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SCHOPENHAUER e KIERKEGAARD riassunto, Appunti di Filosofia

riassunto di Schopenhauer e Kierkegaard con tabelle di confronto tra i filosofi.

Tipologia: Appunti

2019/2020

Caricato il 17/12/2020

tamara-gerbino
tamara-gerbino 🇮🇹

4.6

(10)

18 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica SCHOPENHAUER e KIERKEGAARD riassunto e più Appunti in PDF di Filosofia solo su Docsity! SCHOPENHAUER VITA E OPERE Nasce nel 1788 a Danzica, in Polonia. Si laurea all'Università di Jena in filosofia e conosce Goethe e Mayer in un salotto letterario gestito dalla madre. Fu influenzato da testi induisti, infatti è caratterizzato da una forte influenza della filosofia orientale molto visibile in tematiche come l’ascesi e la liberazione dalla volontà. Nel 1814 si trasferisce a Dresda e pubblica "Il mondo come volontà e rappresentazione". Muore a Francoforte nel 1860. IL MONDO È RAPPRESENTAZIONE Schopenhauer ha una visione del mondo che si riassume in "il mondo è la mia rappresentazione", ossia il mondo esiste in quanto oggetto percepito da un soggetto capace di farlo. La rappresentazione, per lui, ha principalmente due significati: 1. Gnoseologico, la rappresentazione come oggettivazione del pensiero e indipendente dal soggetto che lo percepisce. Riporta ad un'idea oggettiva e indipendente dal soggetto. 2. Psicologico, l'interpretazione soggettiva dell'oggetto e la sua elaborazione dello stesso da parte di un soggetto, sottolineandone così l'aspetto estraneo alla cosa in sé. La rappresentazione è una rappresentazione propria del soggetto. Per il filosofo la rappresentazione è entrambe le cose. Il mondo non può essere conosciuto in modo diretto, ma la conoscenza che abbiamo di lui deriva da processi sintetici e analitici, dovuti alle nostre strutture a priori. La conoscenza che abbiamo delle cose la otteniamo mediante le strutture a priori del tempo, dello spazio e della ragion sufficiente (riprende Kant, Principio a priori secondo cui tutto deve avere una ragione per essere al mondo). Schopenauer è stato il primo filosofo occidentale a tentare il recupero di alcuni modi del pensiero dell’estremo oriente, ha desunto da esso un prezioso repertorio di immagini e di espressioni suggestive del quale ha fatto un uso abbondante nei suoi scritti ed è stato un ammiratore della sapienza orientale e un profeta del successo che tale sapienza ha avuto in Occidente. IL VELO DI MAYA Schopenauer parte con la distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno, ovvero tra la cosa così come appare e la cosa in sé. Per Schopenauer il fenomeno è parvenza, illusione e sogno, ovvero ciò che nell’antica sapienza era detto velo di Maya, mentre il noumeno è la realtà che si nasconde dietro il fenomeno e che il filosofo ha il compito di scoprire. La cosa in sé non è un concetto limite, come diceva Kant, utile a ricordarci i confini della conoscenza, ma una realtà assoluta che si nasconde dietro il fenomeno e che Schopenauer, a differenza di Kant, ritiene conoscibile. Infatti se noi fossimo soltanto conoscenza e rappresentazione non potremmo uscire dal mondo fenomenico, ossia da una rappresentazione puramente esteriore di noi e delle cose. Ma poiché siamo dati non solo come rappresentazione ma anche come corpo non ci limitiamo a vederci dal di fuori ma ci viviamo anche dal di dentro. È proprio ciò che permette all’uomo di squarciare il velo del fenomeno e rendersi conto del fatto che la cosa in sé è nient’altro che volontà di vivere. RAPPRESENTAZIONE La rappresentazione è per Schopenauer la realtà in quanto oggetto di conoscenza da parte di un soggetto: tutto ciò che esiste per la conoscenza è solamente oggetto in rapporto a soggetto, intuizione di chi intuisce, tutto deve inevitabilmente avere per condizione il soggetto ed esiste solo per il soggetto (da qua “il mondo è rappresentazione”). Schopenauer fa coincidere l’ambito della rappresentazione con l’ambito del fenomeno kantiano, tuttavia tale concetto presenta in Schopenauer alcune caratteristiche metafisiche e orientaleggianti. Schopenauer ammette tre forme a priori: spazio, tempo e causalità. La causalità assume forme diverse a seconda degli ambiti in cui opera, manifestandosi come necessità fisica, logica, matematica e morale, ovvero come principio del divenire (regola i rapporti tra oggetti naturali), del conoscere (regola rapporti tra premesse e conseguenze), dell’essere (regola rapporti spazio-tempo) e dell’agire (regola i rapporti tra azione e causa). Poiché Schopenauer paragona le forme a priori a vetri sfaccettati attraverso cui la visione delle cose si deforma, egli considera la rappresentazione come fantasmagoria e ingannevole, traendo la conclusione che la vita è sogno cioè un tessuto di apparenze. Esiste però la realtà riguardo alla quale l’uomo non può fare a meno di integrarsi, l’uomo è un animale metafisico che, a differenza degli altri esseri viventi, è portato a stupirsi della propria esistenza e a interrogarsi sull’essenza ultima della vita. TUTTO È VOLONTÀ Con l’espressione volontà di vivere Schopenauer indica il noumeno del mondo, ovvero l’essenza nascosta non solo dell’uomo ma dell’intero universo. Essendo al di là del fenomeno e delle forme costitutive, la volontà è unica, a-spaziale, a-temporale e incausata (=senza uno scopo, se non in sé stessa) e si configura sostanzialmente come un eterno e cieco impulso di cui tutto ciò che esiste è manifestazione o oggettivazione. Il concetto di volontà in Schopenauer non coincide con il concetto di volontà cosciente, ma con quello più generale di energia o impulso. Di conseguenza la volontà cosmica (primordiale) può essere sia inconsapevole, come accade nella materia, sia consapevole, come accade nell’uomo. Schopenauer ritiene che l’unica infinita volontà di vivere si manifesti nel mondo fenomenico attraverso due fasi distinguibili. Nella prima la volontà si oggettiva in un sistema di forme immutabili, che egli chiama idee (modelli eterni della realtà). Nella seconda la volontà si oggettiva nei vari individui del mondo naturale (piante e animali). Questa sorta di piramide cosmica culmina nell’uomo nel quale la volontà diviene pienamente consapevole, ossia acquista coscienza ma perde sicurezza, e perciò Schopenauer afferma che l’uomo è un animale malaticcio (istinto + ragione). PESSIMISMO DOLORE, PIACERE E NOIA Dire che l’essere è volontà equivale a dire che l’essere è costitutivamente dolore. Volere significa desiderare, e desiderare significa trovarsi in uno stato di mancanza che nessun appagamento può colmare. Ciò che gli uomini chiamano godimento e gioia non sono altro che una cessazione di dolore. Quindi, mentre il dolore si identifica con il desiderio, il piacere è soltanto una funzione derivata del dolore. Accanto al dolore, che è una cosa durevole, e al piacere, che è un qualcosa di momentaneo, Schopenauer pone la noia la quale subentra quando viene meno il desiderio oppure quando cessano le preoccupazioni. La vita umana è come un pendolo che oscilla la incessantemente tra dolore e noia passando brevemente nel piacere. SOFFERENZA UNIVERSALE Il pessimismo cosmico o metafisico di Schopenauer deriva dalla constatazione che l’essere è dolore, in quanto l’universo è solo volontà inappagata, ossia il teatro di una vicenda di cui la sofferenza costituisce la legge immanente (esempio della formica gigante australiana). ILLUSIONE DELL’AMORE L’amore si impadronisce della metà delle forze e dei pensieri dell’umanità più giovane ed è uno dei più forti stimoli dell’esistenza. Il fine dell’amore, o lo scopo per cui esso è voluto dalla natura, è solo l’accoppiamento. Un esempio di tale essenza biologica dell’amore sono il caso limite della mantide femmina e la triste verità del fatto che la donna perde ben presto la bellezza. L’amore è quindi uno strumento per continuare la vita della specie, per questo non c’è amore senza sessualità. L’amore procreativo viene inconsapevolmente avvertito come peccato e vergogna, l’unico amore che si loda non è dunque quello dell’eros, ma quello disinteressato della pietà. e nella quale trionfino le emozioni in edite (ogni donna non è che uno spunto poetico messo al servizio della propria ricerca del piacere). Tuttavia la vita estetica è condannata alla dispersione, alla noia, che segue la vanità del piacere, e al fallimento. Secondo Kierkegaard, vivendo attimo per attimo ed evitando il peso di scelte impegnative, ossia scegliendo di non scegliere, l’esteta finisce per rinunciare a una propria identità ed avvertire un senso di vuoto della propria esistenza, senza centro e senza senso. Secondo Kierkegaard esistere significa scegliere. La scelta non è una semplice manifestazione della personalità, ma costituisce la personalità stessa (forma), che sceglie vivendo o vive scegliendo. In altre parole, l’individuo non è quello che è ma quello che sceglie di essere, tant’è che perfino la rinuncia alla scelta è una scelta. Lo stadio etico è il momento in cui l’uomo, scegliendo di scegliere, ossia assumendosi delle responsabilità, si impegna in un compito a cui rimane fedele. A differenza della vita estetica, che tenta di evitare la monotonia, la vita etica si fonda sulla continuità e sulla scelta ripetuta che l’individuo fa di sé stesso e del proprio compito. Nella vita etica (stato matrimoniale), l’individuo si sottopone a una forma o un modello universale di comportamento, che implica la scelta della normalità. Anche se più alta della vita estetica, anche la vita etica è destinata al fallimento, infatti l’uomo etico non può fare a meno di riconoscere la propria fine peccaminosa e di pentirsi. L’individuo non riesce a trovare veramente sé stesso e la sua singolarità. Tant’è che in ognuno esiste un’ansia di infinito che non si lascia racchiudere nei limiti della tranquilla esistenza di un marito o di un impiegato. Da questo nasce il bisogno di un’esperienza più profonda, grazie alla quale l’individuo, vincendo angoscia e disperazione, possa davvero realizzarsi come singolo. Tale è la vita religiosa. VITA RELIGIOSA Lo stadio religioso è quello della fede, intesa come rapporto assoluto con l’assoluto, ossia lo stadio in cui l’individuo, andando oltre il limite della vita etica, si apre a Dio, vincendo l’angoscia e la disperazione che lo costituiscono come uomo. La differenza che separa lo stadio etico dallo stadio religioso è incarnato in Abramo, il quale sceglie la dimensione dello scandalo e del paradosso che è anche la dimensione delle principali credenze del cristianesimo, come Dio si fa carne e muore sulla croce per redimere/salvare gli uomini. ANGOSCIA L’angoscia per Kierkegaard è la condizione esistenziale generata dalla vertigine della libertà e dalle infinite possibilità negative che incombono sulla vita e sulla personalità dell’uomo. Per questi suoi caratteri, l’angoscia è diversa dalla paura che si prova al cospetto di una situazione determinata o di un pericolo preciso. L’angoscia viene provata solo da chi ho spirito, più profonda è l’angoscia più grande è l’uomo. L’unico modo efficace per contrastarla non è l’accortezza umana, ma la fede religiosa in Dio, a cui tutto è possibile. DISPERAZIONE Mentre l’angoscia si riferisce al rapporto tra l’uomo e il mondo, la disperazione si riferisce al rapporto tra l’uomo e se stesso. In tale rapporto, se l’io non vuole essere se stesso, urta contro un’impossibilità di fondo in quanto esclude un aspetto che lo costituisce. Ma anche se vuole essere se stesso non si può giungere a un equilibrio, dal momento che è finito e non autosufficiente. In entrambi i casi si imbatte nella disperazione che è come una malattia mortale, non perché conduca alla morte dell’io, ma perché è il vivere la morte dell’io. Ogni uomo è malato di disperazione e l’unica terapia efficace contro essa è la fede, ossia quella condizione in cui l’io non si illude di essere autosufficiente, ma riconosce la dipendenza da Dio che lo ha posto e che può garantirgli la realizzazione. L’uomo quindi deve volere la disperazione, poiché solo riconoscendosi malato di essa può ricercare una salvezza. Per Kierkegaard, la disperazione non consiste nella perdita di beni terreni, ma è una disperazione infinita scaturita dalla consapevolezza della propria insufficienza esistenziale. ATTIMO E FEDE Secondo Kierkegaard un carattere della fede è l’attimo, in quanto implica una inserzione dell’eternità nel tempo, in altre parole un’improvvisa conoscenza di verità divina nella vita dell’uomo. Proprio perché essa comporta un incontro paradossale tra la trascendenza (divina) e l’immanenza (umana), la fede non può essere prodotta da procedimenti umani. Ciò dimostra anche il perché i contemporanei di Cristo non riuscissero a capire la sua provenienza divina. La fede, quindi, è paradosso e scandalo.
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