamento fonosintattico e l’altro no vuol dire che l’etimologia è diversa perché nei dialetti meridionali il raddoppiamento fonosintattico è innescato solo da quelle parole che in latino avevano la consonante finale. Quindi, l’articolo di “o bbrito”, qualunque sia la sua origine, deriva da una forma latina che è diversa da quella che ha prodotto l’articolo di “o vitro”. Così a Napoli, e in generale nei dialetti campani: “offuoco” indica il fuoco inteso in generale vs “o fuoco” senza RF indica i fuochi d’artificio (quantificabile) Alcuni dialetti che hanno tre generi (maschile, femminile e alternante) hanno un sistema asimmetrico perché da una parte abbiamo un accordo solo al maschile, dall’altra abbiamo un accordo solo al femminile e poi abbiamo il genere alternante che ha l’accordo maschile al singolare e femminile al plurale. Allora alcuni dialetti, come il romanesco antico, per rendere simmetrico questo sistema, hanno creato un quarto genere speculare al terzo, cioè hanno dei nomi che al singolare hanno l’accordo al femminile e al plurale hanno l’accordo al maschile (“la torre bella/li torri belli”, “la chiave bella/li chiavi belli”, “la votte piena/li votti pieni”)  è sempre un genere alternante ma con i poli invertiti Anche se i dialetti meridionali oggi iniziano molto più a sud (tra Lazio e Campania), un tempo il romanesco nella sua fase antica era a tutti gli effetti un dialetto meridionale, questo è quello che si chiama romanesco di prima fase. Dal 1500, soprattutto a causa di migrazioni dalla Toscana, sostanzialmente di impiegati che lavoravano per il Papato, il dialetto romanesco è stato toscanizzato; c’è una celebre monografia, “La toscanizzazione del dialetto romanesco”, ed è quello che si chiama romanesco di seconda fase. Infatti, Bruno Migliorini, uno dei più grandi studiosi della lingua italiana, scrive a proposito di questo cambiamento, “La storia del romanesco è la storia del suo progressivo disfacimento”; allora quando si parla di romanesco antico si parla del romanesco di prima fase, cioè si prende a campione di un dialetto meridionale. SUPPLETIVISMO Il suppletivismo è un fenomeno morfologico molto diffuso su cui si è scritto molto: può succedere, per diversi ordini di ragioni che all’interno di un paradigma verbale, ad esempio, vengano selezionate due basi diverse che però assolvono alla stessa funzione. Si pensi al caso dell’inglese che per il verbo “andare” usa una radice per il presente, “go”, che è diverse dalla radice che usa per il passato “went”; la stessa cosa c’è nel caso del paradigma di “andare” per l’italiano che utilizza due basi diverse cioè “vado” e “and-“ (i verbi irregolari sono irregolari poiché suppletivi). Quindi, può succedere che all’interno di un paradigma verbale, ma anche all’interno di un’alternanza nominale (sostantivo “acqua” > aggettivo “idrico”), si utilizzino due basi diverse per assolvere alle stesse funzioni: quando avviene una cosa del genere si parla di suppletivismo. ALLOTROPI Può succedere che all’origine del suppletivismo ci sia una stessa base che però ha subito delle alterazioni fonetiche talmente forti che i parlanti la avvertono in sincronia come due basi diverse: es: il nome della città di Chieti deriva da una base “Teate” (antico nome di Chieti) tanto che gli abitanti della città di Chieti si chiamano “teatini” es: l’antico nome di “Ivrea” è un nome celtico “Eporedia” (“epo” nome per “cavallo” in celtico) e gli abitanti di Ivrea si chiamano “eporediesi” Questo qui, analizzato da un punto di vista sincronico, è la stessa cosa che succede con “acqua” /”idrico” e con “vado”/”andiamo”, cioè due basi diverse per fare la stessa cosa. Però in diacronia, cioè se andiamo a vedere il percorso evolutivo, la differenza tra “vado”/”andiamo” e “Ivrea”/”Eporediesi” è che “Ivrea/Eporediesi” partono dalla stessa base, cioè da “Eporedia”. Come mai da una parte abbiamo “eporediesi” e dall’altra “Ivrea”, cioè come mai abbiamo due forme cosi diverse? Ciò avviene perché può succedere che da una stessa forma si seguano due percorsi diversi:  “Ivrea”, è la forma popolare, cioè questa parola ha subito delle alterazioni fonetiche senza soluzione di continuità, cioè da un parlante all’altro, e questa è quella che si chiama evoluzione popolare, un’evoluzione ininterrotta nel tempo. Nel passaggio “Eporedia > “Ivrea” la “p” è andata a “v” per lenizione e la “d” si è dileguata (Ivrea sta sopra la linea La Spezia-Rimini quindi la lenizione è normale).  invece, “eporediesi” è la forma colta, è il cosiddetto cultismo, cioè una parola che è stata introdotta nella storia della lingua italiana in un certo momento tramite i testi scritti. Come si fa a riconoscere la forma popolare da quella colta?  la forma popolare ha delle chiare spie di evoluzione fonetica regolare (“p” > “v”, “d” > “0”)  invece, la forma colta, proprio perché è stata introdotta in un certo momento della storia della lingua, quasi sempre da fonti scritte, assomiglia molto, o è praticamente identica, alla base di partenza. Quando da una stessa base abbiamo una forma colta, cioè un cosiddetto cultismo, e una forma popolare si parla di allotropia, cioè le due forme si chiamano allotropi. Questo qui è un caso di allotropia in diacronia, ma queste due forme sono diventate talmente diverse l’una dall’altra che il parlante in sincronia le riconosce come un fenomeno di suppletivismo in quanto il parlante, a meno che conosca l’etimologia, non è più in grado di avvertire queste due forme come derivanti dalla stessa base. Per distinguere la parola che ha avuto un’evoluzione popolare e il cultismo:  quando la parola ha subito un’alterazione fonetica evidente, quella è la forma popolare  se la parola è rimasta molto vicina foneticamente alla base, quello è il cultismo - “Chieti” forma popolare vs “Teatino” cultismo (è identico alla base “Teate”) - “Ivrea” forma popolare vs “Eporediesi” cultismo - Dal latino “circulum”, l’italiano ha “circolo” e “cerchio”: la “u” cade così da “circulum >circlum” e il gruppo “cl” dà in italiano la palatale “ch” così come “clave” > chiave” e “circlum” > cerchio”. La forma popolare sarà “cerchio” e il cultismo “circolo”. - “famiglia” e “familiare”: in origine “familiare” è il cultismo e “famiglia” è la forma popolare perché il gruppo “lj” del latino si è sviluppato in italiano come laterale palatale, poi per analogia, cioè per somiglianza a “famiglia”, oggi si tende a scrivere familiare con “gl”. - “fauce” > “foce”: la base è “faucem”, “au” è il dittongo che in italiano si monottonga, cioè diventa un unico suono (come “aurum” > oro”, “auricla > orecchio”), se si mantiene il dittongo quello è il cultismo, quindi “foce” è l’esito popolare, e “fauce” è il cultismo. - “parola” vs “parabola”: il cultismo è “parabola”. - “sedia” vs “seggia”: “sedia” è il cultismo perché in italiano “dj” del latino dà “g” e quindi, nonostante “sedia” sia più usato di “seggia”, “sedia” è il cultismo” e “seggia” è l’esito popolare RIANALISI La rianalisi è un fenomeno molto frequente in diacronia, cioè nello sviluppo di una lingua. Abbiamo visto che all’interno ogni parola si posso individuare dei confini tra morfema e un altro morfema; può succedere che, con il passare del tempo, la parola si opacizza, cioè il parlante non riesce più con facilità ad individuare il confine tra un morfema e un altro morfema e allora “sposta arbitrariamente” i confini, compiendo quella che in morfologia si chiama una rianalisi. Uno degli esempi più famosi di rianalisi è il caso della parola “-burger”: “Hamburger” è letteralmente un “hamburghese”, cioè un abitante della città di “Hamburg”, in Germania, quindi il confine morfematico era “Hamburg”  il nome tedesco di Amburgo + “-er”  suffisso che indica l’abitante. Ad un certo punto, quando questa parola è entrata in ambito anglofono, la sillaba iniziale “Ham-“ è stata confusa con il nome “ham” (“prosciutto”) e quindi è stata risegmentata con ham + burger: una volta creato lo schema x + burger al posto di “ham-“ ci si poteva mettere qualsiasi altro nome che designa quello che è contenuto nel panino (es: “cheese-bruger”, “beef-burger”) La rianalisi può avvenire sempre ma avviene, in generale, quando si perde la trasparenza della parola. Per esempio, in molti dialetti meridionali, compreso il siciliano, in dialetto c’è “lapa” in cui questa “l” è il frutto di una rianalisi, cioè letteralmente sarebbe “la ape”: quando il parlante non riesce più ad intuire l’etimo, fa una cosiddetta agglutinazione dell’articolo, cioè fraintende quello che era in origine l’articolo come se fosse la prima sillaba della parola e quindi sposta i confini morfematici. La rianalisi dell’articolo frainteso come prima sillaba della parola è un fenomeno frequentissimo nei casi di contatto tra lingue e diletto, tra una lingua e un’altra lingua o nel caso delle lingue creole. Per esempio, nel caso dell’Europa islamizzata, in Sicilia e in Spagna è strapieno di toponomi, cioè di nomi di luogo, che iniziano per “Al-“(“Alcantara”, ad esempio): questo “Al-“ è l’articolo dell’arabo che è stato ad un certo punto frainteso dai parlanti non arabofoni ed è stato rianalizzato come prima sillaba del nome. Ci sono fenomeni di rianalisi nelle lingue creole, ovvero in quelle lingue che sono nate soprattutto nel periodo delle grandi colonizzazioni dal contatto tra una lingua europea e una lingua indigena. In realtà, all’inizio si è formata una sorta di lingua franca, cioè una lingua utile per la comunicazione pratica, nei porti soprattutto dell’area equatoriale (i creoli caraibici sono particolarmente numerosi) e le lingue d’Europa principali che hanno originato i creoli sono soprattutto l’inglese, il francese, il portoghese, lo spagnolo e l’olandese. Si immagini un colonizzatore francese che va, ad esempio nelle Antille, si comincia a sviluppare una lingua franca nell’area portuale, questi sono i cosiddetti pigin. Un pigin fa due percorsi:  o muore perché la fase storica del contatto termina, per cui non si evolve e sparisce  oppure fa “carriera”, cioè si evolve e diventa la lingua madre (L1) di quell’area  se un pigin fa carriera diventa creolo Se si prende un dizionario di un qualunque creolo, prendiamone ad esempio uno a base francese, si trova che la lettera quasi certamente più massiccia come numero di entrate lessicali è la “L” perché moltissime parole che nel creolo a base francese iniziano per “L” sono frutto della rianalisi dell’articolo, quasi sempre l’articolo femminile. Dunque, un nome che in un creolo inizia con “L-“ in una percentuale molto alta è dato dalla rianalisi dell’articolo francese come prima sillaba della parola. khi ‘quando’ toi ‘io’ dén ‘venire’ nhà ‘casa’ ban ‘amico’ toi ‘io’ chung ‘PLURALE’ toi ‘io’ bat ‘prendere’ dau ‘testa’ làm ‘fare’ bài ‘lezione’ “Quando io giunsi a casa del mio amico, cominciammo (prendere testa = incominciare) a fare la lezione” “toi” è un pronome personale di prima persona però può essere utilizzato anche come aggettivo possessivo, cioè si carica di più valori subendo un processo tipico in queste lingue che è un processo di conversione, cioè una parola, in questo caso il pronome di prima persona, a seconda del contesto che occupa nella frase può assolvere a più funzioni: - nel primo caso, è pronome personale di prima persona “io” - accanto a “ban” (“amico”), “ban toi” diventa “amico mio”, quindi subisce un processo di conversione  questo è uno dei modi in cui queste lingue fanno la grammatica “toi chung” vuol dire io + plurale”, cioè “noi”: le lingue isolanti sono ricche di questi elementi che si chiamano classificatori e servono a fornire delle informazioni grammaticali, in questo caso il numero plurale, e sono quelle che i grammatici cinesi chiamano “parole vuote”, cioè parole che si privano del loro valore lessicale e acquistano una funzione puramente grammaticale di classificatori (numero, genere, tempo del verbo…). Per i verbi funziona nello stesso modo: per fare i tempi e le persone si usano dei classificatori e dei processi metaforici, cioè per dire il verbo “cominciare” ci sono delle lingue che hanno dei suffissi in particolare per indicare un’azione nel suo svolgimento (qui “prendere testa” è una sorta di metafora per indicare l’inizio di un’azione). Dunque, queste lingue “fanno la grammatica” attraverso processi metaforici e, in generale, sono processi di conversione, di grammaticalizzazione e soprattutto processi in cui vengono impiegate queste parole cosiddette “vuote”. Per distinguere uno studente da una studentessa, quindi un maschile da un femminile, lingue di questo tipo usano delle parole vuote che nel loro significato letterale significano rispettivamente “uomo” e “donna”: - studente + classificatore uomo”  studente maschile - studente + classificatore “donna”  studente femminile Un morfema cumulativo è un morfema che raccoglie più funzioni non a seconda della frase ma sempre; invece “toi” prende funzioni diverse a seconda della posizione che occupa nella frase: in queste lingue non esistono morfemi cumulativi, ma più in assoluto non esistono morfemi grammaticali legati. Se le parole sono mono-morfemiche è chiaro che esistono tantissimi casi di omofonia. Come si fa a distinguere una parola dall’altra in casi di omofonia? Molte di queste lingue ricorrono ad un sistema di prosodia particolarmente complesso che è dato dai cosiddetti toni che hanno un ruolo fonologico distintivo. Ad esempio, nel cinese mandarino esistono quattro toni fondamentali (ascendente, discendente, discendente/ascendete, ascendente/discendente), cioè combinando le prominenze accentuali una parola come “ma”, a seconda del tono, può significare “mamma”, può significare “cavallo” e altre cose ancora. DEFINIZIONE: Le parole tendono ad essere mono-morfematiche, la morfologia grammaticale è praticamente assente, quindi ricorrono a tutti i processi sopracitati. - LINGUE FLESSIVE Alle lingue flessive appartengono gran parte delle lingue indoeuropee, soprattutto di fase antica. Le lingue flessive sono caratterizzate da morfemi portmanteau o cumulativi, cioè morfemi che possono racchiudere al loro interno più funzioni es: nella parola latina “homin-ibus”, la desinenza “-ibus” indica il caso (dativo ma anche ablativo perché è sincretica) e il numero (plurale)  significa “per gli uomini” o “per mezzo degli uomini”. Anche l’italiano è una lingua flessiva, così come gran parte delle lingue romanze, dove ci sono morfemi cumulativi. DEFINIZIONE: Nelle lingue flessive-fusive, le parole sono composte da morfi grammaticali e da morfi lessicali, più indicazioni si concentrano in un unico morfema (morfemi cumulativi). L’indice di fusione è massimo e l’indice di sintesi è medio-basso: lingue che hanno morfemi cumulativi hanno un indice di trasparenza piuttosto basso perché non c’è una corrispondenza esatta tra forma e funzione; una forma, cioè un morfema, può esprimere tre, quattro, cinque funzioni, quindi non c’è una corrispondenza di uno a uno. - LINGUE AGGLUTINANTI Le lingue agglutinanti, come il turco, in cui la trasparenza morfologica è particolarmente chiara, cioè sono lingue che hanno, in termini di morfologia naturale, un indice di naturalezza morfologica particolarmente evidente perché in queste lingue i morfemi grammaticali legati non sono mai cumulativi. Per cui lingue come il giapponese, il turco, il basco e il finlandese, presentano dei morfemi che possono esprime una solo funzione. Se compariamo la parola “hominibus” del latino al corrispettivo turco “adam-lar-a” si vede chiaramente la differenza tra una lingua flessiva come il latino e una lingua agglutinante come il turco perché in “adam-lar-a” abbiamo un suffisso che è quello del plurale “-lar-“ e un altro suffisso che è quello del dativo “-a”: “adama” “all’uomo” vs “adam-lar” “uomini” vs “adam-lar-a” “uomo” + plurale + dativo “agli uomini” Quello che in latino si esprime con un solo morfema “-ibus”, che esprime il caso e il numero, in turco si esprime con due morfemi, uno per il plurale e uno per il dativo: tanti morfi quante sono le funzioni da esprimere. DEFINIZIONE: Una parola, generalmente, consta di più morfemi, ognuno dei quali adempia ad un’unica funzione. L’indice di fusione è minimo mentre l’indice di sintesi, cioè la trasparenza, è medio-alta. 04-10-2021 IL CIRCUITO DELLA PAROLE “Parole” non significa “parola” ma è un tecnicismo della linguistica introdotto in linguistica da quello che è considerato il fondatore della linguistica generale, cioè il ginevrino Ferdinand de Saussure che negli ultimi anni della sua vita (1910-1913 circa) tenne tre corsi all’Università di Ginevra che sono stati in Europa i primi corsi di linguistica generale. I suoi allievi misero insieme i loro appunti e postumo, cioè dopo la morte di Saussure, nel 1916 esce il “Cours de linguistique générale”, che ha avuto un’importante traduzione ed edizione italiana curata da uno dei nostri più grandi linguisti del ‘900, cioè Tullio de Mauro. Il “Cours de linquistique générale” contiene i principi della linguistica strutturale che valgono a prescindere dalle correnti teoriche che si sono succedete dopo la morte di Saussure e a prescindere dall’appartenenza dei linguisti alle varie scuole del ‘900. “Il circuito della parole” spiega come avviene la comunicazione verbale tra due esseri umani nelle lingue storico-naturali che si basano su suoni che hanno una rilevanza linguistica: un parlante A elabora nel cervello un’idea di ciò che vuole dire e, attraverso un complessissimo, e in parte ancora ignoto, meccanismo di tipo neuronale, trasmette questa idea, cioè la trasforma in quella che si chiama immagine acustica (in suoni). Ad esempio, penso alla parola “mela”, trasformo la parola in suoni e questi suoni si propagano nell'aria, attraverso onde acustiche che arrivano all’orecchio dell’ascoltatore, cioè di B; ciò non è ovvio in quanto ci sono tantissimi sistemi semiotici, cioè che si basano su segni, che non avvengono attraverso l'aspetto materiale. Molte correnti di teoria linguistica del ‘900 hanno cercato di ridurre l'importanza della parte materiale nella comunicazione verbale. In realtà, quello che viene indicato dalla prima freccia è nella comunicazione umana assolutamente fondamentale, cioè è la parte materiale dell'atto linguistico; materiale significa la trasmissione del suono (che abbia rilevanza linguistica) nello spazio; se non c'è questa trasmissione, non c'è comunicazione tra gli esseri umani che parlano lingue storico-naturali. Dunque, qualunque orientamento teorico sminuisca questo momento lo fa in maniera assolutamente errata e preconcetta perché se non c’è questo non c’è niente, c’è quella comunicazione che si chiama endofasica; anche nell’endofasia trasformata in linguaggio verbale, cioè io parlo con me stesso ma parlo ad alta voce, il momento concreto è un elemento imprescindibile. Nel caso dell'esempio che stiamo facendo di pronunciare la parola “mela”: • la sequenza di suoni “m-e-l-a”, attraverso le onde acustiche che si propagano nell'aria, è un momento assolutamente fondamentale e prende il nome di significante • l'idea di “mela” che elaboriamo all'interno del nostro cervello, quindi il significato che noi associamo all’oggetto, è appunto quello che si chiama da Saussure in poi, significato → significato e significante formano il segno linguistico. Il primo apparato che mette in moto B è l'apparato uditivo; è un apparato molto complesso perché è stato difficile da studiare dato che, quando l'Occidente ha iniziato a studiare la fonetica, nel mondo prima greco e poi latino, ci si è occupati solo di fonetica articolatoria perché essa è empiricamente osservabile, cioè quando pronunciamo un suono possiamo vedere i movimenti delle labbra, della bocca, di tutta la parte anteriore, cioè dal palato duro in avanti. L’apparato uditivo è interno ed è molto più difficile da osservare e dunque da descrivere; questo è il motivo per cui gli esordi della licenza fonetica in Occidente sono iniziati con la fonetica articolatoria e, solo nell'ultimo cinquantennio, ci sono state delle novità importanti di fonetica uditiva. Dall'orecchio il suono viene decriptato, codificato nel cervello dove il parlante associa il significante, cioè la sequenza di suoni “m-e-l-a” della parola “mela”, al significato di “mela”; quindi, fa una specie di riassociazione tra le due parti, tra significante e significato, ed eventualmente ritrasmette un secondo messaggio al parlante A. Il circuito, come si può vedere dallo schema, unisce un concetto, cioè il significato, quindi la nozione a cui associamo una certa idea, un certo referente della realtà all’immagine acustica (come la chiamava Saussure) e che chiamiamo significante. L’unione di significante e di significato compone il segno linguistico che è formato: • da una parte astratta, cioè un'operazione mentale che avviene nel cervello degli individui • e un'operazione invece concreta, che è la trasmissione del messaggio linguistico nello spazio attraverso le onde sonore → unendo la parte concreta a quella, per così dire, astratta, gli individui riescono a comunicare attraverso questo sistema. In seguito vedremo che il linguaggio umano è complesso per altri motivi, ma si può già notare come vi sia un’unità di complessità rispetto ad altri sistemi di comunicazione perché qui si unisce una parte mentale ad una parte fisica, tanto che la trasmissione del suono attraverso le onde sonore è oggetto di un'altra branca della fonetica, che è la fonetica acustica. • la fonetica acustica si occupa della trasmissione di foni attraverso le onde sonore • la fonetica articolatoria si occupa della produzione di foni • la fonetica uditiva si occupa della ricezione dei suoni, quindi come vengono “decriptati” e riassociati al loro significato nella corteccia cerebrale A livello linguistico, il cervello era un grande punto interrogativo, e in parte lo è ancora adesso, ma con le nuove tecniche di neuro immagini si riesce anche a vedere, per esempio, come l'area cerebrale non si attivi in maniera così random e indiscriminata nella produzione del messaggio linguistico ma che esistono precise aree della corteccia cerebrale che sono deputate a precise funzioni. Per esempio, oggi sappiamo con un certo margine di sicurezza che la sintassi, quindi il modo in cui si costruiscono le frasi nelle lingue del mondo, dipende da una specifica area della corteccia cerebrale come mostrano le neuro immagini che illuminano esattamente una certa area e non l'intera corteccia. Nel caso di queste articolazioni pneumoniche, che sono maggioritarie nelle lingue del mondo: -- → l’aria parte dai polmoni → dai polmoni, passa attraverso la trachea arrivando nella laringe → nella laringe le pliche vocali possono formare delle eventuali chiusure totali o parziali → in seguito, in ogni caso (anche quando sono chiuse), l’aria continua il suo percorso e va nelle cavità sopra laringee, cioè che stanno sopra la laringe, cominciando dalla faringe e poi proseguendo la sua uscita o dal naso o dalla bocca: - tutti i suoni che passano attraverso il naso, si chiamano nasali - tutti i suoni che passano per la bocca, si chiamano orali → la differenza dipende dalla posizione del velo del palato (la parte finale del palato) o palato molle Quando il velo del palato è nella posizione di default, cioè la posizione inerte, costituisce una sorta di “porta” chiusa che impedisce l'accesso dell'aria alla bocca e quindi l'aria, non potendo uscire da qua, passa attraverso le fosse nasali. Ad esempio, quando si pronuncia la “m” di “mamma”, il velo del palato si trova abbassato, quindi l’aria non passa per la bocca perché trova un ostacolo ma passa per le fosse nasali; se invece il velo del palato si alza, va a chiudere l'accesso alle fosse nasali e quindi l'aria esce attraverso la cavità orale. Quindi, l’unico responsabile della distinzione tra suoni nasali e suoni orali è il velo del palato; non esistono altre possibilità che differenziano un suono nasale da un suono orale in quanto il velo del palato agisce come una “porta”: • se è chiusa verso la bocca, cioè inerte, l’aria passa per il naso • se si solleva, chiude la cavità nasale e l’aria esce attraverso la bocca A prescindere da dove esca l'aria, sia che esca dal naso che dalla bocca, gli organi che si trovano all'interno della cavità orale vanno a formare i luoghi diaframmatici, cioè degli spazi/delle cavità dove si generano aree di pressione all’interno della bocca che si formano unendo degli organi della bocca, chiamati mobili, ad altri organi, chiamati fissi. ESEMPI: - se si pronuncia la “p”, si coinvolgono il labbro superiore e il labbro inferiore (suono bilabiale) - se si pronuncia la “t”, si coinvolgono i denti e l’apice (punta) della lingua (suono dentale) In alcune lingue, come ad esempio l’italiano, la lingua in realtà non va a toccare i denti ma va a toccare delle capsule nella quale si inseriscono gli incisivi superiori, chiamate alveoli: dunque, in italiano la “t” è più propriamente un suono alveolare. Ci sono altre lingue, come l’inglese, in cui l’apice della lingua va a toccare proprio i denti e si parla di suoni dentali (è una differenza davvero minima, impercettibile). - se si pronuncia la “c” di “chiesa” o di “chiodo”, si coinvolgono l’apice della lingua e la prima parte del palato, chiamata palato duro o anteriore PARTI DEL PALATO: • la parte anteriore (vicino alle labbra) si chiama palato duro o, appunto, palato anteriore • la parte della zona centrale si chiama palato centrale o palato mediano • la parte posteriore si chiama velo o palato molle o, appunto, palato posteriore - tutti i suoni che vengono pronunciati con il velo del palato si chiamano posteriori - tutti i suoni che vengono pronunciati sul palato duro si chiamano anteriori - se si pronuncia la” k” di “casa” la parte posteriore della lingua, cioè il dorso, va a toccare il velo del palato → consonanti velari Qual è la differenza tra la “ɟ”e la “g”? - la “ɟ” di “ghianda” è l’apice della lingua nel palato duro/anteriore → palatale - mentre la “g” di “gatto” è con il dorso della lingua (la parte posteriore) che va a toccare il velo → velare Sia quando si pronuncia un fono orale, sia quando si pronuncia un fono nasale, parti mobili e parti fisse della cavità orale formano dei luoghi diaframmatici, detti anche luoghi di articolazione, cioè vanno a formare delle zone di pressione nella bocca combinando la possibilità di alcuni di questi organi di muoversi. Le labbra e la lingua sono mobili e vanno a formare i luoghi diaframmatici con l’ausilio di parti rigide (non mobili), come il palato o i denti. In gran parte dei suoni delle lingue d'Europa, le articolazioni si fermano nell'aria velare con alcune eccezioni in cui viene coinvolto l'apice finale del velo del palato che è l'ugola; qua si formano le consonanti uvulari. Ad esempio una delle possibili realizzazioni della “r” in francese, o anche in alcune varietà regionali del tedesco, è una uvulare, cioè quella che noi chiamiamo “r moscia”, che è un termine molto generico; la “r” francese ha varie realizzazioni a seconda della posizione che occupa all'interno della parola ma una delle possibili realizzazioni, quella più famosa, coinvolge la parte “finalissima” del velo del palato, cioè l'ugola. In lingue di altri gruppi linguistici, come per esempio l'arabo, che appartiene alla famiglia linguistica delle lingue semitiche (a cui appartengono anche l’ebraico e l’aramaico di fase antica), è possibile, in alcuni casi con il dorso, in altri con la radice della lingua, portarsi ancora più indietro e andare a intaccare, cioè ad avvicinarsi, alla faringe da cui abbiamo la possibilità di articolare dei suoni che si chiamano appunto faringali. Per esempio, una delle difficoltà che tutti gli europei hanno quando imparano l'arabo è la pronuncia di una delle famose “h”; l’arabo ha tante “h” grafiche perché, rispetto alle nostre articolazioni europee, ha anche le faringali mentre gran parte delle lingue d’Europa, soprattutto quelle occidentali, arrestano la lingua fino all’altezza del velo o dell’ugola perché, più si va indietro, più è difficile la mobilità della lingua. Infatti, là dove ci sono articolazioni faringali, la lingua non riesce mai a toccare la faringe ma si avvicina solo ad essa; questa è la ragione per cui nelle lingue del mondo, il numero di suoni che arriva nella parte arretrata all’ugola è molto superiore alle lingue che hanno articolazioni faringali. La sezione della faringe, rispetto a tutta l'area che è contenuta all'interno della bocca, è molto più indietro, è praticamente sopra la laringe; infatti, una volta uscita dalla laringe, la prima cosa che incontra l'aria è la faringe. LUOGHI DI ARTICOLAZIONE Si è soliti elencare i luoghi di articolazioni partendo dalle labbra: • le consonanti che sono articolate con le due labbra, inferiore e superiore, prendono il nome di bilabiali • le consonanti in cui la lingua si avvicina o tocca i denti, prendono il nome di dentali • le consonanti in cui la lingua si avvicina o tocca gli alveoli, prendono il nome di alveolari • le consonanti in cui la lingua si avvicina o tocca il palato duro, prendono il nome di post-alveolari o pre-palatali o palatali * • le consonanti il cui il dorso della lingua tocca il velo del palato, prendono il nome di velari • le consonanti in cui il dorso della lingua tocca l’ugola (o uvula), prendono il nome di uvulari • le consonanti in cui il dorso, o la radice della lingua si avvicina alla faringe, si chiamano faringali *L’area subito dopo gli alveoli è il palato duro: ci sono alcuni manuali o alcune scuole di fonetica articolatoria che chiamano la zona subito dopo gli alveoli “post-alveolare” perché in realtà non è ancora il vero e proprio palato ma è una zona subito dietro gli alveoli In alcune tradizioni di studio la si trova come “pre-palatale” o direttamente come “palatale” perché la lingua va a toccare o si avvicina al palato duro, la primissima zona del palato. SEZIONI DELLA LINGUA La lingua si divide in 3 sezioni: • PUNTA: nella punta si distingue la vera e propria parte terminale, il cosiddetto apice, dalla lamina che è la prima sezione della lingua, quella più vicina alla punta • lamina e apice formano la CORONA; ciò è importante a livello linguistico perché in alcune scuole di fonetica e fonologia, proprio dal nome “corona” è stato fatto un raggruppamento di consonanti che vengono dette coronali. • DORSO (parte posteriore) • RADICE (base) In molti dialetti italiani meridionali esistono delle medio palatali. In molte lingue del mondo il palato dà luogo a due diverse articolazioni e non a tre: sono molto più frequenti palatali e velari che palatali, medio palatali e velari. Possono esistere delle vie di mezzo: ad esempio tra le labiali e le dentali esiste una via di mezzo in cui non si usano tutte e due le labbra ma i denti con il labbro inferiore, in questo caso si parla di labio-dentali. Ad esempio, nella pronuncia di “f” di “fiore” o di “v” di “vaso” si uniscono i denti con il labbro inferiore e si hanno delle labio-dentali. Qual è la differenza tra la “t” e la “θ”? - se si pronuncia la “t” di “tavolo” (occlusiva alveolare), l’apice lingua tocca gli alveoli. - se si pronuncia la “θ” dello spagnolo o dell’inglese “think” (fricativa dentale) si deve mettere la lingua tra i denti perché in questo modo si impedisce l’occlusione e quindi l’aria passa attraverso una strettoia La “t” e la “θ” sono molto vicine come luogo diaframmatico (o denti o alveoli) ma sono diverse come modo di articolazione in quanto: - la “t” di tavolo è un’occlusiva perché c’è la chiusura totale e lo scoppio improvviso - la “θ” dell’inglese “think” è una fricativa perché l’aria continua a passare attraverso la strettoia creata dal movimento della lingua tra i denti Qual è la differenza fra la nostra “k” e la “x” dello spagnolo? - se si pronuncia la “k” di “casa” (occlusiva velare), il dorso della lingua tocca il velo del palato - se si pronuncia la “x” (fricativa velare) spagnola, cioè la “xota”, si sente da questa particolare frizione che il dorso della lingua non va a toccare il velo, ma si avvicina solamente ad esso: Il modo di articolazione è la modalità con cui avviene la chiusura del passaggio dell’aria all’interno della cavità orale; all’interno di questi modi, distinguiamo due grandi famiglie che sono:  le ostruenti, con una chiusura totale  le continue, con un passaggio continuo/ ininterrotto dell’aria Come si legge la tabella? Ogni cella contiene due grafemi:  quello che si trova a sinistra è quello sordo  le pliche vocali sono aperte  quello a destra è sonoro  le pliche vocali vibrano Come abbiamo visto, nella prima colonna di sinistra sono indicati i modi di articolazione mentre nel primo rigo in alto sono indicati i luoghi diaframmatici: “p” occlusiva bilabiale sorda  si dice prima il modo, poi il luogo e infine il grado (sorda/sonora) Le nasali basta specificarle per modo e per luogo in quanto sono tutte sonore perché, nel momento in cui l’aria passa attraverso le fosse nasali, si origina un meccanismo fisico detto di risonanza che provoca sonorità; tutti i foni che implicano il velo del palato abbassato e il passaggio dell’aria attraverso le fosse nasali, sono tutti sonori. Le aree in grigio indicano assenza di articolazioni:  o perché non sono state ancora trovate nelle lingue del mondo  o semplicemente perché l’apparato fonatorio non è in grado di produrre questi suoni All’interno dei suoni possibili infiniti, il nostro linguaggio umano non è in grado di produrre qualsiasi suono perché è condizionato dalla struttura anatomica. Possiamo combinare gli organi mobili con gli organi fissi per formare i vari suoni che compongono le lingue del mondo ma può essere che certe articolazioni siano impedite dal nostro apparato fonatorio che è un sistema, come tutti i sistemi, che ha delle limitazioni di tipo fisiologico. OCCLUSIVE Le occlusive sono caratterizzate dalla totale chiusura (occlusione) e da una brusca riapertura che si segna nello spettrogramma con il cosiddetto “bust”, lo scoppio.  Le prime che incontriamo sono le bilabiali ( p / b ) che si articolano con il labbro superiore e il labbro inferiore che sono congiunti in maniera totale e non lasciano passare aria.  Subito dopo, incontriamo le alveolari ( t / d ) : in alcune lingue del mondo non sono alveolari ma dentali, cioè l’apice della lingua tocca i denti, mentre in altre lingue tocca gli alveoli, cioè le capsule nella quali si inseriscono gli incisivi superiori.  Le retroflesse o cacuminali o cerebrali ( ʈ / ɖ ) non si trovano nell’italiano standard, si trovano in diverse varietà dell’inglese britannico, nelle lingue indoeuropee dell’India e in alcuni dialetti italiani compresi quelli di Sicilia e Calabria meridionale. Con “retroflessa” si indica il fatto che la lingua si rovescia a cucchiaio verso la parte centrale del palato e va a chiudere; questi sono i suoni che si ritrovano dialettalmente in sequenze del tipo “tr” o “str”; la “t” e la “r” di “treno” sono entrambe retroflesse che non si trovano nell’italiano standard. Vengono chiamate anche “cerebrali” o “cacuminali” perché l’idea con cui la descrivevano i trattati pre- scientifici della fonetica è la lingua che si rovescia a cucchiaio direzionandosi verso il cervello.  Nelle palatali ( c / ɟ ) la lingua tocca il palato duro (o anteriore) - la “c” occlusiva palatale sorda è il suono “chi” di “chiodo”, “chiesa”, “chiave”, “chiamare” - la “ɟ” occlusiva palatale sonora è il suono “ghi” di “ghiotto”, “ghianda”, “ghisa” Come si scrive in questo alfabeto? La prima cosa da fare è utilizzare le parentesi; esistono 2 tipi di parentesi: - Le parantesi quadre indicano la trascrizione stretta (in inglese “narrow”); con questa trascrizione, lo scopo è quello di dare conto dei foni e delle loro varianti perché, quando si pronuncia una parola o una frase, il fono non è isolato ma è “circondato” da altri foni che lo influenzano. La nasale in italiano prende dei luoghi diaframmatici diversi a seconda della consonante da cui è seguita. Ad esempio, nella parola “ancora” la “k” è una velare perché la lingua va al velo del palato e quindi la nasale, poiché è seguita da una velare, viene influenzata e prende il luogo di articolazione della velare diventando nasale velare. In una trascrizione stretta bisogna dare conto di questi fenomeni, chiamati fenomeni di coarticolazione, cioè di reciproca influenza tra i foni. - Se invece si rappresenta una parola con la barra obliqua /, si utilizza un tipo di trascrizione sempre IPA, ma diversa, chiamata trascrizione larga (in inglese “broad”) nella quale non si rappresentano i foni condizionati gli uni dagli altri, ma come entità astratte. Dunque, nella parola “ancora”, si rappresenta una “N” generica che si segna con una “n” maiuscola: in questo modo non si comunica al lettore se quella “n” è velare o labiodentale o da cosa è influenzata bensì si dà il suono generico, il fonema, l’unità astratta e non l’unità concreta.  nella trascrizione larga si è interessati ad una rappresentazione di tipo fonologico  nella trascrizione stretta si è interessati ad una rappresentazione di tipo fonetico Papà [ p a . ‘ p a ]  “p”  occlusiva bilabiale sorda  è una parola bisillabica, cioè composta da due sillabe  struttura sillabica: CV CV  entrambe le sillabe sono aperte (perché terminano in vocale) ma la prima sillaba è atona, cioè non ci cade l’accento, mentre sulla seconda cade l’accento e quindi la sillaba è tonica  non si mettono i : dopo il secondo “pa” perché è sillaba aperta, tonica ma finale di parola La prima cosa da fare è individuare il confine tra una sillaba e un’altra sillaba; il confine di sillaba si segna con un punto. Una sillaba è un insieme di uno o più suoni che hanno al loro interno un nucleo o apice, cioè un fono sul quale cade, o può virtualmente cadere, l’accento. Il nucleo sillabico, in italiano, può essere rappresentato solo dalle tre vocali “a”, “e”, “o” e dalle due semivocali “i” e “u” quando hanno valore vocalico, cioè quando possono rappresentare il nucleo di quella sillaba  tutto ciò che è nucleo, in una sillaba, si rappresenta simbolicamente con la lettera V (vocale); quando si parla di vocale, non si deve pensare alle vocali dell’italiano, bensì si deve pensare in termini sillabici, cioè al nucleo.  tutto ciò che non è nucleo, si rappresenta con la lettera C (consonante) Nelle lingue del mondo, la sillaba CV è la sillaba più frequente ed è detta sillaba non marcata; in linguistica, quando si parla di elemento non marcato, è sinonimo di frequenza. Ciò è interessante perché nella storia fonologica di molti sistemi delle lingue del mondo ci sono stati dei mutamenti che hanno cospirato per far sì che queste lingue avessero solo sillabe CV. Ad esempio, questa è la famosa legge delle sillabe aperte delle lingue slave, a cui appartiene il russo: nella fase preistorica e protostorica delle lingue slave, ci sono stati una serie di cambiamenti molto complessi che hanno portato alla costituzione di sole sillabe aperte, cioè solo sillabe del tipo CV; non esiste nelle lingue slave una sola sillaba del tipo CVC, con la consonante finale. Ciò vuol dire che c’è una tendenza nelle lingue del mondo a cercare la sillaba ottimale, che è la sillaba CV.  una sillaba che termina con il nucleo, si chiama sillaba aperta  invece, se termina per consonante, si chiama sillaba chiusa e la consonante si dice che è la coda della sillaba Papa [ ‘ p a : p a ]  i : indicano la lunghezza vocalica perché è sillaba tonica, aperta, non finale di parola L’accento in IPA è una barretta verticale che non si mette sulla vocale colpita dall’accento ma prima della sillaba tonica. In IPA, la lunghezza si rappresenta con due punti (:); in fonetica, dire che un fono è lungo o dire che ha una durata è la stessa cosa: lunghezza e durata sono sinonimi - “lacte” > “latte”  assimilazione regressiva totale a contatto - “nocte” > “notte”  assimilazione regressiva totale a contatto Il simbolo “>” indica derivazione diacronica, cioè vuol dire che una parola è diventata, nel corso del tempo, un’altra parola, un suono è diventato un altro suono (mutamento diacronico) 06-10-2021 Canile [ k a ‘ n i : l e ]  la prima sillaba “ka” ha struttura CV  la seconda sillaba “ni” ha struttura CV: è una sillaba aperta, tonica e non finale di parola, quindi la vocale “i” è lunga  la terza sillaba “le” ha struttura CV Chiodo [ ‘ c ɔ : d o ] o [ ‘ k j ɔ : d o ]  ++++++++++++++++++++++ +  “c”  occlusiva palatale, è la “ch” di “chiodo”, “chiave”: abbiamo una palatale perché è seguita da una “j” che è una palatale, davanti a palatale questo suono diventa palatale perché i suoni si influenzano l’uno con l’altro e subiscono delle assimilazioni; generalmente, se scriviamo la lettera “c” sottintendiamo il suono “chi” e non si scrive la “j” che segue  invece che scrivere la lettera “c” si può scrivere la “k” (occlusiva velare sorda) e, per indicare al lettore che è una velare che però seguita dalla “j” si è palatalizzata, sotto la “k” si mette il “+” che fa parte dei simboli diacritici dell’IPA e indica l’avanzamento articolatorio, cioè indica il fatto che una consonante o una vocale è passata dal velo del palato al palato duro. Ghiotto [ ‘ ɟ o t. t o ] o [ ‘g j o t : o ] ++++++++++++++++++++  “ɟ”  occlusiva palatale sonora  si può scrivere anche con la lettera “g” (occlusiva velare sonora) con il “+” sotto che indica l’avanzamento articolatorio, cioè indica che la velare, seguita dalla “j”, che è un suono palatale, si è palatalizzata, passando dal velo del palato al palato duro.  La prima sillaba è tonica ma chiusa: quando c’è una consonante lunga, cioè doppia, la prima parte forma sempre la coda della prima sillaba mentre la seconda parte forma l’attacco, cioè l’inizio, della seconda sillaba; quindi il confine di sillaba, nel caso di “ghiotto”, cade tra le due “t”. Inverno [ i ɱ ‘ v ɛ r n o ]  “ɱ”  nasale labiodentale perché è seguita dalla “v” che è una labio-dentale (sonora) per un fenomeno di assimilazione regressiva a contatto parziale; la “v” influenza il luogo di articolazione della nasale che, a sua volta, diventa labio-dentale.  Non si mettono i : dopo la “ɛ” perché la sillaba “v ɛ r” ha struttura CVC, cioè è una sillaba chiusa, si dice tecnicamente che è provvista di coda Infernale [ i ɱ f e r ‘ n a : l e ]  “ɱ”  nasale labiodentale perché è seguita dalla “f” che è una labio-dentale (sorda)  si mettono i : dopo la “a” perché la sillaba è tonica, aperta e non finale di parola, cioè è lunga NASALI Il meccanismo che consente la produzione delle nasali è l’abbassamento de velo del palato; quando esso si trova in questa posizione, l’aria è impedita ad entrare attraverso le cavità orali e passa dalle cavità nasali. Nella bocca, anche se l’aria fuoriesce dal naso, avvengono una serie di chiusure, cioè si formano i luoghi diaframmatici che nelle nasali danno luogo a delle chiusure complete; quindi, nella bocca succede la stessa identica cosa che succede nelle occlusive, cioè la chiusura è totale, però l’aria passa per il naso.  La nasale alveolare è la “n” standard dell’italiano di “naso”, “notte”, “noce”, “annaspare”… In alcuni parlanti e in alcune lingue, come abbiamo visto, le alveolari sono in realtà dentali; in altri parlanti e in altre lingue sono, invece, alveolari, cioè la lingua va a toccare gli alveoli, le capsule nelle quali sono inseriti gli incisivi superiori.  La nasale retroflessa è molto rara.  La “ɲ” nasale palatale si scrive con il primo gambo allungato che esce a sinistra ed è il tipico suono di parole come “ragno”, “stagno”, “fogna”, “bagnare” Questo è il primo fono che incontriamo nell’italiano standard che, quando è in posizione intervocalica, va scritto doppio, cioè ha una lunghezza naturale, detta intrinseca, ovvero specifica di questo suono. La “ɲ” è sempre doppia nell’italiano standard e nell’italiano centro-meridionale: questa è una delle tante differenze tra l’italiano parlato nel centro-meridione e l’italiano parlato su una base dialettale settentrionale; in tutte le regioni dell’Italia settentrionale, le consonanti che hanno una lunghezza naturale si scempiano, cioè sono pronunciate come consonanti singole e non doppie. Ciò vale per tutti i dialetti e per tutto l’italiano regionale parlato a nord di una linea ideale, che congiunge idealmente La Spezia a Rimini; questa è la famosa linea di demarcazione che separa i dialetti settentrionali dai dialetti centrali. Questa linea, o più in generale tutte le linee ideali che separano un fenomeno linguistico da un altro fenomeno linguistico, e che quindi separano delle aree linguistiche (o dialettali), prendono il nome di isoglosse. La prima isoglossa che incontriamo è l’Isoglossa La Spezia-Rimini che fa riferimento ad una linea ideale che separa i dialetti settentrionali e l’italiano regionale parlato in queste regioni di Italia dal resto dei dialetti italiani e dal resto degli italiani regionali. Bagno (italiano standard) [ ‘ b a ɲ . ɲ o ] o [ ‘ b a ɲ : o ]  poiché la ”ɲ” è doppia, il confine di sillaba cade tra le due “ɲ”; quindi la prima sillaba [ b a ɲ ] ha una struttura chiusa e la vocale “a” non è lunga Bagno (milanese) [ ‘ b a : ɲ o ]  in questo caso, la “ɲ” non è doppia e la sillaba [ b a ] diventa sillaba aperta (CV), dunque scatta la lunghezza vocalica perché è tonica, aperta e non finale di parola. POLIVIBRANTI (TRILL)  Il classico esempio di polivibrante dell’italiano è la “r” standard, cioè quella alveolare, con la lingua che va sugli alveoli es: “Roma”, “rosa”, “rosso” Il primo movimento che avviene nella produzione di una polivibrante è quello di un’occlusione; nel caso della “r” alveolare, la lingua va a toccare gli alveoli ma non è una normale occlusiva perché in questo caso l’occlusione è molto debole e l’aria espiratoria che proviene dai polmoni la interrompe immediatamente, subito dopo però si ricostituisce e di nuovo viene interrotta in un ciclo di chiusure e di riaperture continue. MONOVIBRANTE (TAP or FLAP) La monovibrante non c’è in italiano ma c’è, ad esempio, in posizione intervocalica in spagnolo es: “pero”. Nella monovibrante l’occlusione avviene una sola volta e l’aria espiratoria la interrompe. DIFFERENZA TRA POLIVIBRANTE E MONOVIBRANTE: - Nella polivibrante l’occlusione e la sua riapertura avvengono più volte: ciclo di aperture e di chiusure nella polivibrante c’è un ciclo di aperture e di chiusure che determina una vibrazione / uno spostamento e che dipende dal flusso dell’aria che interrompe l’occlusione che immediatamente dopo si ripristina e immediatamente dopo viene di nuovo spezzata e così via… - Nella monovibrante la lingua va a toccare gli alveoli (nel caso della “r” intervocalica dello spagnolo) e immediatamente dopo l’aria espiratoria interrompe questa occlusione, quindi c’è una riapertura nella monovibrante c’è una sola occlusione e una immediata riapertura dovuta alla corrente espiratoria che spezza quest’occlusione e che riapre gli organi articolatori  La “R” polivibrante uvulare (scritta in maiuscolo) è una delle possibili realizzazioni della “r” uvulare, cioè quel suono che si trova in alcuni parlanti che hanno la cosiddetta “r moscia”. Nelle lingue del mondo che hanno la polivibrante uvulare, in generale, si trova molto più spesso come fricativa (la “r” rovesciata). Ogni fono è costituito da 3 fasi: - IMPOSTAZIONE  gli organi articolanti si dispongono per la pronuncia - TENUTA  fase molto breve in cui gli organi articolanti si bloccano, cioè mantengono la posizione per pronunciare quel suono Ad esempio, nel caso dell’occlusiva “p”, la tenuta è il momento in cui le labbra si serrano l’una contro l’altra e non lasciano passare il suono - SOLUZIONE  è la fase in cui si produce il suono vero e proprio, cioè in cui gli organi articolanti si separano e l’apparato fonatorio si dispone a pronunciare il fono seguente La differenza più importante tra occlusive e fricative riguarda proprio l’ultima fase: - nella soluzione, le occlusive presentano un bust (lo scoppio); occlusive  ostruenti (c’è una completa chiusura) es: se si pronuncia la “p” si vede come per un momento non passi l’aria - nella soluzione, nelle fricative l’aria esce attraverso una strettoia (da cui il caratteristico rumore di frizione) fricative  continue (l’aria non viene mai interrotta) es: se si pronuncia la “f” si vede come l’aria passi attraverso gli interstizi dei denti superiori. FRICATIVE L’IPA si avvale di caratteri dell’alfabeto latino, tranne alcune lettere che sono riprese dall’alfabeto greco.  Per capire cos’è la fricativa bilabiale sorda (“ɸ”) si pensi a cosa succede se nel pronunciare la “p”, la si pronuncia, invece che chiudendo completamente le labbra, facendo passare un minimo di aria tra labbro inferiore e labbro superiore  si passa da occlusiva a fricativa Ciò è un classico esempio di mutamento linguistico in quanto, dato che fricative e occlusive sono molto molto vicine come luogo di articolazione, può succedere, e succede spesso, che un suono che era occlusivo, con il tempo diventa fricativo perché, ad esempio, si pronuncia un suono con minore energia articolatoria. Se si pronuncia la “p”, si deve mettere una certa forza nel chiudere le labbra e, se questa forza si indebolisce, non è più una forte ma diventa una lene; questo passaggio da forte a lene, da occlusiva a fricativa, prende il nome di lenizione. Per esempio, nei dialetti toscani, in alcune aree in maniera più pronunciata di altre, la “p”, se pronunciata tra due vocali anche di parole diverse, diventa fricativa bilabiale.  La “β” fricativa bilabiale sonora (lettera greca “beta”) è quel suono che si pronuncia come l’occlusiva “b” ma con le labbra non serrate. Ad esempio, nel castigliano la “b normale” è la “b” di “Barcelona” ma se si pronuncia “a Barcelona”, la “b” diventa fricativa (“β”); si fa l’esempio del castigliano e non dell’italiano perché nell’italiano è un’occlusiva mentre nel castigliano è una fricativa. Si differenza dalla “b” solo per l’energia articolatoria, il luogo di articolazione è lo stesso perché sono entrambe bilabiali. In un blocco di lingue romanze occidentali, che comprende tutte le lingue romanze (derivate dal latino) della Penisola Iberica e della Francia ma anche i dialetti dell’Italia settentrionale sopra l’isoglossa La Spezia-Rimini, le occlusive sono diventate fricative, almeno in posizione intervocalica.  Nelle fricative labiodentali ( f / v ) cambia il luogo di articolazione: non sono più le due labbra coinvolte ma il labbro inferiore con gli incisivi superiori es: “f “di “fiore” “v” di “vaso” Quando sono coinvolti gli incisivi superiori e il labbro inferiore, non si ha mai un’occlusiva perché, anche in chi ha una dentatura perfetta, negli interstizi degli incisivi superiori passa sempre un minimo di aria. Quando sono coinvolti il labbro inferiore e gli incisivi non c’è una chiusura totale e un blocco completo dell’aria (non c’è mai il bust) bensì c’è il passaggio dell’aria ininterrotto e quindi abbiamo una labiodentale. Nelle occlusive, come abbiamo visto, anche all’interno di una stessa comunità di parlanti, alcuni pronunciano le dentali, altri le alveolari. Invece, nelle fricative la distinzione tra alveolari e dentali è fondamentale in quanto: - se si pronuncia una dentale, si ha il suono rappresentato dalla lettera greca theta (“θ”), con la lingua tra i denti che impedisce l’occlusione, quindi l’aria continua a passare e si ha una fricativa es: “think” - se ci spostiamo anche di pochissimo dietro, cioè dai denti ci avviciniamo agli alveoli, abbiamo un’alveolare, la “s” es: “sasso” La differenza tra la “θ” di “think” e la “s” di “sasso” è talmente minima che in molte lingue ci sono delle variazioni tra dialetto e dialetto, tra area e area. La più evidente di queste distinzioni riguarda la differenza tra lo spagnolo castigliano e lo spagnolo dell’America Latina, dove non si realizza mai la fricativa dentale bensì quest’ultima diventa sistematicamente fricativa alveolare; questo è il notissimo fenomeno conosciuto come “seseo”, una delle grandi differenze che distinguono lo spagnolo dell’America Latina dallo spagnolo del continente. Dato che questi due suoni sono estremamente vicini perché tra denti e alveoli la differenza, a livello di distanza, è davvero minima, ci sono dei parlanti che hanno quella pronuncia popolarmente detta “s con la lisca” (“sole” > “ θole”)  La “ð” fricativa dentale sonora si ritrova, ad esempio, nell’inglese “that” o “this”. In generale, nelle lingue d’Europa le fricative dentali si trovano nello spagnolo, in inglese e in neogreco (greco moderno), non ci sono in italiano ma sono molto frequenti nei dialetti italiani soprattutto settentrionali.  La “z” fricativa alveolare sonora non è la “z” grafica dell’italiano ma è la realizzazione sonora di “s”: se invece di pronunciare “rosa” (fricativa alveolare sorda), compio una vibrazione delle pliche vocali, pronuncio “roza”. Questa differenza tra “rosa” e “roza” è una differenza di ordine diatopico, cioè legata al luogo. Nell’italiano settentrionale, non si dirà mai “I Promessi Sposi” ma “I promessi Spozi” con la vocale chiusa e con la “z”, cioè con la variante sonora. Invece, nell’italiano centro meridionale la “s” in posizione intervocalica è sempre sorda (“I promessi sposi”) “rosa”  pronuncia centro-meridionale vs “roza”  pronuncia a nord della linea La Spezia-Rimini In italiano, possiamo avere la “s” e la “z” intervocaliche come varianti diatopiche, cioè legate al luogo di origine; invece, davanti a consonante c’è un fenomeno di assimilazione:  stupido: [s t …]  la “t” è sorda, quindi la “s” è sorda per assimilazione regressiva parziale a contatto  sbadato: [z b …]  la “b” è sonora, quindi la “ s” è sonora (“z”) per assimilazione regressiva parziale a contatto del grado di sonorità Può succedere che si abbia un fono con lo stesso luogo di articolazione (o diaframmatico), ma il modo di articolazione cambia: - se si pronuncia la “p” con energia articolatoria (quindi con le labbra chiuse) abbiamo un’occlusiva bilabiale - se si pronuncia la “p” con minore energia articolatoria abbiamo una fricativa bilabiale  non varia il luogo di articolazione bensì varia il modo Noi che non abbiamo la fricativa bilabiale sonora, la avvertiamo come una “v”. Qual’ è la differenza tra “β” e “v”?  nella “β”si usano le labbra  nella “v” si usano i denti e le labbra; Questo è uno dei grandi fenomeni che distingue la Romania occidentale, cioè l’area dove si parlano lingue romanze. In tutto il Galloromanzo (odierna Francia) e in tutto l’Ibero-romanzo (le lingue romanze della penisola iberica eccetto il basco che non è né romanzo né indo-europeo), le occlusive, specialmente quelle sonore, se posizionate tra due vocali si leniscono, cioè perdono la loro forza articolatoria e passano da forti a leni, cioè da occlusive a fricative. Questi suoni fricativi si trovano, ad esempio, ma non solo, in spagnolo, in inglese (quelle dentali) e in neogreco (greco moderno). Il “problema” di queste lingue è che devono rappresentare nella scrittura le fricative distinte dalle occlusive; se una lingua ha sia la “β” che la “b” come fa a distinguerle? - lo spagnolo, ad esempio, scrive “b” per entrambe: non ha soluzioni grafiche per distinguerle - in neogreco, per distinguere la fricativa dall’occlusiva, hanno adottato dei digrammi, cioè due grafemi che rappresentano un suono solo Ad esempio, la parola “birra” in greco moderno si scrive, in caratteri latini, “mpira” perché con il digramma “mp” si rappresenta la “b” occlusiva per distinguerla dalla lettera “β” che indica invece la fricativa  è uno stratagemma che usano molte lingue quando hanno occlusive e fricative identiche per luogo di articolazione. Dove l’italiano ha la “p” occlusiva, il toscano dialettale ha la “θ” : la “p” tra due vocali diventa fricativa. Ciò vale anche per altri suoni:  come la “t”  e come la “k” che diventa “x” fricativa velare o addirittura, in alcune varietà, dà luogo a 0, cioè sparisce completamente Ad esempio, in pisano “dio” significa sia “Dio” che “dico” perché la “k” si è lenita: è andata prima a fricativa e poi è arrivata 0. Come mai c’è questa particolare pronuncia nei dialetti toscani? Si è pensato per molto tempo che questa particolare pronuncia delle occlusive “alla toscana”, cioè pronunciate come fricative (“p”,”t”, “k”), fosse dovuta all’antica presenza degli etruschi (popolazione dell’Italia antica) nel territorio dell’attuale Toscana. L’etrusco, a differenza delle altre lingue parlate in Italia, a fianco e anche prima del latino, non è sicuramente indoeuropea, non appartiene alla grande famiglia a cui appartengono gran parte delle lingue dell’Europa moderna. Abbiamo qualche indizio per pensare che l’etrusco avesse dei suoni simili alle attuali fricative sorde del toscano perché se doveva, ad esempio, rappresentare una “k”, l’etrusco ricorreva a lettere dell’alfabeto greco e, in questo caso, ricorre alla lettera greca “𝑥” che di solito non rappresenta un’occlusiva bensì una fricativa. Si è utilizzata quella che si chiama oggi prova corografica, cioè prova legata alla variabile diatopica (il luogo): ciò vuol dire che se si ha un particolare fenomeno in un’area e quest’area era un tempo occupata da un’altra popolazione che parlava un’altra lingua, l’ipotesi è che questa coincidenza territoriale possa spiegare questa particolare pronuncia, questo particolare fenomeno. L’ipotesi è che una lingua, precedente a quella che poi si è insediata successivamente, abbia lasciato delle tracce (fonetiche o sintattiche) della sua antica presenza, come appunto la gorgia toscana; l’ipotesi è che questa particolare pronuncia delle occlusive sorde, pronunciate come fricative, sia dovuta all’antica presenza degli etruschi. Quando una lingua lascia delle tracce della sua antica presenza, questo fenomeno prende in linguistica il nome di sostrato linguistico e quindi si diceva che la gorgia fosse un fenomeno di sostrato etrusco, cioè una traccia lasciata dagli etruschi che avrebbero pronunciato le occlusive come fricative. Quindi abbiamo la prova corografica, cioè gli etruschi occupavano il territorio dell’attuale Toscana, dove c’è la gorgia e abbiamo una prova strutturale, cioè gli etruschi pronunciavano le occlusive come fricative, come rivelano i grafemi per rappresentare “p”, “t” e” k”. Però, in un particolare periodo del ‘900, in Italia c’è stata una vera e propria moda “sostratista”, cioè quando c’era un fenomeno tipico di una zona si diceva “Questo è dovuto al sostrato”, anche quando le lingue di sostrato erano, o sono, poco documentate. Ad esempio, c’è una particolare area tra Liguria e Piemonte in cui la “l “di “luna” diventa “r” ma questo mutamento è “banale”, c’è in molte altre lingue del mondo; però all’epoca si credeva molto al sostrato e, dato che una popolazione dell’Italia antica che occupava questa zona erano gli antichi liguri, di cui abbiamo pochissime tracce documentarie, Clemente Merlo, uno dei più grandi dialettologici italiani, la definì “l’acutissima tra le spie liguri”, ma non è per niente acuta perché in realtà del ligure antico non sappiamo niente. La lenizione è stato un fenomeno imputato al sostrato celtico (c’era una vera e propria celto-mania), cioè sappiamo che i territori della Francia e della Spagna, occupati poi dai romani, precedentemente all’invasione romana erano occupati da tribù celtiche e, poiché nelle lingue celtiche c’era un ampio fenomeno di lenizione, in questo caso è molto probabile che il fenomeno della lenizione romanza sia dovuto alla lenizione celtica. Però, per avvalorare queste ipotesi, bisogna avere delle prove documentarie molto antiche e, nonostante per secoli tutti i manuali italiani scrivevano “La gorgia toscana è dovuta al sostrato etrusco”, in realtà le prove documentarie sono molto scarse perché nei testi toscani antichi non ci sono molte prove della gorgia. Dato che, un autore, quando scrive un testo letterario, cerca di evitare gli elementi più fortemente dialettali, si potrebbe pensare che gli autori toscani non segnassero la gorgia perché ritenuta troppo bassa da un punto di vista socio-linguistico. La prima prova della gorgia è una prova del tutto incerta che si trova nel portico della chiesa di San Girolamo a Volterra, dove si dice “Questa chiesa ha fatto fare tale Nicola Ceherelli” e questo “Ceherelli” potrebbe stare per il cognome “Cecherelli” dove questa “h” potrebbe stare per una “k” diventata “fricativa nella pronuncia. Però, è anche possibile che chi ha redatto questo su marmo o su pietra abbia semplicemente sbagliato, abbia commesso un errore, anche perché incidere con lo scalpello sul marmo non è un’operazione facile, ci sono tanti casi di errore. Questa prova del 12° secolo è un enorme punto interrogativo, per cui l’aggancio tra l’etrusco e le più antiche attestazioni toscane ha un gap cronologico molto importante: per avere la certezza, o comunque l’alta probabilità, che il fenomeno sia attribuibile al sostrato, bisogna avere delle prove documentarie molto antiche, che nel caso della gorgia non abbiamo. Stessa ipotesi era stata fatta per le famose retroflesse, quei suoni tipici dei dialetti detti “meridionali estremi”, cioè i dialetti di Calabria meridionale, Sicilia e parte del Salento. Un tempo, quando c’era la mania “sostratista”, si era fatta questa riflessione: || Sicilia e Calabria (rappresentanti dell’estremo occidente del dominio indoeuropeo) || India (rappresentante dell’estremo oriente del dominio indoeuropeo) || lingue semitiche dell’Africa Bianca (del nord) Le retroflesse si trovano anche nelle lingue indoeuropee dell’India; l’India è una degli avamposti orientali del dominio occupato da lingue di questa grande famiglia, chiamata indoeuropea. Le lingue moderne dell’India (le lingue del nord) presentano, come anche nella fase antica, questi stessi suoni, cioè le retroflesse; inoltre, i dialetti arabi del Maghreb hanno delle consonanti, chiamate enfatiche, che possono essere foneticamente assimilate alle retroflesse. Quindi abbiamo:  retroflesse in India  retroflesse in Sicilia e in Calabria  enfatiche nelle lingue semitiche dell’Africa Bianca (del nord) La situazione rappresentata da queste linee è un classico fenomeno studiato dalla geografia linguistica che si chiama fenomeno delle aree laterali; se immaginiamo queste linee come le aree laterali, cioè estreme (o periferiche) di un dominio linguistico: - la periferia, cioè le aree laterali, conservano i tratti più antichi - mentre l’area centrale è, in generale, l’area più innovativa  l’idea è che un’innovazione linguistica parta da un centro di un’area linguistica e che poi si diffonda ai lati, che conservano i tratti più antichi. Su questo principio di geolinguistica, chiamato principio delle aree laterali, si è formulata l’ipotesi che le retroflesse appartenessero alla pronuncia di una lingua non meglio specificata, detta Indo-mediterranea, che ha lasciato tutta una serie di relitti lessicali anche nel lessico delle lingue indo-europee antiche (greco, latino) Il fatto che l’area occidentale e l’area orientale conservano dei tratti più antichi del centro è sicuramente vero; si pensi che le lingue indoeuropee centrali, in maniera diversa, hanno innovato e hanno ricreato una parola per il termine “re”: - quello che probabilmente è il termine più antico, si ritrova, non a caso, nel latino che ha “rex” - nel celtico, altra lingua occidentale, che ha “-rix” (“Asterix”) - e nel sanscrito, cioè nell’antica lingua dell’India indo-europea, che ha “-raja” (“Maraja”) * ll piazzese è il dialetto di Piazza Armerina in Sicilia ma, come abbiamo visto, la lenizione è tipicamente romanza occidentale e non scende sotto La Spezia-Rimini, quindi come mai c’è lenizione in un dialetto siciliano? Ciò avviene perché il piazzese è parlato in Sicilia ma non è un dialetto siciliano bensì è un dialetto gallo italico. Piazza Armerina fa parte di quei comuni della Sicilia che rappresentano il risultato di migrazioni medievali dal Piemonte e da una parte della Liguria; per alleanze matrimoniali tra un casato nobiliare del Monferrato (basso Piemonte) e i Normanni, una serie di coloni provenienti da varie parti dell’Italia settentrionale, ma soprattutto dall’area piemontese e ligure, scesero in Sicilia dopo l’espulsione degli Arabi per ripopolare dei territori lasciati vuoti. Dunque, questi dialetti sono il risultato di migrazioni dall’Italia settentrionale e per questo motivo si chiamano gallo-italici; se troviamo una lenizione di questo tipo, questo è un segno abbastanza forte che quel dialetto non è siciliano ma è appunto gallo-italico, cioè settentrionale. *La stessa cosa vale per il potentino, cioè il dialetto di Potenza, che, nonostante si trovi nel cuore della Basilicata, è pure frutto di migrazioni un po’ più tarde dall’Italia settentrionale (migrazioni gallo-italiche). *Nel caso di “habere” e nel caso di “patella”, l’Italiano ha rispettivamente “avere” e “padella”, cioè ha una lenizione. L’italiano standard si fonda su una varietà toscana, cioè sul fiorentino illustre; abbiamo detto però che la lenizione è un fenomeno tipico della Romania occidentale che non scende sotto la linea La Spezia-Rimini. Come mai, allora, ci sono parole italiane che presentano lenizione? (habere > avere / patella > padella) Su questo c’è un grandissimo dibattito, sono apparsi anche negli ultimi anni degli articoli su prestigiose riviste scientifiche e c’è un’ipotesi, che va per la maggiore, per cui questo fenomeno, nato nell’Italia settentrionale, è stato imitato dalle parlate toscane. A causa anche del prestigio letterario di alcune tradizioni (milanese antico, veneziano antico), l’Italiano settentrionale è stato preso come varietà di prestigio e quindi diverse parole toscane entrate nell’Italiano standard imitano la lenizione settentrionale e presentano lenizione pur trovandosi sotto La Spezia-Rimini. Arrigo Castellani, uno dei più grandi storici della lingua italiana, in una delle sue ultime opere, chiamata “La grammatica storica dell’italiano”, ha mostrato che in molti testi toscani del ‘200 e del ‘300, dove l’influsso settentrionale è abbastanza difficile perché sono testi troppo antichi per essere influenzati dalla varietà settentrionale, esistono molti casi di lenizione anche dove l’italiano non li presenta. Ad esempio, ci sono testi toscani antichi in cui il nome dell’”ape” è scritta come “ave” con la “p” che è passata a fricativa sonora; quindi, forme come “ave” farebbero pensare a un fenomeno di lenizione che scendeva in origine sotto la Spezia-Rimini, cioè che deve avere intaccato almeno una parte della Toscana. Questa è una questione ancora aperta però quando troviamo parole come “avere” da “habere” o padella da “patella”, quella è sicuramente una lenizione. FRICATIVE  La “ʃ” fricativa post-alveolare sorda è la di “ʃ” “shampoo”, “sciocco”, “scemo”, “ascia”. La “ʃ” è il secondo fono che incontriamo ad avere una lunghezza intrinseca in posizione intervocalica. Quando parliamo di intervocalico, non significa solo tra due vocali della stessa parola ma significa tra due vocali in genere es: “Lo scemo” [ l o ʃ ‘ʃ e : m o ] oppure [ l o ‘ ʃ : e : m o ] Ascia [‘ a ʃ . ʃ a ]  nel fiorentino duecentesco era [‘ a ʃ ʃ j a ], in seguito la “j” originaria è stata assorbita dalla “ʃ” e la pronuncia è diventata [ ‘a ʃ ʃ a ] ( come in “sciare”, plurale di “sciara”)  non si mettono i : dopo la prima “a” perché la sillaba è chiusa in quanto la “ʃ” è doppia e quindi la prima è coda e la seconda è attacco  in italiano settentrionale, dove si pronuncia [ ‘a : ʃ a ], la “a” è lunga perché si trova in sillaba aperta  La “ʒ” fricativa post-alveolare sonora si ritrova, tra le lingue europee, per esempio in francese o in inglese (es: “vision”) ma non in italiano tranne nei prestiti dal francese, quali “garage” o “abatjour”  La “ʂ” e la “ʐ” fricative retroflesse si trovano in questi dialetti nei gruppi “str” o “zdr”  Una lingua che ha le fricative palatali ( ç / ʝ ) è il tedesco In “Ich” (pronome di 1° persona) [I ç ], le pronunce variano a seconda dell’area della Germania ma una delle realizzazioni di “Ich” è con la palatale; non è un caso che la fricativa palatale si realizza palatale dopo la vocale palatale “i”. In “milch” [ m I l ç ] (“latte”), la “i”, pur non essendo contigua ma a distanza, influenza la produzione di questo fono.  La “x” fricativa velare sorda è tipica del tedesco e dello spagnolo (la “xota”); in tedesco, la “x” si trova davanti o vicino a vocali velari per assimilazione. A cosa è dovuta l’aspirazione che sentiamo? Nella “k” occlusiva, la chiusura del dorso della lingua sul velo del palato è totale mentre nella fricativa velare no perché il dorso si avvicina al velo senza toccarlo e questo passaggio dell’aria attraverso una strettoia prova un caratteristico rumore di frizione.  La “ɣ” fricativa velare sonora si scrive simile alla lettera greca “gamma”. La “g” occlusiva velare è con il dorso della lingua che va a chiudere completamente sul velo ma la fricativa sonora è con il dorso della lingua che si avvicina al velo ma non lo tocca. 12-10-2021 FRICATIVE  Una lingua che ha le fricative palatali ( ç / ʝ ) è il tedesco es: [ I ç ] pronome persona tedesco, cioè “io”. Non in tutta la Germania ma nella varietà del tedesco standard, la “ç” è palatale e quindi si scrive “c” con la cediglia. Non è un caso che nel pronome “ich” (“io”), come nella parola “milch” (“latte”), la fricativa sia palatale perché c’è una “i” che è un suono palatale e dunque, in contesto palatale, quella fricativa diventa palatale per un fenomeno di assimilazione progressiva (perché la vocale viene prima) e nel caso di “milch” a distanza perché i suoni non sono contigui.  La “x” fricativa velare sorda è la “xota” dello spagnolo; è il suono di “auch” (“anche”); tenendo presente che la “u” è una vocale velare, anche qui abbiamo un fenomeno di assimilazione.  La “ɣ” fricativa velare sonora è tipica dello spagnolo in posizione intervocalica es: “fuego” (“fuoco”). Come mai dal latino “focu”, l’italiano ha “fuoco” e il castigliano ha “fuego”? È una lenizione; la consonante latina era occlusiva velare sorda > si è sonorizzata > è diventata fricativa > è diventata fricativa sonora e, se la lenizione proseguisse, arriverebbe a 0, come succede molto spesso.  Le fricative uvulari ( χ / ʁ ) implicano che il dorso della lingua va ancora più indietro del velo del palato e va ad avvicinarsi all’ugola. Ad esempio, nella parola tedesca che vuol dire “ruscello”, cioè “bach”, la “a” è una vocale centrale (non anteriore e non posteriore) e dopo la “a”, in un contesto non palatale, quella consonante del tedesco che davanti alla “i” era palatale, qui diventa uvulare, cioè posteriore. RICORDA:  quando ci sono le vocali palatali, abbiamo la fricativa palatale (“ç” fricativa palatale sorda)  quando c’è un contesto non palatale (“a” vocale centrale, “u” vocale velare) possiamo avere o la variante velare (“x” fricativa velare sorda) o la variante uvulare (“χ” fricativa uvulare sorda) - Nella “x” fricativa uvulare sorda, questa lieve aspirazione è dovuta al fatto che la lingua non va a toccare l’ugola; si sente questa frizione che dipende dal fatto che gli organi articolanti sono vicini ma non arrivano a toccarsi e quindi l’aria passa in maniera continua (questo avviene per tutte le fricative). - La “ʁ” fricativa uvulare sonora si scrive come una “r” rovesciata ed è una delle tante varianti possibili della “r” francese; es: francese “rose” [ ʁ o z ]  è la caratteristica “r” del francese che però può assumere diverse modalità (può diventare anche un’occlusiva) a seconda della posizione che occupa nella parola. Questa pronuncia uvulare è particolarmente diffusa in molti paesi del nord Europa, comprese le lingue germaniche della Scandinavia, perché è una pronuncia che è nata nell’area parigina dell’ Île-de-France e, dato che il parigino è diventato la base della lingua nazionale, ha avuto un tale prestigio, da un punto di vista socio-linguistico, da diffondere questa pronuncia come pronuncia di prestigio, come marca socio-fonetica, cioè una sorta di segno di riconoscimento di una pronuncia di uno strato sociale alto.  Nelle affricate alveolari la lingua va a toccare gli alveoli e quando si rilascia, cioè quando si allontana dagli alveoli, l’aria passa per una strettoia, cioè c’è una riapertura come in una fricativa con un rilascio graduale dell’aria. - “t͡s” affricata alveolare sorda es: “azione” - “d͡z” affricata alveolare sonora es: “azoto” Queste sono le altre due consonanti che in italiano, in posizione intervocalica, hanno una lunghezza intrinseca, cioè sono lunghe per natura. La lunghezza di queste affricate, però, si rappresenta solo con la “t” e la “d” doppie, non con la “s” e la “z” perché la lunghezza di queste affricate è nella parte occlusiva. Azione [ a t ‘t s j o : n e ] o [ a ‘t : s j o : n e ]  dato che la “ts” è in contesto sonorante * (tra vocale e semiconsonante), la “t” (parte occlusiva dell’affricata) è doppia  i : dopo la “o” perché è tonica, aperta e non finale di parole, quindi lunga  [s j o] CCV  si mette la “j” invece della “i” perché è già presente il nucleo, cioè la “o”; in questo caso, il dittongo si sente alla pronuncia in maniera molto distinta rispetto allo iato in quanto il dittongo è una sequenza fonica, mentre lo iato implica una pausa. * la posizione intersonorantica (vocale e semiconsonante) è identica alla posizione intervocalica “zio” [ d z i : o ] vs “lo zio” [ l o ‘d d z i : o ] si può scrivere anche con la sorda Azoto [ a d ‘ d z o : t o ] Un errore molto frequente nella trascrizione è che si confonde il digramma “dz” con “ds” e “ts” con “tz”: - “ds” non esiste perché all’affricata sonora, si devono associare i grafemi per la sonora - “tz” non esiste perché all’affricata sorda si devono associare i grafemi per la sorda Quando la lingua, rispetto alle alveolari arretra leggermente, andando a toccare il palato duro avremo:  l’affricata post-alveolare o pre-palatale sorda, cioè il suono “t͡ʃ “ di “cucina”, “cena”, “ciao”  invece, se le pliche vocali vibrano avremo un’affricata post-alveolare o pre-palatale sonora, cioè la “d͡ʒ” di “gioia”, “gianduia”, “Giotto”, “giavellotto”. Acciaio [a t .‘ t ʃ a . : j o ]  “t ʃ “  affricata post-alveolare sorda  si scrive la “j” invece che la “i” perché è già presente un nucleo vocalico, cioè la “o”  “jo” CV Gianduia [ d ʒ a n ‘ d u : j a ]  non si mettono i : dopo la prima “a” perché è una sillaba chiusa La differenza tra un’affricata post-alveolare e una fricativa post-alveolare è una differenza minima che riguarda solo il modo di articolazione; infatti, in molti dialetti italiani, l’affricata viene pronunciata come una fricativa. In moti dialetti centrali, la affricata post-alveolare sorda diventa fricativa e questo è sistematico nei dialetti toscani; infatti: - cucina (dialetto toscano)  [ k u ‘ʃ i : n a ]  non si mette la “ʃ” doppia perché non è la “ʃ” originaria ma è la riduzione dell’affricata, che non è doppia - cugina (dialetto toscano)  [ k u ‘ʒ i : n a ] è una delle spie fonetiche più evidenti della pronuncia toscana che non realizza le affricate post-alveolari dell’italiano standard ma le trasforma in fricative; questa alternanza tra affricata post-alveolare e fricativa post-alveolare è molto frequente in molte lingue del mondo proprio per l’enorme vicinanza che c’è tra queste consonanti. Qual è la differenza tra un’affricata post-alveolare e una fricativa post-alveolare? L’unica differenza pratica tra di esse è la tenuta perché: - se si pronuncia “cugina” in dialetto toscano (fricativa post-alveolare), la lingua non va a toccare il palato, ma si avvicina e basta e quindi l’aria passa attraverso una strettoia  NON c’è occlusione - se, invece, si pronuncia “cugina” (affricata post-alveolare), la lingua va a toccare il palato duro (l’area post-alveolare) e quindi l’aria passa solo dopo una fase di chiusura  c’è occlusione Giavellotto [ d ʒ a v e l’ l o t . t o ]  “dʒ” affricata post-alveolare sonora  non si mettono i : dopo la “o” di [ l o t ] perché la sillaba è chiusa Razza (tipo di pesce) vs Razza (genere, specie) [ ‘r a d d z a ] [‘ r a t t s a ]  “dz”  affricata alveolare sonora; è doppia perché è in posizione intervocalica  non si mettono i : dopo la “a” perché, essendo la “dz” doppia, il confine sillabico è [‘ r a d . d z a ] e quindi la sillaba è tonica ma chiusa (cioè “a coda”) RICORDA: Ci sono 5 consonanti nell’italiano standard che, quando si trovano in posizione intervocalica, hanno una lunghezza naturale; ciò vale per tutto l’italiano standard e centro-meridionale ma non per l’italiano regionale sopra la linea La Spezia-Rimini.  ʃ  fricativa post-alveolare sorda  ɲ  nasale palatale  ʎ  laterale palatale  ts  affricata alveolare sorda  dz  affricata alveolare sonora VOCALI Le vocali tradizionalmente si rappresentano attraverso un trapezio, tranne in italiano standard dove, invece, il trapezio è sostituito da un triangolo. Mettendo una piastrina sotto la lingua, si possono vedere i punti che la lingua occupa all’interno della cavità orale; congiungendo questi punti, si ottiene il trapezio. Trapezio e triangolo non sono due figure prese “a caso”, ma rispondono a un principio: riproducono i due principali movimenti della lingua, che nel pronunciare le vocali può muoversi: in senso orizzontale, si muove in 3 aree diverse del palato:  verso il palato duro  si pronunceranno vocali palatali (vocali nel lato di sx)  verso il palato medio  si pronunceranno vocali centrali (vocali posizionate al centro)  verso il palato molle (cioè il velo)  si pronunceranno vocali velari (vocali nel lato di dx) in senso verticale, si può avvicinare o allontanare dal palato:  più le vocali sono nel vertice alto del trapezio, più sono alte  più si scende, più sono basse - se si pronunciano la “i” e la “u”, la lingua è vicinissima al palato (area rossa) - se si pronunciano le “e” la “o “chiuse, la lingua si abbassa (area blu) - se si pronunciano la “ɛ” e la “ɔ” aperte, la lingua si abbassa ancora di più (area verde) - se si pronuncia la “a”, la lingua è nella massima distanza dal palato (area viola) Nell’italiano standard, del trapezio rimangono in posizione tonica, cioè nella sillaba accentata, 7 vocali. Il sistema vocalico dell’italiano standard, proprio perché ha 7 vocali, si chiama sistema epta vocalico. i  vocale palatale alta e  vocale palatale medio-alta ɛ  vocale palatale medio-bassa non c’è una “a” palatale nell’italiano standard, è presente solo in alcune varietà regionali; la “a” dell’italiano non è né palatale né velare, ma è centrale bassa u  velare alta o  velare medio-alta ɔ  velare medio-bassa 7 vocali vuol dire che in italiano, anche a livello fonologico, si distingue: - “pesca” (quella con la lenza) vs “pesca” (frutto) - “botte” (recipiente) vs botte” (percosse)  Isoglossa Taranto-Astuni (Puglia)  Isoglossa Lamezia-Catanzaro (Calabria meridionale)  Sicilia I dialetti e l’italiano regionale di queste 3 aree non hanno questo sistema vocalico perché nei loro sistemi mancano le vocali medio-alte (“e”, “o”) ma, da un punto di vista fonetico, queste vocali sono realizzate solo come vocali medio-basse in posizione tonica. Quindi, il vocalismo di queste aree non è un vocalismo epta vocalico (a 7 vocali) bensì è penta vocalico, cioè a 5 vocali toniche. Perché in tutte le varietà italo-romanze abbiamo 7 vocali e in queste aree ne abbiamo 5? Non è un caso che queste sono le aree che, rispetto a tutto il resto del meridione, hanno subito un’influenza duratura, secolare del greco. Il greco, dall’età classica a quella medievale, ha trasformato il suo sistema vocalico che nel greco bizantino (cioè di fase medievale) è proprio un vocalismo a 5 vocali, senza le medio-alte. Dato che il greco, almeno fino all’arrivo dei normanni (intorno al 1000), è stato in queste zone una varietà di prestigio, è molto probabile che i parlanti una varietà romanza di queste aree abbiano imitato il vocalismo greco e abbiano trasformato il loro sistema vocalico in un sistema penta vocalico. Qual è la conseguenza di tutto ciò a livello di trascrizione fonetica? Facciamo riferimento esclusivamente alla sillaba tonica (colpita dall’accento); quando c’è la sillaba atona non ci sono “problemi”, si scrivono “e”/ “o” “normali” perché non esiste la differenza tra medio-alta e medio-bassa in sillaba atona. pesca “con la lenza” (it. standard ) [ ‘p e s k a ] vs pesca “frutto” (it. standard) [ ‘p ɛ s k a ] dottore (italiano standard) [ d o t ‘ t o r e ] vs dottore (vocalismo siciliano) [ d o t ‘ t ɔ r e ] Nel vocalismo di queste 3 aree, chiamato “siciliano” perché la Sicilia è la più rappresentativa come area di estensione, non esistono in posizione tonica le vocali medio-alte, esistono solo le vocali medio-basse. [‘ p e s k a ] in siciliano non esiste esiste [‘ p ɛ s k a ] per entrambe le cose RICORDA: in sillaba atona non c’è questa differenza, ci sono solo le vocali medie “e”/”o” Come si classificano le vocali?  prima anteriore/posteriore  poi alta/medio-alta/medio-bassa/bassa  poi procheila/aprocheila Mi sveglierò più tardi [ m i z v e ʎ ʎ e , r ɔ p ‘p j u t’ t a r d i ]  la “s” davanti a consonante sonora (“v”) diventa “z” sonora per assimilazione regressiva  “ʎ” ha lunghezza intrinseca in posizione intervocalica  “sveglierò” appartiene al 1° gruppo dei polisillabi tronchi che provocano RF  “più”, a sua volta, provoca RF perché appartiene al 2° gruppo dei monosillabi forti Penserò dopo a che fare [ p e n s e , r ɔ d ‘ d o p o a k ‘ k e f ‘ f a r e ]  “penserò” appartiene al 1° gruppo dei polisillabi tronchi  “a” appartiene al 2° gruppo dei monosillabi forti  “che” appartiene al 2° gruppo dei monosillabi forti Qual è l’origine del raddoppiamento fonosintattico? Il nucleo originario di parole che hanno provocato RF è costituito da quelle parole che in latino avevano la consonante finale. Ad esempio, nel latino volgare, cioè il latino parlato che è alla base delle lingue romanze, la parola “domus” è sostituita da “casa”; una sequenza del tipo [ad casa(m)] (con la “m” dell’accusativo che poi cade) diventa [ a k ‘ k a : s a ]  quindi, l’origine del raddoppiamento fonosintattico è stato il fenomeno di assimilazione regressiva totale a contatto es: “et tu” > “e tu” per assimilazione regressiva totale tra la “t” e la “t” Con il tempo questa regola, che non c’entra nulla con l’accento, si è estesa in italiano a parole con l’accento finale e si è estesa a un contesto diverso da quello in cui era nato; infatti, nasce come regola di assimilazione e poi ingloba una regola di tipo accentuale, cioè provocano RF tutti i polisillabi tronchi, ma in origine era solo un fenomeno di assimilazione. Questa è la grande differenza che c’è tra il raddoppiamento fonosintattico dell’italiano standard, che coinvolge anche parole accentate sull’ultima sillaba, e i dialetti centro-meridionali in cui il RF si mantiene fedele alla regola originaria, cioè continua ad essere un fenomeno indotto solo da monosillabi di questo tipo che non ha nulla a che vedere con l’accento, cioè è ancora una regola di tipo assimilatorio. Nell’italiano standard, invece, diventa una regola che è sensibile anche all’accento perché “mangerò”, “perché”, “farò”, a prescindere se in latino finissero in consonante o meno, provocano raddoppiamento fonosintattico; quindi c’è una netta differenza tra la regola antica, che è una banalissima assimilazione, e la regola odierna del RF nell’italiano standard. FONOLOGIA Fin ora abbiamo studiato i foni (i suoni che hanno una rilevanza linguistica) da un punto di vista esclusivamente “fisico” e da un punto di visto articolatorio, cioè abbiamo classificato i suoni secondo modo, luogo, grado di articolazione e abbiamo visto le vocali a seconda della posizione della lingua e delle labbra. Abbiamo visto che “Il circuito della parole”, disegnato da Saussure nel famoso “Corso di linguistica generale”, implica nella comunicazione verbale tra esseri umani un canale fisico di trasmissione, cioè trasmettiamo il nostro pensiero attraverso un segnale sonoro che, attraverso le onde sonore, giunge all’orecchio dell’ascoltatore; quindi, è stata messa in evidenza l’importanza dell’atto fisico e concreto nella trasmissione linguistica. Dunque, può sembrare paradossale che proprio la parte più concreta della grammatica di una lingua, cioè la fonetica, sia stata oggetto della più importante e della prima attenzione teorica, ovvero che un gruppo di studiosi abbia, per la prima volta, valutato l’aspetto astratto dei foni. Sono foni, quindi entità concrete, come si possono studiare come entità astratte? Questi studiosi sono un gruppo di studiosi russi che all’inizio della loro attività non avevano interessi propriamente linguistici in senso stretto, ma erano interessati alla tradizione poetica innovativa, cioè agli sperimentalisti russi; in particolare si dedicarono allo studio di Chlebnikov che può corrispondere, come tematiche, ai nostri poeti sperimentali, quali ad esempio i futuristi, cioè a un genere letterario che si fondava molto su assonanze, giochi di parole, allitterazioni, cioè tutto l’aspetto formale della lingua poetica. Questo gruppo ha al suo interno due dei grandi nomi della linguistica moderna: Jakobson e Trubertzkoj: - tutti gli scritti di Jakobson, uno dei più grandi linguisti del ‘900, sono stati editi in una collana unica che comprende grosso modo 15 volumi - a Trubertzkoj viene attribuita per la prima volta la coniazione del nome “fonologia” come disciplina distinta dalla fonetica; fonetica e fonologia non sono sinonimi, sono due unità che vanno assolutamente distinte a partire dallo studio di questi primi linguisti. Dato che il circolo linguistico di Mosca dove si raccoglievano era dedito a poeti sperimentalisti e innovatori e in tutte le dittature questo genere poetico e artistico viene fortemente osteggiato, in contrasto con il regime bolscevico Trubertzkoj, Jakobson e gli altri esponenti del circolo linguistico di Mosca si trasferiscono a Praga, dove formano il celebre circolo linguistico di Praga. Durante il primo congresso internazionale dei linguisti, nel 1928, elaborano una seria di tesi note appunto come “le tesi del circolo di Praga” che contengono i fondamenti della fonologia. I principi elaborati all’interno di questa scuola, che è la fonologia di ambito strutturalista, sono contenuti in un celebre libro di Trubertzkoj che è uno dei grandi mattoni della linguistica moderna, intitolato “I principi di fonologia”, scritto prima in tedesco e poi tradotto in varie lingue tra cui l’italiano. COPPIE MINIME I foni possono essere studiati nel loro aspetto concreto ma hanno anche un valore astratto. Cosa significa? Prendiamo in esame una coppia (termine tecnico) di parole, quali “pollo”/ “bollo” e studiamole da un punto di vista puramente fonetico, articolatorio: pollo [ ‘ p o l : o ] vs bollo [ ‘ b o l : o ] la differenza tra pollo e bollo consiste nella sonorità: la prima è sorda, la seconda è sonora Ragionando a livello di astrazione possiamo affermare che in italiano il tratto sonorità (la distinzione tra sorda e sonora) permette di distinguere due parole che altrimenti sarebbero uguali e permette di distinguerle da un punto di vista del significato. Questi due foni sono capaci di opporre due parole di significato diverso, che altrimenti sarebbero uguali, cioè se non ci fosse la sonorità “pollo” sarebbero uguale a “bollo” (entrambe si pronuncerebbero “p”) e quindi non ci sarebbe nel lessico italiano una distinzione. Da un punto di vista fonetico, la differenza tra “legge” (voce del verbo “leggere”) e “legge” riguarda l’apertura della vocale che permette di distinguere due parole di significato diverso che altrimenti sarebbero uguali. Il ragionamento dei praghesi è che tutti i foni che sono capaci di distinguere due parole di significato diverso, che altrimenti sarebbero uguali, hanno un valore “astratto”, cioè hanno un valore distintivo (permettono la distinzione tra due parole). Questa loro proprietà distintiva fa sì che questi non siano semplici foni ma, nell’ottica praghese, sono fonemi, ovvero foni capaci di distinguere due parole di significato diverso che altrimenti sarebbero uguali. Come fa un linguista che va sul campo a studiare una lingua sconosciuta? (esempio Dixon) Succede ancora oggi che soprattutto i tipologi vadano a descrivere la grammatica di lingue fino ad adesso non documentate in quanto ci sono moltissime lingue che hanno una tradizione solo orale, non hanno testi scritti e quindi per documentarle bisogna andare sul campo (vale anche per molti dialetti). I tiplogi allora si portano il proprio registratore e cominciano a fare un inventario fonetico della lingua, poi passano a quello fonologico. Come fanno a capire in una lingua se quello è fono o anche fonema? Provano a costruire coppie di parole di questo tipo, chiamate coppie minime. Se, come per esempio avviene in tagalog (la lingua delle filippine), non si trovano coppie minime come “pollo”/”bollo”, evidentemente la “p” e la “b” non hanno potere distintivo perché, quello che è fonema in una lingua, non è detto che lo sia anche in un’altra perché i fonemi variano a seconda del sistema linguistico. L’italiano oppone “pollo”/“bollo”, il tagalog non li oppone perché ha solo sorde e non ha sonore. Questo, infatti, è un problema per i filippini che vengono in Italia perché non riescono a distinguere “pasta” da “basta”, “pollo” da “pollo” proprio perché nel loro sistema fonologico manca il tratto di sonorità. tolgo [ ‘t ɔ l g o ] vs dolgo [‘d ɔ l g o ] La differenza fonetica tra la “t” e la “d” è che è la prima è sorda e l’altra e sonora. “t” e “d” in italiano formano coppie minime, cioè coppie di parole che si distinguono solo per quel suono e che hanno significato diverso, quindi sono fonemi. cara [ ‘ k a : r a ] vs gara [ ‘ g a : ra ] Da un punto di vista fonetico, la prima è sorda e la seconda sonora Formano una coppia minima quindi, “k” e “g”, oltre che essere foni, sono anche fonemi, cioè hanno una proprietà distintiva che permette di distinguere una parola da un’altra Dato che “p -“b”, “t”-“d”, “k”-“g” hanno tra di loro un tratto in comune, cioè si oppongono per la presenza/assenza del tratto sonorità, a livello ancora più astratto si può affermare che sono fonemi perché formano coppie minime e più in generale si può affermare che la sonorità è un tratto distintivo; quindi, non solo i foni possono essere distintivi ma in una lingua lo possono essere anche i tratti. In particolare, Jakobson cercò di formulare una sorta di lista dei tratti fonologici più ricorrenti nelle lingue del mondo, basandosi sia su caratteristiche di tipo articolatorio (come la sonorità), sia su caratteristiche di tipo acustico. Egli cercò di elaborare dei tratti universali che però non funzionano uguali in tutte le lingue, ovvero ciò che è fonologico in una lingua, in un’altra potrebbe essere semplicemente un tratto fonetico e viceversa: ciò si vede facendo per ogni lingua la prova delle coppie minime. TRATTO DEMARCATIVO Abbiamo parlato di tratti fonologici, cioè di coppie minime, e la stessa funzione, ma in modo diverso, è con i tratti demarcativi o delimitativi. Esistono in tutte le lingue del mondo dei foni che possono occupare solo certe posizioni di parola e, in base alla loro posizione, involontariamente, permettono di distinguere il confine di una sillaba, il confine di una parola, il confine di una frase. Essi fungono da segni di confine e questa loro funzione si chiama demarcativa, un’altra funzione di tipo fonologico. In tedesco e in ceco, il cosiddetto colpo di glottide, quello che si segna in IPA con il punto interrogativo, precede tutte le sillabe che iniziano per vocale, specialmente le sillabe accentate; per cui, anche se non sapessi il tedesco, sentendo il colpo di glottide riuscirei a segnare il confine tra una sillaba e l’altra in quanto non si trova in nessun’altra posizione se non davanti a sillabe che cominciano per vocale. Prendiamo il caso della “h” fricativa e della “ŋ” velare dell’inglese: questi due foni non si trovano in qualsiasi posizione della parola, ma hanno una posizione obbligata:  la “h” si trova solo iniziale di sillaba  la “ŋ” velare si trova solo finale di sillaba  quando c’è una “h”, vuol dire che lì sta per iniziare una sillaba perché si può trovare solo all’inizio e dove c’è una “ŋ” velare (“sing”, “think”) vuol dire che lì finisce la sillaba; questi foni hanno un valore fonologico che non è quello che abbiamo visto prima, cioè non hanno una funzione distintiva, ma hanno una funziona delimitativa o demarcativa. Un esempio classico che si utilizza spesso è la “l” del veneziano: nel dialetto veneziano c’è il famoso problema che è stato oggetto di un’ampia bibliografia sulla cosiddetta “l evanescente”, cioè la “l” che scompare ovunque (o diventa qualcos’altro) in tutte le parole ma si mantiene solo in posizione finale di parola Es: “bello” > “beo” “collo” > cojo ma in “sol invernal” si mantiene  la “l” si trova solo in posizione finale di parola, quindi ha una funzione demarcativa, cioè serve per segnalare il confine tra una parola e un’altra parola ALLOFONI Al polo opposto dei fonemi, ci sono invece delle variazioni dello stesso fonema ad esempio, nella parola “prato” la “a” subisce delle modifiche di pronuncia a seconda delle varietà dialettali:  in italiano si pronuncia con la “a” centrale ['pra:to];  nelle varietà pugliesi questa “a” diventa una “a” anteriore e quindi viene pronunciata come [præ:to];  in altre varietà diventa posteriore e quindi viene pronunciata ['prɑ:to] con la “a” che tende ad essere una velare  in tutti e tre gli esempi, il significato non cambia (parliamo sempre di “prato”) Quando ci sono variazioni di questo tipo, non abbiamo a che fare con coppie minime perché non c’è valore distintivo ma c’è semplicemente una variazione di pronuncia che può dipendere dal dialetto o dall’italiano regionale ma che non ha a che vedere con la fonologia. Questi non sono fonemi, perché non formano parole di significato diverso, ma sono semplicemente varianti dello stesso fonema, che si chiamano allofoni. 14-10-2021 Con questa pioggia [ k o ŋ ‘k w e s . t a ‘ p j o d ʒ . ʒ a ]  la “ŋ” è velare perché è seguita dalla “k” che è velare per assimilazione regressiva a contatto (non c’è materiale fonico tra la “n” e la “k”)  [ k w e s ] C C V C: si mette la “w” perché nella sillaba c’è già una vocale che rappresenta il nucleo  “d ʒ”  affricata post-alveolare sonora  non si mettono i : dopo la “o” perché la sillaba è chiusa  nel vocalismo siciliano sarebbe [ k ɔ n ‘ k w ɛ s . t a ‘ p j ɔ d ʒ . ʒ a ] Non ci resta altro da fare che la trascrizione fonetica [ n o n t ʃ i ‘r e s t a ‘a l t r o d a ‘f a : r e ‘k e l l a t r a s k i t ‘t s j o : n e f o ‘n e : t i k a ]  non si mettono i : dopo la “e” di resta perché è sillaba chiusa  non si mettono i : dopo la “a” di “altro” perché è sillaba chiusa  “da” è uno di quei monosillabi che ha una forte variazione ragionale, in toscano provocherebbe RF ma nell’italiano centro-meridionale non comporta il RF  si mettono i : dopo la “a” di “fare” perché è lunga  “che” provoca RF  “ts”  affricata alveolare sorda: si mette doppia perché fa parte delle 5 consonanti che, in posizione intervocalica o intersonorantica, diventano lunghe  si mettono i : dopo la “o” di “trascrizione” perché è lunga  si mettono i : dopo la “e” perché è lunga  nel vocalismo siciliano sarebbe [ n ɔ n ] [ ‘r ɛ s t a ] [ k ɛ ] [ t r a s k i t ‘t s j ɔ : n e ] [ f o ‘ n ɛ : t i k a ] Ho comprato dei jeans e un maglione [ o k k o m ‘p r a : t o d e i ‘d ʒ i n s e u m m a λ’ λ o : n e ]  per quanto riguarda la pronuncia di forestierismi, cioè di parole di origine straniera, si trascrivono come si pronunciano  “ho”  fa parte dei monosillabi forti  si mettono i : dopo la “a” di “comprato” perché è lunga  “un” >“um” (“m” nasale bilabiale) per assimilazione regressiva a contatto totale;  “λ”  laterale palatale; si mette doppia perché ha una lunghezza intrinseca in posizione intervocalica  “dei”  dittongo, cioè una sequenza fonica ininterrotta; in questo caso però, rispetto a tutti i dittonghi che abbiamo visto fin ora, l’accento, cioè il cosiddetto pitch, sale sulla “e” e scende; Questo tipo di assimilazioni (“un” > “um”), che non avvengono all’interno di una stessa parola ma tra due parole diverse, prendono il nome di shandi esterno. “shandi” è una parola usata dai grammatici antico-indiani, cioè della grammatica sanscrita, che è entrato in voga anche nella linguistica moderna e indica quella che in francese è la jesòn (?), quindi un fenomeno di influenza reciproca tra foni collocati tra parole diverse (da qui il nome esterno)  “dei” è un esempio di dittongo discendente, in cui il pitch (l’intensità dell’accento) è sul primo dei due elementi es: “dei”, “mai”, “fai”  tutti i dittonghi che abbiamo visto fin ora hanno il pitch sul secondo elemento e quindi si parla di dittongo ascendente es: “ieri”, “uovo” Nei dittonghi discenti, la “j” e la “w” si scrivono rispettivamente “i” ed “u”, con un semicerchio sotto e valgono sempre consonante (C). Quando la “i” e la “u” sono vocali, si scrivono “i” ed “u”; quando sono consonanti:  se sono 1° elemento di dittongo, si scrivono “j “e “w” ( es: “jeri” , “wovo” )  dittongo ascendente  se sono 2° elemento di dittongo, si scrivono “i” ed “u” (“mai “, “fai” )  dittongo discendente [ b a u ] CVC La differenza tra la “u” di “uovo” e la “u” di “bau” è solo nella posizione, entrambe valgono consonante perché il nucleo è già occupato, solo che: - in “uovo”, la “u” è 1° elemento di dittongo  dittongo ascendente (l’accento è sulla “o”, sale) - in “bau”, la “u” è 2° elemento di dittongo  dittongo discendente (l’accento è sulla “a” e poi scende) FONETICA Saussure, il padre della linguistica moderna, è stato il primo linguistica che, prima che arrivassero gli strumenti di fonetica acustica che possono tracciare lo spettrogramma, individuare le frequenze e quindi davvero riuscire a dimostrare scientificamente le differenze minime di pronuncia tra un parlante e un altro, ha intuito qualcosa di geniale ma non l’ha potuto dimostrare, cioè che quando pronunciamo una parola, anche se ci sforzassimo di pronunciarla sempre uguale, sarà realizzata a livello concreto in maniera diversa, cioè è impossibile pronunciare una parola nello stesso identico modo. Se pronunciamo per cento volte la parola “prato”, questa parola non si realizzerebbe mai uguale a se stessa, ci sarebbe sempre una minima deviazione. In realtà, anche il significato che associamo a quella sequenza fonica cambia: l’esempio che fa Saussure è quello di una frase francese “La guerre. Je veux dire la guerre.” “ La guerra. Vi sto parlando della guerra”. Egli afferma che questa frase ha un senso molto diverso se pronunciata da un generale che mira a una carriera, e quindi si esalta per una possibile guerra che lo renderà famoso; invece, il senso di questa frase diventa completamente diverso se associato a una madre che ha perso il figlio in guerra  quindi non cambia solo la parte concreta, ma cambia anche il significato da parlante a parlante. Allora, se pronunciassimo la parola “prato” cento volte e se si dimostrasse, come di fatto si può dimostrare, che questa realizzazione è diversa da parlante a parlante e all’interno dello stesso parlante, come fanno i parlanti a comunicare e a comprendersi? Se questa variazione è infinita, come fanno ad avere coscienza che stanno pronunciando la stessa parola? Anche nei parlanti che hanno delle distorsioni foniche particolarmente gravi, anche in casi di afasia o di patologie linguistiche, questa parola riuscirebbe ugualmente ad essere comprensibile. *L’idea è quella di un fonema X che presenta delle realizzazioni diverse: questa realizzazioni diverse, che chiamiamo A, B, C, possono essere libere, cioè possono dipendere dalla pronuncia personale o dalla pronuncia regionale ma sono sempre varianti dello stesso fonema. Esiste un 2° gruppo di varianti che non sono libere ma sono obbligate dal contesto; ad esempio la nasale “N” si può dividere in tante realizzazioni diverse (labiodentale, velare..) a seconda dei foni che la seguono; dato che una non può stare al posto dell’altra, questa è la prova per poter affermare che queste sono varianti ma combinatorie, cioè sono delle varianti dello stesso fonema obbligate dal contesto. Non tutte le varianti combinatorie di una lingua lo sono anche in altre: la nasale velare che in italiano è una variante combinatoria (cioè un allofono), in inglese è un fonema perché esistono coppie del tipo “thin”/”think” in cui l’unica cosa che cambia è il luogo di articolazione della nasale. - VARIANTI LIBERE Allo stesso modo, esistono tantissime varianti di tipo regionale, cioè su base diatopica  varianti libere Nel caso di ['pra:to] [præ:to] ['prɑ:to] è una variante libera. La fricativa dentale sorda (“θ”) dell’ inglese “think” o dello spagnolo “cosér”, in America latina si realizza come “s” (fenomeno del “seseo”) Da questo esempio dobbiamo stabilire se “θ” e ”s” sono varianti libere, varianti combinatorie o fonemi (coppie minime): non è una coppia minima perché non cambia il significato, quindi devono essere delle varianti e in questo caso sono varianti libere perché non dipendono dal contesto fonetico ma dipendono da un fattore diatopico, cioè dal luogo:  nello spagnolo dell’America latina la “θ” è pronunciata “s”  nel castigliano di Spagna è pronunciata “θ”  la “θ” e la “s” sono degli allofoni e precisamente delle varianti libere. La “s” (fricativa alveolare sorda) si può realizzare in alcuni parlanti come “θ” (fricativa dentale sorda) es: “sole” > “θole”  non è una coppia minima, bensì sono varianti libere di uno stesso fonema. In tedesco, abbiamo la “ç” (fricativa palatale) e la ʁ (fricativa uvulare):  la palatale si trova sempre vicino a vocali palatali  l’uvulare o la velare (“x”) si trovano sempre dopo vocali non palatali ( “o”, “u”  vocali velari )  questo è un esempio di varianti combinatorie perché questa alternanza non è casuale, non dipende da una pronuncia regionale ma dipende esclusivamente dal contesto fonico; sono varianti di uno stesso fonema. Nei parlanti che hanno la “r moscia”, la “r” si può realizzare in tanti modi diversi ma non come polivibrante alveolare: siamo nel caso di varianti libere perché facciamo riferimento ad un “difetto” di pronuncia. Nei parlanti in cui la lingua non va a toccare il palato duro ma gli si avvicina soltanto, non si pronuncia “giglio”, “figlio”, “miglio”: questa differenza di pronuncia non è una coppia minima perché non cambia il significato, non è una variante combinatoria perché non è costretta dal contesto, bensì è una variante libera del fonema “λ”. MORFOLOGIA Fin ora abbiamo analizzato delle unità linguistiche che costituiscono le fondamenta di una casa, cioè i foni; i foni, delle due facce del segno linguistico, riguardano solo il significante, cioè la parte concreta; però abbiamo visto che da Saussure in poi il segno linguistico è un’entità composta da due facce:  da una parte concreta, chiamata significante  da una parte astratta, chiamata significato Da ora in poi inizieremo a studiare non solo i significanti della lingua, ovvero i foni, ma anche unità di livello superiore, cioè unità dotate sia di significante che di significato, quelli che Saussure chiama i segni linguistici e che, dalla linguistica americana in poi, si chiamano morfemi. Prendiamo come esempio la parola “penna”: - il significante di questa parola (cioè la parte concreta del fono) è la pronuncia, quindi la sequenza p + e + n + n + a - il significato è il concetto che associamo al referente, cioè all’oggetto “penna”; “penna” è un unico segno linguistico o si può scomporre?  per il significante abbiamo visto che si può scomporre ed è formato da quattro foni (p + e + n lunga + a)  per il significato si può scomporre perché la parola penna è costituita da una base a cui si possono aggiungere altri blocchi La base “penn”, quella che dà il significato generale dell’intera famiglia lessicale, è un morfema lessicale, cioè porta il significato generale. “penn”, come morfema, indica il referente, cioè l’oggetto “penna”. La “a” finale di “penna” esprime il numero, cioè il singolare opposto alla “e” di “penne” che esprime il plurale. In generale, la “a” ci dà un’informazione anche sulla classe flessiva, ovvero i nomi in “a”, in generale ma non sempre, sono in italiani nomi femminili; ci dà un’indicazione, anche se parziale, sul genere. La “a” indica che la parola penna è singolare e che appartiene alla classe flessiva del femminile (anche se poi vedremo che il generale non si determina con la desinenza finale ma in un altro modo); quindi, ha un valore completamente diverso rispetto a “penn”.  Tutti i morfemi come “penn-” che ci danno il significato lessicale, si chiamano appunto morfemi lessicali  Tutti i morfemi come la “-a” che ci danno un’indicazione di qualunque tipo sulla grammatica (genere, numero - per i verbi sul modo, tempo, modo, persona…), si chiamano morfemi grammaticali - Dividere “penna” secondo il significante  p e n doppia a (quattro unità) - Dividere “penna” in morfemi  p e n n + a ha due morfemi, quindi è ha un segno linguistico complesso formato da un morfema lessicale (ML) e da un morfema grammaticale (MG) MORFEMI CUMULATIVI Prendiamo una lingua che, oltre al genere e al numero, esprime il caso, cioè la relazione di quella parola con le altre parole che si trovano nella frase “rosas”  accusativo plurale, funzione sintattica di complemento oggetto ros  ML as  MG indica la classe flessiva femminile, il numero plurale e il caso accusativo In diverse lingue del mondo, un morfema grammaticale può indicare, al contempo, più categorie (numero, genere, caso) e questo vale anche per i morfemi grammaticali nel verbo. Ci sono però molte lingue del mondo, ad esempio il turco, in cui questo non si può fare: per indicare una funzione grammaticale si ha bisogno di un morfema e per indicare un’altra funzione grammaticale si ha bisogno di un’altra morfema, cioè tanti morfemi per quante sono le funzioni che si devono esprimere. In turco, se si dovesse indicare l’accusativo plurale femminile, si avrebbe bisogno di tre morfemi (uno per ciascuna funzione). Invece, una lingua come il latino, e in generale le lingue della famiglia indoeuropea, hanno morfemi come “as” che possono esprimere numero, genere e caso insieme: morfemi di questo tipo si chiamano morfemi cumulativi, cioè morfemi che accumulano su di loro più funzioni. DERIVAZIONE Le desinenze sono solo alcuni degli esempi di morfemi grammaticali; possiamo avere altri morfemi grammaticali che non costituiscono le desinenze ma che servono, ad esempio, a formare parole da altre parole, cioè a formare da parole semplici dei derivati. Ad esempio, se si prende la parola “esperto” e si aggiunge “in-” per formare la parola inesperto, “in-” non è una desinenza ma permette di formare da una parola un’altra parola: questi sono morfemi grammaticali (ma non desinenze) che permettono un processo morfologico chiamato derivazione, in cui si forma una parola partendo da un’altra, e prendono il nome di affissi. In italiano, riconosciamo all’interno di questa macro categoria di affissi, 2 grandi categorie; la loro classificazione dipende esclusivamente dalla loro posizione rispetto al morfema lessicale:  se lo precedono, sono prefissi es: “inesperto”, “ex marito”, “ex sciatore”  se si aggiungono dopo la base lessicale, sono suffissi es: “mut” + suffisso “ment “  “mutamento” In italiano, queste due categorie hanno una caratteristica molto diversa fra loro:  nei prefissi non muta mai la classe di appartenenza es: aggettivo “utile” + prefisso “in”  inutile si ottiene sempre un aggettivo  invece, nei suffissi la classe di appartenenza può mutare ESEMPI: - mutare + ment > mutamento  da un verbo si ottiene un nome - spegnere + ment > spegnimento  da un verbo si ottiene un nome - barba > barbone  da un sostantivo si ottiene un aggettivo che si sostantivizza ( viene usato come sostantivo ma in realtà è un aggettivo) - INFISSI es: cuoricino cuor-  base lessicale - ic-  si può analizzare in due modi diversi: se si prende da cuore il diminutivo “cuorino”, “ic” è un infisso che va dentro la base e dunque si comporta come la “m” del latino “rumpo” però, in realtà, la base non è “cuorino” in quanto è un diminutivo, la base è “cuor” oppure cuor (base) + ic (1° suffisso) + in (2° suffisso) + o (desinenza o morfo flessivo) es: “capisco” (“capisci,” “capisce”), rispetto a “capiamo” o “capite” ha un elemento “isc” tra la base e la desinenza che alcuni analizzano come un infisso. Infisso o meno, la cosa più importante da dire è che questo genere di affissi in italiano non è più produttivo, tanto che si ha difficolta ad analizzarli come infissi. In latino, invece, il processo di cui abbiamo già fatto l’esempio con “rumpo”, è un processo produttivo: data una base verbale, il presente si formava attraverso l’aggiunta di un infisso, quindi produceva nuove forme (per questo si dice produttivo). es: dalla base “fid” (“dividere”, “spezzare”), si ottiene il presente “findo” dove in rosso c’è evidenziato l’infisso es: “reliqui” (perfetto), dalla base “reliq” il presente è “relinquo” con l’infisso nasale  questo è un vero infisso perché è produttivo “Isc” in italiano è una forma “morta”, cioè non più capace di produrre nuove forme tramite il processo dell’infissazione. - CIRCONFISSI es: lingua del sud dell’Indonesia “reu” “rumore che si fa parlando” > ka-reu-k “parlare”  per fare il verbo non è stato aggiunto solo un prefisso o solo un suffisso, bensì sono stati aggiunti due elementi insieme es: lingua del pacifico meridionale “an” “mangiare” > na-‘an-ian “cibo” - TRANSFISSI I vocabolari di una lingua europea, e in generale di una lingua indoeuropea, contengono le liste per nomi; mentre, se si cerca nel vocabolario di arabo la parola “kitab” (“libro”), non si trova perché i dizionari delle lingue semitiche sono organizzati per radici. Non è una scelta editoriale ma risponde ad un principio su cui si basano queste lingue; infatti, in generale, nelle lingue semitiche il morfema lessicale (quello che dà il significato generale dell’intera famiglia) è una radice trilittere, cioè composta da tre consonanti. es: la forma per “studiare” è composta dalla radice “drs” questa radice si può realizzare in tante maniere: “darisa” “ha studiato” “durisa” “è stato studiato” es: dalla radice per “scrivere” “ktb”, aggiungendo diverse vocali abbiamo: “kitab” “libro” “katib” “scrittore” “kataba” “ha scritto” “kutiba” “è stato scritto” Come funzionano le lingue semitiche? All’interno del morfo lessicale trilittere si inseriscono le vocali che non portano nessun significato aggiuntivo, dal punto di vista del lessico, ma hanno un valore puramente grammaticale (servono ad indicare il tempo verbale, la persona, il numero…). Questo è un classico esempio di morfologia a pettine: le vocali si inseriscono dentro lo scheletro consonantico come tanti denti di un pettine e questi denti sono i transfissi. Intorno agli anni ’70-’80 del ‘900, si è sviluppato un indirizzo di morfologia conosciuto con il nome di morfologia naturale, il cui principale esponente è stato Wolfgang Dressler dell’Università di Vienna; l’idea è quella che esista un principio di iconicità nel linguaggio, cioè su una scala di trasparenza possiamo inserire le lingue a seconda del loro indice di iconicità o di trasparenza. Ciò cosa significa? Prendiamo l’esempio della parola “penna”: abbiamo visto che “penn” è il morfema lessicale e che “a” è il morfema grammaticale; se immaginiamo “penn” e “a” come due quadratini, questi morfemi si succedono in un ordine lineare, prima l’uno e poi l’altro. Invece, in una lingua semitica con una morfologia a pettine, è come se in un quadrato maggiore, che è la radice trilittere (morfema lessicale), si inserisse un altro quadrato più piccolo che sono le vocali (i morfemi grammaticali). Lingue che si rappresentano in questo secondo modo, si dice che hanno una trasparenza più bassa perché sono meno iconiche, ovvero non seguono un ordine che è quello lineare (nell’ordine lineare c’è prima il morfo lessicale e poi il morfo grammaticale); qua, invece, gli uni stanno dentro gli altri, cioè i morfemi grammaticali stanno dentro il morfema lessicale. Quindi, nell’ottica della morfologia naturale, queste lingue hanno un indice di trasparenza e di iconicità più basso, sono meno trasparenti perché la distinzione tra morfo grammaticale e morfo lessicale è molto più opaca, è meno netta. Nella parola “penna”, e in generale in lingue come l’italiano, cioè lingue flessive, il confine tra un morfo e l’altro è un confine piuttosto trasparente; qui, invece, i confini si dissolvono perché i morfemi grammaticali è come se stessero dentro quelli lessicali, appunto tramite i transfissi. PREFISSOIDI E SUFFISSOIDI Non esiste un limite nel numero di infissi che si possono aggiungere ad una base. Es: soci + al + izz + abil + ità  deaggettivale + deverbale + deaggettivale Uno statuto categoriale piuttosto diverso da quello dei veri e propri prefissi o dai veri e propri suffissi, si ha con forme dette rispettivamente prefissoidi e suffissoidi. es: sociologia  “socio”, fuori dal derivato, lo possiamo analizzare come un morfema lessicale vero e proprio però nella parola “sociologia” funziona da prefisso Morfemi lessicali che funzionano da prefissi o da suffissi prendono il nome rispettivamente di prefissoidi e di suffissoidi e sono facilmente riconoscibili perché hanno un’origine classica, cioè sono di origine greco- latina. es: in “cronometro” e in “cronologia” riconosciamo un suffissoide. Dunque, i morfemi lessicali, quando possono essere utilizzati come parole autonome, ma si comportano esattamente come un suffisso o un prefisso, prendono il nome di suffissoidi e prefissoidi. TRANSCATEGORIZZAZIONE Un caso particolare di prefissoide è il prefisso “auto” che ritroviamo in parole come “autonomia”, “autodistruttivo”, “autolesionista”; l’origine in tutti casi di suffissoide e prefissoide è dal greco “autos” (“se stesso”). Quando il prefisso “auto” forma “automobile”, letteralmente “che si muove da sé”, succede che può subire un processo morfologico cosiddetto di accorciamento per cui da automobile si ottiene “auto” (sostantivo); subisce un processo di accorciamento e di transcategorizzazione, ovvero passa da una categoria grammaticale ad un’altra: - è prefisso in “autonomia”, “autodistruttivo”, “autolesionista” e in “automobile” stesso - quando è usato come sostantivo (es: L’auto di mio padre…”), passa da una categoria al un’altra, cioè passa da prefisso a sostantivo In quanto sostantivo, può essere utilizzato come primo membro di parole composte, in nomi come “autostoppista” “autostazione” “autolavaggio” che non vogliono dire che fa l’autostop da solo o che è una stazione di se stessa “auto” in “autostop” e in “autostazione” non è più un prefisso bensì è il nome “auto” che si aggiunge ad un altro nome per formare un composto Ciò illustra la dinamica della morfologia, per cui un certo elemento morfologico in diacronia, cioè con il passare del tempo, può passare da una categoria ad un’altra. COMPOSIZIONE Dopo la derivazione, incontriamo un processo che forma parole composte. Qual è la differenza tra composti e derivati?  nei derivati, ad un morfema lessicale si aggiungono dei morfemi grammaticali (prefissi, suffissi…)  in un composto, invece, un morfema lessicale si aggiunge ad un altro morfema lessicale Sostanzialmente abbiamo, come nel caso di “copriletto” e “cassaforte”, due radici lessicali che mantengono il valore che avrebbero come parole autonome. In italiano, i composti si possono formare da ogni categoria grammaticale: - croce + via  nome + nome - mano + mettere  nome + verbo - copri + capo  verbo + nome - piano + forte  avverbio + avverbio UNITÀ PLURILESSEMATICHE O PLURIREMATICHE Diverso è il caso delle unità plurilessematiche o plurirematiche: gruppi di parole che non formano un composto, cioè i morfemi non sono uniti, ma insieme formano un significato che è diverso dalla somma delle singole componenti. es: “avviso di garanzia” “gatto delle nevi”, verbi sintagmatici (“andare via”, “mettere sotto”, “fare pressione”) Ad esempio il “gatto delle nevi” è la macchina che spiana le piste alla fine della giornata; questo significato non risulta dalla sommatoria delle singole componenti e non è immediatamente deducibile dalla semplice somma di “gatto” e “neve”, ma è un significato ulteriore che forma una sorta di espressione idiomatica che prende appunto il nome di unità plurilessematica. ALLOMORFI Parlando di morfemi, un’altra aggiunta che dobbiamo fare riguarda la loro possibilità di variazione formale; siamo in un campo, per la morfologia, che è molto vicino a quello già visto per gli allofoni dello stesso fonema. Così come esistono delle varianti di un fonema (chiamati allofoni), allo stesso modo possono esistere delle varianti di uno stesso morfema perché può succedere che un morfema si realizza in modi diversi. Un esempio è la “s” plurale dell’inglese:  il plurale del sostantivo “rock” è “rocks”  la “s” è una fricativa alveolare sorda  il plurale del sostantivo “fog” è “fogs”  la “s” è una fricativa alveolare sonora  la variazione fra la “s” sorda di “rocks” e la “s” sonora (“z”) di “fogs”, dipende da un fenomeno di assimilazione  il plurale di un sostantivo che termina in “s” è “es” “house”  ”houses” In queste tre varianti non c’è una variazione di significato perché tutte esprimono allo stesso modo il plurale, varia solo la forma, cioè il significante: variazioni di questo tipo, nella forma ma non nel significato, prendono il nome di allomorfi, cioè varianti di uno stesso morfema. es: “Gli uomini” vs “I bambini”  non c’è una differenza di significato dell’articolo in quanto entrambi esprimono il maschile plurale bensì c’è una variazione nella forma; quindi, gli articoli “gli”/”i” sono allomorfi, cioè varianti dello stesso morfema. Diverso è il caso di un’opposizione del tipo “L’uomo” vs “Gli uomini”  non sono allomorfi ma morfemi perché esprimono un significato diverso: uno esprime il maschile singolare e l’altro esprime il maschile plurale. es: “amico” vs “amici” - in “amico”, il morfema lessicale è “amic” con l’occlusiva velare - in “amici”, il morfema lessicale è “amic” con l’affricata palato-alveolare  entrambe le forme rimandano alla stessa nozione di “amicizia”, dunque sono due allomorfi dello stesso morfema Abbiamo due casi diversi a causa della vocale che segue, ma non cambia il significato: - in “amico”, la “o” è una vocale velare e quindi la consonante è velare - in “amici”, la “i” è una vocale palatale e quindi la consonante è palatale IL GENERE Corbett, noto linguista che ha ripreso studi precedenti in particolare sulle lingue slave, ha dato una nuova classificazione da cui si sono aperte nuove strade per quanto riguarda il genere. Cos’è il genere? Un sostantivo può essere maschile, femminile e, in alcune lingue, anche neutro; questi sono generi grammaticali che non sempre rispecchiano il genere naturale, cioè non è detto che un referente di sesso maschile in una determinata lingua sia sempre codificato al maschile  dobbiamo sempre distinguere il genere grammaticale dal genere naturale. All’interno del genere grammaticale distinguiamo due tipologie: - Il genere inerente è dato dalle desinenze stesse del nome; ad esempio, in italiano la “o” e la “a” selezionano due grandi classi flessive: rispettivamente quella dei nomi maschili e quella dei nomi femminili. Ciò però non avviene sempre: ad esempio, “il pilota” e “il poeta” sono sostantivi in “a” ma sono categorizzati al “maschile”, come si vede dall’articolo “il”. Ci sono tanti modi per cui un sostantivo può essere classificato come maschile o femminile; sono in generale criteri semantici, criteri di tipo culturale che determinano l’appartenenza di un nome in una lingua a una determinata categoria. - Il genere contestuale è determinato dai cosiddetti “target dell’accordo” (“associated words”); i target dell’accordo sono forme grammaticali come gli articoli o gli aggettivi, cioè tutto ciò che “circonda” il nome e che si accorda con il nome. Se guardiamo solo al genere contestuale, ci accorgiamo che lingue per la quale era stato stabilito che vi fossero solo due generi, in base all’accordo possono avere tre, o addirittura quattro generi: questa è la grande scoperta di Corbett, una tra le scoperte più significative degli ultimi 30 anni nella linguistica tipologica Egli insegnava in una piccola università inglese del Sussex e ha formato uno dei gruppi di linguistica più attivi in Europa che ha avuto grandi finanziamenti. Corbett si ispira ad una celebre frase di Ockett, uno dei grandi linguisti della metà del ‘900, che si rifà alla nozione di genere contestuale: “I generi sono classi di nomi riflessi nel comportamento delle parole associate”. Ad esempio, in “le forchette piccole”: - i target dell’accordo sono “le” e “piccole” - forchette” è il cosiddetto “controllore”, cioè l’elemento principale da cui dipende l’accordo  classifichiamo “forchetta” in genere e in numero a seconda della desinenza finale (genere inerente) ma possiamo classificare anche in base al genere contestuale, cioè in base ai target IL TERZO GENERE  il bambino buono l’accordo è al maschile, singolare  i bambini buoni  l’accordo è al maschile, plurale  la forchetta piccola l’accordo è al femminile, singolare  le forchette piccole l’accordo è al femminile, plurale  questo uovo buono l'accordo è al maschile, singolare  queste uova buone  l’accordo è al femminile, plurale Se prendiamo in considerazione solo il genere inerente, l’italiano ha 2 generi (maschile e femminile), ma ragionando “alla Corbett”, abbiamo 3 generi perché:  desinenze specifiche per il maschile, singolare e plurale  desinenze specifiche per il femminile, singolare e plurale  desinenze “sincretiche”, cioè maschile al singolare e femminile al plurale  genere alternante Corbett però, nonostante questo ragionamento sia valido, postula per l’italiano due generi perché parole in italiano standard che si comportano come “uovo” sono pochissime es: il braccio lungo/ le braccia lunghe Questo 3° genere, che ha un accordo sincretico, ha così pochi lessemi da far parte del cosiddetto “inquoreit gender”, cioè il gender che non raggiunge il quorum (un numero minimo di parole per poter essere un genere a sé). Si sono fatte molte ipotesi a questo proposito, ma quello che in italiano è un “inquoreit gender”, in molti dialetti italiani e in altre lingue romanze, è un genere vero e proprio, cioè rappresentato da un numero di lessemi molto alto. Questo per esempio, è il comportamento “normale” del rumeno (unica lingua romanza sopravvissuta nell’est Europa) che ha:  maschile singolare / maschile plurale  femminile singolare / femminile plurale  maschile singolare / femminile plurale  ha il genere alternante in un numero altissimo di lessemi Il rumeno, a differenza di tutte le lingue romanze occidentali, ha l’articolo definito “posposto”, cioè si mette dopo il nome, non prima: es. in italiano “l’uomo”  in rumeno “omul”, dove quella “l” è l’articolo es: “il vino è buono”  “vinul è bun” con l’accordo maschile singolare ma “vinuile sunt bune”, letteralmente “vini le sono buone”, con un accordo femminile plurale Tante varietà dialettali dell’italo-romanzo antico si comportato allo stesso modo del rumeno, come ad esempio il toscano antico: - “il castello” – “il prato” – “il nome”  maschile singolare - “le castella” – “le pratora” – “le nomora”  femminile plurale Da questa opposizione (“i castelli belli” vs “le castella bella”) deduciamo che, a differenza dell’italiano moderno, che ha in questi nomi l’accordo di tipo 1 (maschile singolare/maschile plurale), in toscano antico, questi nomi erano nel 3° genere (genere alternante) perché avevano un accordo al maschile nel singolare e un accordo al femminile nel plurale. L’articolo non è uguale perché se uno dà raddoppiamento fonosintattico e l’altro no vuol dire che l’etimologia è diversa perché nei dialetti meridionali il raddoppiamento fonosintattico è innescato solo da quelle parole che in latino avevano la consonante finale. Quindi, l’articolo di “o bbrito”, qualunque sia la sua origine, deriva da una forma latina che è diversa da quella che ha prodotto l’articolo di “o vitro”. Così a Napoli, e in generale nei dialetti campani: “offuoco” indica il fuoco inteso in generale vs “o fuoco” senza RF indica i fuochi d’artificio (quantificabile) Alcuni dialetti che hanno tre generi (maschile, femminile e alternante) hanno un sistema asimmetrico perché da una parte abbiamo un accordo solo al maschile, dall’altra abbiamo un accordo solo al femminile e poi abbiamo il genere alternante che ha l’accordo maschile al singolare e femminile al plurale. Allora alcuni dialetti, come il romanesco antico, per rendere simmetrico questo sistema, hanno creato un quarto genere speculare al terzo, cioè hanno dei nomi che al singolare hanno l’accordo al femminile e al plurale hanno l’accordo al maschile (“la torre bella/li torri belli”, “la chiave bella/li chiavi belli”, “la votte piena/li votti pieni”)  è sempre un genere alternante ma con i poli invertiti Anche se i dialetti meridionali oggi iniziano molto più a sud (tra Lazio e Campania), un tempo il romanesco nella sua fase antica era a tutti gli effetti un dialetto meridionale, questo è quello che si chiama romanesco di prima fase. Dal 1500, soprattutto a causa di migrazioni dalla Toscana, sostanzialmente di impiegati che lavoravano per il Papato, il dialetto romanesco è stato toscanizzato; c’è una celebre monografia, “La toscanizzazione del dialetto romanesco”, ed è quello che si chiama romanesco di seconda fase. Infatti, Bruno Migliorini, uno dei più grandi studiosi della lingua italiana, scrive a proposito di questo cambiamento, “La storia del romanesco è la storia del suo progressivo disfacimento”; allora quando si parla di romanesco antico si parla del romanesco di prima fase, cioè si prende a campione di un dialetto meridionale. SUPPLETIVISMO Il suppletivismo è un fenomeno morfologico molto diffuso su cui si è scritto molto: può succedere, per diversi ordini di ragioni che all’interno di un paradigma verbale, ad esempio, vengano selezionate due basi diverse che però assolvono alla stessa funzione. Si pensi al caso dell’inglese che per il verbo “andare” usa una radice per il presente, “go”, che è diverse dalla radice che usa per il passato “went”; la stessa cosa c’è nel caso del paradigma di “andare” per l’italiano che utilizza due basi diverse cioè “vado” e “and-“ (i verbi irregolari sono irregolari poiché suppletivi). Quindi, può succedere che all’interno di un paradigma verbale, ma anche all’interno di un’alternanza nominale (sostantivo “acqua” > aggettivo “idrico”), si utilizzino due basi diverse per assolvere alle stesse funzioni: quando avviene una cosa del genere si parla di suppletivismo. ALLOTROPI Può succedere che all’origine del suppletivismo ci sia una stessa base che però ha subito delle alterazioni fonetiche talmente forti che i parlanti la avvertono in sincronia come due basi diverse: es: il nome della città di Chieti deriva da una base “Teate” (antico nome di Chieti) tanto che gli abitanti della città di Chieti si chiamano “teatini” es: l’antico nome di “Ivrea” è un nome celtico “Eporedia” (“epo” nome per “cavallo” in celtico) e gli abitanti di Ivrea si chiamano “eporediesi” Questo qui, analizzato da un punto di vista sincronico, è la stessa cosa che succede con “acqua” /”idrico” e con “vado”/”andiamo”, cioè due basi diverse per fare la stessa cosa. Però in diacronia, cioè se andiamo a vedere il percorso evolutivo, la differenza tra “vado”/”andiamo” e “Ivrea”/”Eporediesi” è che “Ivrea/Eporediesi” partono dalla stessa base, cioè da “Eporedia”. Come mai da una parte abbiamo “eporediesi” e dall’altra “Ivrea”, cioè come mai abbiamo due forme cosi diverse? Ciò avviene perché può succedere che da una stessa forma si seguano due percorsi diversi:  “Ivrea”, è la forma popolare, cioè questa parola ha subito delle alterazioni fonetiche senza soluzione di continuità, cioè da un parlante all’altro, e questa è quella che si chiama evoluzione popolare, un’evoluzione ininterrotta nel tempo. Nel passaggio “Eporedia > “Ivrea” la “p” è andata a “v” per lenizione e la “d” si è dileguata (Ivrea sta sopra la linea La Spezia-Rimini quindi la lenizione è normale).  invece, “eporediesi” è la forma colta, è il cosiddetto cultismo, cioè una parola che è stata introdotta nella storia della lingua italiana in un certo momento tramite i testi scritti. Come si fa a riconoscere la forma popolare da quella colta?  la forma popolare ha delle chiare spie di evoluzione fonetica regolare (“p” > “v”, “d” > “0”)  invece, la forma colta, proprio perché è stata introdotta in un certo momento della storia della lingua, quasi sempre da fonti scritte, assomiglia molto, o è praticamente identica, alla base di partenza. Quando da una stessa base abbiamo una forma colta, cioè un cosiddetto cultismo, e una forma popolare si parla di allotropia, cioè le due forme si chiamano allotropi. Questo qui è un caso di allotropia in diacronia, ma queste due forme sono diventate talmente diverse l’una dall’altra che il parlante in sincronia le riconosce come un fenomeno di suppletivismo in quanto il parlante, a meno che conosca l’etimologia, non è più in grado di avvertire queste due forme come derivanti dalla stessa base. Per distinguere la parola che ha avuto un’evoluzione popolare e il cultismo:  quando la parola ha subito un’alterazione fonetica evidente, quella è la forma popolare  se la parola è rimasta molto vicina foneticamente alla base, quello è il cultismo - “Chieti” forma popolare vs “Teatino” cultismo (è identico alla base “Teate”) - “Ivrea” forma popolare vs “Eporediesi” cultismo - Dal latino “circulum”, l’italiano ha “circolo” e “cerchio”: la “u” cade così da “circulum >circlum” e il gruppo “cl” dà in italiano la palatale “ch” così come “clave” > chiave” e “circlum” > cerchio”. La forma popolare sarà “cerchio” e il cultismo “circolo”. - “famiglia” e “familiare”: in origine “familiare” è il cultismo e “famiglia” è la forma popolare perché il gruppo “lj” del latino si è sviluppato in italiano come laterale palatale, poi per analogia, cioè per somiglianza a “famiglia”, oggi si tende a scrivere familiare con “gl”. - “fauce” > “foce”: la base è “faucem”, “au” è il dittongo che in italiano si monottonga, cioè diventa un unico suono (come “aurum” > oro”, “auricla > orecchio”), se si mantiene il dittongo quello è il cultismo, quindi “foce” è l’esito popolare, e “fauce” è il cultismo. - “parola” vs “parabola”: il cultismo è “parabola”. - “sedia” vs “seggia”: “sedia” è il cultismo perché in italiano “dj” del latino dà “g” e quindi, nonostante “sedia” sia più usato di “seggia”, “sedia” è il cultismo” e “seggia” è l’esito popolare RIANALISI La rianalisi è un fenomeno molto frequente in diacronia, cioè nello sviluppo di una lingua. Abbiamo visto che all’interno ogni parola si posso individuare dei confini tra morfema e un altro morfema; può succedere che, con il passare del tempo, la parola si opacizza, cioè il parlante non riesce più con facilità ad individuare il confine tra un morfema e un altro morfema e allora “sposta arbitrariamente” i confini, compiendo quella che in morfologia si chiama una rianalisi. Uno degli esempi più famosi di rianalisi è il caso della parola “-burger”: “Hamburger” è letteralmente un “hamburghese”, cioè un abitante della città di “Hamburg”, in Germania, quindi il confine morfematico era “Hamburg”  il nome tedesco di Amburgo + “-er”  suffisso che indica l’abitante. Ad un certo punto, quando questa parola è entrata in ambito anglofono, la sillaba iniziale “Ham-“ è stata confusa con il nome “ham” (“prosciutto”) e quindi è stata risegmentata con ham + burger: una volta creato lo schema x + burger al posto di “ham-“ ci si poteva mettere qualsiasi altro nome che designa quello che è contenuto nel panino (es: “cheese-bruger”, “beef-burger”) La rianalisi può avvenire sempre ma avviene, in generale, quando si perde la trasparenza della parola. Per esempio, in molti dialetti meridionali, compreso il siciliano, in dialetto c’è “lapa” in cui questa “l” è il frutto di una rianalisi, cioè letteralmente sarebbe “la ape”: quando il parlante non riesce più ad intuire l’etimo, fa una cosiddetta agglutinazione dell’articolo, cioè fraintende quello che era in origine l’articolo come se fosse la prima sillaba della parola e quindi sposta i confini morfematici. La rianalisi dell’articolo frainteso come prima sillaba della parola è un fenomeno frequentissimo nei casi di contatto tra lingue e diletto, tra una lingua e un’altra lingua o nel caso delle lingue creole. Per esempio, nel caso dell’Europa islamizzata, in Sicilia e in Spagna è strapieno di toponomi, cioè di nomi di luogo, che iniziano per “Al-“(“Alcantara”, ad esempio): questo “Al-“ è l’articolo dell’arabo che è stato ad un certo punto frainteso dai parlanti non arabofoni ed è stato rianalizzato come prima sillaba del nome. Ci sono fenomeni di rianalisi nelle lingue creole, ovvero in quelle lingue che sono nate soprattutto nel periodo delle grandi colonizzazioni dal contatto tra una lingua europea e una lingua indigena. In realtà, all’inizio si è formata una sorta di lingua franca, cioè una lingua utile per la comunicazione pratica, nei porti soprattutto dell’area equatoriale (i creoli caraibici sono particolarmente numerosi) e le lingue d’Europa principali che hanno originato i creoli sono soprattutto l’inglese, il francese, il portoghese, lo spagnolo e l’olandese. Si immagini un colonizzatore francese che va, ad esempio nelle Antille, si comincia a sviluppare una lingua franca nell’area portuale, questi sono i cosiddetti pigin. Un pigin fa due percorsi:  o muore perché la fase storica del contatto termina, per cui non si evolve e sparisce  oppure fa “carriera”, cioè si evolve e diventa la lingua madre (L1) di quell’area  se un pigin fa carriera diventa creolo Se si prende un dizionario di un qualunque creolo, prendiamone ad esempio uno a base francese, si trova che la lettera quasi certamente più massiccia come numero di entrate lessicali è la “L” perché moltissime parole che nel creolo a base francese iniziano per “L” sono frutto della rianalisi dell’articolo, quasi sempre l’articolo femminile. Dunque, un nome che in un creolo inizia con “L-“ in una percentuale molto alta è dato dalla rianalisi dell’articolo francese come prima sillaba della parola. khi ‘quando’ toi ‘io’ dén ‘venire’ nhà ‘casa’ ban ‘amico’ toi ‘io’ chung ‘PLURALE’ toi ‘io’ bat ‘prendere’ dau ‘testa’ làm ‘fare’ bài ‘lezione’ “Quando io giunsi a casa del mio amico, cominciammo (prendere testa = incominciare) a fare la lezione” “toi” è un pronome personale di prima persona però può essere utilizzato anche come aggettivo possessivo, cioè si carica di più valori subendo un processo tipico in queste lingue che è un processo di conversione, cioè una parola, in questo caso il pronome di prima persona, a seconda del contesto che occupa nella frase può assolvere a più funzioni: - nel primo caso, è pronome personale di prima persona “io” - accanto a “ban” (“amico”), “ban toi” diventa “amico mio”, quindi subisce un processo di conversione  questo è uno dei modi in cui queste lingue fanno la grammatica “toi chung” vuol dire io + plurale”, cioè “noi”: le lingue isolanti sono ricche di questi elementi che si chiamano classificatori e servono a fornire delle informazioni grammaticali, in questo caso il numero plurale, e sono quelle che i grammatici cinesi chiamano “parole vuote”, cioè parole che si privano del loro valore lessicale e acquistano una funzione puramente grammaticale di classificatori (numero, genere, tempo del verbo…). Per i verbi funziona nello stesso modo: per fare i tempi e le persone si usano dei classificatori e dei processi metaforici, cioè per dire il verbo “cominciare” ci sono delle lingue che hanno dei suffissi in particolare per indicare un’azione nel suo svolgimento (qui “prendere testa” è una sorta di metafora per indicare l’inizio di un’azione). Dunque, queste lingue “fanno la grammatica” attraverso processi metaforici e, in generale, sono processi di conversione, di grammaticalizzazione e soprattutto processi in cui vengono impiegate queste parole cosiddette “vuote”. Per distinguere uno studente da una studentessa, quindi un maschile da un femminile, lingue di questo tipo usano delle parole vuote che nel loro significato letterale significano rispettivamente “uomo” e “donna”: - studente + classificatore uomo”  studente maschile - studente + classificatore “donna”  studente femminile Un morfema cumulativo è un morfema che raccoglie più funzioni non a seconda della frase ma sempre; invece “toi” prende funzioni diverse a seconda della posizione che occupa nella frase: in queste lingue non esistono morfemi cumulativi, ma più in assoluto non esistono morfemi grammaticali legati. Se le parole sono mono-morfemiche è chiaro che esistono tantissimi casi di omofonia. Come si fa a distinguere una parola dall’altra in casi di omofonia? Molte di queste lingue ricorrono ad un sistema di prosodia particolarmente complesso che è dato dai cosiddetti toni che hanno un ruolo fonologico distintivo. Ad esempio, nel cinese mandarino esistono quattro toni fondamentali (ascendente, discendente, discendente/ascendete, ascendente/discendente), cioè combinando le prominenze accentuali una parola come “ma”, a seconda del tono, può significare “mamma”, può significare “cavallo” e altre cose ancora. DEFINIZIONE: Le parole tendono ad essere mono-morfematiche, la morfologia grammaticale è praticamente assente, quindi ricorrono a tutti i processi sopracitati. - LINGUE FLESSIVE Alle lingue flessive appartengono gran parte delle lingue indoeuropee, soprattutto di fase antica. Le lingue flessive sono caratterizzate da morfemi portmanteau o cumulativi, cioè morfemi che possono racchiudere al loro interno più funzioni es: nella parola latina “homin-ibus”, la desinenza “-ibus” indica il caso (dativo ma anche ablativo perché è sincretica) e il numero (plurale)  significa “per gli uomini” o “per mezzo degli uomini”. Anche l’italiano è una lingua flessiva, così come gran parte delle lingue romanze, dove ci sono morfemi cumulativi. DEFINIZIONE: Nelle lingue flessive-fusive, le parole sono composte da morfi grammaticali e da morfi lessicali, più indicazioni si concentrano in un unico morfema (morfemi cumulativi). L’indice di fusione è massimo e l’indice di sintesi è medio-basso: lingue che hanno morfemi cumulativi hanno un indice di trasparenza piuttosto basso perché non c’è una corrispondenza esatta tra forma e funzione; una forma, cioè un morfema, può esprimere tre, quattro, cinque funzioni, quindi non c’è una corrispondenza di uno a uno. - LINGUE AGGLUTINANTI Le lingue agglutinanti, come il turco, in cui la trasparenza morfologica è particolarmente chiara, cioè sono lingue che hanno, in termini di morfologia naturale, un indice di naturalezza morfologica particolarmente evidente perché in queste lingue i morfemi grammaticali legati non sono mai cumulativi. Per cui lingue come il giapponese, il turco, il basco e il finlandese, presentano dei morfemi che possono esprime una solo funzione. Se compariamo la parola “hominibus” del latino al corrispettivo turco “adam-lar-a” si vede chiaramente la differenza tra una lingua flessiva come il latino e una lingua agglutinante come il turco perché in “adam-lar-a” abbiamo un suffisso che è quello del plurale “-lar-“ e un altro suffisso che è quello del dativo “-a”: “adama” “all’uomo” vs “adam-lar” “uomini” vs “adam-lar-a” “uomo” + plurale + dativo “agli uomini” Quello che in latino si esprime con un solo morfema “-ibus”, che esprime il caso e il numero, in turco si esprime con due morfemi, uno per il plurale e uno per il dativo: tanti morfi quante sono le funzioni da esprimere. DEFINIZIONE: Una parola, generalmente, consta di più morfemi, ognuno dei quali adempia ad un’unica funzione. L’indice di fusione è minimo mentre l’indice di sintesi, cioè la trasparenza, è medio-alta. - LINGUE INTRO-FLESSIVE Le lingue intro-flessive non va classificata a parte ma come un sottotipo delle lingue flessivo-fusive; è la famiglia dell’arabo e di tutte le lingue che appartengono alla famiglia a cui appartiene l’arabo, cioè alle lingue semitiche. In questi casi si parla di lingue intro-flessive cioè, letteralmente, a flessione interna. Si tratta di lingue in cui la morfologia è a pettine: - lo scheletro, cioè la base del pettine, è rappresentato dalle consonanti che svolgono un ruolo puramente lessicale, cioè sono morfemi lessicali - e dentro la radice (si chiama intro-flessiva per questo) si inseriscono le vocali che hanno un ruolo solamente morfologico, cioè indicano se è un nome, se è un verbo, che tipo di nome è, che tempo è nel verbo…  danno indicazioni puramente grammaticali; le vocali fungono da transfissie es: dalla radice drs ‘studiare’: dars ‘lezione’, dirâsa ‘studio’, mudarris ‘insegnante’, madrasa ‘scuola Questa è la ragione per cui chi impara l’arabo inizia a leggere testi vocalizzati ma, con il tempo, impara a leggere con testi non vocalizzati, cioè con una grafia nella quale le vocali non sono segnate. Come si fa a capire che parola è? Il significato, cioè il morfema lessicale, è dato esclusivamente dalle consonanti e quindi una volta che si individua la parola all’interno del contesto della frase, automaticamente si capisce se è un nome, un aggettivo o un verbo e quindi automaticamente si sa quali vocali si devono inserire perché le vocali non dicono nulla sul significato lessicale, danno informazioni solo sulla grammatica NON ESISTONO TIPI PURI! Non esistono tipi puri, una lingua è sempre il prodotto di stratificazioni del passato per cui è assolutamente normale che una lingua isolante, agglutinante o flessiva lo sia solo tendenzialmente, cioè non lo sia al cento per cento. L’inglese, per esempio, si dice che oggi è una lingua tendenzialmente isolante perché presenta morfemi grammaticali in numero molto ridotto: ad esempio, gli aggettivi non hanno morfi di accordo, restano invariati; poi ci sono dei processi di conversione (“will” è “voglio” ma è impiegato per formare il futuro) come uno stesso nome può svolgere più funzioni, come il “toi” del vietnamita, così “round”: - è aggettivo nel sintagma “round table” - è sostantivo in “rounds of paper” - è secondo elemento di un verbo sintagmatico, cioè di un “phrasal verb” in “go round” - è verbo in “to round”  assume diverse funzioni grammaticali in dipendenza dal contesto frasale. Questi esempi mostrano che l’inglese è una lingua isolante. In alcuni casi, però, si comporta come una lingua agglutinante, cioè come il turco o il finlandese, perché ha dei morfi, come la “-s” del plurale che esprimono una sola funzione. Infine, mantiene dei residui della vecchia tipologia che aveva in comune con tutte le lingue indoeuropee di fase antica, cioè la tipologia flessivo-fusiva. Quando una lingua “perde pezzi” dell’antico tipo, il sistema grammaticale più conservativo è quello dei pronomi, cioè i pronomi personali sono quelli che mantengono il tipo più antico: it” neutro singolare “he” maschile singolare “she” femminile singolare  morfemi cumulativi “Fronte” non fa parte di questa casistica perché rimane sostantivo e al contempo si grammaticalizza, ma ci sono moltissimi altri esempi di grammaticalizzazione in cui il valore originario, cioè il valore che aveva come morfo lessicale, si opacizza, cioè diventa talmente oscuro che non si riesce più a ricostruire il valore originario. Ci sono moltissimi studi che hanno tentato di ricostruire il valore lessicale dei morfi che oggi sono grammaticali. Esiste un lessico della grammaticalizzazione di Heine, uno dei più grandi africanisti, dove ci sono molti esempi; le lingue africane dell’Africa sono ricchissime di esempi di grammaticalizzazione. FORMAZIONE DEL FUTURO ROMANZO Ad esempio, uno dei processi classici di grammaticalizzazione è la formazione del futuro nelle lingue romanze (“canterò” dell’italiano, “cantaré” dello spagnolo, “chantrè” del francese); il latino ha una forma dedicata per il futuro, cioè “cantabo”, ma “canterò” non può derivare da “cantabo”: è foneticamente impossibile. Da dove derivano quindi questi futuri? Derivano da una perifrasi composta dall’infinito del verbo seguito dal presente del verbo “avere”, cioè da “cantare habeo”. Che c’entra “cantare habeo” con il futuro? In tantissime lingue del mondo non esiste una vera e propria forma di futuro ma esistono una serie di perifrasi composte dai verbi “avere”/”volere”/”dovere”. Ad esempio, in inglese abbiamo “I will sing” dove quel “will” è letteralmente il verbo di “volere”, quindi l’intenzionalità del parlante diventa futuro (“io voglio cantare” > “canterò”). In molte varietà sarde “depo”/”aju” + infinito non vogliono dire “devo cantare”/ “ho da cantare” ma vogliono dire “canterò” e così in tantissime lingue del mondo. Anche il latino parlato, alla base delle lingue romanze, ha abbandonato la vecchia forma di futuro sintetico, cioè la forma dedicata con le sue desinenze, e ha sviluppato una perifrasi composta dall’infinito + il verbo avere (“cantare habeo > “ho da cantare” > “canterò”). Che cosa è successo? “Habeo”:  ha perso il suo valore lessicale (è diventato morfo legato)  poi ha subito un processo molto accelerato di “phonetic addiction”, cioè si è ridotto nel corpo fonico e si è ridotto alla desinenza (“o” in italiano, “e” in francese e in spagnolo)  ha subito il “semantic bleaching”, cioè l’oscuramento semantico: “cantare habeo” non significa più “ho da cantare” ma significa “canterò”, quindi perde completamente la sua autonomia lessicale in questa perifrasi Il passaggio da morfo grammaticale a morfo lessicale si chiama degrammaticalizzazione che però è un fenomeno molto più raro nelle lingue del mondo, cioè le lingue “tendono” a grammaticalizzare i loro elementi però esistono dei casi di degrammaticalizzazione. Ad esempio, molti sono stati creati anche in lingue piuttosto sperimentali, come può essere la lingua dei giornali, in cui ad un certo punto è andato di moda parlare di “ismi”, cioè parlare di movimenti politici caratterizzati da un certo estremismo perché “ismo” è un suffisso che troviamo in parole del tipo “comunismo”, “fascismo” “nazismo”. “ismo” è un suffisso, cioè un morfo grammaticale legato; se viene utilizzato in una frase del tipo “Tutti gli ismi del nostro secolo” diventa sostantivo, cioè un morfo lessicale. La stessa cosa avviene nel condizionale: non c’è un condizionale in latino, ma nella lingua parlata alla base delle lingue romanze “cantare” seguito dall’imperfetto del verbo “avere” cioè “cantare habebam” diventa “canterei” e anche qua “habebam” perde sostanza fonica, perde il suo significato e diventa semplicemente la desinenza del condizionale. FORMAZIONE DEGLI GLI AVVERBI IN -MENTE Un altro processo di grammaticalizzazione famoso è la formazione degli avverbi in “-mente” del tipo “velocemente”, “lentamente”. “Mente” in latino è il caso ablativo del nome “mens, mentis” cioè “con mente”; allora un sintagma in latino come “clara mente” vuol dire “con la mente chiara”. Questo “mente” perde il suo significato lessicale, con il tempo si grammaticalizza e passa da morfema lessicale a morfema grammaticale e quindi da morfo libero a morfo legato perché “mente” diventa un suffisso. La stessa cosa avviene in inglese e in tedesco con “ly”/”lich” che servono a formare degli avverbi ma in realtà nel germanico antico, cioè nella lingua alla base dell’inglese e del tedesco, sia “ly” dell’inglese che “lich” del tedesco derivano da “liko”. Si crea uno schema “x-liko” che vuol dire letteralmente “con la forma di X”, quindi quel “lich” voleva dire “forma” e anche qua succede la stessa cosa di “mente”: da morfo lessicale diventa morfo grammaticale, da morfo libero diventa morfo legato. NEGAZIONE Un altro fenomeno di grammaticalizzazione è la negazione. Ci sono molte lingue del mondo che fanno la negazione con un solo elemento; altre lingue, come ad esempio il francese, almeno nella varietà standard, hanno bisogno di due elementi:  la negazione  un rafforzativo della negazione Nel caso del francese è il “pas” la cui etimologia è “passum” il termine latino che significa “passo”. Perché da “passo” si passa alla negazione? Cioè, cosa c’entra il “pas” del francese con il termine “passo” del latino? Perché, in generale, gli elementi che rafforzano la negazione sono elementi che indicano o una piccola quantità o una piccola distanza o uno spazio misurato/stretto. es: “Gian ne marche pas”, cioè “Giovanni non cammina”, in origine significava qualcosa del tipo “Gianni non cammina un passo” e poi diventa “Gianni non cammina affatto” e poi diventa “Gianni non cammina” tanto che in altre varietà del francese è sufficiente il “pas” per fare la negazione. È ovvio che i contesti in cui è nata questa grammaticalizzazione sono contesti con un verbo di movimento, come “marchè” cioè “camminare”; in origine era “Giovanni non cammina un passo” e questo “passo” si grammaticalizza e diventa appunto “pas”. Così in molti italiani regionali, per rafforzare la negazione, si usa il termine “mica” es: “non l’ho fatto mica apposta” “mica” significava in origine “mollica” nel senso di piccola quantità e da piccola quantità si sviluppa il significato di negazione e il contesto che avrà sviluppato questo processo sarà stato un contesto con verbi del tipo “mangiare”, “non mangio una mica” (cioè “una briciola”) > “non mangio affatto”> “non mangio mica” e se si sviluppa ulteriormente diventa negazione e non più rafforzativo della negazione. FORMAZIONE DELL’ARTICOLO DEFINITO Un’altra classica storia della grammaticalizzazione riguarda la formazione dell’articolo definito dell’italiano e delle altre lingue romanze. In generale, nelle lingue romanze questo articolo determinativo deriva da “ille”, cioè deriva da quello che in latino era il pronome dimostrativo, quindi un pronome che aveva la funzione chiamata “deittica”, cioè dà un’indicazione, in questo caso, della persona. Il passaggio da articolo a pronome è molto ben documentato nelle lingue romanze e soprattutto nel latino tardo, cioè nelle fasi di transizione tra latino e lingue romanze, e soprattutto nei primi testi in volgare. In generale, in un processo di grammaticalizzazione la forma originaria si conserva per lungo tempo ma cambia il significato; se “ille” dà “il”/“lo”/”la” ci sono molti testi in cui si conserva la forma del pronome, cioè il tipo “ille”/ “illa”, ma questo non vale più pronome ma vale articolo a tutti gli effetti. Per esempio, uno dei primi testi dell’italiano antico, che è datato grossomodo all’VIII secolo, si trova nelle catacombe di Commodilla, a Roma sulla Via Appia e, all’interno di queste catacombe, c’è una delle prime iscrizioni in volgare italiano, è una sorta di avvertimento ai fedeli che entrano nelle catacombe a pregare in silenzio: “Non dicere illa secrita ab(b)oce”, cioè letteralmente “Non dire le (preghiere) segrete a voce (alta)” Questo “illa” non è più pronome o un aggettivo dimostrativo (colui che ha scritto non sta dicendo al fedele “non dire quelle segrete…” perché “quelle” non si riferisce a niente) ma vuol dire “le”: è articolo a tutti gli effetti anche se conserva ancora la forma piena del pronome latino. Nella formazione dell’articolo c’è una fase molto lunga, che potremmo definire una fase di mezzo, in cui si mantiene ancora la forma del pronome latino ma il significato di articolo definito romanzo è già pienamente sviluppato. In genere, tutte le lingue romanze, per sviluppare tramite grammaticalizzazione il proprio articolo, ricorrono al pronome dimostrativo “ille”; ci sono però delle varietà, come i dialetti della Sardegna e i dialetti delle isole Baleari (catalano delle Baleari), che non hanno il tipo “il”/”lo”/”la” dell’italiano e delle altre lingue romanze ma hanno “su” per il maschile e “sa” per il femminile perché questo articolo non deriva da “ille” ma da “ipse”, l’altro pronome dimostrativo del latino. Non è un caso che queste lingue abbiano mantenuto una forma diversa da quella diffusa nella parte centrale della Romania perché, come abbiamo già visto in geolinguistica, Baleari e Sardegna sono area laterali, cioè sono aree isolate; in generale, le isole, i posti di montagna e i posti di difficile accesso sono aree che conservano di più gli arcaismi, cioè le forme più antiche. Evidentemente, questo è un relitto molto significativo di un latino regionale in cui l’articolo per grammaticalizzazione si è sviluppato dalle forme del tipo “ipse”/”ipsa” e non da “ille”/”illa”. PREPOSIZIONI DA NOMI DI PARTI DEL CORPO UMANO Infine, in moltissime lingue del mondo la grammaticalizzazione si sviluppa a partire da nomi che indicano parti del corpo. In particolare le preposizioni, soprattutto di luogo, nascono da nomi che indicano parti del corpo umano. Ad esempio, in una lingua amerindiana (pre colombiana) il termine “vach” (“viso”), è utilizzato come preposizione locativa per significare “di fronte a” esattamente come è usato con questa funzione il nostro “fronte” nel sintagma preposizionale “di fronte a”. Qua c’è anche un altro fenomeno: dopo la metafonesi tutte le vocali atone, fatto tipico dei dialetti centro- meridionali, diventano schwa, cioè si indeboliscono. Dunque, non avessimo la base latina, da una forma come “mínəkə”, non saremmo in grado di vedere se c’è stata un’azione metafonetica perché quest’ultima è provocata solo dalla “i” e dalla “u”, non dallo schwa: quindi bisogna conoscere la base di partenza e partire da una forma dove c’era la “i”/ “u” finale. RIPETIZIONE: In “Domĭnĭcu”” la “i” breve, nelle lingue romanze, diventa “e” (“Doménicu”) e questa non è metafonia, è sviluppo normale (in italiano “Domenico”). Nei dialetti che hanno metafonesi, che sono tendenzialmente i dialetti centro-meridionali, la “u” metafonizza la “e”, cioè la alza nel trapezio perché la “u” è una vocale posteriore però alta: quindi, per assimilazione, la vocale medio-alta diventa alta (“Dominicu”) . Dopo che c’è stata metafonia, tutte le vocali atone in questi dialetti diventano schwa da cui la forma campana o di tanti altri dialetti meridionali “mínəkə” .. Se abbiamo solo la forma “mínəkə” e non conosciamo l’etimologia, non siamo in gradi di dire se c’è stata metafonesi o meno perché nella forma “mínəkə” non c’è la“i”/“u” e quindi non capiamo se questa “i” è frutto di metafonesi oppure no. Nell’italo-romanzo, cioè nei dialetti centro meridionali dell’Italia, esistono 2 tipi di metafonesi:  metafonesi napoletana  metafonesi sabina o ciociaresca -METAFONESI NAPOLETANA La prima metafonesi è conosciuta con il nome di “metafonesi napoletana” ed è quella più diffusa in questi dialetti. Quando una parola terminava in latino parlato in “i” o in “u”, se le vocali sono colpite dalla metafonesi napoletana:  la “e” medio-bassa e la “o” medio-bassa si dittongano ε > je ; ɔ >wo  la “e” medio-alta o la “o” medio-alta si chiudono e > i ; o > u - METAFONESI SABINA O CIOCIARESCA Invece, nell’altro tipo di metafonesi, chiamata “sabina” o “ciociaresca” (perché diffusa in particolare nel basso Lazio, cioè nella Ciociara, in provincia di Frosinone)  le vocali medio-basse si alzano, cioè si chiudono ɜ > e, ɔ > o  le vocali medio-alte si alzano, cioè si chiudono: e > i, o > u. La differenza tra metafonesi napoletana e metafonesi sabina riguarda le vocali medio-basse perché:  nella metafonesi di tipo napoletano si dittongano  nella metafonesi di tipo sabino si chiudono Per lungo tempo si è pensato che questo tipo di metafonesi fosse una sorta di metafonesi marginale, secondaria rispetto al tipo napoletano per varie ragione:  perché il tipo napoletano è più diffuso in tutti i dialetti centro-meridionali  perché questo è attestato in piccolissime aree (in punti della Ciociaria e in punti della Campania) Invece, da qualche anno, è tornata in voga una vecchia idea secondo la quale la metafonesi vera sia quella sabina e, al di là di tante considerazioni che si possono fare, probabilmente questa è la tesi più giusta perché, se abbiamo detto che la metafonesi è un fenomeno di assimilazione, ci si aspetta che per assimilazione ci sia una chiusura delle vocali che diventano più vicine possibili alla “i” e alla “u”. Il dittongo, se visto in termini puramente di assimilazione, non è facile da spiegare: come mai una vocale medio-bassa ha dato un dittongo per assimilazione da “i” o da “u”? nella metafonesi sabina, invece, si spiega molto meglio, cioè questa è una vera metafonia. In più c’è da dire che è vero che la metafonesi sabina è del tutto marginale e molto limitata ma è anche vero, come abbiamo visto, che sono le aree periferiche a conservare la caratteristica più antica: le aree a metafonesi sabina sembrano proprio aree periferiche o isolate, quindi aree che conservano il fenomeno più antico, quello originario. Esempi (dai dialetti campani come rappresentanti del Meridione): Da “fĭlĭce”, la “i” breve del latino in italiano che non ha metafonesi dà “e” (“felce”); invece nei dialetti che hanno metafonesi, la “e” del singolare non dà metafonesi perché la metafonesi la danno solo la “i” e la “u”, quindi al singolare, nella variante dialettale, rimane uguale all’italiano “felce” (“féləčə”). Al plurale, invece, non partiamo da “fĭlĭce”, ma partiamo da “fĭlĭci” con la i”; quindi succede che questa “i” metafonizza la “e” e la alza e quindi dà “fíləčə”. L’unica differenza tra “féləčə” vs “fíləčə” è la “e” vs la “i”: il prodotto della metafonia è l’unico modo che permette di distinguere il singolare dal plurale, che altrimenti sarebbero identici.  metafonesi: mezzo morfologico per fare la distinzione tra singolare e plurale in questi dialetti. MORFOMETAFONIA In moltissimi dialetti, anche nei casi in cui non c’erano “i” e “u” finali, i parlanti hanno riprodotto questo schema metafonetico anche in parole che non potrebbero avere metafonesi, per esempio in parole che hanno la “i” e la “u” originarie. Hanno prodotto delle coppie minime di questo tipo sfruttando il meccanismo della metafonesi, cioè sono forme che non hanno la metafonesi, non hanno una ragione fonetica che distingue la “i” dalla “e” ma copiano questo modello perché è un modello particolarmente produttivo in quanto, soprattutto nei dialetti in cui c’è la schwa (la vocale quasi non pronunciata) questa differenza è l’unico mezzo per poter distinguere il singolare dal plurale o, in alcuni casi, il maschile dal femminile o seconda da terza persona singolare. Dunque, sfruttano il principio alla base della metafonesi e quindi fanno copie del tipo“ féləčə” vs “fíləčə” anche in casi dove la metafonesi non c’è. Questo meccanismo di “copia” della metafonesi vera e propria viene conosciuto con il nome di morfometafonia, cioè una metafonia che ha una ragione puramente morfologica. Ciò dimostra anche come la morfologia, anche nel sistema “langue” nell’individuo, sia un sistema autonomo, cioè in grado di creare dei lessemi solo per ragioni grammaticali. Un tempo si pensava che tutto nasceva dalla fonetica e poi, eventualmente, si morfologizzava; se si creano coppie che oppongono una “i” a una “e” ma che non hanno un’origine metafonetica, evidentemente la morfologia è in grado di agire indipendentemente dall’attivazione di regole fonetiche. Questo è un principio molto importante che è definito da Aronoff, un grande linguistica, “morfology by itself”, “morfologia autonoma”, cioè in grado di fare cose del genere anche senza il meccanismo fonetico che provoca metafonesi. es: in “sōrĭce” ,la “o” lunga dà al singolare “sor(ə)cə”, l’equivalente dell’italiano regionale “sorcio”, non c’è metafonesi perché termina in “e”; al plurale non si parte da “sōrĭce” ma da “sorici” quindi, quella “i” metafonizza la “o”, la alza e quindi abbiamo “súr(ə)čə” Così come la metafonesi riesce a creare coppie singolare vs plurale, così la metafonesi crea coppie minime maschile vs femminile. Se ripartiamo dalla base che abbiamo già visto “Domĭnĭcu” la “i” breve dà “e”, come nell’italiano “Domenico”, nel dialetto invece abbiamo “mínəkə”. Perché abbiamo “mínəkə” e non “menəkə”? La “i” breve da “e”, quindi dobbiamo partire da “e” ma se c’è una “u” finale la “e” si alza e diventa “i”, quindi “Domenico” in questi dialetti è “mínəkə” Al femminile non partiamo da “Domĭnĭcu” ma da “Domĭnĭca” quindi lo sviluppo della “i” breve rimane “e”: “ mínəkə” è con la metafonia vs “menəka” è senza metafonia In “jŭvene” la “u” breve da “o” come in italiano “giovane”, non c’è metafonia perché c’è la “e”; al plurale si parte da “jŭveni”, quindi questa “o”, a causa della “i” finale, diventa “u”, cioè si chiude. RIASSUNTO: Queste coppie non nascono solo da contesti, foneticamente, metafonetici ma una volta che il parlante vede coppie di questo tipo, crea tutta una serie di altre coppie anche senza che ci sia un meccanismo metafonetico alla base perché vede che questo è l’unico mezzo morfologico per distinguere il singolare dal plurale Quindi, non c’è bisogno della metafonia per creare coppie di questo tipo: queste nascono da un’azione metafonetica ma poi questo principio di mutazione vocalica interna si estende perché evidentemente il tipo introflessivo, grazie alla metafonia, è diventato in questi dialetti particolarmente produttivo. Dunque, vuol dire non è un meccanismo che muore con la metafonia, ma vuol dire che è un meccanismo che i parlanti hanno recepito in maniera così produttiva da fare tante altre coppie di questo tipo. Esistono due tipi di metafonesi: nella metafonesi napoletana:  le vocali medio-basse si dittongano; “si dittongano” vuol dire tante cose: ε > je ; ɔ > wo ma può diventare qualsiasi tipi di dittongo e in alcuni dialetti il dittongo è discendente (cioè diventa “ie” e “uo”). Ad esempio, nei dialetti della Sicilia centrale, che sono gli unici dialetti siciliani ad avere metafonesi, questo dittongo dalle medio-basse è un dittongo discendente.  le vocali medio-alte si chiudono in vocali alte e > i; o > u nella metafonesi sabina:  le vocali medio-basse si chiudono in medio-alte ε > e ; ɔ > o  le vocali medio-alte si chiudono in vocali alte e > i ; o > u come nella metafonesi napoletana DOM (“marcatura differenziale del complemento oggetto”) Che una frase sia prototipica si può dedurre anche dal fatto che, in moltissime lingue del mondo, quando il complemento oggetto è animato e ha dei tratti di agente (cioè volontativi), riceve una marcatura speciale per distinguerlo dal complemento oggetto prototipico (complemento oggetto undergoar, inanimato): questa strategia si chiama DOM (“differential object marking”), cioè “marcatura differenziale del complemento oggetto”. In “Maria ha rotto una pianta”, “una pianta” è undergoar, è paziente che subisce l'azione, è complemento oggetto ed è inanimata; invece, in “Maria ama Mario”, Mario è complemento oggetto, è undergoar ma è animato e, in quanto animato, potrebbe esercitare un certo grado di controllo sull'azione e allora potrebbe avere il ruolo del soggetto. In lingue come l'italiano che non hanno le desinenze, che hanno un ordine libero delle parole, il soggetto si potrebbe confondere con il complemento oggetto e allora, in moltissime lingue del mondo, l'oggetto non prototipico, cioè l'oggetto animato, prende una marcatura speciale, che si chiama DOM; nelle lingue romanze il DOM è, in generale, contrassegnato da una preposizione che in gran parte delle lingue romanze è “a”, ma in rumeno, ad esempio è “pe” che deriva da “per”. Nell' italiano standard, si dice “Ho visto Maria”  Maria complemento oggetto undergoar ma animata; nell'italiano di molte varietà meridionali non si dice “Ho visto Maria” ma “Ho visto a Maria” dove “a Maria” non è ovviamente un complemento di termine ma è un complemento oggetto. Si dice “Ho visto a Maria” con la preposizione che si usa per il complemento di termine perché quel “Maria” è un oggetto undergoar ma animato; per marcare questa sua non prototipicità viene contrassegnato dal DOM, cioè dalla marcatura differenziale dell'oggetto. GERARCHIA DI ANIMATEZZA Si può prevedere se un nome sarà marcato dal DOM (l’accusativo preposizionale) o meno? Tendenzialmente lo si può prevedere: più un nome è alto, in una gerarchia che misura il tasso di animatezza, più ha chance di prendere il DOM.  “Ho visto a Maria”  nome alto nella scala di animatezza in quanto essere umano, prende il DOM  “Ho visto la televisione” oggetto inanimato, non prende il DOM Silverstein, alla fine degli anni ’70, elaborò una gerarchia di animatezza che è stata poi rivista negli studi successivi, ma in sostanza indica che un nome, più si colloca a sinistra della scala, più ha chance di ricevere la marcatura differenziale dell’oggetto. Nel grado più alto di questa scala ci sono i pronomi di 1° e 2° persona (io/tu), seguiti dai pronomi di 3°, seguiti dai nomi propri di persona, seguiti dai nomi comuni che hanno il tratto più umano (l’avvocato, l’ambasciatore, il medico), seguiti poi da nomi comuni animati ma non umani (i nomi di animali) e seguono i nomi comuni non animati. Se in una lingua si dice “Ho visto a Maria”, quindi si applica il DOM con i nomi propri, è prevedibile che questa lingua avrà il DOM anche con il pronome di 3° persona (“Ho visto a lui”) e con i pronomi di 1° e 2° persona (“Ho visto a te”). Se una lingua ha il DOM con i nomi comuni umani (“Ho visto all’avvocato”), avrà il DOM anche con i nomi propri, con i pronomi di 3° e con il pronome di 1° e 2° Ogni “tassello” di questa scala, se è colpito dal DOM, implica che il DOM c’è anche con i nomi alla sua sinistra. Nelle lingue romanze, in generale, il confine tra nomi che hanno DOM e nomi che non ce l’hanno, cade tra i nomi comuni umani e i nomi comuni animati ma non umani (nomi di animali), a meno che con alcuni animali c’è DOM perché si tratta di animali domestici e quindi assimilati all’uomo per associazione metaforica o metonimica. Le lingue romanze, in generale:  hanno DOM con i pronomi, con i nomi propri e con i nomi di parentela es: “Ho visto a te” “Ho visto a lui”, “Ho visto a Maria” “Ho visto a tua sorella”  oscillano con i nomi comuni animati umani, cioè in alcuni dialetti, o in alcune lingue romanze, si dice “Ho visto all’avvocato”, in altri “Ho visto l’avvocato”  oscillano con i nomi comuni animati umani meno specifici, cioè “Ho visto a un avvocato” meno specifico di “Ho visto l’avvocato” oppure “Ho visto un avvocato” senza DOM DOM IN NAPOLETANO Ledgeway, autore della più importante grammatica diacronica del napoletano, che è un dialetto con DOM afferma: « […] i pronomi (e non solo personali), nonché i nomi propri e i nomi di parentela (in napoletano), richiedono invariabilmente nel dialetto moderno la marca preposizionale (cioè la “a”) e sono spesso referenziati da un clitico raddoppiante sul verbo» e poi afferma ancora «[…] è proprio con i nomi comuni umani che la distribuzione dell’accusativo preposizionale è meno sistematica, dal momento che molti parlanti, ma non tutti, la considerano opzionale in tale contesto […]».  Il napoletano è un dialetto romanzo che ha il DOM nei gradi più alti della scala di animatezza. Dove finisce questa scala? Il confine è nei nomi comuni umani. Ad esempio, alcuni parlanti dicono “hannǝ cugliutǝ l’ambasciatorǝ” (“hanno accolto l’ambasciatore”) mentre altri “hannǝ cugliutǝ (a) ll’ambasciatorǝ” (“hanno accolto all’ambasciatore”), cioè la “a” non è sistematica. Però, se si sostituisse “l’ambasciatore” con “Maria”, in questo dialetto si direbbe sempre “hannǝ cugliutǝ a Mariǝ”, cioè la “a” è sistematica. “avimmǝ già cunsultatǝ ll’avvocatǝ” vs “avimmǝ già cunsultatǝ a ll’avvocatǝ “  evidentemente, il confine tra i nomi che prendono DOM e quelli non lo prendono, in questo dialetto, cade a livello dei nomi comuni animati (avvocato, ambasciatore ecc..), dove il dialetto presenta delle oscillazioni dell’uso. Non vale per tutte le lingue, ogni lingua ritaglia questa scala a modo suo, però vale per tutte le lingue il principio dell’implicazione, cioè questa è una scala “implicazionale”: vuol dire che se una lingua, ad esempio, ha il DOM con i nomi comuni umani (nomi del tipo avvocato), ce l’avrà anche con i nomi propri, con i pronomi di 3° e con i pronomi di 1° e 2°. DOM IN CATALANO E L’ARTICOLO PERSONALE IN BALEARICO Siamo partiti dall’idea che un complemento oggetto animato è un paziente non prototipico perché l’undergoar “perfetto” è inanimato; se è animato alcune lingue del mondo lo marcano con il DOM. Le lingue romanze presentano tendenzialmente il DOM, però ci sono delle lingue romanze, come per esempio il francese (almeno quello standard), dove il DOM o è completamente assente o è molto limitato. Il catalano, lingua ibero-romanza parlata nell’area sud-est della Spagna e nelle Baleari, è una lingua che ha il DOM cosiddetto ristretto, cioè ha un uso molto limitato del DOM, ce l’ha sostanzialmente solo con i pronomi personali. es: “Jo t’ajudo a tu i tu m’ajudaràs a mi” (“Io ti aiuto a te”) con il DOM però “Només va invitar la Maria”, “la Maria” è senza DOM, cioè senza la “a” dell’accusativo preposizionale. Qualche anno fa si è cominciato a notare che le lingue romanze, non tutte, (il francese è un “problema” da questo punto di vista), che non hanno DOM o hanno un DOM molto limitato, presentano l’articolo davanti al nome proprio di persona. Ad esempio, se riprendiamo la frase catalana “Només va invitar la Maria”, è vero che non c’è il DOM ma c’è l’articolo davanti al nome proprio di persona. Allora, la prima intuizione che facciamo è che in alcune lingue romanze la marca preposizionale (cioè la “a” o il “pe” del rumeno) è inconciliabile con l’articolo posto davanti al nome proprio di persona, cioè come se l’articolo e la “a”, ovvero l’accusativo preposizionale, sono tra di loro mutuamente incompatibili. Quest’ impressione è confermata anche dal dialetto catalano, che è quello delle Baleari, in cui esiste un articolo che deriva non da “ille” ma, come il sardo, deriva “ipse”, cioè “su” per il maschile e “sa” per il femminile. Ma non solo: in balearico, davanti ai nomi propri di persona, c’è un articolo specializzato che è quello che nelle grammatiche si chiama articolo personale, che è “en” per il maschile e “na” per il femminile. L’etimologia di “en” e “na” è molto interessante perché è un processo di grammaticalizzazione, queste due forme partono dalla parola latina “dominus” (“signore”):  “dominus” ha dato “en” per il maschile,  “domina” ha dato “na” per il femminile Questi due articoli sono gli articoli cosiddetti personali del catalano delle Baleari, cioè sono degli articoli che si mettono solo davanti ai nomi propri di persona e, anche nel catalano balearico il DOM si trova solo con i pronomi personali. Quindi, riprendendo la gerarchia, in catalano sembra che l’accusativo preposizionale si fermi immediatamente dopo i pronomi e dove ci sono i nomi propri non c’è, ma con essi c’è l’articolo: è come se l’articolo segnalasse un complemento oggetto “speciale”, che è il nome proprio di persona, e sostituisse la “a” dell’accusativo preposizionale (è come se facesse le veci del DOM). Perché questo avvenga non è ancora del tutto chiaro, probabilmente perché la “a” e l’articolo esprimono entrambi definitezza e quindi dove ce l’uno non è necessario l’altro, cioè sono mutuamente incompatibili, e questo spiegherebbe appunto la presenza molto limitata del DOM in queste lingue. TRE TIPI SINTATTICI Le lingue del mondo si possono classificare in base a questa tipologia che riguarda i ruoli semantici di agente e di paziente. Da questo punto di vista, le lingue del mondo si dividono in 3 tipi:  lingue in cui l’agente soggetto di una frase transitiva è distinto dal paziente/oggetto ed ha le stesse marche formali del soggetto (agente o paziente) di una frase intransitiva. es: in “Maria ha rotto un vaso”  l’agente soggetto è “Maria”, si distingue dal complemento oggetto (“un vaso”) ma presenta le stesse marche formali, cioè le stesse desinenze, del soggetto sia agente sia paziente di una frase intransitiva. Le lingue indoeuropee, ad esempio, sono lingue di questo tipo, cioè il soggetto sia che sia il soggetto di una frase transitiva, sia che sia il soggetto di una frase intransitiva, riceve sempre lo stesso caso; ad esempio in latino, il nominativo. Questo tipo di lingue si chiamano lingue nominativo-accusativo.  lingue in cui l’agente soggetto di una frase transitiva, cioè “Maria” di “Maria ha rotto un vaso”, riceve le stesse marche, cioè le stesse desinenze, del soggetto agente della frase intransitiva, cioè “Maria ha lavorato tutto il giorno”, quindi soggetto di un verbo inergativo. L’italiano appartiene a queste perché non distingue marche sui nomi, ma distingue due tipi di verbi intransitivi. Dunque, l’agente della frase transitiva è distinto dal complemento oggetto ma è identico, cioè ha la stessa desinenza, del soggetto agente di una frase transitiva, quindi con verbi inergativi. Questo secondo tipo si chiama allineamento attivo-stativo. L’italiano non ha l’allineamento attivo-stativo sui nomi, ma ha tracce di questo allineamento sul verbo, sennò non avrebbe due ausiliari diversi a seconda del tipo di verbo inaccusativo o inergativo.  lingue in cui l’agente soggetto di una frase transitiva ha le stesse marche del soggetto undergoar di una frase intransitiva; quindi, soggetto undergoar di una frase intransitiva si ha con i verbi inaccusativi (es: “Maria è svenuta). In alcune lingue del mondo “Maria” della frase “Maria è svenuta” ha la stessa desinenza di “Maria ha mangiato la pasta”, cioè del soggetto di una frase intransitiva. Questo 3° tipo di lingue si chiamano ergativo- assolutivo. RIASSUNTO: 1. ALLINEAMENTO NOMINATIVO-ACCUSATIVO: Il soggetto resta sempre nello stesso caso, riceve la stessa desinenza. Una desinenza m c’è sul soggetto, sia che sia soggetto di una frase transitiva che soggetto di una frase intransitiva. Le lingue indoeuropee, come il latino o il greco, soprattutto nella fase antica, sono lingue di questo tipo; quindi hanno soggetto uguale con m, complemento oggetto con 0. 2. ALLINEAMENTO ATTIVO-STATIVO: Il soggetto della frase transitiva riceve la m come il soggetto agente di una frase intransitiva, quindi un soggetto di verbi inergativi. “Maria ha mangiato la pasta” riceve la stessa marca m della “di Maria” in una frase del tipo “Maria ha lavorato tutto il giorno”. 3. ALLINEAMENTO ERGATIVO-ASSOLUTIVO: Il soggetto agente di una frase transitiva riceve le stesse marche del paziente di una frase intransitiva. In “Maria ha mangiato la pasta”, “Maria” riceve la marca m come il soggetto “Maria” di una frase intransitiva con verbi inaccusativi, del tipo “Maria è svenuta”. Come nella tipologia morfologica non esistono tipi puri, anche in questo caso non esistono tipi puri: ci sono delle tendenze all’interno delle varie lingue per cui l’italiano tendenzialmente è una lingua nominativo-accusativa ma abbiamo visto che nel sistema verbale è una lingua attivo-stativa perché distingue due tipi di verbi a seconda che il soggetto sia agente o sia paziente. La prima cosa che dobbiamo chiederci quando facciamo questo tipo di classificazione è “Qual è il ruolo semantico del soggetto?” se sta compiendo l’azione, se è volontativo, se è animato, se ha un grado di controllo sull’azione Poi, per l’italiano, si possono fare dei test con l’ausiliazione o con il ne partitivo per vedere, appunto, quale di queste tre tipologie fa parte del sistema tipologico di quella determinata lingua. La cosa fondamentale è la differenza tra il soggetto dei verbi intransitivi:  il soggetto si può comportare da agente, cioè da vero e proprio soggetto, come il soggetto di una frase transitiva, quindi ha un grado di controllo e determina l’azione es: “ha camminato”/”ha lavorato”.  oppure si può comportare come un undergoar (paziente), cioè come un complemento oggetto con verbi come andare/arrivare in cui il grado di controllo esercitato dal soggetto è basso Infatti, in lingue attivo-stative “Gianni” della frase “Gianni è andato via”, riceve una desinenza uguale a quella del complemento oggetto di una frase transitiva  se l’italiano fosse una lingua con i casi, “Gianni” riceverebbe la marca del complemento oggetto perché è un undergoar e quindi si comporta come un complemento oggetto. TIPO ERGATIVO O ERGATIVO-ASSOLUTIVO Le lingue ergative sono state scoperte abbastanza di recente, negli ultimi 50 anni, anche per merito di Dixon che, come abbiamo visto, andò in Australia e fece la grammatica del dyirbal, una delle lingue di tipo ergativo, come per esempio molte lingue indigene dell’Australia o molte lingue amazzoniche; questa lingua funziona in maniera completamente diversa rispetto alle lingue che abbiamo visto fino ad ora, ragionando sempre in termini di ruoli semantici. Facciamo finta che l’italiano sia una lingua ergativa e prendiamo una frase del tipo “La nave affonda”: “la nave” ha il ruolo semantico di soggetto paziente perché subisce l’azione di affondare poi prendiamo la frase transitiva “I pirati affondano la nave”  “la nave” subisce l’azione dell’affondamento, è un oggetto ed è paziente.  quindi, sia nella frase intransitiva “La nave affonda”, sia nella frase transitiva “I pirati affondano la nave”, “la nave” è paziente; nelle lingue ergative il paziente si mette in un caso che si chiama assolutivo. es 3 “La nave è affondata dai pirati”: nelle lingue nominativo-accusative “dai pirati” sarebbe un complemento d’agente e nelle lingue a casi sarebbe modificato probabilmente con l’ablativo; qui, invece, parlando in termini di ruoli semantici, ci dobbiamo chiedere “Chi è che effettivamente ha prodotto l’affondamento della nave?” I pirati.  caso ergativo Queste lingue privilegiano esclusivamente i ruoli semantici, quindi, a prescindere da caso e dal ruolo sintattico:  chi compie l’azione riceve il caso ergativo  chi la subisce riceve il caso assolutivo  queste sono lingue che basano questa distinzione di casi e desinenze solo sulla semantica, cioè sulla base del fatto che il nome sia agente o sia, invece, paziente. ERGATIVITÀ SCISSA (SPLIT ERGATIVITY) Anche in questo caso, è raro che una lingua sia al cento per cento nominativo-accusativa, attivo-stativa, ergativo-assolutiva e queste vale anche per le lingue ergative. Ad esempio, può succedere che una lingua sia ergativa in tutto, quindi assegni un caso assolutivo al paziente e un caso ergativo all’agente ma non lo sia nel sistema dei pronomi personali perché, come abbiamo visto nella tipologia morfologica, i pronomi personali sono tendenzialmente la cella più conservativa del sistema grammaticale. Quindi, se una lingua ergativa lo è in tutto ma non lo è nei pronomi personali, vuol dire che anticamente questa lingua non era ergativa perché i pronomi personali conservano lo strato più antico della tipologia linguistica  è cambiata la tipologia Infatti, molte lingue ergative hanno i pronomi che si comportano secondo la tipologia nominativo- accusativa, quindi hanno un soggetto sempre con la stessa desinenza sia in una frase transitiva che in una frase intransitiva. Dunque, lingue che oggi sono ergative, se hanno i pronomi personali che si comportano in maniera atipica vuol dire che in origine non erano ergative perché una lingua genealogicamente non può cambiare, cioè non può passare da un gruppo all’altro ma una lingua come l’italiano che deriva dal latino, e quindi ha un orientamento nominativo-accusativo, nel sistema verbale è diventata attivo-stativa. Dixon aveva classificato tante lingue come ergative; egli stesso racconta che durante una conferenza si era messo a studiare un saggio sui verbi inglesi e ha scoperto che, per esempio, il tempo verbale è sensibile alla tipologia, cioè ci sono delle lingue che manifestano il tipo ergativo solo nel tempo presente ma se il verbo è al passato, manifestano un’altra tipologia.  Queste oscillazioni sono normalissime ed è rarissimo che una lingua presenti in maniera costante lo stesso tipo sia perché cambia sia perché all’interno c’è una stratificazione. Così vale anche per il contatto tra le lingue: si vede, ad esempio, nei dialetti meridionali nel contatto con il greco che la tipologia del greco influenzata dal romanzo è cambiata completamente e quindi ha assunto un tipo attivo-stativo che è molto frequente nei dialetti meridionali.
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