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SCHEDA LIBRO "IL GATTOPARDO" - G. TOMASI DI LAMPEDUSA, Sintesi del corso di Letteratura

Scheda del libro di narrativa "Il gattopardo" di G. Tomasi di Lampedusa.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 30/01/2021

al.ve
al.ve 🇮🇹

4.4

(12)

22 documenti

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Scarica SCHEDA LIBRO "IL GATTOPARDO" - G. TOMASI DI LAMPEDUSA e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura solo su Docsity! IL GATTOPARDO – TOMASI DI LAMPEDUSA Il Gattopardo è un romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa che narra le trasformazioni avvenute nella vita e nella società in Sicilia durante il Risorgimento, dal momento del trapasso del regime borbonico alla transizione unitaria del Regno d'Italia, seguita alla spedizione dei Mille di Garibaldi. Già dalla sua prima uscita, risalente al 1958, il romanzo “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa suscita sì entusiasmo, ma anche molte perplessità. Infatti, nonostante ci troviamo negli anni in cui si fa evidente il declino di una letteratura politicamente impegnata, l’imponente figura del Principe di Salina, che di fronte al declino inesorabile della sua classe, l’impresa dei Mille e la conseguente ascesa del ceto borghese, non sa fare altro che osservare le stelle dal suo osservatorio astronomico, o teorizzare il salvataggio della vecchia aristocrazia, in accordo con la celebre formula “bisogna cambiare tutto perché non cambi niente”, fa subito gridare alla rinuncia e al reazionarismo. Il punto forte del libro non è la trama, piatta e semplice, volutamente scarna in modo da esprimere essa stessa la morale del racconto. Nemmeno il modo in cui scorrono i fatti, anche se possono essere in apparenza sconvolti da eventi come l’unità d’Italia o la spedizione dei Mille. Perché queste grandi innovazioni non hanno avuto niente di veramente innovativo per la Sicilia e i suoi abitanti. Tutto continua a procedere in modo piatto, monotono, privo di eventi che diano una scossa importante, rispecchiando ciò che accade nella vita di don Fabrizio. TRAMA 1) La vicenda del Gattopardo è ambientata in Sicilia e prende avvio nel 1860, nel momento del collasso del Regno dei Borboni. Don Fabrizio, principe di Salina e proprietario terriero di una tenuta vicino Palermo 1, è il classico rappresentante della ceto aristocratico, ovvero di quella classe sociale che sta assistendo impassibile al proprio inesorabile declino. La vicenda si apre infatti nel maggio di quell’anno, durante la spedizione dei Mille: il principe Salina saluta con scetticismo e malcelato disprezzo l’arrivo delle truppe di Garibaldi, che consegneranno il potere ai Savoia e che segnano la fine di un’epoca e la rapida ascesa della classe borghese. Se Don Fabrizio contempla con disincanto questo passaggio storico, suo nipote, Tancredi Falconeri, esponente di una gioventù più dinamica e cinicaal tempo stesso, si arruola volontario tra le fila dell’esercito sabaudo. Quando lo zio esprime delle riserve in merito, Tancredi risponde con la celebre frase: Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi. Questo motto - emblema del trasformismo politico e appunto dell’abitudine gattopardesca della classe politica - spiega da subito che, di fronte al cambiamento epocale che sta per avvenire, Tancredi incarna l’abilità della vecchia classe dirigente nel conservare i propri privilegi, sfruttando le nuove opportunità della modernità. Se infatti Don Fabrizio (intellettuale colto ed appassionato di astronomia) può solo rammaricarsi della scalata sociale dei borghesi, che egli considera alla stregua di parvenus, Tancredi si innamora della bellissima Angelica, figlia di Don Calogero Sedara, un mezzadro rapidamente arricchitosi e divenuto sindaco di Donnafugata, residenza estiva dei Salina. Qui la scena si sposta nel mese di agosto, quando, benché Don Calogero sfoggi già la fascia tricolore, Don Fabrizio si illude dell’immutabilità della Storia. A smuovere queste sue convinzioni arriva la passione amorosa tra i due giovani. Questo legame, pur fondato su una bruciante passione, è anche funzionale alla conservazione del potere dei Salina: Tancredi (che non dispone di grandi beni personali) troverà nelle ricchezze della famiglia Sedara un ottimo strumento per coltivare le proprie ambizioni politiche. Simbolicamente, la loro unione segna il tramonto dei Salina: Concetta, figlia di Don Fabrizio ed innamorata di Tancredi, vedrà deluse tutte le proprie aspettative. In effetti, Tancredi ed Angelica si assomigliano molto: sono giovani e belli, esponenti rampanti di una nuova società in cui passione e calcolo si sposano alla perfezione. Emblematica la scena in cui Don Fabrizio, assecondando i desideri del nipote, chiede per lui in sposa Angelica: il discorso di Don Calogero Sedara, aprendosi con un iniziale elogio della potenza dell’amore, passa a più venali considerazioni economiche circa la dote della figlia. Al trionfo di Tancredi, che fa rapida carriera nell’esercito regolare e gode dell’amore di Angelica (celebre la scena del loro inseguimento nel palazzo di Donnafugata), fa da contraltare l’immobilismo, voluto e distaccato al tempo stesso, del principe Salina. Quando il cavaliere piemontese Aimone de Chevalley, segretario della prefettura, esponente del parlamento sabaudo gli offre la nomina regia a senatore (e quindi l’ingresso nella “nuova” Italia unita), Don Fabrizio rinuncia, indicando Don Calogero al proprio posto. Da questo incontro hanno origine le sue riflessioni sul “desiderio di immobilità voluttuosa” che caratterizzerebbe l’animo siciliano e che, nel caso del protagonista, lo fa tendere, con piacere e dolore, al passato e alla morte. Nonostante tutti i dubbi, il principe invita i concittadini a votare per l’annessione. La vicenda si sposta per seguire il ritorno a casa di padre Pirrone, cappellano dei Salina ed esponente del clero reazionario e conservatore del regno borbonico: questa parentesi è funzionale a rappresentare i cambiamenti storici intervenuti nel Regno delle Due Sicilie in seguito al moto unitario. Al vento della Storia sembra sempre insensibile: la narrazione delle vicende principali riprende con la descrizione di una futile e fastosa scena di ballo 2, che diventa simbolo del desiderio sotterraneo di oblio e di morte del principe; Don Fabrizio, infatti, morirà nel 1883, in una camera d’albergo di ritorno da un viaggio napoletano. Per il principe, la Morte ha le fattezze di una bellissima donna, giovane e velata, vagheggiata da sempre. Nel frattempo, Tancredi è divenuto deputato. Con uno stacco temporale di molti anni, l’ultima scena è ambientata nel 1910: le figlie di Don Fabrizio (Concetta, Caterina e Carolina, tutte rimaste nubili) sono intente a rivendicare il valore delle mille reliquie false accumulate nella cappella di famiglia, simbolo del potere ormai vuoto dei Salina. Dopo una visita del cardinale, tutto verrà buttato tra i rifiuti. Subisce la stessa sorte anche la pelliccia del cane alano Bendicò, amico fedele di Don Fabrizio e ultimo segno della decadenza dell’antica casata. Il romanzo si chiude con l’arrivo in automobile di Angelica, pronta a organizzare i festeggiamenti per il cinquantesimo anniversario della spedizione dei Mille. 2) Maggio 1860. Nella villa dei Salina vicino a Palermo un'aria di turbamento modifica la vita di tutti i giorni. I membri della nobile casata avvertono l'irruzione della storia nel loro privato, come simboleggia il ricordo di un soldato trovato «sbudellato» nel giardino della villa o la tensione di un «cattivo» e inusuale congedo in un incontro del Principe con il re Ferdinando. A Caserta quest'ultimo aveva rivolto al suo interlocutore l'invito ad essere un tutore maggiormente responsabile, a far mettere la testa a posto al nipote Tancredi, apparentemente immischiato con i piemontesi. La sensazione di trovarsi ad uno snodo storico importante appartiene ormai al senso comune e l'interrogativo sulla successione al re è diventato un tema su cui incedono le chiacchiere. Si contempla ormai anche in Sicilia la possibile successione del Galantuomo Piemontese o, addirittura, il rischio di una repubblica. A confermare i timori del re, quando Tancredi fa la sua prima apparizione sulla scena è per avvertire il principe della sua imminente partenza. Il ragazzo è risoluto a prendere parte alle «grandi cose» che si stanno preparando. Davanti all'evidente capovolgersi della situazione politica Tancredi rifiuta di farsi da parte; del resto, restando a casa, sceglierebbe per sé, aristocratico, una posizione abbastanza rischiosa. È il giovane a chiarificare allo zio la necessità di assecondare i Bastiana, una donna rustica al cui fianco si rifiuta di apparire. Alle sue prime comparse nel romanzo indossa vestiti eleganti, ma solo lentamente riuscirà a servirsene per apparire nobilitato. Angelica: Don Calogero compare ad un pranzo presso i Salina accompagnato dalla figlia Angelica. Al presentarsi della ragazza, «la prima impressione fu di abbagliata sorpresa»: con la sua statura slanciata, con il fascino dei i capelli mori e degli occhi verdi riesce a mettere in ombra alcuni piccoli difetti fisici. È una ragazza vivace, ma avendo studiato in collegio a Firenze ha acquisito un tono raffinato: è orgoglio del padre e figura capace di destare la curiosità di chiunque, avendola conosciuta da bambina, la trova straordinariamente cambiata. ANALISI Il Gattopardo si pone, con caratteristiche autonome, nel solco del romanzo storico ottocentesco e della narrativa siciliana post-risorgimentale. Guardando ad un filone che va dai Viceré di De Roberto a I vecchi e i giovani di Pirandello, propone uno spunto di «riflessione sulla funzione del romanzo una volta esauritasi la spinta neorealistica, sul rapporto fra narrativa, ideologia e storia»1. L'opera riesce così ad affiancare al giudizio disincantato sul Risorgimento italiano un ampliamento di prospettiva ideologica: permette una riflessione sul presente e contribuisce ad infliggere una «pugnalata mortale nel corpo ormai esangue del Neorealismo»2. In questa cornice la figura di Don Fabrizio appare da subito nella propria singolarità: si pensi alla sua statura imponente, ma anche alla cura dell'autore nello specificare, parlando della sua predisposizione alla matematica, come egli fosse «primo (ed ultimo)» del casato ad avere confidenze con i numeri. La particolare lungimiranza di Don Fabrizio, la sua capacità di discostarsi dal comune e chiuso atteggiamento aristocratico e di osservare con distacco gli avvenimenti nazionali, sottolineeranno lo scacco da lui subìto rimanendo escluso dagli effetti positivi della creazione del Regno d'Italia. «Il punto di vista di un gran signore scettico»3, su cui lungamente si focalizza la narrazione, agisce spesso da contrappeso nei confronti del senso comune. La narrazione risulta così basata sull'alternanza di lucidità e dubbio, chiarezza e incomprensione. Inizialmente si percepisce una difficoltà a inquadrare i fatti cui si assiste, la sensazione di qualcosa di stridente nell'interpretazione della cronaca. In altri momenti la verità viene presentata, a dispetto dell'apparenza complessa, nel suo aspetto semplice e univoco, spesso spiacevole, esprimibile con sentenze pungenti. Viene ad esempio dichiarato come il cambiamento della casa reale porterebbe come unica conseguenza «dialetto torinese invece che napoletano; e basta». La contemplazione di una verità storica è per i protagonisti tutt'altro che definitiva: Don Fabrizio, illeso dopo il momento più burrascoso verificatosi con l'arrivo dei garibaldini, vede tuttavia il proprio potere travolto dal confronto con la dimensione politica e sociale del nuovo Regno. Egli stesso offre la dimostrazione dell'impossibilità di sottrarsi al cambiamento storico. È significativo come siano le stesse parole del Principe a scalfire la sua immagine di signore feudale. «Il Principe che aveva trovato il paese immutato venne invece trovato molto mutato lui che mai prima avrebbe adoperato parole tanto cordiali; e da quel momento, invisibile, cominciò il declino del suo prestigio»: così Tomasi di Lampedusa commenta la decisione di estendere un invito per il dopo pranzo a «tutti gli amici» che avevano accolto i Salina all'arrivo a Donnafugata. Da qui comincia un declino reso ancora più visibile dal confronto con la sorte brillante di Tancredi e Angelica. Ma non risulta compromessa solo la sorte dei Salina e dello stesso autore, di cui Don Fabrizio è un'«evidente proiezione»4: appaiono chiaramente intaccati i presupposti di crescita dello Stato italiano, in particolare «una neonata, la buonafede; proprio quella creaturina che si sarebbe dovuta curare». Lo dimostrano i brogli elettorali in occasione del Plebiscito, in cui le poche voci dissonanti vengono ignorate e inghiottite. Lo stesso Giuseppe Tomasi di Lampedusa, aspettando la pubblicazione del romanzo alla quale però non riuscirà ad assistere, commenta inoltre come la crisi descritta nell'opera «non è detto sia soltanto quella del 1860»5. L'esito della vicenda è legato al suo scontrarsi con l'incapacità dell'atteggiamento siciliano di modificarsi, di crescere con il mutare dell'ambiente circostante. Sono sì descritti eventi storici assolutamente unici e peculiari, ma, sullo sfondo, «la Sicilia è quella che è; del 1860, di prima e di sempre»6. Lo stesso Don Fabrizio, rifiutando la proposta di entrare in Parlamento, dà un'amara conferma di un simile immobilismo: «in Sicilia non importa far male o far bene: il peccato che noi siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di fare». SAGGIO – Il Romanzo Antistorico, cap. ‘La stanchezza dell’ultimo Gattopardo’ – V. Spinazzola E’ presente un rapporto non solo di simpatia ma di omologia mentale tra l’io narrante e il protagonista, il quale è a sua volta omologo al personaggio antagonista: sembra di trovarsi davanti ad una stessa figura, colta in tre diverse fasi dello sviluppo. Si parla di tre istanze, caratterizzate in maniera dissimile, che presentano la stessa visione della vita. Il punto di vista del narratore è più alto ma in realtà racchiude in sé, purificandola, la visione del mondo del principe di Salina. La prospettiva attraverso cui Don Fabrizio vede i suoi simili affaccendarsi supera e trascende i criteri di comportamento di Tancredi, ma in realtà non ne contraddice le premesse disincantate, anche se volge ad un esito di contemplazione assorta e non di prammatismo spregiudicato. Questa strategia trinitaria serve a incentivare il coinvolgimento del lettore nell’apparato romanzesco. Il discorso narrativo è incentrato su due atteggiamenti percettivi fondamentali: partecipazione sentimentale e straniamento ironico. Il narratore sembra infatti essere solidale ai personaggi quando ne racconta le vicissitudini, senza negare a nessuno una comprensione per i propri guai. Però allo stesso tempo egli è caratterizzato da una superiorità distaccata nei confronti delle varie figure. C’è una forte esaltazione dell’io narrante: egli ha infatti il compito d fluidificare il rapporto tra i due canoni discorsivi, quello del pathos e dell’ethos. Il narratore si rifà a dei modelli precedenti, come quello dei promessi sposi, è infatti onnisciente e sembra essere implicato in prima persona nelle vicende gattopardesche. Presenta inoltre un ‘raddoppiamento fisiognomico’: rimanda all’identità biopsichica dell’autore, ma allo stesso tempo l’ottica di questa figura viene rappresentata come compimento ideale, la sublimazione perfetta di quella attribuita al protagonista. E’ come se l il narratore fosse immedesimazione del protagonista, o almeno suo erede legittimo. Lo sguardo di Don Fabrizio sul mondo sembra rimandare alla onniveggenza del narratore, rappresenta però anche un trascendimento purificatore del modo di vivere e pensare di Tancredi, egli è più giovane e quindi più dinamico e combattivo, è già partecipe nell’intimo dello scetticismo in cui si è stemperata la voglia di vivere del vecchio zio. Si parla quindi di tre direttrici apparentemente diverse ma intrinsecamente omogenee, gerarchicamente disposte. Il narratore è in grado di variarle mantenendone comunque salda la collaborazione. Capacità di variare dell’autore evidente anche nei registri stilistici, l’ironia, a volte più divertita e altre volte più corrosiva, è protagonista assoluta nel romanzo(ci sono anche tratti di auto-ironia) e rappresenta il codice di interpretazione della realtà, c’è un invito ai lettori a non prendere troppo sul serio né sé stessi né il mondo, concedendo meno fiducia alle speranze ingenue e alle passioni ottenebranti. All’ironizzazione fa riscontro però la sua pateticizzazione, in un rapporto di causa effetto. L’autenticità dell’essere sta nella percezione della vanità di tutto, la consapevolezza che lo slancio vitale ha come risultato la frustrazione, alimenta e immalinconisce il sorriso. E qui si colloca il pathos, il sentimentalismo mortuario: l’oggi si vive soltanto nell’attesa dell’incombenza della morte. Ogni slancio di vita viene visto come un elemento del passato da rimpiangere e l’eleganza suprema sta nell’accettare il sopravvenire della propria morte. Al contrario delle opere relative al neorealismo post-bellico, che attribuisce grande importanza al rapporto tra l’uomo e il mondo, nel Gattopardo è evidente che l’individuo realizza sé stesso solo in solitudine. Questo tipo di pessimismo è ovviamente attribuibile allo scontento per le vicende dell’Italia post- unitaria, in cui ci si rassegna a non poter modificare la realtà. Il romanzo incontra infatti la sensibilità della popolazione negli anni cinquanta, in cui c’era la consapevolezza dei problemi gravanti sul paese. Il Gattopardo inoltre non attua la portata dell’atto di accusa alle classi dirigenti, colpevoli di aver fatto perdere alla nuova democrazia la possibilità di avviare il risanamento del sud. La sfiducia nella classe politica porta inoltre ad un atteggiamento rinunciatario, è meglio coltivare in solitudine i valori autentici. L’uomo di Lampedusa si apparta da i suoi simili ma non si distanzia dai solo turbamenti interiori, il Principe di salina si tira quindi fuori dagli sforzi politici di rinnovamento della democrazia fascista. Il modello di comportamento indicato dal romanzo è di modello aristocraticista, ma l’autore lo predispone in modo tale che sia adeguato alla ricezione di massa, e in questo periodo di riassestamento neocapitalista, offre una risposta gradevole ai desideri di auto nobilitazione di una classe sociale che ha ritrovato la sicurezza di sé. Gli artifici retorici di cui si serve l’autore sono molti, semplici e complessi. Ne sono esempio le similitudini e le metafore che sembrano infittire il testo e quindi dargli un carattere barocco. Lo stile è anacronistico e può essere usato in chiave parodistica per descrivere azioni quotidiane come gesta eroiche, c’è una tensione sensoriale nella percezione della realtà, che ne fisicizza le parvenze. Sul piano descrittivo ci si concentra molto sull’assaporare contesti e stati d’animo. Nel dialogato invece sopraggiunge, a fare da contrappeso, un’intenzione mimetica: i personaggi vengono fatti parlare direttamente, l’autore infatti trascrive fedelmente anche le battute in dialetto, anche se i personaggi parlano per lo più in italiano, egli cerca di riprodurre fedelmente il loro timbro di voce. Queste due tendenze sono espresse anche attraverso il lessico, da una parte colto, pieno di latinismi, dall’altra parte invece basso e comprendente volgarismi crudi. Quindi da una parte ci si affianca al lirismo della prosa dannunziana. Dall’altra invece l’autore vuole far capire al lettore che conosce i metodi di conversazione comuni. L’attenzione sui fatti esterni è molto limitata, ci si concentra sui processi interiori, proprio per questo c’è un collegamento e quasi sovrapposizione tra i punti di vista del personaggio e il narratore, pur nel rispetto delle loro identità. E’ presente il discorso indiretto libero, attraverso cui il narratore cede la parola al personaggio, si immedesima nel colloquio di quest’ultimo con sé stesso ed è qui che sopraggiungono elementi del linguaggio medio. I turbamenti emotivi sono proiettati in una luce di criticismo pacato, nessuna libertà è concessa alle pulsioni, a capeggiare è un superio capace di controllarle. Tanto più l’inquietudine dei sensi si fa spazio, tanto più la scrittura assume un andamento dichiarativo. L’ironia vede come suo bersaglio l’andamento politico, i comportamenti pubblici e privati e le passioni che offuscano la mente: tutto ciò che sia inadeguato per l’umanità altera senza cipiglio. Lampedusa vuole educare il lettore al gusto per l’ironia. L’umorismo rappresenta quindi la censura verso la buona creanza di gesti e parole. Tutto diventa una questione di stile: l’importante è comportarsi con una pacatezza sorridente, sinonimo di autocontrollo intellettuale e morale, non l’investimento di energie su obiettivi pratici. L’arte del sorriso, come criticismo e non come sguaiataggine, è propria dei signori, soprattutto perché deriva da un’educazione raffinata, ma non di tutti(Padre Pirrone, ad esempio, non possiede gusto per il comico, però è dotato di immensa integrità morale). L’intelligenza quindi sta anche nell’umorismo, come attitudine a percepire ironicamente le contraddizioni del reale. La retorica d’angoscia alta e solenne viene utilizzata nei punti in cui emerge la solitudine dei personaggi, la natura e la condizione esistenziale dell’uomo, c’è un infittirsi di simboli e di liricità. Il paesaggio inoltre sembra comportarsi in analogia con l’animo del personaggio, viene infatti struggersi, c’è una tensione soggettivistica di esso, uno stato di delirio ferale. La brutalità del paesaggio riflette la fatica e la sofferenza dell’essere, la sovreccitazione stilistica vuole esprimere lo sgomento verso la vastità di una dimensione di solitudine senza scopo, senza una divinità che la sovrasti. L’uomo può sempre guardare i moti del cielo per trovare armonia, ma l’appello che giunge inoltre il primo matrimonio che unisce classi sociali differenzi non contrastato dalla famiglia. La presenza di personaggi attivi e passivi serve a conferire a romanzo fluidità e movimento continuo. La mole di informazioni di argomento storico-politico è molto rilevante, tuttavia i personaggi di storicità conclamata sono davvero pochi. Gli avvenimenti non sono mai esposti nel loro farsi, e in realtà stessa cosa vale per le vicende amorose tra Tancredi e Angelica, di cui si viene a sapere quando già compiute. E’ inutile dare corpo agli svolgimenti, che sono destinati a ripetere il meccanismo consequenziario di azione e reazione che regola ogni comportamento umano, il Gattopardo infatti sorvola i momenti di scioglimento dell’intreccio collocandoli come elementi muti all’interno dei vari intervalli di tempo. E’ meglio quindi dirigersi subito alla fase conclusiva. Si può stabilire una gerarchia di importanza tra alcuni elementi: - Ambiente = luogo dove l’evento si concreta, calandosi in un contesto che lo influenza; - Dialogato = scambio di parole tra individui che esternano la loro tendenza a volersi appropriare dei fatti, riportandoli alla propria misura di verità e ad un profitto; - Riflessione coscienziale = solitudine meditativa, che attinge al valore autentico degli eventi. Nel corso del romanzo infatti si trovano una serie di illuminazioni interiori, venute grazie al colloquio con alcuni interlocutori di Don Fabrizio. Un sottotitolo del romanzo potrebbe essere: momenti introspettivi del Principe di Salina nella progressiva consapevolezza del proprio invecchiamento e nella consumazione del regime feudale. L’opera lampedusiana è quindi un romanzo di formazione, il cui processo prepara il protagonista a entrare, non nel mondo, ma nell’oltremondo. Il Gattopardo esibisce un’indole saggistica, senza presentare aspetti di originalità né spunti di approfondimento degni di nota sul Risorgimento in Sicilia, il connubio tra Aristocrazia feudale e Borghesia terriera sono illustrati in maniera abbastanza equilibrata e non unilaterale. Si parla di un processo osmotico, non di scontro, di passaggio del potere dalla classe vecchia a quella nuova. Un elemento storico però rimane il fallimento della borghesia nel tentativo di riscatto dell’isola dall’arretratezza economica, l’autore imputa ai borghesi di aver deluso le speranze rinnovatrici, anche se questa accusa rimane sullo sfondo del romanzo. Lampedusa fa inoltre emergere le colpe del patriziato latifondista, anche se la questione è per lui marginale, non gli sta troppo a cuore: assenteismo, incompetenza economica, insensibilità sociale. Il decadimento viene senza dubbio dall’arrocamento su posizioni di pura rendita parassitaria. Egli però fornisce un alibi alle manchevolezze di ogni classe dirigente, passata o futura: la mitizzazione della mediterraneit assolata e pigra, altera e vittimistica del carattere siciliano, l’enfatizzazione del fatalismo scettico per un susseguirsi di domini stranieri. La vecchia aristocrazia quindi non pare più colpevole della nuova borghesia. La tematica politica, che non rappresenta il cuore del romanzo, è comunque accompagnata dal solito pathos. La figura della donna rappresenta perdita di sé e cedimento alle passioni carnali, il romanzo è intriso di misogenia. L’eros è una pulsione distruttiva. La sublimazione massima è la morte, passaggio dello scettro dell’amore per la vita all’amore verso la morte, che viene corteggiata. Don Fabrizio sa che la morte è un’amante che non tradisce. Il piacere di vivere è ancora presente nel protagonista, che però è consapevole che ormai sia tardi.
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