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Scheda di lettura "Le isole del lusso. Prodotti esotici, nuovi consumi e cultura economica europea, 1650-1800. ", Appunti di Storia Moderna

Scheda di lettura del libro di Marcello Carmagnani

Tipologia: Appunti

2016/2017

Caricato il 15/08/2017

MANUIMP1989
MANUIMP1989 🇮🇹

4.7

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Scarica Scheda di lettura "Le isole del lusso. Prodotti esotici, nuovi consumi e cultura economica europea, 1650-1800. " e più Appunti in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! Le isole del lusso. Prodotti esotici, nuovi consumi e cultura economica europea, 1650-1800. Di Marcello Carmagnani Scheda di lettura Temi trattati : L'autore nel suo libro nel suo libro ci parla del lusso e dei suoi prodotti e di come di come questa idea si sia sviluppata nel corso del tempo e nel corso dell'età moderna. L'autore nei vari capitoli 7 nella precisione e nel suoi capitolo conclusivo ci presenta una storia di stampo economico e sociale e soprattutto di come nel corso della storia si sia modificato il mercato internazionale anche con l'ingresso nel mercato internazionale di nuovi prodotti come lo zucchero , il tè, il tabacco e il caffe e ci parla di come questi nuovi prodotti abbiano portato ad un nuovi tipi di relazioni sociali, economici. Il testo tratta anche di questioni puramente economiche e si parla di come ci siano stata una vera e propria rivoluzione economica e commerciale con l'ingresso di questi prodotti . Tuttavia ci sono anche molti riferimenti filosofici e questi riferimenti filosofici vanno a mettere in luce come questi prodotti abbiano influito sul comportamento delle persone e di come il lusso abbia cambiato appunto il comportamento delle persone. Queste divagazioni filosofiche hanno il compito di contestualizzare se il lusso sia morale o immorale . Approccio Metodologico: L'autore usa un approccio metodologico che rispecchia la storia economica. L'autore parla molto di storia sociale oltre che di storia economica, ci sono in alcune parti molte riferimenti a numeri, a statistiche , e in alcune parti ci sono alcuni grafici ed alcune tabelle. C'è una spiccata connessione tra queste materie prima come zucchero, tabacco, caffè, tè e tessili con il lusso e l'autore spiega come queste materie prima abbiano portato nuovi tipi di abitudini e abbiano creato nuove relazioni sociali ed economiche. L'autore si divaga anche in divagazioni filosofiche e ci sono capitoli dove tiene un approccio molto basato sulla filosofia . Costruzione del testo: La ricostruzione della polemica sul lusso ci consente di osservare la correlazione che sussiste tra i beni prodotti e i beni consumati. Bisogna tener conto che il concetto di lusso integra in sé elementi di natura morale, religiosa, economica, sociale e politica, ed è identificabile in un insieme di simboli che ostentano un determinato codice di comportamento sociale. Henry Martin, che riflette sulle importazioni dei tessuti indiani, si interroga su come l’espansione del commercio, trainato dai beni di lusso, possa alterare l’equilibrio della bilancia commerciale. Nel 1663 si autorizza l’esportazione monetaria per permettere alla Compagnia delle Indie Orientali di importare senza limitazioni i cotoni indiani: l’acquisto di questi tessuti con un prezzo inferiore ai tessuti simili inglesi consente alle classi inferiori un risparmio. Perciò, se un paese deve essere in grado di produrre merci che all’interno costano meno che all’estero, occorre introdurre innovazioni tecniche e organizzative in grado di ridurre i costi di produzione e di elevare la capacità di concorrenza internazionale dell’Inghilterra. Secondo Davenant nessun paese può essere sufficientemente ricco se esporta i propri prodotti naturali in quanto con l’esportazione di questi beni si può al massimo coprire la quarta parte delle importazioni, e quindi non sarebbe possibile equilibrare la bilancia commerciale. Il lusso, pur essendo peccaminoso, aveva uno scopo sociale in quanto il consumo di ogni bene favorisce l’occupazione, sviluppa i commerci e arricchisce non soltanto i soggetti privati ma anche le casse dello Stato. Si comincia a dare importanza all’azione individuale che favorisce l’autonomia degli attori sociali e degli imprenditori sino ad allora fortemente dipendenti dal potere pubblico e condizionati dalla morale dominante. Senza tener conto di questi detonatori non è possibile capire la discontinuità che rappresenta l’opera di Bernard di Mandeville, specialmente La favola delle api, pubblicata nel 1714. Gli scritti di Mandeville, in modo speciale La Favola delle Api, ci permettono di intravedere le nuove dinamiche sociali che si attivano per effetto delle decisioni individuali. Le azioni umane hanno una caratteristica nuova: nessuna azione può essere considerata secondaria o inferiore poiché tutte sono importanti e significative. Poi il libro parla di una rivoluzione commerciale e spiega di come nel 18 secolo ci sia una rivoluzione commerciale. La rivoluzione commerciale favorì anche una maggiore articolazione tra la produzione, il commercio e la circolazione dei metalli preziosi e dei nuovi strumenti di credito, favorendo la nascita dell’economia politica e della cosiddetta “prima rivoluzione industriale”. L’espansione dell’economia finanziaria dipende dall’incremento del commercio a lunga distanza, che genera maggiori profitti mercantili e favorisce non solo innovazioni finanziarie e assicurative ma anche tecnologiche. Nel corso del 18º, facendo ricorso alle nuove forme di credito, sia la Compagnia delle Indie orientali olandese sia quella inglese riuscirono a minimizzare l’utilizzo dell’argento fisico nei loro commerci e nei pagamenti dei loro dipendenti in Asia. Il nuovo commercio internazionale (Olanda, Inghilterra, Francia ) si fonda sulla riesportazione, una foma mercantile che assegna ad alcune città-porto il ruolo centrale nell’organizzazione dei flussi dei prodotti. Un ultimo aspetto della rivoluzione commerciale è il contributo dei beni extraeuropei all’evoluzione verso il multilaterismo commerciale. Infatti, tra la seconda metà del 17º secolo e la prima metà del secolo successivo, le importazioni delle merci extraeuropee si moltiplicano di sei volte, portando la partecipazione dell’Asia e delle Americhe nel commercio mondiale a circa un terzo del valore totale. Il libro continua e parla del dolce commercio il motore della ricchezza della nazione è, secondo Melon, il commercio, lo strumento principale per soddisfare le necessità della popolazione. La stretta correlazione che si manifesta tra i bisogni e la produzione, di cui il commercio non è altro che il mediatore, è il vero fondamento della potenza e della ricchezza di uno Stato. Gli uomini sono animati da passioni e il loro obiettivo ultimo è di raggiungere il massimo di soddisfazione, con il risultato che “il lusso diventa un nuovo motore di lavoro”. Le idee di Melon sono anche influenzate da Pierre Bayle secondo il quale il consumo dei beni di lusso ha la stessa origine degli altri consumi, ossia le passioni umane, potendo distinguere tra consumi di “necessità assoluta”, come il pane; di “seconda necessità”, come i tessuti di lana; e, infine “di lusso”, come il pane bianco e i tessuti fini. Per Montesquieu il consumo è in rapporto con la libertà politica ed economica degli individui. La convergenza degli interessi si manifesta a livello economico nella molteplicità di rapporti e di collegamenti presenti nella dimensione commerciale, con il risultato che gli scambi modificano anche i modi e le abitudini, e quindi affinano i gusti (società del “dolce commercio”). Poi il libro parla della filosofia sensista secondo Carmagnani il contributo della filosofia sensista di Etienne Bonnot de Condillac ha permesso di stabilire uno stretto collegamento tra la libertà commerciale e la libertà di consumo. L’intera vita, e non solo quell’economica, ha il suo fondamento nella libertà, nella sicurezza e nella proprietà. L’economia, infatti, ha una teoria del valore basata sull’idea che un oggetto, un prodotto, ha valore perché si può usare per soddisfare una necessità, e la necessità ha un marcato carattere psicologico, come peraltro hanno tutti bisogni. Carmagnani prosegue dedicando diverse pagine a Hume. David Hume nel suo Trattato sulla natura umana (1739-1740) considera il concetto di passione come irriducibile e non soggetto a correzioni dettate dalla ragione, sostenendo invece che la ragione è al servizio delle passioni. Le passioni (violente o virtuose) motivano le azioni degli uomini sino al punto di diventare causa tanto del lavoro quanto dei desideri di eccellere nella società, nella politica o nell’economia. Per Hume ciò che favorisce le azioni virtuose è la propensione psicologica della ricerca del bello e della volontà di interagire con i nostri simili. L'autore poi continua nelle sue divagazioni filosofiche e parla della ricchezza delle nazioni e di come come ad Adam Smith spetti un grandissimo merito: di aver differenziato il consumo immediato da quello durevole, e di aver successivamente rapportato i due tipi di consumo al prodotto totale. Nel capitolo quattro si parla delle isole del lusso nuovo dove consumo di nuovi beni di origine asiatica e americana corre in parallelo con la prima espansione delle importazioni dei tessuti indiani. Così come contribuirono alla crisi del mercantilismo, i nuovi prodotti rimisero in discussione l’idea che i beni di lusso, specialmente se importati, erano riservati soltanto ai nobili. Nel capitolo quattro si parla di come i nuovi beni di consuno abbiano portato a nuovi bisogni nelle varie zone d'europa grazie a questi beni siano nate nuove attività commerciali ed economiche e si parla di come a livello internazionale siano nati nuovi tipi di relazioni economiche, si parla di come anche questi prodotti abbiano anche altri usi come ad esempio quello medico. Nel capitolo cinque si parla di delle sete dei tessili e dei tabacchi .Le sete cinesi ma soprattutto i cotoni indiani sono l’apripista degli altri consumi asiatici e americani in Europa. A metà del 18º secolo, l’Olanda, l’Inghilterra e la Francia sono i principali soltanto dopo il 1650 per una serie di cause: la diffusione del suo uso come dolcificante dei nuovi beni esotici (tè, caffè e cioccolato); il progressivo declino del pregiudizio morale sul suo consumo; la comparsa dei nuovi spazi pubblici (le caffetterie) e la rapida diffusione, specialmente in Inghilterra, del suo consumo tra i ceti non nobili. Tra il 1650 e il 1700 i tradizionali importatori di zucchero, il Portogallo con la produzione brasiliana e l’Olanda con la produzione di Giava, incominciano a declinare. Nel corso della seconda metà del 17º secolo le aree centro-americane diventano le principali fornitrici dell’Europa. Informazioni sulla produzione di zucchero delle colonie francesi e inglesi sono troppo frammentate per farci individuare una tendenza sicura. L’espansione della prima metà del 18º secolo ci indica che in questo periodo si assiste a una fortissima concorrenza tra le produzioni di zucchero del sudest asiatico e quelle americane, concorrenzialità praticamente sconosciuta per il tabacco dominato dalla produzione della Virginia. È molto probabile che la concorrenza tra le diverse produzioni di zucchero dipenda dall’impossibilità di essere sostituito con produzioni europee, sostituzione che verrà soltanto con la diffusione della barbabietola zuccherina nel 19º secolo. Ancora tra il 1750 e il 1790 le importazioni di zucchero in Europa continuano a crescere, e tanto la Gran Bretagna quanto la Francia espandono le loro importazioni. Nel corso dell’ultima metà del Settecento è chiaro che lo zucchero entra nella sua fase di affermazione, e potrà continuare a espandersi a condizione che avvengono cambiamenti sia nella produzione sia nella trasformazione della materia prima. Come per gli altri prodotti extraeuropei, la crescita delle importazioni stimola l’insediamento di nuove aree produttive fuori dall’Europa, e in tutti i paesi dell’Europa atlantica e mediterranea nascono le manifatture per la trasformazione dello zucchero grezzo in prodotto raffinato da destinarsi al consumo interno e all’esportazione. Gli olandesi modificarono le piantagioni appartenenti a portoghesi e brasiliani, incentivando l’incorporazione di manodopera schiava africana e introducendo nuovi miglioramenti nella macina della canna da zucchero, probabilmente con metodi già sperimentati a Giava. Anche nei Caraibi avvengono innovazioni nell’utilizzo delle risorse naturali, nell’adozione di nuove specie di canna da zucchero,e ancora nelle tecniche della macina del fusto. Queste innovazioni si affermano più rapidamente nelle colonie inglesi, francesi e olandesi ma anche nelle aree spagnole e portoghesi. A partire dalla seconda metà del 17º secolo si assiste alla proliferazione delle raffinerie dello zucchero, che coincide con la fine del suo uso medicinale. Infatti, comincia la sua diffusione come dolcificante neutro, avente la proprietà di non modificare ma di migliorare il sapore del cibo e delle bevande, poiché la raffinazione eliminava le tracce del residuato scuro. In Cina il consumo del tè risale al 2000 a.C. ma la sua diffusione avviene a partire dal 500 a.C. grazie al buddismo che gli attribuì la capacità di preparare la mente all’illuminazione: era quindi una bevanda ritenuta fondamentale per la vita umana in quanto favorisce l’attenzione e la concentrazione. La coltivazione del tè quindi comincia in Cina nel II secolo a.C. ma si diffonde a partire dai primi secoli della nostra era. In questo periodo il consumo del tè è incentivato dal governo interessato a scoraggiare l’abitudine all’uso dell’alcol di riso, e si diffonde a partire dall’8° secolo, quando il suo flusso commerciale diventa regolare e si aprono i primi negozi di vendita del prodotto, tanto che nel 13º secolo si coltiva in un terzo delle prefetture cinesi, e nel secolo seguente comincia a diffondersi nella Mongolia. In Europa il tè è conosciuto sin dal 16º secolo e considerato una bevanda consumata per le sue proprietà medicinali e quale alternativa all’alcol. In Olanda il tè comincia ad essere usato verso il 1610, nonostante l’alto prezzo del prodotto. In Inghilterra, a partire dalla seconda metà del 17º secolo, incomincia ad essere consumato nei caffè pubblici. In seguito, alla fine del 17º secolo, l’incontro con lo zucchero rafforza il consumo familiare di entrambi i prodotti ed espande rapidamente il loro consumo nei nuovi spazi pubblici: le caffetterie. Le informazioni quantitative di cui disponiamo ci permettono di capire che il vettore di diffusione del tè in Europa è la Compagnia delle Indie Orientali inglesi. Tuttavia, nella prima fase di crescita, tra il 1661 e il 1690, l’importazione di tè non riesce a consolidarsi, ciò a causa dell’ aumento della tassazione del tè liquido e della diminuzione della domanda inglese ed europea. Invece, nel primo terzo del 18º secolo, l’apertura del commercio cinese con gli stranieri, la riorganizzazione e centralizzazione delle dogane a Canton e la creazione della corporazione mercantile del Co-Hong assegnano a poche compagnie cinesi il privilegio dell’intermediazione con i commerci europei, la riscossione delle tasse, gli approvvigionamenti e la sicurezza alle navi straniere. In questo modo, il commercio del tè acquista la caratteristica di essere un monopolio bilaterale tra mercanti cinesi e mercanti europei, che però scatena la competitività tra le compagnie europee. La concorrenza tra le compagnie privilegiate si manifesta anche in Europa a vantaggio delle compagnie privilegiate non inglesi che rispetto a quelle inglesi pagavano meno tasse, usavano navi di maggior tonnellaggio, sostenevano un costo di trasporto minore e ottenevano in Cina tipi di tè di migliore qualità. Ancora una volta osserviamo la maggiore capacità danese e svedese in questo commercio, rispetto non solo all’Olanda ma anche alla stessa Inghilterra. Tuttavia, a partire dal 1760, l’Inghilterra assume la leadership delle importazioni del tè incrementando la partecipazione del commercio europeo, ciò grazie alla riduzione della tassa di consumo, alla crescita della domanda interna e alla ristrutturazione della compagnia privilegiata nel 1784 che separò gli affari politici da quelli commerciali, ma anche allo sviluppo del commercio intra-asiatico e del commercio tra Canton e l’India. Originario dell’altopiano d’Etiopia, il caffè è portato nello Yemen nel 14º secolo dove i laici, nella ricerca di un contatto con la divinità, lo bevono per concentrarsi e per vegliare durante la pratica religiosa. In seguito, tra la fine del 15º secolo e l’inizio del secolo successivo, arrivò a La Mecca e al Cairo. Mentre a metà del 16º secolo il consumo del caffè è approdato a Baghdad e in Persia e anche nell’Africa del Nord, del Medio oriente, ad Aleppo e Damasco, e a Costantinopoli, dove si diffonde specialmente nei luoghi pubblici. Nei paesi musulmani invece il caffè è ritenuto una bevanda inaccettabile poiché intossica e danneggia il fisico umano e quindi vìola i principi della legge islamica. Infatti, fin dalla sua prima comparsa in Europa, il caffè diede vita ad un dibattito medico e morale sulle sue virtù e sui probabili danni fisici ed economici che il suo consumo può arrecare. Nonostante i divieti e le polemiche, in Gran Bretagna il caffè si diffonde nei luoghi pubblici sin dagli anni 60 del Settecento, e non solo a Londra ma anche a Bristol, Dublino, Oxford, York, Yarmouth. Sono anche inglesi i proprietari delle caffetterie che si aprono ad Amburgo. Negli stessi anni il consumo del caffè incomincia a diffondersi anche in Olanda, più nelle città che nella campagna, e compaiono le prime caffetterie ad Amsterdam, come in Francia e in Italia negli anni 60 e 80 del Settecento. Il Cairo, nel corso del 17º secolo, diventa il centro del commercio del caffè, dei decoloranti e dei tessuti indiani. Al Cairo, come in Turchia, Siria e Libano, dopo il declino dei commercianti veneziani sono i francesi e gli inglesi le comunità mercantili europei più importanti. Nel commercio del caffè sono però i francesi, specialmente i marsigliesi che, con l’appoggio della Camera di Commercio locale e la riduzione del costo del trasporto grazie alla politica di Colbert, nel corso del 17º secolo diventano i principali riesportatori del caffè di Moka in Europa. A questo punto, olandesi e inglesi capiscono assai rapidamente l’importanza del caffè nel consumo asiatico, e riescono a inserirsi nella sua rotta senza intaccare, inizialmente, il monopolio cairota e quindi la ridistribuzione verso il Medio oriente e l’Europa. La penetrazione europea nel commercio del caffè si può misurare negli anni 20 del Settecento quando la crescente domanda europea spinge le compagnie privilegiate olandesi e inglesi a cercare un’alternativa alla produzione yemenita. La sostituzione di maggior successo è quella olandese, con la creazione di un nuovo centro di produzione di caffè a Giava. Così, con l’integrazione delle importazioni olandesi del sud-est asiatico, tra il 1725 e il 1735 l’offerta europea riesce quasi a duplicarsi, assicurando ad Amsterdam il ruolo di leader del commercio internazionale del caffè. Inoltre, la delocalizzazione della produzione di caffè da Moka a Giava diede vita a iniziative, prima da parte degli olandesi, e dopo dei francesi e inglesi, che finirono per spostare l’offerta del caffè dall’Asia all’America. D’altra parte, il successo più strepitoso è la rapidità con la quale la Francia diventa la principale potenza del caffè. Infatti, sino al 1730 le importazioni francesi di caffè provengono direttamente o indirettamente da Moka, pur essendo il caffè dello Yemen qualitativamente il migliore e anche il più costoso. Ciononostante Marsiglia continua a commerciarlo praticamente sino alla rivoluzione. Il boom delle importazioni francesi incomincia nel quinquennio 1736-1740, 10 anni più tardi dell’espansione olandese. Tuttavia, nel momento in cui la Francia era diventata la principale importatrice di caffè in Europa, la guerra dei Sette Anni (1756-1763) provocò quasi il dimezzamento dell’importazione francese; inoltre, il conflitto internazionale provocato dalla Rivoluzione Francese e dalla rivoluzione a Santo Domingo del 1791 rimescolano la geografia delle importazioni europee di caffè a favore degli inglesi. Olanda, Gran Bretagna e Francia sono i paesi che, come avviene anche con i tessuti indiani, il tabacco, lo zucchero e il tè, assumono il ruolo di incentivare il consumo del caffè in tutte le aree europee, per mezzo delle connessioni mercantili di cui dispongono, e con il sostegno delle politiche commerciali dei loro governi che incentivano i porti franchi e garantiscono la restituzione delle imposte dei prodotti riesportati. In seguito, l’idea del porto franco e della detassazione alla riesportazione del caffè da Marsiglia è sostenuta dal controllore generale delle finanze con l’argomentazione che così si favoriranno le vendite in Italia e nel Levante, si ridurrà il prezzo di vendita e si incrementeranno le entrate statali. Dunque, i prodotti analizzati ci mostrano sino a che punto essi favorirono, incrementandola, la concorrenza tra l’Olanda, la Gran Bretagna e la Francia. Nel settimo capitolo si parla dei livelli di vita e dei nuovi consumi. L’itinerario analitico di quest’ultimo capitolo è stato elaborato in modo da comprendere come il nuovo consumo tiene conto delle trasformazioni che avvengono nel rapporto tra città e campagna, un rapporto che incide nella riformulazione della divisione del lavoro e nella costruzione di una nuova socialità capace di incentivare la libertà dei consumatori. Descriverò poi l’evoluzione del reddito e dei prezzi per capire sino a che punto essi ostacolino o favoriscano la propensione del consumatore verso la riduzione dei consumi di prima necessità a vantaggio del consumo di altri beni e, in special modo, dei prodotti extraeuropei. L’evoluzione dell’urbanizzazione europea permette di percepire i cambiamenti che avvengono nei rapporti sociali, i quali hanno un ruolo importante nell’espansione del consumo dei beni non europei, e di capire l’espansione della divisione del lavoro e le sue implicazioni culturali nella conformazione del consumo moderno. Considerando l’evoluzione urbana tra il 1500 e il 1800 e il rapporto tra la dimensione delle città e il tasso di urbanizzazione, notiamo innanzitutto che i più importanti momenti di crescita delle città con più di 5000 abitanti sono due, i secoli 16º e 18°. In questo periodo si afferma l’economia monetaria e ciò consentirà non solo di subordinare la campagna alla città, ma anche il consolidarsi, lungo il 18º secolo, di una centralità e complessità urbana sconosciuta nel secolo 16º. Tra il 1600 e il 1750 la divisione del lavoro e la crescita dell’economia monetaria sono state assai più rapide nelle aree atlantiche dell’Europa, nell’area mediterranea e nell’Europa centrale. Infatti, le città che raddoppiano la loro popolazione sono 27 nell’area atlantica mentre sono appena 7 nel Mediterraneo, compresi due città francesi. La maggiore crescita urbana delle aree atlantiche favorisce la riduzione della distanza tra i diversi insediamenti, con migliori collegamenti tra le città portuali e le città continentali, e quindi con una diminuzione dei costi di trasporto. Il divario tra le aree atlantiche e le aree continentali si rafforza nel corso del 18º secolo probabilmente perché il reddito procapite è cresciuto più rapidamente nelle aree urbane atlantiche e meno in quelle continentali. Questa diversa dinamicità della popolazione urbana delle aree europee è anche visibile nel numero di viaggi marittimi, maggiori infatti quelli in partenza e in arrivo dall’Atlantico. L’espansione del commercio internazionale, con le sue ricadute positive sull’occupazione, il reddito e il consumo urbano, costituisce uno dei principali motori della rapida crescita urbana nelle aree atlantiche. Un secondo motore è l’interazione tra centri urbani e campagna, che accresce la divisione del lavoro e si manifesta nelle trasformazioni dell’agricoltura. Infatti, la crescita della produttività agricola è il fondamento della crescita della popolazione, delle città e del reddito urbano, ma anche della riduzione della popolazione rurale. Tra il 1600 il 1750, la migliore performance appartiene a due aree atlantiche, l’Inghilterra e l’Olanda, che vedono aumentare la popolazione agricola procapite e la produttività per lavoratore. Si può quindi dire che, mentre nel secolo 16º l’area mediterranea conosce un innalzamento della produzione agricola procapite e della produttività del lavoratore agricolo, nel corso della rivoluzione commerciale il primato appartiene all’area atlantica, e specialmente all’Inghilterra e all’Olanda. Ragionando in termini di salario reale quale indicatore del livello di vita, un altro studio recente sull’Inghilterra ci dice che i salari reali medievali si superano solo con l’incremento della produttività totale intervenuto tra il 1650 al 1800. I salari agricoli inglesi replicano quelli urbani, ma il loro livello è comunque inferiore a quello delle città. La tendenza è verosimile poiché anche nell’agricoltura i salari aumentano leggermente tra il 1650 e il 1750, e ristagnano nella seconda metà del 18º secolo. La differenza di livello tra salari rurali e urbani ci aiuta a capire la propensione all’inurbamento dei lavoratori rurali, in Inghilterra come in Francia.
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