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scarscelli Controllo e autodeterminazione nel lavoro sociale: Una prospettiva anti-oppress, Dispense di Sociologia

Il documento "Controllo e autodeterminazione nel lavoro sociale: Una prospettiva anti-oppressiva" di Daniele Scarscelli esplora il ruolo del potere e del controllo sociale nel lavoro sociale, proponendo un approccio critico e anti-oppressivo.

Tipologia: Dispense

2023/2024

Caricato il 29/06/2024

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Scarica scarscelli Controllo e autodeterminazione nel lavoro sociale: Una prospettiva anti-oppress e più Dispense in PDF di Sociologia solo su Docsity! DeviAzioni / xx DIREZIONE Cirus Rinaldi, Università di Palermo COMITATO SCIENTIFICO Charlie Barnao, Università degli Studi Magna Graecia di Catanzaro; Roberto Beneduce, Università di Torino; Oriana Binik, Università degli Studi Milano-Bicocca; Giuseppe Campesi, Università di Bari “A. Moro”; Enrico Caniglia, Università di Perugia; Claudio Cappotto, Centro Sinapsi-Università Federico II di Napoli; Romolo Giovanni Capuano, ricercatore indipendente; Giuseppina Cersosimo, Università di Salerno; Sabina Curti, Università di Perugia; Eugenio De Gregorio, Università di Genova; Fabio Dei, Università di Pisa; Giuseppe Di Chiara, Università di Palermo; Alessandra Dino, Università di Palermo; Caterina Di Pasquale, Università di Firenze; Sara Fariello, Università della Campania – “L. Vanvitelli”; Stefania Ferraro, UNISOB, Napoli; Franca Garreffa, Università della Calabria; Salvatore La Mendola, Università di Padova; Marcello Maneri, Università di Milano Bicocca; Marialuisa Menegatto, Università di Padova; Lorenzo Natali, Università degli studi Milano- Bicocca; Michelangelo Pascali, Università degli Studi di Napoli Federico II; Luca Queirolo Palmas, Università di Genova; Gabriella Petti, Università di Genova; Fabio Quassoli, Università di Milano Bicocca; Raffaele M. Rauty, Università di Salerno; Vincenzo Romania, Università di Padova; Pietro Saitta, Università di Messina; Andrea Salvini, Università di Pisa; Raffaella Sette, Università di Bologna; Alvise Sbraccia, Università di Bologna; Laura Scudieri, Università di Genova; Anna Simone, Università Roma Tre; Alessandro Spena, Università di Palermo; Ferdinando Spina, Università del Salento; Morena Tartari, Università di Padova; Gianluca Tramontano, Univer- sità del Molise; Susanna Vezzadini, Università di Bologna; Francesca Vianello, Università di Padova; Adriano Zamperini, Università di Padova; Angelo Zotti, Università della Campania – “L. Vanvitelli”. CORRISPONDENTI INTERNAZIONALI Patti Adler, Professor Emerita, University of Colorado; Peter Adler, Professor Emeritus, University of Den- ver; Lonnie Athens, Seton Hall University; Joel Best, University of Delaware; Thomas Calhoun, Jackson State University; Addrain Conyers, Marist College; Heith Copes, University of Alabama at Birmingham; Jeff Ferrell, Texas Christian University; Germán Silva García, Universidad Católica de Colombia, Bogotà; Alain Giami, Centre de Recherche en Epidémiologie et Santé des Populations, INSERM; Erich Goode, Professor Emeritus, Stony Brook University; Robert Heiner, Plymouth State University; Stuart Henry, San Diego State University; Andy Hochstetler, Iowa State University; Peter R. Ibarra, Department of Criminology, Law, and Justice, University of Illinois at Chicago; Gary T. Marx Professor Emeritus, Mas- sachusetts Institute of Technology; Gale Miller, Marquette University; Laurent Mucchielli, Laboratoire Méditerranéen de Sociologie (LAMES)-CNRS; Albert Ogien, CNRS e Institut Marcel Mauss, EHESS; Robert Prus, University of Waterloo; Sveinung Sandberg, University of Oslo; Richard Tewksbury, University of Louisville; Max Travers, University of Tasmania, Australia; Kevin Walby, University of Winnipeg. COMITATO DI REDAZIONE Vincenzo Di Mino, Università di Palermo; Enrico Petrilli, Università degli Studi di Milano-Bicocca. I volumi pubblicati sono sottoposti a double blind peer review Indice 9 Ringraziamenti Introduzione 11 Perché è necessario riflettere sul controllo sociale e sul potere nell’ambito del lavoro sociale 13 1. Perché è necessario riflettere sul controllo sociale e sul potere nell’ambito del lavoro sociale? 15 2. La prospettiva teorica del critical social work 17 3. Controllo sociale e lavoro sociale 22 4. Controllo sociale e conoscenza 24 4.1 Due paradigmi per l’assessment nel lavoro sociale 27 5. Valutazione e controllo sociale: gli involuntary clients 28 6. Articolazione del volume Capitolo primo 31 Il controllo sociale come manifestazione di potere nell’ambito del lavoro sociale 32 1.1 Potere e lavoro sociale 34 1.1.1 Due significati del concetto di potere 38 1.1.2 Le forme del potere 52 1.2 L’uso del potere per aiutare le persone 56 1.3 La resistenza al potere 61 1.4 Controllo sociale della devianza: il processo di forma- zione delle norme e le conseguenze della reazione sociale sul deviante 62 1.4.1 Il processo di formazione delle norme 66 1.4.2 Le conseguenze della reazione sociale sulle persone etichettate come devianti Capitolo secondo 73 Sapere e controllo sociale nel lavoro sociale: due paradigmi 76 2.1 La questione ontologica 85 2.2 La questione epistemologica e quella metodologica 87 2.3 Positivismo 93 2.3.1 Fattori di rischio: “fatti” contaminati dalle teorie e dai valori 95 2.3.2 Devianza nascosta, controllo sociale e campionamento 104 2.4 Il costruttivismo 116 2.5. Valutazione, prevenzione precoce ed etichettamento Capitolo terzo 123 Due storie: il punto di vista delle persone su cui si esercita potere 123 3.1 Premessa metodologica 129 3.2 Le storie 129 3.2.1 Paola ha 36 anni e ha avuto due figli 134 3.2.2 Luisa ha 41anni ed ha avuto un figlio 140 3.3 Analisi delle storie 140 3.3.1 La storia di Paola 146 3.3.2 La storia di Luisa 155 3.4 Conclusioni Conclusioni 159 Una cassetta degli attrezzi per un esercizio del potere anti-oppressivo 162 1. Il paradigma positivista e il paradigma costruttivista 168 2. Ricostruire storie 171 2.1 La prospettiva del corso di vita 180 2.2 Alcune questioni su potere, conoscenza e lavoro sociale 197 Bibliografia Ringraziamenti Intendo innanzitutto ringraziare le persone che sono state disponibili a raccontarmi le loro storie. Un sentito ringraziamento anche a Marina Fasciolo che ha letto e commentato questo lavoro e ad Andrea che ha corretto le bozze consegnate all’editore per la valutazione del volume. Un ringraziamento particolare lo devo, infine, a Rosalba Altopiedi e Chiara Bertone per la grande disponibilità con cui hanno letto in divenire il mio lavoro, dandomi preziosi spunti di riflessione e un costante sostegno intellettuale. 10 CONTROLLO E AUTODETERMINAZIONE NEL LAVORO SOCIALE − in secondo luogo, analizzando in che modo i para- digmi − che orientano il processo valutativo attraverso cui l’assistente sociale definisce la situazione di un utente per decidere se dare corso ad un intervento professionale − influenzano le forme attraverso cui il potere è eserci- tato, forme che possono favorire oppure contrastare le pratiche anti oppressive; − e infine proponendo alcuni spunti teorici e metodo- logici (una “cassetta degli attrezzi”) per gli/le assistenti sociali che intendano abbracciare un approccio critico al lavoro sociale finalizzato a cambiare, in una direzione anti- oppressiva, le relazioni di potere con gli utenti dei servizi. I cambiamenti avvenuti nell’ambito delle politiche so- ciali negli ultimi 40 anni hanno contribuito a creare le condizioni istituzionali, strutturali, culturali e ideologi- che affinché gli approcci correzionali alla devianza3 dive- nissero dominanti nell’ambito del lavoro sociale. Specifi- che condizioni storiche e sociali hanno favorito l’introdu- zione di forme di governance neoliberista (Harvey 2005) che, con lo scopo di ridurre e “razionalizzare” l’uso di risorse pubbliche, hanno favorito l’adozione di strumenti di indagine e procedure standardizzate per individuare e gestire più efficacemente i “devianti”. In questo contesto culturale, politico e istituzionale po- trebbe essere problematico per gli/le assistenti sociali trovare degli spazi formativi in cui acquisire strumenti di valutazione non finalizzati alla correzione dei devianti, ma orientati verso una pratica professionale critica e anti-oppressiva. Con questo libro intendo, in ultima istanza, fornire una cornice interpretativa e alcuni spunti metodologici per ri- trovare il senso di un lavoro sociale in cui il potere possa essere gestito in una direzione trasformativa (cfr. Capitolo primo), coerentemente con i principi del codice etico. 3 Definirò più avanti cosa intendo per approccio correzionale alla devianza. INTRODUZIONE 11 1. Perché è necessario riflettere sul controllo sociale e sul potere nell’ambito del lavoro sociale? Le/gli assistenti sociali esercitano potere? Se prendiamo in considerazione gli effetti della loro pratica professionale sulla vita delle persone, la risposta non può che essere affermativa: esse/i valutano, facendo riferimento a specifiche normative, quali cittadini possono accedere a determinati servizi e/o pre- stazioni, controllano che l’uso di tali risorse avvenga secondo specifiche modalità, possono imporre specifiche regole di comportamento, ecc. Hanno pertanto la capacità di produrre effetti intenzionali, esercitano, cioè, potere (Wrong 1979). Come suggerisce Fook (2002) le/gli assistenti sociali sem- brano però manifestare sentimenti di ambivalenza verso il potere. Esse/i sembrano a disagio di fronte all’idea di ave- re potere, tant’è che a volte rappresentano se stesse/i come soggetti relativamente privi di potere, magari assumendo che tale potere risieda in altri attori istituzionali (Fook 2002) (il giudice, il dirigente, l’assessore, l’utente violento, ecc.). Tale ambivalenza verso il potere è probabilmente determi- nata dal fatto che le/gli assistenti sociali operano in ambiti in cui devono, da un lato, cercare di rispettare la libertà e l’au- todeterminazione delle persone e, dall’altro, tenere conto dei vincoli esterni e delle responsabilità istituzionali (Smith 2008)4. Le/gli assistenti sociali sono, infatti, professioniste/i che operano all’interno di istituzioni deputate a regola- re le condotte di persone che sono considerate devianti5. 4 L’ambivalenza verso il potere probabilmente dipende anche dal fatto che la professione dell’assistente sociale sia rappresentata come una professione di cura, che si ritiene prevalentemente un ambito di azione delle donne: colei che si prende cura di una persona lo fa per soddisfare i bisogni di quella persona, la funzione di controllo sociale rimane occultata (la madre si prende cura del suo bambino “disinteressatamente”, ma il modo con cui si prende cura è influenza- to da uno specifico modello normativo, che rimanda a una specifica visione del mondo). In particolare, su genere e cura si veda, Tronto (1993). 5 Per deviante, intendo un attore sociale che viene rappresentato come un soggetto che ha violato determinate aspettative di ruolo ritenute vinco- lanti per la maggioranza dei membri di un gruppo sociale (torneremo più avanti sul concetto di devianza). 12 CONTROLLO E AUTODETERMINAZIONE NEL LAVORO SOCIALE Facendo riferimento a specifiche normative e indirizzi di politica sociale, esse/i esercitano controllo sociale: nella misura in cui devono “prevenire” la devianza di un sog- getto individuale o collettivo da una norma di comporta- mento; quando devono “eliminare” una devianza avve- nuta ottenendo che il soggetto riprenda a comportarsi in conformità alla norma precedentemente violata; nei casi in cui devono “impedire” che la devianza si estenda ad altri soggetti (Gallino 1993). Nella letteratura di Servizio sociale si opera spesso una distinzione tra gli interventi di “sostegno” e di “cura” (fondati sul consenso degli utenti verso un progetto) e quelli definiti di “controllo” (in cui gli utenti sono obbli- gati ad adottare, o non adottare, determinati comporta- menti). Tali espressioni lasciano intendere che il controllo sociale sia esercitato dagli/dalle assistenti sociali soltanto nel secondo caso. Tuttavia, come vedremo, anche gli interventi di “soste- gno” e di “cura” costituiscono una specifica modalità di controllo sociale. La letteratura sociologica sul controllo sociale indivi- dua due specifici modi con i quali si può esercitare il con- trollo (Cohen 1985): modalità “hard” con cui si obbliga una persona a fare qualcosa che non avrebbe mai fatto di sua iniziativa minacciando il ricorso a sanzioni, negando l’accesso a risorse o utilizzando forme di coercizione, (per esempio, consegnare ai servizi sociali un figlio o seguire un corso di formazione indicato dagli operatori per poter beneficiare di un sussidio) e modalità più “soft” con cui la conformità alle norme viene ottenuta ricorrendo alla per- suasione o alla manipolazione: per esempio, il trattamento psicologico costituisce un potente meccanismo di control- lo sociale poiché può aggirare le resistenze dell’individuo e ne può influenzare la vita interiore, condizionandone il comportamento (Furedi 2004) (cfr. Capitolo primo). Gli/le assistenti sociali sono però professionisti che devo- no orientare il proprio operato non soltanto facendo riferi- INTRODUZIONE 15 re un approccio critico riflessivo (Fook 2002) per mettere a fuoco due questioni rilevanti: che tipo di sapere, cioè quali categorie interpretative gli/le operatori/operatrici adottano per orientare i propri interventi e chi detiene il potere − nella relazione operatore/utente – e come lo usa. Per quanto riguarda la prima questione, come scrive Fook (2002), il servizio sociale critico è scettico nei confronti del lavoro sociale basato sulle evidenze (evidence based) e altre visioni positiviste della conoscenza. La conoscenza non ri- flette una realtà esterna, ma è attivamente costruita dai ricer- catori. Ne consegue che la conoscenza dei fenomeni sociali e le pratiche professionali che da essa derivano non sono né oggettive né moralmente e politicamente neutrali8. In relazione alla seconda questione, l’assistente sociale che adotta una prospettiva critica dovrebbe riflettere sul tipo di controllo sociale che esercita nella relazione con gli utenti, per promuovere pratiche che siano meno oppressive. 3. Controllo sociale e lavoro sociale Per la teoria critica il lavoro sociale dovrebbe quindi per- seguire la giustizia sociale, promuovere i diritti umani, stare dalla parte degli oppressi e degli individui esclusi. Per fare ciò, gli operatori sociali devono focalizzare la loro attenzione sulle modalità con cui esercitano il controllo so- ciale per comprendere come “possono usare costruttivamen- 8 Anche il Servizio sociale, come altri ambiti professionali, è stato investito dalla necessità di fondare il processo decisionale su “evidenze scientifiche”. Esiste una ricca letteratura su tale questione. Schematizzando, si può afferma- re che il dibattito scientifico sia attraversato da due posizioni: quella di coloro che ritengono che il processo decisionale nella pratica professionale debba essere fondato sulle migliori evidenze scientifiche disponibili le quali devono essere acquisite attraverso una specifica procedura, simile a quella della Evi- dence-based Medicine e quella di coloro che ritengono che la natura dell’ambi- to di intervento del Servizio sociale sia diverso da quello della medicina e che pertanto il processo di conoscenza debba essere orientato da un approccio costruttivista (McNeece e Thyer 2004; Mullen et al. 2008; Gambrill, 2011; Gray et al. 2013; Avby et al. 2014; Sheppard et al. 2000; Gray et al. 2009). 16 CONTROLLO E AUTODETERMINAZIONE NEL LAVORO SOCIALE te il potere che inevitabilmente detengono” nella relazione con l’utente (Healy 2012, p. 196). Adottando tale prospettiva teorica, la relazione socia- le operatore/utente si può quindi configurare come una relazione di dominio (De Leonardis 2001) nella quale gli/ le operatori/operatrici (i dominanti) possono influenzare i comportamenti sociali dei loro utenti stabilendo ciò che è “giusto”, “opportuno”, “desiderabile” e ciò che non lo è. Tale potere di definizione della situazione degli utenti è ovviamente molto evidente in alcuni ambiti di intervento (si pensi, per esempio, alla tutela dei minori o agli uffici per l’esecuzione penale esterna), meno percepibile in altri. È però indubbio che ogni ambito di intervento, in cui le risorse vengano erogate con una qualche forma di contrat- tualizzazione (non sulla base di un diritto di cittadinanza universalistico), presenti una dimensione normativa, cioè incorpori visioni del mondo, categorizzazioni e criteri di giudizio in relazione a ciò che è desiderabile e a ciò che non lo è. La contrattualizzazione fa sì, come sostiene Du- bois (2009), che non vi siano persone che hanno diritto alla prestazione, in quanto cittadini, ma solamente individui che, in quanto parti contrattuali, devono mostrare un certo impegno personale per ottenere la prestazione. L’assistito deve dunque meritare di essere aiutato ed è considerato meritevole colui che ottempera alle indicazioni dell’ ope- ratore/operatrice. A sua volta l’ operatore/operatrice deve controllare che l’utente assolva l’impegno che si è assunto, al momento della sottoscrizione del contratto, di adotta- re tutta una serie di comportamenti atti a utilizzare “ade- guatamente” le risorse pubbliche (per esempio, spendere il denaro in beni di consumo “essenziali”, seguire corsi di formazione proposti dall’operatore/operatrice, ecc.)9. Da una prospettiva critica, è evidente come vi sia una di- mensione normativa (e politica) della contrattualizzazione: 9 La distinzione tra poveri meritevoli e poveri non meritevoli di essere aiutati risale alle origini dello stato assistenziale (Poor Law inglese del ‘600). INTRODUZIONE 17 chi ha stabilito cosa sia adeguato e cosa no? Quali visioni del mondo incorpora? Di quali gruppi sociali tutela gli interessi10? Per chiarire meglio il rapporto tra contrattualizzazione e controllo nel lavoro sociale, descriverò un aneddoto, che racconto da anni ai miei studenti e studentesse del corso di Laurea in Servizio Sociale, che mi vide coinvolto molti anni fa (1988) nel mio ruolo di assistente sociale. Una signora vedova, madre di tre figli minorenni, era seguita dal servizio sociale del Comune in cui lavoravo. La signora percepiva un contributo economico per i tre figli ma- terialmente erogato dal Comune, ma finanziato dalla Provin- cia (contributo previsto da una normativa che attribuiva alla Provincie l’erogazione di contributi assistenziali per i minori che vivevano in una condizione di povertà). Il più piccolo dei figli (10 anni) si ammalò improvvisa- mente e gravemente (una forma grave di leucemia). I medici dissero alla mamma che se non si fosse trovato un donatore di midollo osseo, il bambino non sarebbe sopravvissuto. In quel periodo il bambino compiva gli anni e la madre orga- nizzò una piccola festa, coinvolgendo i familiari più stretti e altri bambini ricoverati nel reparto del figlio. Acquistò una torta, delle bibite, una bottiglia di spumante e un regalo (un giochino elettronico). Quando l’assistente sociale dell’ospe- dale si accorse che la mamma aveva regalato al bimbo un gioco elettronico, segnalò l’accaduto alla collega della Pro- vincia, la quale mi contattò per comunicarmi che il nostro servizio sociale avrebbe dovuto sospendere l’erogazione del sussidio alla madre poiché il denaro di tale contributo poteva essere speso unicamente per soddisfare bisogni primari e, a suo dire, un “costoso” gioco elettronico non poteva rientrare 10 Ai poveri che accedono alle risorse pubbliche viene richiesta una con- formità a determinati modelli di comportamento che non viene solitamente richiesta ad altri beneficiari di contributi pubblici: per esempio, a nessuno verrebbe in mente che sia necessario imporre alcuni obblighi a coloro che be- neficiano dei “ristori, quei contributi che vengono erogati ai gestori di attività economiche penalizzati dalle strategie di controllo della pandemia di Covid (come ad esempio, impegni per ridurre di una certa percentuale l’uso del contante come forma di pagamento per contrastare l’evasione fiscale). 20 CONTROLLO E AUTODETERMINAZIONE NEL LAVORO SOCIALE 4. Controllo sociale e conoscenza In relazione al processo di costruzione sociale della devian- za, il “sapere” degli/delle operatori/operatrici, nella relazione di dominio, gioca un ruolo fondamentale: è infatti attraverso tale “sapere” che le persone e le loro condotte sono classifica- te, ordinate e regolate. L’esercizio del controllo sociale si fon- da sulla conoscenza di coloro che devono essere controllati e tale conoscenza deriva dalle scienze mediche e umane. Lo status professionale offre una forma di legittimazio- ne nelle relazioni di potere. Tale legittimazione si fonda sul fatto che si assume che a un determinato status pro- fessionale corrispondano specifiche competenze. Quando noi ci rivolgiamo a un medico per affrontare un problema di salute, solitamente ci conformiamo alle sue indicazio- ni poiché riconosciamo che il suo potere di influenzare i nostri comportamenti sociali (prescrivendoci una dieta, una terapia, ecc.) si fonda sulle sue conoscenze e compe- tenze che sono attestate dal suo status professionale: per esercitare la professione di medico occorre aver acquisito una specifica credenziale (laurea in medicina) ed essere iscritto ad un ordine professionale. Non diversamente dal medico, conoscenza, expertise, abilità sono risorse che rendono possibile agli/alle assistenti sociali “trovare obbedienza presso certe persone, ad un com- mando determinato” (Weber 1922; tr. it. 1981, p. 52)11. Nelle moderne società, l’expertise è divenuto un elemen- to centrale nel disciplinamento sia degli individui sia delle 11 Certamente la relazione tra potere e status professionale è comples- sa. Per esempio, è probabile che lo status professionale di un medico sia ritenuto più prestigioso di quello di un/un’assistente sociale, così come la capacità degli utenti di resistere al dominio degli esperti è condizionata dal possesso di “risorse socioculturali di tipo simbolico, linguistico, orga- nizzativo e materiale” (Ewick e Silbey 2003, p. 1331) che possono essere utilizzate nella relazione terapeutica per esercitare un controllo sulla co- noscenza “esperta” e sulle modalità di trattamento. Ma qui mi interessa soltanto evidenziare una specifica fonte di legittimazione del potere. INTRODUZIONE 21 popolazioni12. Come Foucault (1975) ha evidenziato, potere, controllo sociale e conoscenza sono inseparabili poiché definire il mondo o una persona nei termini che ti permettono di fare le cose che vuoi, è esercitare potere. […] Noi possiamo eserci- tare potere ricorrendo a discorsi che consentono alle nostre azioni di essere rappresentate in un modo accettabile (Burr 1995, p. 64). La conoscenza è quindi collegata strettamente al potere poiché esercitare potere vuol dire avere anche la capacità di definire gli altri e le loro condotte “con il timbro della scienza” (Burr 1995, p. 68). Per esempio, facendo riferimento al “timbro della scienza medica”, se si ritiene che il gioco d’azzardo sia una “malattia del cervello”, si adotterà una definizione della si- tuazione del giocatore di azzardo che medicalizzerà la sua devianza. In questo modo quindi si influenzerà il compor- tamento del giocatore fornendo un frame attraverso cui egli potrà attribuire un senso (individuando motivazioni, cause, ecc.) alla propria esperienza (Mills 1940): facendo ciò, si è esercitato potere, perché abbiamo influenzato il comporta- mento di un individuo semplicemente denominando le sue azioni o imputando ad esse dei motivi13. Negli ultimi cinquant’anni il potere dell’esperto si è con- solidato in particolar modo con la medicalizzazione del trat- tamento dei “devianti” (Conrad e Schneider 1992). Con l’espressione “medicalizzazione della devianza” si in- tende fare riferimento al processo attraverso cui un proble- ma non attinente alla medicina viene trattato come se fosse un problema medico (Conrad 2007, p. 4). Tale processo si è esteso in modo così rilevante nelle nostre società che ormai sono molti gli ambiti della esperienza umana che vengono in- 12 Si veda la riflessione di Foucault sulla governamentalità e il bio-potere. Per un approfondimento del contributo teorico di Foucault per il lavoro so- ciale, si veda Chambon et al. (1999). 13 Il rapporto tra reazione sociale (in questo caso il trattamento) e attore sociale è ovviamente complesso poiché l’attore può essere in grado di non subi- re passivamente o addirittura di evitare l’etichettamento (cfr. Capitolo primo). 22 CONTROLLO E AUTODETERMINAZIONE NEL LAVORO SOCIALE terpretati alla luce del paradigma medico: sono trattati come malattie sia comportamenti che in passato venivano etichet- tati come devianze sociali (alcolismo, gioco d’azzardo, ecc.) sia eventi e processi che in passato erano ritenuti fenomeni naturali (gravidanza, invecchiamento, ecc.). In relazione al tema del rapporto tra controllo sociale, potere e conoscenza, è importante sottolineare come la diffusione della medicalizzazione del trattamento dei devianti sia stata accom- pagnata dalla diffusione di spiegazioni della devianza di orienta- mento “positivista”, che hanno fatto breccia anche nell’ambito del lavoro sociale, ma che sono incompatibili, come vedremo, con una prospettiva critica del lavoro sociale (Scarscelli 2015). Per esempio, nelle équipe in cui sono presenti più figure professionali (sanitarie e sociali), la spiegazione medica e l’inter- vento clinico spesso prevalgono su altre possibili spiegazioni del comportamento deviante, tant’è che non è infrequente ascol- tare assistenti sociali o educatori professionali che definiscono e spiegano un comportamento deviante (per esempio, il gioco d’azzardo o l’ “abuso” di droghe) facendo riferimento a mo- delli di classificazione di tipo clinico (Diagnostic and Statistical Manual), rinunciando a proporre interpretazioni differenti (per esempio, di natura sociologica, antropologica, storica, ecc.). 4.1 Due paradigmi per l’assessment nel lavoro sociale Se si assume che il potere e la conoscenza siano oggetti di studio inseparabili, occorre interrogarsi sul rapporto tra le spie- gazioni della devianza e le modalità attraverso cui i devianti sono classificati e le forme con cui si esercita il controllo sociale. In questo libro focalizzerò la mia riflessione sul processo co- noscitivo messo in atto dagli/dalle assistenti sociali per decidere se dare corso o meno a un intervento professionale14. In parti- colare, la raccolta di informazione nell’ambito di tale processo 14 Nella letteratura professionale “il procedimento tecnico” attraverso cui l’operatore ricostruisce e appura “i termini di una situazione problema prima di dare corso a un intervento professionale di aiuto” (Folgheraiter 1998, cit. in Corradini 2018, p. 17), si definisce assessment (valutazione). INTRODUZIONE 25 emergano, oggettivamente, come risultato degli studi che gli scienziati hanno condotto su specifici campioni di individui. Se invece si adottano teorie e metodi di ispirazione costrut- tivistica, ci si dovrà interrogare sul processo di costruzione sociale della devianza: di quale visione del mondo sono espres- sione quelle aspettative di ruolo? Come è stata prodotta la co- noscenza sul fenomeno sociale oggetto di valutazione, Quali gruppi sociali sono più esposti al controllo sociale? Ecc. Lo/La operatore/operatrice sociale che sta valutando, con il suo ruolo istituzionale, con le sue teorie e i suoi metodi di indagine, non è affatto un attore sociale neutrale. 5. Valutazione e controllo sociale: gli involuntary clients Ho scelto uno specifico ambito del lavoro sociale su cui sviluppare la riflessione tra spiegazioni della devianza, moda- lità attraverso cui i devianti sono classificati e le forme con cui si esercita il controllo sociale: quello della tutela dei minori. L’ambito di intervento della tutela minorile è molto inte- ressante per mettere a fuoco la relazione tra controllo sociale, conoscenza e pratiche anti-oppressive poiché l’assistente so- ciale si può trovare ad avere a che fare con persone: − che non hanno scelto di entrare in contatto con gli operatori, − sui cui deve fare una valutazione per decidere se devono essere “prese in carico”, − e che non è detto accettino la definizione che gli/le ope- ratori/operatrici danno della loro situazione (per esempio, sei un genitore negligente e devi essere aiutato). Nella letteratura sul social work vi è un corpo di studi dedicato alle pratiche di intervento con tale tipo di utenti: gli involuntary clients (Cingolani 1984; Diorio 1992; Calder 2008; Trotter e Ward 2013; Trotter 2015; Smithson e Gib- son 2017; Rooney e Mirick 2018). Nel lavoro sociale con gli involuntary clients il dilemma che l’operatore/operatrice deve affrontare tra autodetermi- nazione delle persone e controllo sociale è più evidente poi- 26 CONTROLLO E AUTODETERMINAZIONE NEL LAVORO SOCIALE ché gli involuntary clients rappresentano un esempio para- digmatico della questione “autorità versus la libertà” in una democrazia liberale (Tumbull e Fattore 2008, p. 25). 6. Articolazione del volume In questo volume analizzerò il controllo della devianza in una particolare fase del lavoro sociale: la fase in cui gli opera- tori raccolgono informazioni, attraverso specifiche modalità conoscitive (intervista, questionario, visita domiciliare, ecc.), al fine di decidere se e come l’utente dovrà essere preso in carico, cioè, se deve scattare la “soglia della segnalazione” (Salza 2010) di un genitore. Salza, dopo aver analizzato la documentazione di centinaia di casi bambini rom e sinti allontanati dai loro genitori con provvedimenti dei giudici minorili, ha notato come tali soglie scattino per eventi, si- tuazioni, esperienze che la normativa non delinea in modo chiaro (né lo potrebbe fare, come vedremo più avanti), su cui gli operatori hanno ampio margine discrezionale. All’interno dei vincoli normativi e organizzativi, l’assistente sociale ope- ra come street level bureaucrat (Lipsky 1980)16, definendo la situazione del minore sulla base di considerazioni che sono il prodotto di una specifica attività conoscitiva: l’assistente sociale potrà fare riferimento a teorie scientifiche, ai risultati di specifici studi, raccoglierà dati utilizzando diversi metodi e strumenti di ricerca, potrà fare riferimento all’esperienza maturata nel corso di precedenti interventi. L’assistente so- ciale è, quindi, un/un’esperto/a che sulla base del proprio sapere professionale, e degli strumenti di indagine scientifi- camente fondati, concorre (con altri esperti) a decidere se e in che modo intervenire sulla funzione genitoriale. Articolerò la mia analisi in quattro capitoli. Nel primo capitolo, tratterò del controllo sociale come specifica manifestazione del potere nella relazione tra assi- 16 Ovviamente accanto ad altre figure professionali. INTRODUZIONE 27 stente sociale ed utente, analizzando le forme del potere e le motivazioni che possono indurre all’obbedienza nell’ambito di una relazione di dominio. Focalizzerò successivamente la mia attenzione sull’uso del potere per promuovere benefici sulle persone sulle quali si esercita, distinguendo due forme “positive” di potere: quella paternalistica e quella trasforma- tiva. Evidenzierò come il potere trasformativo sia compatibi- le con una prospettiva critica del lavoro sociale. Infine, poi- ché nell’ambito di una prospettiva critica del lavoro sociale il potere è uno strumento tramite cui il gruppo dominante impone la propria visione del mondo e i propri interessi, ar- gomenterò come, per evitare che il potere “positivo” (protet- tivo) esercitato dagli/dalle assistenti sociali diventi un potere oppressivo, la valutazione delle modalità con cui si esercita il controllo sociale non può prescindere dall’analisi dell’in- terdipendenza tra il comportamento deviante, il processo di formazione delle norme e le conseguenze della reazione sociale sulle persone etichettate come devianti. Nel Capitolo secondo, analizzerò i due paradigmi (positi- vismo e costruzionismo) entro cui possiamo collocare le pro- spettive teoriche con le quali si possono studiare la negligenza, affrontando le seguenti questioni: quale è la natura di tali feno- meni (questione ontologica), come si possono conoscere e quale è la natura della relazione tra il ricercatore e ciò che può essere conosciuto (questione epistemologica), con quale metodo si possono studiare (questione metodologia). Analizzerò la diffe- renza tra l’uso di un approccio comprendente (costruttivista) e l’uso di un approccio non comprendente (positivista) nella gestione del controllo sociale, evidenziando come una pratica professionale critica e anti-oppressiva possa essere orientata sol- tanto da una prospettiva teorica e metodologica costruttivista. Nel terzo capitolo, esaminerò due casi, due storie di madri tossicodipendenti a cui sono stati allontanati i figli. Queste due storie sono state raccolte nel corso di uno stu- dio esplorativo che ho realizzato due anni fa con l’obiettivo di analizzare il punto di vista di un campione di genitori a cui sono state imposte una serie di condotte nell’esercizio 30 CONTROLLO E AUTODETERMINAZIONE NEL LAVORO SOCIALE La definizione di Cesareo ha il merito di evidenziare come il controllo sociale dei devianti sia sempre una ma- nifestazione di potere e come non possa essere considerato senza concettualizzare sia il processo di formazione delle norme sia le modalità con cui vengono categorizzate le persone, con le quali gli operatori entrano in contatto, per decidere se, ed eventualmente come, intervenire. 1.1 Potere e lavoro sociale Il controllo sociale è una manifestazione di potere poi- ché il potere è la capacità di produrre effetti intenzionali (Wrong 1979). La concettualizzazione del potere in sociologia ha una lunga tradizione. In particolare, le prospettive teoriche che vedono la società come una entità stabile e ben integrata, in cui vi è consenso tra i membri dei vari gruppi sociali sui va- lori e sulle norme, considerano il potere come una funzione del sistema sociale: il potere è una risorsa che viene utilizzata per raggiungere scopi collettivi, viene, quindi, esercitato per il bene di tutti (Parsons 1963). Le prospettive teoriche, se- condo cui la società sarebbe caratterizzata da un continuo scontro tra i diversi gruppi sociali per il conseguimento di risorse strategiche (tra le quali il potere), vedono, invece, il potere come uno strumento tramite cui il gruppo dominan- te impone la propria visione del mondo e persegue i propri interessi1. Come aveva sottolineato Dahrendorf (1958), per 1 In ambito sociologico è possibile distinguere due approcci al conflit- to tra i diversi gruppi sociali: quello delle teorie pluraliste, espressione del pensiero critico-liberale e quello delle teorie radicali di ispirazione marxi- sta. Secondo le teorie pluraliste (Dahrendorf 1958; Coser 1956; Vold 1958; Turk 1964; 1966; 1969; Quinney 1970) in ogni società vi sono (e vi saranno sempre) gruppi sociali che confliggono per controllare le risorse e tutela- re i propri interessi. Gli individui che occupano una posizione sociale più elevata, disponendo di più risorse e di più potere rispetto ai membri dei gruppi sociali che sono collocati ai livelli più bassi della scala sociale, sono in grado di imporre i propri valori e la propria visione del mondo. La legge e la sua applicazione selettiva sono strumenti attraverso cui i gruppi dominanti IL CONTROLLO SOCIALE COME MANIFESTAZIONE DI POTERE 31 i teorici del conflitto la coercizione è una caratteristica irridu- cibile di tutte le relazioni di potere. Per analizzare le dinamiche di potere nel lavoro sociale (in particolare, nel lavoro sociale con gli involuntary clients), dob- biamo fare riferimento a una definizione “relazionale” di pote- re: il potere come capacità di produrre effetti intenzionali, come capacità, cioè, di produrre un effetto causale (Scott 2001). Perché tale definizione è rilevante se si intendono compren- dere le dinamiche di potere nel lavoro sociale? È rilevante per- ché l’assistente sociale è un attore sociale che dovrebbe eser- citare potere per produrre uno specifico effetto intenzionale: promuovere opportunità per il miglioramento delle condizioni di vita della persona, delle famiglie, dei gruppi, delle comunità e delle loro diverse aggregazioni sociali2 valorizzandone autonomia, soggettività e capacità di assunzione di responsabi- lità, sostenendole nell’uso delle risorse proprie e della società, per prevenire e affrontare situazioni di bisogno o di disagio e favorire processi di inclusione.3 tutelano i propri interessi sanzionando i comportamenti di coloro che mi- nacciano tali interessi. Per le teorie radicali (Spitzer 1975; Taylor et al. 1973; Quinney e Wildeman 1980; Chambliss 1988) il conflitto avviene tra la classe dei proprietari dei mezzi di produzione (i capitalisti) e la classe di coloro che, non detenendo il controllo di tali risorse, dispongono soltanto della loro forza lavoro (il proletariato). Tale conflitto, che si fonda sulle diseguaglianze economiche, potrà essere superato attraverso la realizzazione di una società senza classi, caratterizzata dall’eguaglianza economica e sociale. Anche per i teorici radicali la legge è uno strumento attraverso cui i capitalisti tutelano i propri interessi, così come il sistema penale non opera per proteggere la so- cietà contro il crimine ma, come le altre istituzioni dello Stato capitalista, per reprimere gli antagonisti di classe. Le teorie radicali del conflitto considerano il capitalismo un sistema economico e sociale criminogeno poiché può essere considerato la causa tanto dei crimini che sono una conseguenza dello sfrut- tamento e dell’oppressione della classe operaia (reati predatori, crimini orga- nizzati, sfruttamento della prostituzione ecc.), quanto dei crimini economici che sono commessi dai capitalisti per proteggere i propri interessi. 2 Codice deontologico dell’Assistente sociale (Titolo II, 11). 3 Codice deontologico dell’Assistente sociale (Titolo II, 11). 32 CONTROLLO E AUTODETERMINAZIONE NEL LAVORO SOCIALE 1.1.1 Due significati del concetto di potere Dalla definizione relazionale di potere come capacità di produrre effetti intenzionali, discendono due significati di tale concetto (Wartenberg 1991) che sono fondamentali per l’analisi delle dinamiche di potere nel lavoro sociale: − il potere come abilità di fare qualcosa (power to); − il potere inteso come capacità di un individuo di in- fluenzare il comportamento di un altro senza che l’altro sia in grado di fare altrettanto (power over). 1.1.1.1 Power to La prima accezione del potere fa riferimento alla capa- cità di un individuo di realizzare un proprio fine. Quando diciamo che una persona ha il potere di fare una determinata cosa, stiamo sostenendo che quella persona ha la capacità di realizzare quella specifica azione. La capacità delle persone di esercitare un certo grado di controllo sul proprio corso di vita dipende da una serie di fat- tori quali la definizione di sé come soggetto agente capace di perseguire i propri fini e controllare le circostanze, le abilità e le competenze acquisite nel corso della propria vita, il capita- le sociale di cui dispone, le opportunità e i vincoli strutturali che possono condizionarne l’azione. La letteratura sui corsi di vita (Elder 1985; 1994; Saraceno 2001; Clemente e Perei- ro 2020) evidenzia come l’agency si sviluppi nell’interazione sociale con altri significativi: la famiglia, il gruppo dei pari, la scuola, il lavoro, l’ambito sportivo, ecc. sono tutti conte- sti in cui si può rafforzare (oppure indebolire) la capacità di perseguire le proprie mete. La relazione operatrice/utente è pertanto un altro ambito in cui tale capacità si può sviluppa- re, consolidare ma anche compromettere, distruggere. Gli altri significativi con cui entra in relazione un indivi- duo (tra di essi vi possono essere anche gli/le operatori/ope- ratrici sociali) possono disporre del potere (power over, vedi oltre) di rendere reali, nelle loro conseguenze, le definizioni delle sue capacità: è il noto meccanismo della profezia che IL CONTROLLO SOCIALE COME MANIFESTAZIONE DI POTERE 35 fai, ma chi sei” (ibidem). Le persone che corrono un rischio scelgono invece di sperimentare determinati comportamenti: l’espressione “correre un rischio” rimanda quindi alla capa- cità di agency di un attore, mentre “la persona definita a ri- schio vive una condizione di permanente vulnerabilità” (ivi). Definire (e trattare) la situazione di una persona come una persona non in grado di esercitare un controllo sulla propria vita potrà avere, pertanto, delle conseguenze sulla carriera morale4 di tale soggetto. Il meccanismo della profezia che si auto-adempie ci in- dica quindi che gli/le operatori/operatrici sociali devono essere consapevoli che le loro definizioni dell’agency degli utenti (sia positive che negative) potranno avere conse- guenze reali, nel senso che potranno rafforzare o indebolire l’empowerment di tali utenti. 1.1.1.2 Power over Nella seconda accezione, il potere (power over) è la ca- pacità di cui dispone A di far fare qualcosa a B, che B non avrebbe fatto senza l’intervento di A (Dahl 1957). In questo caso, quando diciamo che A ha potere su B, descriviamo una situazione in cui A, per qualche ragione (che vedremo più avanti), è in grado di imporre la propria volontà a B. È questa la forma di potere che si manifesta nell’esercizio del controllo sociale, che è un’azione intenzionale messa in atto da specifici attori individuali o istituzionali per condizio- nare la condotta di determinati soggetti. L’assistente sociale che, adottando una prospettiva critica, intenda riflettere sul tipo di controllo sociale che sta eserci- tando nella relazione con l’utente, deve mettere a fuoco due questioni: in che modo sta esercitando potere e per quali ragioni la persona (su cui sta esercitando potere) obbedisce facendo qualcosa che non avrebbe fatto se non fosse entrata in relazione con l’operatore/operatrice. 4 Con l’espressione “carriera morale” si intende “l’insieme dei mutamenti regolari nel sé e nell’immagine di sé di una persona, così come nel giudizio di sé e degli altri” (Goffman 1961; tr. it. 1968, p. 154). 36 CONTROLLO E AUTODETERMINAZIONE NEL LAVORO SOCIALE Per esempio, la persona in carico al servizio sta seguen- do il progetto sottoscritto con il servizio sociale perché con- corda con la definizione della sua situazione fornita dall’o- peratore/operatrice o perché è interessata prevalentemente a ottenere l’accesso a determinate risorse e quindi la sua adesione al progetto è soltanto formale? È evidente che il tipo di risposta a tale interrogativo avrà differenti implicazioni per l’operatività: nel primo caso, il progetto avrebbe un senso anche dal punto di vista dell’utente, nel secondo caso, invece, la compliance sarebbe strategica e non indicherebbe una condivisione da parte dell’utente dell’utilità del progetto. Le classificazioni delle forme del potere e delle motiva- zioni che possono indurre all’obbedienza, che descriverò in questo capitolo, sono “tipi ideali”. Come afferma Wrong (1979, p. 69) “lo status analitico di ogni tipologia delle forme del potere risulta dalla moltepli- cità di significati e motivazioni che sono implicati in tutte le azioni umane, includendo quelle condizionate dal superiore potere di altri”. Pertanto nelle dinamiche relazionali in cui A tenta di far fare qualcosa a B, che B non avrebbe fatto senza l’intervento di A, le diverse forme del potere e le diverse mo- tivazioni all’obbedienza si possono combinare. Si possono combinare perché un attore sociale potente, per rafforzare il proprio potere, tenderà a diversificare le forme con cui eser- cita la propria influenza su altri soggetti (Wrong 1979, p. 71). 1.1.2 Le forme del potere Come può A far fare qualcosa a B, che B non avrebbe fatto senza l’intervento di A? Questa situazione è tipica del lavoro sociale con gli in- voluntary clients, cioè con quelle persone che non hanno scelto di entrare in contatto con gli/le operatori/operatrici e che non è detto accettino la definizione che gli/le operatori/ operatrici danno della loro situazione (per esempio, sei un genitore negligente e devi essere aiutato). IL CONTROLLO SOCIALE COME MANIFESTAZIONE DI POTERE 37 La capacità di A di indurre in B un determinato compor- tamento può avvenire attraverso la forza, l’influenza e l’auto- rità (Wrong 1979). 1.1.2.1 La forza Come sostiene Wrong (1979, p. 24), quando si usa la for- za5 (o se ne minaccia l’uso), si tratta il soggetto a cui si vuole imporre la propria volontà come se non fosse altro che un oggetto fisico, o al massimo un organismo biologico vulnerabile al dolore e alla compromissione dei suoi pro- cessi vitali. L’ultima forma della forza è la violenza: l’aggressione diretta al corpo di un altro per infliggere dolore, ferita o morte. Nelle democrazie gli unici attori sociali che possono usare legittimamente la forza sono le “forze dell’ordine” e le “forze armate”. Un/un’assistente sociale non può allontanare con la forza un bambino dalla propria famiglia, lo possono fare soltanto gli operatori delle forze dell’ordine su disposizione di un giudice. Ovviamente l’esercizio legittimo della forza da parte dello Stato non è senza limiti: un genitore può ricorrere contro un provvedimento di un magistrato, o si pensi, per esempio, alla tortura o ai “crimini di stato”, cioè a quegli atti promossi da istituzioni statali che violano leggi nazionali o leggi internazionali (Williams 2010). 1.1.2.2 L’influenza In una relazione di potere, A può talvolta ottenere il ri- sultato che desidera indirizzando il modo di pensare di B, modificando, cioè, le sue mappe cognitive. Una mappa cognitiva è una rappresentazione semplificata della realtà che discrimina gli eventi rilevanti e stabilisce tra loro nessi relazioni causali, una sorta di pratica “bussola” men- tale. […] Gli individui costruiscono mappe per dare un ordine e un senso al loro ambiente di riferimento anche se, ovviamen- 5 Weber definisce tale forma di potere, potenza, contrapponendola all’au- torità, forma di potere legittimo. 40 CONTROLLO E AUTODETERMINAZIONE NEL LAVORO SOCIALE Secondo questa prospettiva, le relazioni di potere sono quindi dinamiche e costantemente negoziate e ri-negozia- te (Lupton 2012). Gli sviluppi delle carriere “assistenziali” (cioè dei per- corsi che le persone seguono con il trascorrere del tempo nell’ambito della loro esperienza con i servizi sociali e sanita- ri) sono perciò condizionati anche dalla capacità degli utenti di negoziare e ri-negoziare la “definizione della situazione” proposta loro dagli/dalle operatori/operatrici. L’età, il genere, la classe sociale, l’etnicità e il livello di istruzione possono influenzare la capacità degli utenti di va- lutare criticamente il tentativo dell’operatore/operatrice di modificare le loro mappe cognitive. Ci sono persone, soprattutto quelle di status socio-eo- nomico medio e alto, che entrano in contatto con l’esperto (con cui condividono molto spesso lo stesso background so- ciale e culturale) avendo già acquisito in modo autonomo (attraverso vari canali) informazioni e conoscenze in merito al trattamento del loro problema e ai loro diritti in quanto utenti di quel particolare servizio. Facendo ciò, essi sono in grado di negoziare la definizione della situazione proposta loro dall’esperto e di condizionare in questo modo il proces- so decisionale attraverso cui verrà individuato (con l’esperto) il trattamento ritenuto migliore (Lupton 2012). Ci sono invece persone, in particolare gli utenti di status inferiore, che, non avendo le risorse e le capacità per acquisi- re in modo autonomo informazioni e conoscenze in merito al loro problema6 e ai loro diritti in quanto utenti, non sono in grado di negoziare la definizione della situazione dell’esperto: quando la volontà dell’esperto prevale attraverso una qualche 6 Acquisire conoscenze in modo autonomo in merito ad un determinato problema o malattia non vuol dire leggere sul web le informazioni del primo sito della lista che propone il motore di ricerca, ma vuol dire essere in grado di valutare l’attendibilità e scientificità di una fonte, valutare come è stato acquisito quel dato di ricerca (attraverso quale disegno di ricerca, quale tipo di campionamento, ecc.), come si colloca quello specifico studio nell’ambito della letteratura scientifica internazionale, ecc. È evidente come tale capaci- tà richieda particolari competenze. IL CONTROLLO SOCIALE COME MANIFESTAZIONE DI POTERE 41 forma di coercizione (e non attraverso la persuasione o la ma- nipolazione), questo tipo di utente resiste a tale imposizione di volontà non cooperando, non seguendo le indicazioni dell’e- sperto, esercitando atti di sfida o di violenza (Lupton 2012). Gli utenti della seconda categoria sono quelli con cui han- no principalmente a che fare gli/le assistenti sociali. Come vedremo, adottando una prospettiva critica del lavoro socia- le, gli/le assistenti sociali dovrebbero tentare di ridurre que- sto gap di risorse facendo acquisire a tali utenti quelle mappe cognitive in grado di favorire processi di empowerment sia a livello individuale che collettivo. 1.1.2.3 L’autorità Se l’essenza della persuasione è la presentazione da parte di A di argomenti convincenti per B, l’essenza dell’ultima forma di potere, l’autorità, è l’emissione di comandi (Wrong 1979). Nelle relazioni di potere fondate sulla persuasione e la manipolazione, B adotta la comunicazione di A come base della propria condotta, poiché è il contenuto della comuni- cazione che viene accettato. Invece, nelle relazioni di potere basate sull’autorità ciò che induce B all’obbedienza non è il contenuto della comunicazione, ma sono le caratteristiche della fonte del comando (Wrong 1979). In questo tipo di relazione di potere, B obbedisce al comando di A anche se non ne condivide il contenuto, come invece avviene con la persuasione o la manipolazione. Perché, allora, le persone obbediscono a un comando fa- cendo qualcosa che non avrebbero fatto di loro iniziativa? Le motivazioni per obbedire forniscono il criterio per classificare diverse forme di autorità: l’autorità coattiva, l’au- torità per incentivo, l’autorità legittima, l’autorità competen- te e l’autorità personale (Wrong 1979). 1.1.2.4 Autorità coattiva Il potere coattivo è alla base del potere politico che si fonda sul possesso degli strumenti attraverso i quali si esercita la for- za fisica. L’uso della forza è una condizione necessaria ma non 42 CONTROLLO E AUTODETERMINAZIONE NEL LAVORO SOCIALE sufficiente per l’esistenza del potere politico. Un gruppo di persone, che utilizza la forza per perseguire i propri scopi, non esercita un potere politico (Bobbio e Matteucci 1976). Come si è detto precedentemente facendo riferimento alla forza come specifica forma di potere, ciò che caratterizza l’autorità coatti- va dello Stato è il monopolio legittimo dell’uso degli strumenti di coercizione in un determinato contesto territoriale. Affinché però un membro di una istituzione statale possa ottenere obbedienza da B minacciando l’uso della forza, B deve essere convinto non soltanto della volontà di A di usare la forza contro di lui, ma anche della sua capacità di usarla. Wrong (1979) per esemplificare questo aspetto, cita il mec- canismo della deterrenza. Secondo tale meccanismo, la paura di subire una sanzione dovrebbe scoraggiare le persone dal disobbedire a un comando emanato da un’autorità. Gli studi sull’efficacia deterrente delle sanzioni hanno evidenziato come tale paura dipenderebbe dal rischio percepito di subire una sanzione (certezza della pena) e dal grado di severità di tale sanzione (essa deve alzare i costi della disobbedienza al co- mando rendendola un’alternativa di azione meno vantaggiosa dell’obbedienza) (Bandini et al. 2013). È evidente, pertanto, che la minaccia dell’uso della forza avrà un effetto deterrente nella misura in cui i destinatari del comando ritengano che la probabilità di essere sanzionati, non obbedendo, sia elevata. Per esempio, si pensi a un genitore segnalato dagli insegnan- ti della scuola dell’obbligo al servizio sociale per la frequenza scolastica irregolare del proprio figlio. L’invito dell’assistente sociale al genitore di adottare un determinato comportamento (per esempio, mandare a scuola con regolarità il proprio fi- glio), minacciando in caso contrario la segnalazione al giudice, potrebbe non essere accolto dal genitore (se, ovviamente, il genitore non accettasse l’argomentazione dell’operatore/ope- ratrice) qualora egli/ella ritenesse che la probabilità di essere segnalato/a sia bassa oppure non temesse tale eventualità. Nei contesti sociali caratterizzati da povertà ed esclusione sociale, molte persone sperimentano abusi di potere, indifferen- za e ingiustizie messe in atto dai rappresentanti delle istituzioni IL CONTROLLO SOCIALE COME MANIFESTAZIONE DI POTERE 45 Le persone tendono a obbedire ai comandi di chi ricopre determinati ruoli perché, nel corso del loro processo di so- cializzazione, hanno imparato che è giusto fare così. Ci troviamo di fronte all’autorità legittima ogni volta in cui ci sono elevate probabilità che un comando ottenga obbedienza perché i destinatari del comando sono essi stessi predisposti all’obbedienza (Ferrante e Zan 2002, p. 144). Poiché ogni relazione di potere legittimo “inerisce un minimo di volontà di obbedire, cioè un interesse (interno o esterno) all’obbedienza” (Weber 1922; tr. it. 1981, p. 207), l’autorità legittima è più efficiente di quella coattiva o di quel- la per incentivo in quanto riduce al minimo sia la necessità di mantenere i mezzi di coercizione in costante disponibilità e una sorveglianza continua dei soggetti subordinati al potere sia l’esigenza di garantire regolari incentivi all’obbedienza sotto forma di ricompense (Wrong 1979, p. 52). Non ci devono essere operatori di polizia ogni 100 me- tri per prevenire condotte criminali, la maggior parte delle persone rispetta le norme giuridiche perché è predisposta attraverso la socializzazione a obbedire a regole di compor- tamento emanate da specifiche autorità: è la credenza nella legalità e razionalità degli ordinamenti statuiti la fonte di le- gittimazione del potere (Weber 1981). Come vedremo più avanti, quando tratterò del processo di formazione delle norme, noi possiamo osservare da due prospettive il potere legittimo: secondo una prospettiva teo- rica, quella del consenso, il potere legittimo emana regole di comportamento che sono espressione di un interesse genera- le; secondo, invece, una prospettiva del conflitto, tale pote- re tutela non già gli interessi generali, ma quelli del gruppo sociale di cui è espressione (è emblematica, in questo senso, l’affermazione di Marx secondo cui il potere statale sarebbe un comitato che amministra gli affari della borghesia). Studi che hanno indagato l’esperienza dei genitori a cui è stato limitato l’esercizio della genitorialità hanno evidenzia- 46 CONTROLLO E AUTODETERMINAZIONE NEL LAVORO SOCIALE to come il riconoscimento della legittimità del potere degli/ delle assistenti sociali sia tutt’altro che scontato (Dumbrill 2006; Cleaver e Freeman 1995; Corby et al. 1996; Diorio 1992; Smithson e Gibson 2017; Sykes 2011). Le persone che appartengono a gruppi sociali etichettati come devianti, che vivono in condizioni di povertà e in con- testi depauperati, sono esposti in misura maggiore degli altri gruppi (per esempio, i membri della classe media) a un con- trollo sociale più finalizzato a neutralizzare la loro (presunta) pericolosità sociale che a promuovere l’accesso a risorse per migliorare la loro condizione di povertà e la loro capacità di autodeterminarsi (pover on). Pertanto, in questa situazione, è più probabile che gli street level bureaucrats siano percepiti come rappresentati di un potere che opprime piuttosto che come promotori di processi di empowerment. Le leggi, le regole procedurali, le disposizioni di un giu- dice, le politiche costituiscono la base per la legittimazione dell’esercizio del potere da parte dell’assistente sociale. Anche in questo caso, se è vero che la maggior parte delle persone tendono a obbedire ai comandi di chi ricopre determinati ruo- li perché ritengono che sia giusto fare così, ciò non significa che condividano il contenuto di ogni singolo ordine. Pertanto, come nel caso del potere per incentivo, non si deve mai as- sumere in astratto che l’adesione volontaria a un progetto da parte di un utente sia indicativa di una sua (reale) condivisione della definizione della situazione proposta dall’operatore/ope- ratrice. Inoltre, la predisposizione all’obbedienza di un utente all’assistente sociale può essere rafforzata dalla percezione che l’operatore/operatrice potrebbe favorire l’accesso a determi- nate risorse (autorità per incentivo) o sanzionare la condotta non conforme al progetto sottoscritto (autorità coattiva). Autorità competente. In una relazione in cui la base del potere è la competenza, B obbedisce alle direttive di A per- ché crede che A, in virtù della sua competenza, sia in grado di proporre la condotta più adeguata in relazione agli inte- ressi e agli obiettivi di B (Wrong 1979). Esempio paradigma- tico dell’autorità competente è il rapporto medico-paziente. IL CONTROLLO SOCIALE COME MANIFESTAZIONE DI POTERE 47 La caratteristica saliente del “tipo ideale” di autorità com- petente è la credenza del soggetto, su cui si esercita il potere, che tale potere è usato per realizzare i suoi interessi piuttosto che quelli del potente o di altri attori collettivi (Wrong 1979). Inoltre, l’obbedienza, in una relazione di potere fondata sul- la competenza dell’autorità, non si basa sulla capacità di im- porre sanzioni coercitive, né sul dovere o sull’obbligo morale di obbedire al comando (Wrong 1979). Quando decidiamo di seguire le prescrizioni di un medico, non lo facciamo poi- ché temiamo di incorrere in sanzioni da parte sua (autorità coattiva) o perché avvertiamo il dovere morale a conformar- ci alla sua autorità (come nel caso dell’autorità legittima), lo facciamo perché riteniamo che abbia le competenze per trattare e risolvere un nostro problema di salute. L’autorità competente tende a combinarsi con l’autorità legittima quando è esercitata da professionisti che rivesto- no ruoli all’interno di organizzazioni pubbliche, come nel caso dell’assistente sociale. In questi ambiti organizzativi, gli esperti, che possiedono il potere basato sulla competenza, possono influenzare il comportamento dei loro utenti anche esercitando il potere basato sul loro status legale (Scott 2001). Se è vero che posso non seguire le prescrizioni del mio medico senza incorrere in alcun tipo di sanzione, non pos- so certamente violare gli impegni che ho assunto con un/ un’assistente sociale per beneficiare di una borsa-lavoro, senza rischiare di subire una qualche forma di reazione da parte dell’operatore/operatrice (che può andare dalla stig- matizzazione alla revoca della borsa). Come osserva Wrong (1979), l’autorità competente so- miglia alla persuasione, ma, a livello idealtipico, non deve essere confusa con essa. Se la persuasione implica l’accet- tazione da parte del soggetto del contenuto delle comuni- cazioni del persuasore sulla base della valutazione di esse, l’obbedienza a un’autorità competente implica che il sog- getto si conformi alla direttiva per le caratteristiche (com- petenza) della fonte che l’ha emanata, piuttosto che per il suo contenuto. “Quindi la fede del soggetto nella compe- 50 CONTROLLO E AUTODETERMINAZIONE NEL LAVORO SOCIALE comandi vengono impartiti e obbediti senza che colui che ha dato il comando possieda il potere di imporre sanzioni o di trasferire risorse (Wrong 1979, pp. 60-61). Anche que- sto tipo di autorità può trovarsi in combinazione con altre forme di legittimazione del potere: un esperto può essere carismatico, così come lo possono essere un persuasore o un funzionario di una istituzione pubblica. Le caratteristiche personali di un/un’assistente sociale pos- sono rappresentare, quindi, una importante fonte di autorità. Le caratteristiche personali sono certamente uno dei fattori che influenzano le modalità con cui le persone inter- pretano i diversi ruoli sociali che ricoprono. La capacità di influenzare gli altri può dipendere anche dal grado di autore- volezza dell’operatore/operatrice agli occhi dell’utente. Tale autorevolezza la si ottiene non tanto in virtù della posizione che si ricopre all’interno di una organizzazione burocratica o del titolo di studio che si è conseguito. La si ottiene, come hanno evidenziato i risultati degli studi sui genitori seguiti dai servizi sociali, nella misura in cui, in virtù del compor- tamento adottato nella relazione di potere, si appare come giusti, imparziali, onesti, rispettosi dell’utente («sa cosa sto provando») (de Boer e Coady 2007; Ribner e Knei-Paz 2002). Si è visto che le persone sono tanto più disposte a rispet- tare una decisione assunta da una autorità (anche se l’esito è a loro sfavorevole) quanto più la procedura, attraverso cui è stata assunta, sia ritenuta giusta (Tyler 2006). Vedremo, analizzando i due casi, come i metodi scientifici che si utilizzano per acquisire informazioni, per spiegare e trattare la devianza, possano favorire o meno un esercizio “autorevole” del potere ed essere autorevoli agli occhi di un utente è una precon- dizione per ogni azione trasformativa, cioè di empowerment. 1.2 L’uso del potere per aiutare le persone Dopo aver descritto le classificazioni delle forme del po- wer over e delle motivazioni che possono indurre all’obbe- IL CONTROLLO SOCIALE COME MANIFESTAZIONE DI POTERE 51 dienza, ai fini di un’analisi del controllo nell’ambito del lavo- ro sociale, si deve focalizzare l’attenzione sull’uso del potere per promuovere benefici alle persone sulle quali si esercita. Secondo Wartenberg (1991) il potere utilizzato per aiu- tare le persone può assumere due forme: paternalismo e potere trasformativo. Una relazione di potere tra due attori sociali è paternali- stica quando l’agente dominante (per status, per forza fisica, per competenza, ecc.) usa il suo potere per procurare un be- neficio a un altro attore sociale che non è ritenuto pienamen- te in grado di autodeterminare il proprio corso di azione. Come afferma Beetham (1991, p. 88): Una forma di potere paternalista implica un rapporto in cui i subordinati sono definiti come totalmente o parzialmente, temporaneamente o permanentemente, incapaci di riconoscere e difendere i propri interessi, e questi devono quindi essere de- finiti e portati avanti dai potenti per loro conto. Nell’ambito del lavoro sociale, questa forma di potere può essere esercitata dal professionista che ritiene di poter individuare e imporre, per il bene dell’utente, la soluzione migliore ad un problema. L’operatore/operatrice sociale “paternalista” assume (Re- amer 1983): 1. di agire per il bene dell’utente; 2. di essere qualificato/a ad imporre la propria volontà in virtù della sua competenza a stabilire che cosa è bene per l’utente, il quale è considerato come una persona che non ha le capacità per individuare la migliore soluzione al suo problema; 3. di essere legittimato/a ad interferire nella vita dell’uten- te dal suo mandato professionale, quello di tutelare il benes- sere dell’utente stesso. È un tipo di potere che, ricorrendo alla scienza come fonte di legittimazione (potere fondato sulla competenza), lavora in una direzione anti-democratica (Beetham 1991), 52 CONTROLLO E AUTODETERMINAZIONE NEL LAVORO SOCIALE poiché i subordinati non sono definiti come pienamen- te in grado di identificare i loro interessi, e quindi non sono legittimati a essere consultati per qualsiasi decisione che li possa riguardare (Beetham 1991, p. 88). E se sono consultati, il loro coinvolgimento è caratterizzato da una logica tokenista9 (Dalrymple e Burke 2006), in quanto il processo attraverso cui essi potrebbero ottenere un mag- gior controllo sulle loro vite è solo apparente e superficia- le (consistendo, per esempio, in consultazioni occasionali, procedure finalizzate alla compliance, coinvolgimento di gruppi selezionati di utenti che non sono rappresentativi sociologicamente di tutta l’utenza del servizio, ecc.). Una relazione di potere è invece trasformativa quan- do lo scopo dell’agente dominante non è semplicemente quello di agire per procurare un beneficio al soggetto su- bordinato, ma piuttosto quello di fare in modo che l’agen- te subordinato apprenda quelle competenze e acquisisca quelle risorse che gli consentiranno di superare il gap di potere esistente tra lui e l’agente dominante. È un tipo di potere compatibile con una prospettiva cri- tica del lavoro sociale poiché, piuttosto che essere usato per dominare un altro essere umano, il potere trasformativo è usato per aiutare un’altra persona ad acquisire la capacità di autodeterminarsi (esso lavora in una direzione democratica). La gestione del potere in una logica trasformativa impone agli/alle assistenti sociali di adottare un approccio riflessivo sul proprio potere di definizione dei problemi e dei bisogni degli utenti. Le procedure e i comportamenti che non si basano su tale approccio, rischiano di incorporare modelli paternalistici di gestione dell’autorità (Smih 2008). 9 Per tokenismo si intende un coinvolgimento superficiale dei cittadini nel processo decisionale per dimostrare che si seguono certe procedure: per esempio, Arnstein (1969) nella sua famosa “ladder of citizen participa- tion” colloca nel tokenismo le attività di informazione e le procedure di consultazione dei cittadini e degli utenti nonché il coinvolgimento di al- cuni rappresentanti degli utenti nelle commissioni che hanno lo scopo di indirizzare le politiche. Sono tutte attività che non consentono ai cittadini e agli utenti di esercitare una reale influenza sul processo decisionale. IL CONTROLLO SOCIALE COME MANIFESTAZIONE DI POTERE 55 presenta un continuum di possibili strategie adottabili dagli utenti nella relazione sociale con gli/le operatori/operatrici12. A un estremo del continuum vi sono forme relativamente passive di coinvolgimento (compliance) che, come si è visto precedentemente, non sono necessariamente espressione di una condivisione del progetto d’intervento, mentre, all’estre- mo opposto, vi sono forme attive di controllo “sulle modalità con cui i bisogni sono definiti, i diritti sono esercitati e gli interventi sono determinati” (Smith 2008, 141). Il controllo sui servizi avviene attraverso il ricorso a forme di azione col- lettiva che promuovono i diritti e gli interessi degli utenti. Nel mezzo di questa scala, vi sono forme di resistenza in- dividuali (più o meno aggressive e più o meno esplicite) al potere esercitato dagli/le operatori/operatrici (Smith 2008): si va dalla non cooperazione, cioè la scelta di non ricorre ai servizi (o interromperne la fruizione) non ritenendoli, per varie ragioni, utili risorse per affrontare il proprio problema, alla resistenza, cioè il rifiuto, di ottemperare alle indicazioni degli/le operatori/operatrici tentando di rinegoziare l’esi- stente relazione con i professionisti, alla sfida, cioè il mettere in discussione, in questo caso, attraverso una forma molto più esplicita di resistenza, sia il potere di definizione della si- tuazione proposta dall’operatore/operatrice sia la legittimità del potere dell’operatore/operatrice stesso. È evidente che tale abilità di agire strategicamente e in- tenzionalmente è però condizionata dalla posizione sociale degli attori in gioco, che può consentire o meno l’accesso alle risorse utili per esercitare/contrastare il potere (cono- scenza, ricchezza, forza, ruolo ricoperto all’interno di spe- cifiche istituzioni, ecc.). Vorrei esemplificare queste riflessioni sulla resistenza al pote- re nell’ambito del lavoro sociale e su come essa e la sua efficacia siano condizionate dalla posizione sociale degli utenti, facendo riferimento a due casi della mia esperienza professionale. 12 Smith si ispira alla “ladder of citizen participation” di Arnstein (1969) (cfr. nota 25). 56 CONTROLLO E AUTODETERMINAZIONE NEL LAVORO SOCIALE Il primo caso riguarda una donna separata con una figlia di 5 anni a lei affidata, medico di base in un distretto socio- sanitario del comune in cui io prestavo servizio come assi- stente sociale. L’ex coniuge di questa donna si rivolse ai ser- vizi sociali richiedendo l’affidamento della figlia in quanto riteneva che la sua ex moglie non era in grado di accudirla in quanto aveva, a suo dire, maturato una dipendenza dall’al- col. La collega assistente sociale convocò la donna che negò tutto e motivò il comportamento del ex coniuge facendo riferimento alla natura conflittuale della loro separazione. La collega contattò le insegnanti della scuola materna per raccogliere ulteriori elementi. Le maestre fecero presente all’assistente sociale che la signora, a volte, si presentava in ritardo a prendere la figlia a scuola, che a volte pareva aves- se “bevuto”, che la bambina si era presentata a scuola in diverse occasioni con un abbigliamento “inadeguato”, che la bambina ultimamente era diventata più taciturna. La col- lega riconvocò la madre facendole presente ciò che avevano detto le insegnanti. La madre replicò dicendo che soltanto un paio di volte era arrivata in ritardo, peraltro per ragioni di lavoro, negò di essersi mai presentata a scuola dopo aver “bevuto”, negò che la bimba fosse mai stata vestita in modo inadeguato e che il suo comportamento fosse cambiato ne- gli ultimi tempi. La collega, d’accordo con il responsabile del servizio, decise di segnalare la situazione al giudice e comunicò alla madre la sua intenzione. La madre, che aveva contattato un avvocato esperto di diritto familiare, chiese alla collega di inviare la relazione al suo legale. Dopo qual- che giorno, il legale della donna richiese un appuntamento alla collega. Mostrò la relazione con evidenziata una serie di affermazioni e disse alla collega che sarebbe stata denun- ciata per diffamazione qualora non fosse stata in grado di indicare, per ognuna di quelle affermazioni, sulla base di quali evidenze scientifiche era possibile affermare che la sua cliente stesse adottando una condotta pregiudizievole (la sua cliente, non la categoria astratta della “madre che beve” che, in letteratura, è correlata staticamente alla condotta IL CONTROLLO SOCIALE COME MANIFESTAZIONE DI POTERE 57 pregiudizievole, la sua cliente, non la categoria astratta “del- la madre che veste in modo inadeguato la propria figlia” che è correlata staticamente alla condotta pregiudizievole, ecc.). Il dirigente del servizio decise di non inoltrare la relazio- ne al giudice, temendo che, qualora il giudice non avesse riscontrato una condizione pregiudizievole (e l’avvocato fece presente che, se la relazione fosse stata inviata, avrebbe richiesto il parere di esperto), la donna avrebbe denunciato gli/le operatori/operatrici per diffamazione. Il secondo caso vede come protagonisti tre utenti di estrazione sociale molto diversa dalla madre del caso pre- cedente: una ragazza (Marta) appena diciottenne incinta, in affidamento presso una comunità, che aveva deciso, al com- pimento della maggiore età, di ritornare dalla propria ma- dre, la madre della ragazza, disoccupata, in carico ai servizi da moltissimi anni, il compagno della madre, disoccupato, con precedenti penali per spaccio e rapina. Gli educatori della comunità mi contattarono per comunicarmi che Marta era incinta e che aveva deciso di ritornare dalla madre. Loro ritenevano che l’ambiente familiare della madre, anche per la presenza del nuovo compagno, potesse essere pregiudi- zievole per Marta e per il suo bambino. Secondo loro non si poteva ignorare il fatto che i servizi sociali avessero colloca- to in comunità, sebbene con il suo consenso, entrambi i figli della signora (Marta ed un fratello più piccolo). Dopo aver parlato con Marta e appreso la sua decisione di rientrare a casa della madre, contattai la mamma per comprendere cosa ne pensasse della decisione di Marta. La madre si presentò con il suo compagno. Nel colloquio manifestai un po’ di preoccupazione per il ritorno a casa di Marta, facendo pre- sente alla madre che sia io che gli educatori della comunità pensavamo che Marta, per il bene suo e del nascituro, potes- se rimanere ancora un po’ di tempo in comunità con il suo bambino. Il colloquio degenerò rapidamente, il compagno accusò il servizio sociale di voler entrare nuovamente nelle loro vite e obiettò che Marta, in quanto maggiorenne, pote- va fare ciò che voleva. Mi disse che non dovevamo toccare il 60 CONTROLLO E AUTODETERMINAZIONE NEL LAVORO SOCIALE modalità con cui si esercita il controllo sociale non può prescin- dere dall’analisi dell’interdipendenza tra il comportamento de- viante, il processo di formazione delle norme e le conseguenze della reazione sociale sulle persone etichettate come devianti. 1.4.1 Il processo di formazione delle norme Una spiegazione sociologica della devianza, cioè di un com- portamento che viola determinate norme sociali, deve tenere conto dei processi attraverso cui sono prodotte tali norme. Ciò che accomuna ogni spiegazione sociologica della de- vianza è l’idea che la natura della devianza sia relativa, nel senso che non esistono atti intrinsecamente devianti (mala in se), in quanto la devianza è una qualità che viene conferi- ta a quelle condotte che si ritiene abbiano violato uno spe- cifico sistema normativo e valoriale. Se è vero che normalità e devianza sono concetti dotati di un senso statistico (i com- portamenti devianti sono più rari di quelli convenzionali), è altrettanto vero, come sostiene Tamar Pitch (1975), che la devianza non sia soltanto un’eccezione statistica ma abbia anche una connotazione normativa e valoriale (ciò che è deviante è “meno desiderabile”). Ma esiste un ordine morale condiviso dai membri di una società, di cui sarebbero espressione le norme sociali? Le prospettive teoriche che vedono la società come una entità stabile e ben integrata (che come abbiamo visto pre- cedentemente considerano il potere come una funzione del sistema sociale), rispondono affermativamente alla doman- da. Le prospettive teoriche, che vedono la società come un aggregato caratterizzato da un continuo scontro tra i gruppi sociali per il conseguimento di risorse strategiche, sostengo- no, invece, l’origine conflittuale delle norme. Nel primo tipo di spiegazioni, il deviante è un soggetto che non è stato adeguatamente socializzato, poiché le norme e i valori che regolano i comportamenti sociali dovrebbero esse- re condivisi dai membri di una società, in un dato momento storico e contesto sociale. La norma infranta non viene messa IL CONTROLLO SOCIALE COME MANIFESTAZIONE DI POTERE 61 in discussione e l’attenzione si focalizza sul comportamento de- viante che deve essere corretto: la devianza è quindi un fenome- no “oggettivamente dato” (Rubington e Weinberg 1999, p. 1). Facciamo un esempio. Le insegnanti di una scuola elemen- tare segnalano al servizio sociale e agli psicologi del servizio di neuropsichiatria infantile un bambino di 10 anni ritenendolo uno studente “ingestibile”, un “piccolo terremoto”. Il bambino si alza continuamente, si distrae facilmente, è impulsivo, spesso non riesce a portare a termine i compiti a lui assegnati, il suo profitto scolastico è quasi sempre insufficiente. Perché quel bimbo viola le aspettative di ruolo? Se tali aspettative non ven- gono messe in discussione (cioè non si cerca di comprendere quale significato il bambino attribuisce all’esperienza scolastica, per capire, per esempio, se è possibile organizzare la didattica adottando altri criteri), è il comportamento del bambino che deve essere corretto, magari medicalizzando la sua devianza at- traverso la formulazione di una diagnosi di “sindrome da deficit di attenzione e iperattività” in modo tale che possa essere segui- to da un insegnante di sostegno (Scarscelli 2015). In questa prospettiva teorica, nell’ambito di un contesto trattamentale, il deviante dovrebbe conformarsi alle aspet- tative del ruolo di malato (sick role) delegando all’esperto il potere di definire ciò che è “normale” e ciò che è “devian- te”. Egli dovrebbe considerare come indesiderabile la “de- vianza” e desiderabile la “normalità”, così come la definisce l’esperto. All’interno di questa logica del controllo sociale, non riconoscere di avere un problema, cioè non accettare la definizione della propria situazione che fornisce l’esperto, è sintomo del problema, è sintomo dell’incapacità del devian- te di “stare nei limiti” della norma, che non viene messa in discussione poiché si assume che essa sia espressione di un ordine morale condiviso da parte dei membri (non devianti) della società. Nell’ambito di tale prospettiva consensuale, l’obiettivo degli/delle assistenti sociali è quello di definire qual è il limite che non può essere superato, qual è il confine oltre il quale si prevede che un diritto o un interesse sia tutelato 62 CONTROLLO E AUTODETERMINAZIONE NEL LAVORO SOCIALE nella sfera pubblica […]. Quando gli assistenti sociali ricevono una richiesta di intervento, in quel momento vengono interpel- lati non solo come professionisti ma anche come rappresentanti dell’istituzione e interpreti delle norme poste a tutela del vivere sociale (Bertotti, 2012, pp. 215-216). Nel secondo tipo di spiegazione del processo di for- mazione delle norme, che dovrebbe caratterizzare ogni prospettiva critica al lavoro sociale, quelle “norme poste a tutela del vivere sociale” non sono considerate espressione di un ordine morale della società, ma espressione dell’or- dine morale del gruppo sociale dominante. La devianza ha pertanto una connotazione politica, poiché la definizione di che cosa è deviante e che cosa non lo è riflette gli interessi dei gruppi sociali che detengono il potere. Secondo questa prospettiva, si deve, pertanto, spiegare il processo attraverso cui un dato comportamento sociale viene definito come deviante: quali attori sociali hanno preso l’inizia- tiva e quali interessi e valori essi supportano? (Becker 1963). In questa visione, il controllo sociale è una manifestazione del potere finalizzato a salvaguardare l’ordine morale della classe dominante e l’assistente sociale, come rappresentan- te dell’istituzione, non tutela tanto il “vivere civile” quanto piuttosto gli interessi della classe dominante, poiché le fonti della sua autorità14, nella relazione con l’utente, si basano sul potere politico ed economico di quella classe (Swift 1995). Quando la relazione professionale è vista come il riflesso di più ampie dinamiche di potere, il comportamento deviante dell’utente non può essere interpretato come una incapacità di “stare nei limiti”, perché le definizioni di questi confini sono espressione di specifiche visioni del mondo (ideologie) e di specifici interessi. Adottando la spiegazione conflittuale dell’origine delle norme, l’operatore/operatrice deve valutare, per esempio, quanto le costruzioni sociali della “maternità normale”, a cui si fa riferimento nella pratica professionale, ri- 14 A parte l’autorità che si fonda sul carisma, cioè sulle caratteristiche personali dell’operatore/operatrice. IL CONTROLLO SOCIALE COME MANIFESTAZIONE DI POTERE 65 delle prassi e dei vincoli organizzativi che regolano l’attività delle istituzioni deputate al controllo sociale. Numerosi studi (Scarscelli e Vidoni 2008) evidenziano come la probabilità di essere stigmatizzati e di subire la rea- zione sociale sia maggiore per gli individui che appartengono a quei gruppi sociali che sono dotati di minore potere nella società (per ragioni di razza, genere, classe sociale, livello di istruzione, ecc.); per i membri di gruppi che risiedono in am- biti territoriali ritenuti criminogeni; per gli individui dal cui aspetto e comportamento si può inferire che sono portatori di valori diversi da quelli dominanti; per le persone che sono già state stigmatizzate (per esempio, gli ex detenuti). Se si consultano gli archivi di un qualsiasi servizio socio- assistenziale, si può constatare come gli abusi e la negligenza registrati verso i minori si verifichino prevalentemente nelle famiglie di basso status socioeconomico. Si può quindi assu- mere che tali condotte siano una prerogativa dei genitori po- veri? O che piuttosto per un genitore povero sia più proble- matico perseguire il modello normativo del “buon genitore” che è espressione della visione del mondo della classe media? Inoltre quale tipo di genitore è più esposto al controllo socia- le dei servizi? Fin dagli anni ’70 del secolo scorso (Gil 1970; Gelles 1977) è documentato come siano più esposti al potere disciplinare delle istituzioni i genitori poveri, appartenenti a determinati gruppi sociali e/o quelli già in carico ai servizi15. Gli sviluppi delle carriere devianti sono condizionati dalla capacità dei soggetti di contrastare i processi di criminaliz- zazione primaria e secondaria (tale capacità è soprattutto legata all’appartenenza di classe)16. 15 Per esempio, Gupta e Featherstone (2015) evidenziano come le cre- denze e le assunzioni degli/delle operatori/operatrici sui padri afroamerica- ni possano condizionare il processo di assessment. In ambito medico, uno studio ha evidenziato come l’elemento razziale svolga un ruolo significativo nella decisione dei pediatri di segnalare ai Servizi sociali i minori che pre- sentano fratture (Lane et al. 2002). 16 La criminalizzazione primaria è il processo attraverso cui sono individuati i beni da proteggere e i comportamenti da sanzionare penalmente. La crimi- 66 CONTROLLO E AUTODETERMINAZIONE NEL LAVORO SOCIALE Pertanto, in primo luogo, gli individui si differenziano per la loro capacità di evitare che determinati comportamenti so- ciali siano etichettati come devianti. In secondo luogo, quando adottano comportamenti giudica- ti devianti, si differenziano per la loro capacità di evitare di essere scoperti e di controllare le impressioni degli altri. Per esempio, i genitori che utilizzano la violenza psicologica per controllare la condotta dei propri figli (“se fai quella cosa, la mamma non ti vuole più bene”) sono meno esposti al controllo sociale delle istituzioni (scuola, ecc.) di quei genitori che utilizzano la forza fisica come metodo disciplinare (le “sberle” possono lasciare un segno visibile sul corpo del minore) (Lareau 2011). In terzo luogo, se scoperti, si differenziano per il loro po- tere di contrastare l’etichettamento attraverso la neutralizza- zione della disapprovazione sociale e l’adozione di strategie finalizzate alla conservazione del prestigio e della rispettabi- lità sociale (si vedano i due casi che ho descritto trattando della resistenza al potere). Infine, se etichettati e trattati come devianti, si differenzia- no per la loro capacità di dimostrare pubblicamente di aver acquisito una identità sociale non deviante. Vedremo nella se- conda parte del volume, analizzando le due storie, quanto sia difficile per un certo tipo di consumatore di droghe dimostra- re di essere in grado di accudire adeguatamente i propri figli. Le prospettive teoriche che vedono la società come una en- tità stabile e ben integrata considerano il controllo sociale come una funzione del sistema sociale indispensabile per prevenire, contrastare e ridurre i comportamenti devianti: si devono san- zionare i devianti poiché la società deve proteggere sé stessa dalle conseguenze dannose della devianza. La reazione sociale delle istituzioni contribuirebbe, quindi, a proteggere la società. I teorici del conflitto, e in particolare gli studiosi della reazione sociale e dell’etichettamento, ribaltano questo ra- gionamento e spostano l’attenzione sul ruolo del controllo nalizzazione secondaria è il processo selettivo attraverso cui viene perseguita e condannata soltanto una parte degli individui che infrangono le norme penali. IL CONTROLLO SOCIALE COME MANIFESTAZIONE DI POTERE 67 sociale come causa della devianza e del crimine: il controllo sociale non è più concettualizzato come la risposta della società al comportamento deviante, ma diventa una “varia- bile indipendente, un agente causale” (Williams e McShane 2002, p. 125), che spiega il comportamento deviante stesso. Come afferma Matza (1969; tr. it. 1976, p. 128), lo sforzo stesso per prevenire, intervenire, arrestare e ‘curare’ persone affette da presunte patologie può far precipitare [...] o aggravare seriamente la tendenza da cui la società vuole difendersi. Becker (1963) analizza le conseguenze dell’etichettamento sugli individui facendo riferimento al concetto di status ege- mone. Le caratteristiche primarie di una persona (per esempio, la condizione di lavoratore, di genitore ecc.) costituiscono gli status egemoni che mettono in ombra altre caratteristiche giu- dicate meno importanti (status subordinati). L’etichettamento può contribuire a fare in modo che lo status deviante diventi quello egemone. Il meccanismo è quello della profezia che si auto adempie, a cui ho fatto riferimento trattando del potere come influenza: il soggetto etichettato verrà considerato un deviante anche per tutti gli altri aspetti della sua vita e, alla luce dell’etichetta attribuita, verrà reinterpretato retrospettiva- mente il suo comportamento passato per trovare una conferma della sua diversità, della sua “natura” deviante (Kitsuse 1983, p. 157). In seguito a questo processo la persona finisce per di- venire quello che è stato descritto essere (Tannenbaum 1938). I teorici della reazione sociale e dell’etichettamento si ispirano all’interazionismo simbolico poiché assumono, in primo luogo, che la devianza sia il prodotto dell’interazione tra chi elabora e applica le norme e chi le trasgredisce. In secondo luogo, assumono che le etichette di devianza siano simboli attraverso cui si stigmatizzano le persone alle quali sono applicate. Infine, assumono che le persone etichettate a loro volta agiscano sulla base di tali definizioni. Secondo gli interazionisti simbolici l’identità sociale delle persone è il prodotto delle loro interazioni sociali. La coscienza che un 70 CONTROLLO E AUTODETERMINAZIONE NEL LAVORO SOCIALE compromesso la sua fiducia nella possibilità di essere aiutato dalle istituzioni a fronteggiare efficacemente alcuni eventi biografici spiazzanti (essersi ritrovato senza casa a seguito della separazione ed essere disoccupato). Come si è visto anche affrontando la forma del potere come influenza, questa vicenda, che ho ricostruito sulla base di un racconto di un’assistente sociale, evidenzia molto chia- ramente come il potere dell’etichettamento dell’utente da parte dell’assistente sociale possa avere conseguenze reali. Nel capitolo successivo vedremo come l’assistente sociale può essere in grado di riflettere sul tipo di potere che sta esercitando e sulle conseguenze dell’etichettamento nella misura in cui adotti uno specifico approccio teorico alla de- vianza: quello costruttivista. Capitolo secondo Sapere e controllo sociale nel lavoro sociale: due paradigmi Nel precedente capitolo si è visto come il processo attra- verso cui il controllo sociale è esercitato può essere scompo- sto analiticamente in quattro “momenti essenziali”: la defi- nizione normativa della condotta deviante, la scoperta della devianza, la presa di decisioni nei confronti del deviante, l’eventuale attuazione di un provvedimento. Per decidere se è necessario intervenire in una certa situa- zione (per esempio, quando un insegnante segnala agli/alle assistenti sociali un minore che potrebbe vivere con genitori “negligenti”), gli/le operatori/operatrici devono raccogliere informazioni attraverso specifiche procedure scientificamen- te fondate (intervista, questionario, visita domiciliare, ecc.). Come scrive Bruce (2010, p. 1), l’enfasi sul “valore scien- tifico della ricerca” è uno dei tratti distintivi che distingue i servizi autenticamente ‘professionali’ da altre forme di filantropia e carità privata/ pubblica e dalla fornitura di servizi di cura motivata da ragioni religiose, familiari, altruistiche o filosofiche. Nell’ambito della tutela dei minori, la valutazione del ri- schio di pregiudizio si basa su due tipi di approccio (Cor- radini 2018): da un lato, vi è l’approccio, che viene definito “clinico”, in cui la valutazione del rischio si fonda sul giudizio 72 CONTROLLO E AUTODETERMINAZIONE NEL LAVORO SOCIALE professionale dell’operatore/operatrice/operatrice, dall’altro lato, vi è l’approccio che utilizza procedure standardizzate per accertare la probabilità che si verifichi una situazione pregiu- dizievole per il minore. Tale approccio probabilistico ridur- rebbe la discrezionalità dell’operatore/operatrice, e quindi si configurerebbe come una procedura conoscitiva “oggettiva” e “neutrale” poiché gli indicatori utilizzati nella valutazione non si basano sul giudizio professionale insindacabile dell’o- peratore/operatrice, ma sono il prodotto dei risultati delle ricerche internazionali sull’abuso e sulla negligenza. Nella pratica, osserva Corradini (2018, p. 116), il conflitto tra i due approcci (nella letteratura internazionale sulla tutela dei minori si parla di una vera e propria “guerra” tra i due approc- ci) viene stemperato utilizzando una combinazione tra i due, “definita ‘giudizio professionale strutturato’, in cui gli indicatori derivanti dalle ricerche vengono letti attraverso la valutazione dei professionisti, in relazione alle differenti situazioni”. Nell’ambito di una prospettiva critica del lavoro sociale, la modalità con cui viene effettuata la valutazione del rischio di pregiudizio non è però semplicemente una questione metodo- logica, cioè come utilizzare “strumenti” che si assumono come “oggettivi” e “neutrali” in modo più flessibile. La relazione tra conoscenza scientifica e pratica professionale è una questione complessa che rimanda alle credenze sulla forma e natura del- la realtà, sulla natura della relazione tra lo studioso e ciò che può essere conosciuto e sul metodo con il quale si può inda- gare ciò che può essere conosciuto. Queste credenze, come ho scritto nell’introduzione del volume, rimandano a due visioni organiche e fortemente contrapposte della realtà sociale. È possibile utilizzare nello stesso processo di valutazione me- todi che sono espressione di una visione che assume l’esistenza di una realtà sociale esterna che può essere osservata empirica- mente da un ricercatore neutrale, con metodi che sono invece espressione di una visione secondo cui la realtà è socialmente costruita e deve essere indagata attraverso l’interpretazione? Non credo che tale operazione sia possibile poiché non si può assumere nel medesimo procedimento valutativo che SAPERE E CONTROLLO SOCIALE NEL LAVORO SOCIALE: DUE PARADIGMI 75 investigate attraverso l’interpretazione; il ricercatore è consi- derato come uno degli attori nella situazione oggetto di analisi. L’approccio storico (Corby 2006) e quello antropologico (Korbin 1981) hanno evidenziato come l’abuso e la negligen- za siano fenomeni storicamente e culturalmente determinati; da un lato, che cosa è considerato abuso o negligenza in una particolare società cambia nel tempo, dall’altro lato, che cosa oggi è considerato abuso o negligenza in una determinata società o gruppo sociale non è necessariamente considerato tale in altra società o gruppo sociale. La raccolta di saggi curata da Korbin esplora il fenomeno sociale del maltrattamento sui minori nell’ambito di alcune società non occidentali, in cui gli autori del libro hanno svol- to attività di ricerca antropologica e etnografica. Questa prospettiva interculturale, che si può configurare come un “laboratorio naturale del comportamento umano” (Korbin 1981, p. 2), consente di considerare il maltrattamento sui minori nell’ambito di condizioni sociali e culturali diverse da quelle delle società occidentali. Nei vari saggi sono descrit- te pratiche che apparirebbero come abusive agli occhi degli occidentali. In generale, dalla lettura di tali saggi, si possono identificare due livelli in cui le considerazioni culturali entrano in gioco nella definizione dell’abuso e della negligenza. In primo luogo, vi è il livello del conflitto interculturale: pratiche genitoriali accettate nell’ambito di una determinata cultura sarebbero considerate come abusive e negligenti in un’altra. Per esempio, un genitore che impedisse l’attuazione di un rito di passaggio dall’infanzia all’età adulta al proprio figlio/a, culturalmente previsto anche se molto doloroso, ne- gherebbe al bambino un posto nella società adulta e sarebbe considerato negligente per aver compromesso lo sviluppo del figlio. Di contro, molte nostre pratiche educative sareb- bero considerate negativamente dai membri di altre culture, poiché sarebbero viste come bizzarre, esotiche e dannose per il benessere dei bambini. Per esempio, scrivono gli autori, pratiche che isolano i neonati e i bambini piccoli durante la notte in stanze o letti separati dai genitori, che non soddisfa- 76 CONTROLLO E AUTODETERMINAZIONE NEL LAVORO SOCIALE no prontamente la loro fame, quando il cibo è disponibile, per attendere l’orario “giusto”, che li fanno piangere senza occuparsi immediatamente dei loro bisogni o desideri, sa- rebbero in contrasto con le filosofie educative della maggior parte delle culture descritte nel testo (Korbin 1981, pp. 4-5). Evidenziando come le pratiche culturalmente appropriate varino da una società all’altra, gli autori sottolineano l’impor- tanza di valutare i comportamenti dei genitori all’interno del contesto culturale in cui si verificano. Pertanto, non ci si deve limitare a giudicare l’atto in sé, ma si deve cogliere il significato di quell’atto all’interno di una determinata cultura. Per fare ciò occorre considerare quali obiettivi devono essere persegui- ti nella socializzazione dei bambini in ogni gruppo culturale, le intenzioni e le convinzioni degli adulti e l’interpretazione che i bambini danno dei modi con cui sono trattati dagli adulti. Il secondo livello, in cui le considerazioni culturali entra- no in gioco nella definizione dell’abuso e della negligenza, è quello del conflitto intraculturale: all’interno di una mede- sima società, possono variare, tra i diversi gruppi sociali, i criteri per identificare i comportamenti di cura dei bambini che sono considerati accettabili. A questo livello, il conflitto culturale non avviene tra culture, ma all’interno della stessa cultura quando i membri di una società definiscono deviante un comportamento che altri membri della stessa società con- siderano normale. Per esempio, come abbiamo già visto, vi sono studi (Phoenix e Husain 2007) che evidenziano come i genitori afro-americani, in particolare quelli che vivono in contesti urbani caratterizzati dalla presenza di sottoculture giovanili devianti, siano più propensi, nella gestione del com- portamento deviante dei propri figli, all’uso di modalità disci- plinari fisiche, rispetto ai genitori “bianchi” appartenenti alla classe media. Tale orientamento educativo sarebbe dettato dal timore che uno stile meno autoritario potrebbe esporre i loro figli al rischio di rimanere coinvolti in attività devianti. Si assume […] che le pratiche genitoriali sostenute nella cultura mainstream (cioè, bianca e della classe media) siano, di SAPERE E CONTROLLO SOCIALE NEL LAVORO SOCIALE: DUE PARADIGMI 77 fatto, ‘positive’. Tuttavia, si può ritenere che le modalità con cui si esercita la disciplina riflettano norme e aspettative che sono funzionali all’interno di specifiche situazioni sociali, così che la modalità appropriata per un quartiere urbano pericoloso può essere molto diversa da quella appropriata per un ambiente suburbano bucolico […]. Non è chiaro quanto le pratiche ge- nitoriali riflettano circostanze immediate piuttosto che compor- tamenti appresi che sono socialmente rinforzati. Inoltre, gli at- teggiamenti verso la disciplina possono dipendere dai significati che le madri attribuiscono a diverse decisioni genitoriali all’in- terno di un particolare contesto ambientale. Cioè, la sculacciata può significare cose diverse a seconda di quando e perché viene praticata (Fram 2003, p. 25, cit. in KATZ et al. 2007, p. 30). Gli studi antropologici ci mostrano, pertanto, che il con- testo culturale e sociale in cui il comportamento viene as- sunto e i significati che a esso vengono attribuiti da coloro che condividono quella cultura sono importanti fattori che devono essere considerati quando etichettiamo certe azioni come abuso o determinate omissioni come negligenza. Nessun studioso, anche un positivista, con un minimo di credibilità scientifica, può pertanto mettere in discussione che ciò che definiamo oggi “abuso” e “negligenza” cambi nel tempo, assuma diversi significati a seconda del contesto sociale e culturale, a cui facciamo riferimento, e sia correla- to a specifici fattori sociali. Ciò che differenzia gli studiosi (e quindi anche gli/le ope- ratori/operatrici che dovrebbero orientare il loro lavoro sulla base delle “evidenze” scientifiche) è il diverso orientamento verso la natura del sistema normativo e valoriale. Per i positivisti, tale natura è consensuale: è vero che la negligenza e l’abuso sono fenomeni storicamente e cultural- mente determinati, ma in ogni società vi è un insieme di norme condiviso che stabilisce cosa sia abuso e cosa sia negligenza. Se nella società esiste un modello normativo genitoriale con- diviso, l’abuso e la negligenza possono essere studiati come se fossero fenomeni “reali”: non si mettono in discussione le nor- me che li regolano, si danno per condivise e quindi scontate. 80 CONTROLLO E AUTODETERMINAZIONE NEL LAVORO SOCIALE determinati comportamenti vengono etichettati come “de- vianti” (prospettiva del conflitto): si deve spostare l’analisi dai comportamenti e dalle caratteristiche di quelli che in- frangono le norme ai processi attraverso i quali certi indivi- dui finiscono coll’essere definiti devianti da altri. Questo spostamento richiede che lo studioso consi- deri in termini problematici quanto generalmente viene assunto come scontato (Kitsuse, 1983): nel nostro caso, il sistema di norme e valori che dovrebbe regolare il com- portamento del genitore adeguato. Becker (1963; tr. it. 1987, p. 22) esprime con grande efficacia la prospettiva costruttivista della devianza: [La devianza] è creata dalla società. Non voglio dire, come comunemente avviene, che le cause della devianza sono da individuarsi nella situazione sociale del deviante o in ‘fat- tori sociali’ che suggeriscono la sua azione, ma voglio dire che i gruppi sociali creano la devianza istituendo norme la cui infrazione costituisce la devianza stessa, applicando quelle norme a determinate persone e attribuendo loro l’etichetta di outsiders. Da questo punto di vista, la devianza non è una qualità dell’atto commesso da una persona, ma piuttosto una conseguenza dell’applicazione, da parte di altri, di norme e di sanzioni nei confronti di un ‘colpevole’. Il deviante è una persona alla quale questa etichetta è stata applicata con successo; un comportamento deviante è un comportamento che la gente etichetta come tale. L’abuso e la negligenza non possono pertanto essere con- siderati fenomeni “reali” poiché sono “costruzioni sociali”: tale approccio è chiaramente espresso, in modo paradigma- tico direi, nel saggio di Pfohl (1977), in cui l’autore evidenzia il ruolo dei radiologi in quanto imprenditori morali nella co- struzione sociale del child abuse. Secondo Pfohl (1977, p. 315) la “scoperta” dell’abuso sui bambini come devianza “non è attribuibile ad alcuna escalation dell’abuso stesso ma alla struttura organizzativa della professione medica”. In questo processo di crimina- lizzazione di determinate condotte genitoriali, i radiologi SAPERE E CONTROLLO SOCIALE NEL LAVORO SOCIALE: DUE PARADIGMI 81 svolsero un ruolo fondamentale per almeno due rilevanti ragioni. Da un lato, il fatto che l’esercizio della loro profes- sione li mettesse nelle condizioni di non avere direttamente rapporti con i genitori, come invece avveniva per i pediatri, rese più facile ipotizzare che la responsabilità delle lesioni fisiche che registravano con le radiografie fosse dei genitori4. Dall’altro lato, la “scoperta dell’abuso” offrì loro la possibi- lità di ottenere un certo prestigio nell’ambito della profes- sione medica poiché “collegandosi al problema dell’abuso, i radiologi si sono indirettamente legati al compito clinico cruciale della diagnosi del paziente” (Pfohl 1977, p. 318). Tale scoperta diede, inoltre, a loro “[…] l’opportunità di una coalizione di interessi con altri segmenti più prestigiosi della medicina organizzata”, come i pediatri e gli psichiatri di orientamento psicodinamico (Pfohl 1977, p. 318). Il momento simbolico, in cui l’abuso infantile diviene una nuova categoria diagnostica, è la pubblicazione di un articolo su una prestigiosa rivista di Medicina curato da un gruppo di radiologi, pediatri e psichiatri. In questo articolo l’abuso sui bambini viene etichettato “come una condizione clinica esisten- te come un trauma non riconosciuto” (Pfohl 1977, p. 319). L’impresa morale dei radiologi fu sostenuta dai media che fecero proliferare l’idea che tale comportamento deviante rappresentasse un problema sociale, mentre coloro che ri- schiavano di essere etichettati come abusanti, appartenenti ai gruppi più svantaggiati socialmente, non furono in grado di opporre resistenza alla etichetta: l’esistenza di un’ampia distanza sociale tra chi abusa e chi etichetta, facilita non soltanto la probabilità di essere etichettati ma annulla ogni resistenza organizzata all’etichetta da parte del gruppo ‘deviante’ stesso (Pfohl 1977, p. 320). 4 I pediatri, che prendevano in cura i bambini con lesioni fisiche, come per esempio una frattura degli arti, erano invece, secondo Pfohl, più restii a credere che i genitori potessero essere i responsabili di tali danni. Inoltre te- mevano che denunciando il fatto avrebbero violato il principio di riservatezza che regola il loro rapporto con il paziente. 82 CONTROLLO E AUTODETERMINAZIONE NEL LAVORO SOCIALE Inoltre la medicalizzazione dell’abuso non consentì di analiz- zare il contesto sociale dei genitori e dei loro bambini come pure le caratteristiche delle situazioni in cui si verificava l’abuso5. Coloro che adottano una prospettiva costruttivista, sono, quindi, consapevoli che il processo di costruzione della de- vianza è una “impresa morale”, tutt’altro che neutrale (Be- cker 1963): le definizioni di abuso e negligenza sono l’espres- sione della visione del mondo di determinati gruppi sociali. Si deve pertanto distinguere tra condizioni sociali che ri- guardano un certo numero di persone e la definizione di tali condizioni come un problema sociale. Nell’ambito di una prospettiva funzionalista (del consen- so) il problema sociale è un fenomeno “reale” nella misura in cui impedisce il “corretto” funzionamento del sistema socia- le (o di un suo sottosistema6). La problematicità di fenome- ni come l’abuso e la negligenza non è pertanto socialmente costruita, ma viene a un certo punto della storia riconosciuta (una realtà che gli uomini avevano sempre avuto sotto gli oc- chi ma a cui non avevo però prestato attenzione); emblema- tica è la seguente affermazione: “gli anni ’60 hanno segnato un periodo in cui l’abuso e la negligenza sui bambini sono stati riconosciuti a livello nazionale e successivamente sono diventati un problema sociale” (Rycus e Hughes 2006, p. 86). Per i costruttivisti, invece, il problema sociale non è un tipo di condizione, ma è il prodotto di un tipo di attività (Spector e Kitsuse 2000), è una “impresa morale”, cioè il prodotto dell’attività di individui o gruppi finalizzata a sta- bilire quale sia il corretto funzionamento della società, cosa sia giusto e cosa sia sbagliato (Becker, 1963). Per realizzare la loro impresa, tali soggetti devono ovviamente assicurarsi il sostegno di altri gruppi (un ruolo importante lo giocano gli esperti del fenomeno che sono coinvolti per documen- tare la gravità del problema che si intende affrontare) e uti- 5 Gelles (1973) fu uno dei primi studiosi a mettere in discussione la me- dicalizzazione dell’abuso. 6 Nel nostro caso, quello del mantenimento del modello e stabilizzazione del- le tensioni (istituzioni culturali e motivazionali: scuola e famiglia) (Parsons 1951). SAPERE E CONTROLLO SOCIALE NEL LAVORO SOCIALE: DUE PARADIGMI 85 2.3 Positivismo Per i positivisti, la scienza è considerata un’attività empi- rica, che si fonda sull’osservazione dei “dati bruti” di realtà, cioè dati che non sono il risultato di operazioni mentali del ricercatore (interpretazioni, giudizi, ecc.) (Hughes 1980). Se la “realtà è là fuori”, si deve individuare il “metodo più efficace e obiettivo che, nel modo più preciso possibi- le, possa trarre informazioni su questa realtà” (Silverman 2000; tr. it. 2008, p. 138). La scienza si fonda, pertanto, su un linguaggio osservati- vo teoricamente neutrale (Hughes 1980). I positivisti quindi studiano l’abuso e la negligenza come se fossero delle realtà fattuali, operazionalizzabili e misurabili, del tutto indipendenti dalla attività interpreta- tiva degli attori sociali Non intendo ovviamente sostenere che tutte le ricerche sull’abuso e sulla negligenza, che adottano il paradigma po- sitivista, utilizzino la stessa definizione del fenomeno e la stessa operazionalizzazione. Anzi, proprio la mancanza di una definizione comune viene ritenuta uno dei limiti più rilevanti della letteratura scientifica in oggetto (Cash 2001; Schumacher et al. 2001; Muldera et al. 2018). Nell’ambito di ogni studio viene però data una definizione del fenomeno come se fosse una realtà “oggettiva” e non “morale”. Nella logica positivista, questa pluralità di definizioni viene considerata un limite dell’at- tuale “immaturità” delle scienze umane poiché l’obiettivo di conseguire in futuro una definizione condivisa del fenomeno non viene ritenuto impossibile (Macdonald 2001, p. 19). I fenomeni sociali e l’esperienza umana possono, pertan- to, essere conosciuti adottando metodi che prevedono stru- menti di misurazione strutturati e standardizzati in grado di quantificare l’estensione di un fenomeno, la sua relazione con altre variabili, la sua variazione in relazione a una norma, attraverso, per esempio, una normale distribuzione. 86 CONTROLLO E AUTODETERMINAZIONE NEL LAVORO SOCIALE Per prendere una decisione scientificamente fondata du- rante il processo di assessment, la scienza mette a disposizione dell’operatore/operatrice strumenti “oggettivi” per valutare quanto è probabile che in un determinato contesto familiare si possa verificare un danno per un minore e la sua potenziale gravità (Gambrill e Shlonsky 2000; Hughes e Rycus 2003; Gottfredson e Moriarty 2006). Attraverso questi strumenti l’assistente sociale sarebbe in grado, tramite un processo di categorizzazione dell’utente, di individuare precocemente i fattori di rischio familiare. Quando un/un’assistente sociale utilizza uno strumento standardizzato, dovrebbe però essere consapevole del pro- cesso “scientifico” attraverso cui sono stati individuati i fat- tori di rischio contenuti nelle diverse griglie di assessment. Per descrivere questo processo, farò riferimento al tentativo di un gruppo di ricercatori di definire, concettualmente in modo non arbitrario, che cosa costituisca “negligenza” e di costruire conseguentemente uno strumento standardizzato affidabile per individuare i bambini a rischio (Dubowitz et al. 2005). Abbiamo già detto come occuparsi di parenting signifi- chi occuparsi dei comportamenti assunti dai genitori nella cura dei propri figli. I ricercatori, partendo dalle teorie che sono state sviluppate per spiegare la negligenza, identificano i bisogni fondamentali dei bambini che devono essere sod- disfatti per evitare conseguenze negative (danni psicologici, comportamenti antisociali, ecc.). Per l’identificazione di tali bisogni, si fa riferimento, di fat- to, a un modello normativo di parenting che si ritiene scien- tificamente fondato e condiviso (prospettiva del consenso): tale modello indica i criteri a cui i genitori si dovrebbero conformare per soddisfare “adeguatamente” ogni bisogno dei loro figli (alimentazione, abbigliamento, salute, ecc.). Una volta che i bisogni fondamentali sono stati individua- ti, occorre operazionalizzare tali categorie producendo dei “costrutti latenti di tali bisogni”, dei descrittori comporta- mentali delle categorie (Dubowitz et al. 2005). Questi de- scrittori sono, infine, trattati e misurati come se fossero varia- SAPERE E CONTROLLO SOCIALE NEL LAVORO SOCIALE: DUE PARADIGMI 87 bili continue, utilizzando delle scale di valutazione (si va da una condizione in cui il bisogno è adeguatamente soddisfatto alla condizione opposta in cui non è affatto soddisfatto). I descrittori comportamentali sono utilizzati per condur- re studi su campioni di genitori con lo scopo di individuare le caratteristiche personali, familiari, ambientali e sociali dei genitori che maltrattano i loro bambini. Lo scopo di tali in- dagini è quello di identificare i fattori (di rischio) che appaio- no associati all’incapacità dei genitori di soddisfare “adegua- tamente” i bisogni dei loro figli. I risultati di queste ricerche sono poi utilizzati per costruire le griglie di valutazione che le operatrici sociali possono adottare per valutare, in modo più “neutrale” e “oggettivo” rispetto ai metodi non standar- dizzati, se i genitori soggetti all’assessment siano in grado o meno di promuovere uno sviluppo “adeguato” dei loro figli. Questa descrizione del processo di costruzione degli strumenti standardizzati di assessment evidenzia una serie di questioni che un utilizzatore di tali strumenti non dovrebbe ignorare, soprattutto se volesse orientare il proprio operato verso una logica anti-oppressiva. In particolare farò riferi- mento alla dimensione normativa di tali strumenti e alla loro capacità di fornire dati generalizzabili. BOX 1 Griglia fattori di rischio Griglia proposta da Ranieri e Corradini (2019, pp. 282-283), in cui si descrivono “segnali di rischio”, “segnali di sofferenza”, “elementi protettivi” del minore, dei genitori, del contesto fa- miliare e ambientale. Molte griglie di valutazione dei fattori di rischio delle condizioni di pregiudizio utilizzate nell’ambito dei Servizi sociali del nostro Paese sono rielaborate da Di Blasio (a cura di, 2005): si veda, per esempio, la griglia proposta da Ranieri e Corradini (2019). Faccio riferimento a questo testo poiché è un manuale ben curato sulle linee guida e le procedure di Servizio sociale nei diversi ambiti di intervento. 90 CONTROLLO E AUTODETERMINAZIONE NEL LAVORO SOCIALE FATTORI FAMILIARI E AMBIENTALI Segnali di rischio Segnali di sofferenza Elementi positivi -La famiglia vive in un contesto isolato e degradato -La famiglia vive in un’abitazione inade- guata -Isolamento sociale della famiglia -Famiglia numerosa con bambini piccoli -Precarietà della con- dizione lavorativa di entrambi i genitori -Eccessiva dipendenza dai servizi, atteggiamen- ti assistenzialistici -Ricorsività dei proble- mi che si presentano comunque nonostante gli aiuti (ad esempio di- missioni dopo un lungo percorso di inserimento al lavoro, mancata frequenza scolastica dopo aver predisposto il servizio di accompagna- mento, ecc.) -Appartenenza a mino- ranze etniche o culturali -Povertà estrema -Vivere in un’abitazione fatiscente, senza servizi e riscaldamento -Essere già stati sotto- posti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria minorile -Mancata accettazione di interventi diagnostici e terapeutici (per la coppia, per i figli) -Essere in carico ai servizi sociali da gene- razioni -Aver fallito numerosi progetti di aiuto -Utilizzo dei figli minori per ottenere servizi e prestazioni assistenziali -Minimizzazione o negazione dei problemi specifici rilevati dai servizi -Contesto di vita in cui i servizi sono presenti e accessibili -Relazioni solidali con il vicinato -Relazioni positive con la famiglia allargata -Presenza di amicizie o di persone di riferimento per gli adulti o i minori -Inserimento del minore in ambienti ludici, sportivi, ricreativi -Presenza di altri servizi a sostegno del minore e/o dei genitori (neurop- sichiatria infantile, servizio di salute mentale… ) -Presenza di suppor- ti da parte delle reti informali 2.3.1 Fattori di rischio: “fatti” contaminati dalle teorie e dai valori I fattori di rischio delle varie griglie valutative sono “fat- ti” soltanto nell’ambito di una qualche cornice teorica. Ciò significa che le ipotesi esplicative e le osservazioni sulla negli- genza e l’abuso non sono indipendenti dagli “occhiali teori- ci” che si indossano per analizzare tali fenomeni. Se i fatti possono essere visti soltanto attraverso una “finestra” teorica, la loro “oggettività” è, pertanto, minata SAPERE E CONTROLLO SOCIALE NEL LAVORO SOCIALE: DUE PARADIGMI 91 (Guba e Lincoln 1998, p. 199), poiché uno studioso non li accetterebbe qualunque fosse la teoria: come nota Kagan (1998, p. 101), il fatto “alcuni bambini tra uno e due anni non piangono quando la loro madre li lascia soli e non la guardano quando ritorna dopo qualche minuto” è soggetto a diverse interpretazioni a seconda della teoria che si adotta e/o del contesto in cui si osserva tale fatto (un contesto non familiare come un laboratorio, un contesto familiare, ecc.). Dall’osservazione empirica non si può dunque ricavare un modello di genitorialità “oggettivo” perché i fatti sono contaminati dalle teorie (e, come si è detto, assumere, che vi sia un consenso tra gli studiosi − che abbracciano paradigmi differenti − su quale sia il modello genitoria- le adeguato, è assai discutibile) e dai valori, soprattutto quando tali fatti sono utilizzati per tracciare il confine tra “normalità” e “devianza”. Questo confine, come ho argomentato nel capitolo precedente, è in primo luogo di natura “morale”, “politica”. Si può trovare un classico esempio sulla natura sto- ricamente determinata (e politica) di ogni sistema di classificazione scientifico della devianza, nella medicaliz- zazione e successiva de-medicalizzazione dell’omosessua- lità (Conrad e Schneider 1992). Il “manto della scienza medica” ha coperto inizialmente la natura morale di tale operazione cognitiva (vi è un comportamento ritenuto deviante, innaturale, dalla maggior parte dei membri del- la società che viene spiegato ricorrendo alla scienza me- dica), poi svelata dal successivo processo di de-medicaliz- zazione in cui giocarono un ruolo rilevante i movimenti omosessuali (Lane 2007)8. È sufficiente leggere i segnali di rischio riportati nella griglia di valutazione (cfr. box 1) per rendersi conto della dimensione morale che pervade le griglie per l’assessment. 8 Per coloro che volessero approfondire il processo di costruzione sociale e gli attori che concorsero alla elaborazione del DSM, si rimanda alla interes- sante lettura del testo di Lane (2007). 92 CONTROLLO E AUTODETERMINAZIONE NEL LAVORO SOCIALE Espressioni come “non adeguato”, “incongruo”, “ecces- sivo”, “problemi di adattamento”, “degradato”, sono criteri oggettivi e neutrali, cioè non condizionati dalla attività defi- nitoria dell’operatore/operatrice (e dello studioso)? L’impostazione normativa e paternalista (si veda ca- pitolo precedente) di tale strumento emerge anche dalla lettura dei fattori protettivi, in particolare faccio riferi- mento ad alcuni descrittori di comportamento relativi al rapporto con i servizi: − “disponibilità dei genitori a una relazione con i servizi, a confrontarsi e a discutere delle proprie difficoltà”, − “rispetto degli impegni in un progetto condiviso con i servizi”, − “richieste congrue e tempestive di aiuto ai servizi”, − “utilizzo congruo degli aiuti forniti”. Negli studi sui fattori di rischio, questi comportamenti risultano essere positivamente associati alla probabilità che i genitori in carico ai servizi siano in grado di soddisfare “adeguatamente” i bisogni dei loro figli. Ma è evidente, an- che in questo caso, come si assuma l’esistenza di un modello normativo che dovrebbe regolare il rapporto con i servizi, peraltro senza neanche esplicitarlo in modo chiaro: quali sono, per esempio, i criteri che si adottano per valutare l’uso congruo degli aiuti forniti (si faccia riferimento al caso della mamma che acquista un regalo per il proprio figlio, descrit- to nell’introduzione)? Assumendo l’esistenza di un modello normativo, senza esserne consapevoli, si ignorano le dimen- sioni del controllo sociale, si ignorano le ragioni per le quali le persone fanno cose che non farebbero spontaneamente perché dal loro punto di vista non avrebbero senso (si veda la parte sul potere). Non adottando un framework in grado di concettualizzare la relazione operatrice/utente come una relazione di dominio, la deviazione dal modello è interpre- tata come un possibile fattore di rischio, mentre potrebbe anche essere intesa come una forma di resistenza al potere dell’operatore/operatrice (ma tale comportamento non è ovviamente indagato dagli studi sui fattori di rischio). SAPERE E CONTROLLO SOCIALE NEL LAVORO SOCIALE: DUE PARADIGMI 95 tengo al secondo gruppo e qualche volta ho usato tali mezzi, è possibile che io sia meno propenso a rispondere affermati- vamente, per il noto meccanismo della desiderabilità sociale. Sono comunque pochissimi gli studi longitudinali pro- spettici sui fattori di rischio per la negligenza e l’abuso rea- lizzati con campioni estratti dalla popolazione generale. La stragrande maggioranza degli studi sui fattori di rischio è realizzata su campioni che provengono da popolazioni “re- gistrate” o “cliniche”, cioè genitori che sono in carico ai servizi di tutela dell’infanzia, o che sono stati denunciati, ecc. Negli studi più robusti metodologicamente da un pun- to di vista positivista (che sono quelli a cui si fa riferi- mento per costruire gli strumenti standardizzati di asses- sment), i descrittori del comportamento del gruppo dei genitori registrati come “maltrattanti” o “negligenti” sono comparati con quelli di un gruppo di controllo compo- sto da genitori “non maltrattanti” o “non negligenti”, che possono appartenere anch’essi a popolazioni registrate (per esempio, genitori, non registrati come “maltrattan- ti”, “negligenti” dalle istituzioni, che beneficiano però di un contributo economico) oppure no (genitori residenti in un determinato contesto territoriale). Se negli studi longitudinali prospettici descritti in pre- cedenza, la generalizzabilità dei risultati era limitata dalla scarsa rappresentatività dei partecipanti allo studio, negli studi con popolazioni “registrate” e/o “cliniche” la gene- ralizzabilità dei risultati è assolutamente discutibile per almeno due ragioni teoriche e metodologiche che hanno a che fare con le caratteristiche dei campioni dei genitori negligenti e le caratteristiche del gruppo di controllo. Innanzitutto, la registrazione di un soggetto tra i “de- vianti” (nel nostro caso tra i genitori negligenti) è il risul- tato “delle attività di determinate persone che, nel sistema sociale, definiscono, classificano e registrano determinati comportamenti come devianti” (Kitsuse 2020, pp. 104- 105). Se un certo comportamento non è ritenuto deviante da tali persone non verrà “registrato” dalle istituzioni. 96 CONTROLLO E AUTODETERMINAZIONE NEL LAVORO SOCIALE Abbiamo visto precedentemente come gli strumenti di va- lutazione utilizzati dagli/dalle operatori/operatrici siano tutt’altro che “oggettivi”: il criterio che l’assistente socia- le adotta per giudicare la cura dell’igiene, l’adeguatezza dell’abbigliamento, l’uso congruo degli aiuti ricevuti, ecc. classificherà o meno il genitore come “deviante”. È quindi la natura selettiva del controllo sociale che produce “po- polazioni registrate” (si veda il capitolo precedente). Non deve pertanto stupire che tra i fattori di rischio associati al maltrattamento, che vengono rilevati da questi studi, vi siano (cito dalla griglia di Raineri e Corradini): il contesto isolato e degradato in cui vive la famiglia, l’abi- tazione inadeguata, l’isolamento sociale della famiglia, la numerosità della famiglia, la precarietà della condizione lavorativa di entrambi i genitori, l’eccessiva dipendenza dai servizi, gli atteggiamenti assistenzialistici, la ricorsività dei problemi che si presentano comunque nonostante gli aiuti, l’appartenenza a minoranze etniche o culturali. Sono, cioè, famiglie povere, che appartengono ai grup- pi sociali con minore potere nella società e che per questa ragione sono più esposti al controllo sociale (si veda il capi- tolo precedente). Si utilizzano, quindi, per testare ipotesi sulla negligenza e l’abuso e per individuare i relativi fattori di rischio, campioni che sono prodotti dai sistemi di classificazione utilizzati dalle istituzioni per scopi (il controllo sociale della devianza) che non sono quelli di uno studioso. Facciamo una comparazione per chiarire meglio questa fondamentale questione. Pensare che utilizzando campioni di popolazioni “registrate” si possa studiare l’abuso e la ne- gligenza è come pensare di voler studiare il fenomeno crimi- nale intervistando soltanto le persone che stanno scontando una pena in carcere. A quali conclusioni potrei giungere? I criminali sono prevalentemente tossicodipendenti, immigra- ti e affiliati a organizzazioni criminali. Se non fossi consa- pevole della selettività del controllo sociale, potrei pensare che il fenomeno criminale sia il prodotto dell’attività di tali SAPERE E CONTROLLO SOCIALE NEL LAVORO SOCIALE: DUE PARADIGMI 97 categorie. Facendo ciò ignorerei l’esistenza di un altro tipo di criminalità: quella dei colletti bianchi10. Benson (2002) osserva come non ci siano studi prospettici longitudinali che includono informazioni sui reati dei colletti bianchi. Tale carenza di informazioni ha anche a che fare con la definizione di “crimine”. La maggior parte della ricerca criminologica sulle carriere, in particolare quella di matrice positivista, basandosi quasi interamente sui dati raccolti dal- le persone arrestate o incarcerate, si è focalizza su uno specifico tipo di crimine: i reati predato- ri. Ciò è avvenuto poiché le persone arrestate o incarcerate commettono prevalentemente quel tipo di crimine. Tali stu- di hanno prodotto una immagine stereotipica del criminale: maschio, che ha iniziato precocemente ad adottare com- portamenti “antisociali”, che commette alcuni tipi di reato e trascorre una parte della sua vita in carcere. Facendo ri- ferimento alle popolazioni cliniche e registrate, gli studiosi trovano soltanto questi tipi sociali di criminali, così come gli studiosi della negligenza e dell’abuso trovano soltanto determinati tipi di genitori devianti. Studiando invece il crimine dei colletti bianchi, ci si rende conto che i criminali non sono soltanto poveri, tossi- codipendenti, stranieri irregolari, poco istruiti, ecc. Come scrive Pazè (2020), anche i ricchi rubano. E imbrogliano e uccidono. Lo fanno nel- le forme più disparate: inquinando le acque e il suolo, sfruttan- do gli operai, non rispettando le regole di sicurezza sul lavoro dei dipendenti, vendendo ai risparmiatori prodotti finanziari farlocchi […]. Alla base dei reati dei ricchi – come di quelli contro il patrimonio commessi dai poveri – c’è una motivazione economica. I crimini dei ricchi hanno la stessa sistematicità dei reati di strada: esattamente come chi spaccia o commette furti seriali, l’imprenditore che paga mazzette lo fa ogni volta che gli si presenta l’occasione. Eppure ai ricchi si perdona, e si condo- 10 Con espressione “criminalità dei colletti bianchi” Sutherland (1949) definisce tutti i reati commessi da persone rispettabili e di elevata condizione sociale nel corso della propria occupazione.
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