Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

SCIENZE POLITICHE E DELLE RELAZIONI INTERNAZIONALI, Appunti di Scienza Politica

CORSO DI LAUREA IN SCIENZE POLITICHE E DELLE RELAZIONI INTERNAZIONALI

Tipologia: Appunti

2020/2021

Caricato il 10/02/2023

kourybvk
kourybvk 🇮🇹

4

(1)

2 documenti

1 / 83

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


(12)

Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica SCIENZE POLITICHE E DELLE RELAZIONI INTERNAZIONALI e più Appunti in PDF di Scienza Politica solo su Docsity! RIASSUNTO SCIENZA POLITICA MANUALE DI SCIENZA POLITICA CAP I: POLITICA E SCIENZA POLITICA “Politica”: un termine in cerca di significati La scienza politica ha come scopo primario lo studio e la ricerca sui diversi aspetti della realtà politica attraverso il metodo delle scienze empiriche. Definizione di politica, sono necessarie alla scienza politica che ha bisogno di concetti empiricamente osservabili; il concetto ‘politica’ ha una lunga storia. Dimensione orizzontale —> concetto di politica per gli antichi. Il termine politica deriva da polis, viene intesa come la dimensione collettiva del vivere sociale che differenzia l’essere umano dagli altri esseri viventi. Aristotele: uomo come animale politico; cioè come essere sociale. La politica era quindi la dimensione totalizzante del cittadino greco, in questa prospettiva il fine ultimo della politica è il bene comune. La politica degli antichi si fonda dunque sull’accezione orizzontale del vivere in comunità. La concezione aristotelica si impone nei secoli successivi, in particolare nella versione medievale viene dominata dal principio di volontà fondato sulla volontà divina e tiene insieme politica, religione morale e diritto (scolastica —> politica finalizzata al bene comune). Le tematiche del potere vengono definite in altri modi. Abbiamo così la politica intesa in senso aristotelico, attività umana basata su relazioni orizzontali tra individui che si determinano sulla base della conoscenza del logos, e dall’altra parte la dimensione di governo della collettività caratterizzata da relazioni verticali. Nell’epoca romana il termine politica perde di significato per essere sostituito con gubernaculum, dominium, regnum. Dimensione verticale —> la politica per la scienza politica. Con Machiavelli la politica comincia ad assumere un significato più vicino a quello contemporaneo e inizia un percorso di autonomizzazione dalla morale, dalla religione, dalla religione e dalla società. Machiavelli introduce il concetto di potere nelle politica. Con il processo di costruzione dello stato moderno la politica inizia ad essere acquisisce sempre più autonomia da altre sfere del comportamento umano anche se rimane legata al potere statuale, la definizione di Max Weber sintetizza e definisce il processo. La politica secondo Max Weber —> “Politica per noi significherà aspirazione a partecipare al potere o esercitare una certa influenza sulla distribuzione del potere, sia tra gli Stati sia, all’interno di uno Stato, tra i gruppi di uomini che esso comprende entro i suoi confini. […] chi fa politica aspira al potere”. Focalizzandosi sul potere la politica trova un proprio ambito e piò essere studiata in modo autonomo, tuttavia il comportamento politico non è riconducibile a uno specifico criterio costitutivo. Giovanni Sartori ha enfatizzato la dimensione verticale della politica definendola sulla base della sede in cui essa si manifesta. “La sfera delle decisioni collettivizzate, sovrane, coercitivamente sanzionabili e senza uscita. È chiaro che le decisioni politiche investono materie diversissime. Se tutte queste decisioni sono pregiudizialmente politiche è per il fatto che sono decisioni prese da personale collocato in sedi politiche. È questa la loro natura.” Questa definizione, pur focalizzandosi sul potere circoscrive alcune caratteristiche della politica e la sua dimensione processuale. Ciò che viene trascurato focalizzandosi sulla dimensione verticale è il fatto che la politica si caratterizza su quello che deve o può essere fatto per garantire l’ordine sociale. La politica deve allocare impuramente valori cercando di ridurre il tasso di incertezza rispetto agli effetti delle proprie azioni. Hugh Heclo: “la politica trova le sue risorse non solo nel potere, ma anche nell’incertezza, quando le collettività si chiedono che fare. I governi non solo esercitano il potere, ma cercano anche di risolvere puzzle collettivi. Il policy making è una forma di soluzione di puzzle collettivi per conto della società”. La politica ha quindi due dimensioni portanti: 1. Il potere 2. Soluzione di problemi collettivi Harold Lasswell suggerisce di affrontare lo studio della politica con tre domande I. Chi fa la politica? La politica è fatta da molteplici soggetti, non solo dai politici. Le relazioni tra questi attori, le risorse su cui fondano la loro azione e la loro attivazione sono gli interrogativi primari della scienza politica II. Che cosa si ottiene con la politica? Il risultato aggregato dell’azione politica dovrebbe essere il perseguimento di un determinato ordine sociale, ma questo contiene al suo interno gli obiettivi dei singoli attori; la domanda non è quindi mai definitiva perché la politica è un processo e perché dipende dai punti di vista III. Come si perseguono i propri fini in politica? A livello sistemico il ‘come’ è incanalato dal regime politico. Dal punto di vista processuale l’azione politica può perseguire i propri fini attraverso specifiche modalità tra gli attori. In linea generale il ‘come’ è dato dal confronto di interessi e idee divergenti, investiga quindi le diverse modalità di azione e interazione politica IV. Dove si perseguono i propri fini in politica? In generale l’ambito dell’azione politica è una collettività in cui ci sia un organismo deputato a prendere decisioni collettivizzate e il monopolio della forza (chi agisce politicamente lo fa per ottenere risultati) Nascita e istituzioni alienazione della scienza politica Scienza politica= disciplina che studia i fenomeni politici al fine di comprenderne la natura e spiegarli mediante l’adozione delle metodologie proprie della scienza politica. Il fine della scienza politica è quello di individuare le regolarità e spiegare gli effetti dei meccanismi di funzionamento dei fenomeni e delle azioni politiche. La scienza politica è una scienza empiricamente orientata. La scienza politica è nata quando i cambiamenti dell’epoca moderna hanno individuato l’oggetto di studio, ovvero la politica, e lo hanno distinto dall’etica, dalla religione, dal diritto e dalla filosofia. Ha avuto uno sviluppo diverso in Europa e negli USA, questi ultimi sono stati i primi ad istituzionalizzarla grazie al regime democratico in cui si può sviluppare la scienza politica. In Europa si affermano gli elitisti, mente in America Bentley pubblica ‘The Process of government’ in cui vede la politica come una lotta tra gruppi di interesse. Negli USA, con la scuola di Chicago si svilupperà una scienza politica empiricamente orientata, mentre in Europa si hanno studi di matrice giuridica, con Kelsen e Smhmitt e la crisi del processo di democratizzazione si riflette sullo sviluppo della scienza politica. Dopo la fine della II GM la scienza politica inizia a istituzionalizzarsi in Europa seppure con tempi e processi differenti a seconda del paese. La scienza politica in Italia: i padri fondatori della scienza politica sono Italia, tuttavia la disciplina non riesce a decollare a causa dello sviluppo del fascismo e successivamente a causa della tradizione scientifico-culturale. Grazie alla sforzi compiuti da Bruno Leoni, Norberto Bobbio e Giovanni Sartori negli anni ’50 viene delimitato uno spazio autonomo per lo studio empirico della politica e la disciplina nasce negli anni ’60. I confini della scienza politica Oltre ad una definizione realistica di politica la scienza politica ha avuto bisogno di delimitare i propri confini disciplinari, processo complesso a causa dell’ubiquità della politica e della disciplina che comprende varie teorie. Il consolidamento della disciplina ha avuto due dinamiche: la differenziazione dalle altre materie che si occupano di politica e la specializzazione interna. Scienza politica e filosofia politica —> distinzione tra analisi scientifica e studio dei fatti e analisi filosofica e studio delle idee. Tuttavia entrambe le discipline focalizzano l’attenzione sulla domanda base ‘come è possibile l’ordine politico?’ Ma con un approccio differente: la filosofia politica ha una prospettiva normativa che tende a valutare se se ciò che è nella realtà di conforma al dover essere, mentre la scienza politica con una prospettiva scientifica e partendo dai dati cerca di spiegare perché e come si determina un fenomeno politico. Scienza politica ed economia —> hanno due ambiti disciplinari differenti, tuttavia spesso si sovrappongono. Uno dei principali filoni teorici della filosofia politica è la Rational Choice (Becker), con questa prospettiva teorica l’analisi politologica ed economica diventano molto simili soprattutto quando si indaga sulle scelte collettive e gli interventi delle politiche economiche. Gli intrecci delle due discipline sono frequenti, in particolare a livello di analisi interno ed internazionale per spiegare i fenomeni politici e sociali mettendo in relazione il sistema politico e il sistema economico. Scienza politica e scienza giuridica —> sono due oggetti differenti, il diritto è diverso dalla politica, tuttavia la rivalità tra le due discipline persiste. Questa rivalità ha un’origine storica data dall’imposizione del diritto come linguaggio dello stato nel passaggio tra stato assoluto e stato costituzionale e si è creata una giuridicizzazione della politica. Con la giuridicizzazione del potere politico, la fonte di esso è esterna e il suo esercizio deve conformarsi alla legalità. Tuttavia la scienza apolitica studia la concretezza dei fenomeni politici al fine di spiegarli, mentre la scienza giuridica ne valuta la coerenza con l’ordinamento giuridico esistente. Scienza politica e sociologia —> hanno confini ben più labili e la scienza politica deriva dalla sociologia. Sono entrambe empiricamente orientate e usano metodologie simili anche se hanno Imre Lakatos tenta di collegare le teorie di Popper e Kuhn affermando che che ogni teoria è collegata a un programma di ricerca costituito da un nucleo centrale di ipotesi di base che devono essere preservate dalle falsificazioni affrettate grazie a delle ipotesi ancillari che lo rendano più capace di spiegare la realtà. Queste ipotesi devono essere sviluppate affinché non vengano sviluppate teoria o programmi di ricerca alternativi, l’importante è che esse siano generetive e non degenerative. In questo modo Lakatos riconcilia le posizioni di Popper e Kuhn spiegando come coesistano approcci teorici alternativi che non è possibile falsificare del tutto. L’elemento fondante della razionalità scientifica e del suo controllo consiste nella pubblicità, ripetibilità e controllabilità di ogni proposizione, di ogni indagine, enunciazione e legge. Indagine scientifica = è quell’articolato e non lineare processo che da una situazione indeterminata conduce alla posizione di un problema, che è tale solo in quanto, con l’intervento di un abbozzo di teoria, risulta affrontabile e risolubile. Obiettivi dello scienziato sociale - Descrivere accuratamente un fenomeno politico, per farlo deve raccogliere una grande quantità di dati sugli aspetti che ritiene rilevanti. Utilizzerà sia le teorie che conosce sia l’esperienza - Spiegare un fenomeno, spesso il legame che si riesce a stabilire è di mera correlazione piuttosto che di causazione, infatti spesso le cause dell’agire politico sono le conseguenze delle scelte e dei comportamenti umani e la sequenza temporale tra causa e d’effetto può essere ribaltata. - Prevedere un evento o risultato (spesso i risultati delle elezioni) - Prescrivere i comportamenti politici, per prescrizione si può intendere una raccomandazione basata su una previsione oppure un precetto normativo a cui è opportuno o giusto attenersi. Dal dibattito sulle scienze sociali emerge che gli scienziati sociali devono ricostruire le mappe concettuali che gli attori sociali utilizzano per comporre la realtà che viene esaminata, da qui nasce il principio di non separabilità tra realtà e studioso. In base a questa posizione lo scienziato politico vuole interpretare gli avvenimenti e i comportamenti sociali Infine, anche nei confronti della replicabilità delle teorie e della cumulabilità della scienza le posizioni degli studiosi varia a seconda che essi adottino una posizione neopositivista oppure costruttivista. Gli studiosi neopositivisti sono molto esigenti per quanto riguarda la pubblicità dei dati, la riproducibilità delle analisi e la condivisione dei risultati, inoltre pongono l’accento sulla falsificalbilità delle teorie e il perfezionamento di esse. Gli studiosi costruttivisti non credono nella replicabili dei risultati né nella cumulabilità della scienza, poiché ritengono che ogni studioso contribuisca con i suoi studi a modificare la realtà. Gli strumenti della ricerca I concetti sono lo strumento principale dello scienziato sociale per questo motivo devono essere definiti con precisione e associati a termini univoci. Secondo Giovanni Sartori si ha una relazione triadica tra significato, oggetto e termine: ogni concetto identifica un referente (oggetto) a cui viene assegnato un termine e un significato, la relazione tra significato e oggetto deve essere precisa e la relazione tra significato e termine deve essere univoca. Marradi ha una posizione più sfumata, sostiene, infatti, che la realtà può essere suddivisa in molti modi diversi a seconda della popolazione che usa il linguaggio e a seconda delle esigenze del ricercatore e per questo motivo è importante definire con cura ogni concetto che viene usato. Innanzitutto va definito l’oggetto che si intende descrivere, spiegare o interpretare: la variabile dipendente. Sartori distingue concetti teorici che non rimandano ad alcun referente osservabile e concetti empirici che rimandano a referenti osservabili, entrambi devono potere essere definiti con precisione. La definizione di un concetto deve contenere tutte e solamente quelle proprietà o caratteristiche del concetto che servono a distinguerlo univocamente dei concetti affini. I concetti stanno in relazione con altri concetti che si situano a un livello superiore o inferiore della scala di astrazione avendo in comune con essi un certo numero di caratteristiche necessarie ma non altre caratteristiche accessorie. Aggiungendo caratteristiche al concetto più ampio di partenza arriviamo a un concetto più ristretto; si parla di intensione per indicare l’insieme di caratteristiche che definiscono un concetto-termine ed estensione per l’insieme dei referti empirici indicati dal concetto-termine, possiamo stabilire che fra intenzione ed estensione esiste un rapporto inverso: quanto più e limitata una tanto più darà ampia l’altra. L’intenzione del concetto ci permette quindi di stabilirne con precisione l’estensione e individuare quali casi empirici vengono denotati dal concetto e possono essere oggetto di studio. I concetti sono le variabili della ricerca politica, per utilizzarli dobbiamo tradurre le caratteristiche che compongono l altro intenzione in indicatori variabili, questo meccanismo prende il nome di operazionalizzazione del concetto. Ciascuna di queste caratteristiche deve a sua volta essere misurato da un indicatore, in modo da rendere possibile la determinazione della presenza o assenza della caratteristica del referente empirico. Inoltre, deve essere possibile combinare gli indicatori in indici sintetici, attraverso formule matematiche o logiche, al fine di arrivare a una misurazione univoca del recente del concetto. Infine, i concetti devono poter assumere valori differenti. La vicinanza del linguaggio socioscientifico a quello comune causa due problemi. Il primo, è che lo scienziato politico per perseguire la forma utilizzi termini sinonimi o omonimi facendo così perdere di precisione il testo e il ragionamento. Il secondo, è che per utilizzare i concetti in maniera scientifica occorre prima depurarli dalle varie concezioni linguistiche che vi sono attaccate in seguito all’uso comune e questo processo non ha sempre successo. Come si formula un’ipotesi di ricerca quando il fenomeno è nuovo? Come si sviluppano nuove piste di indagine quando il fenomeno è presente in letteratura ma presenta nuovi tratti non ancora analizzati? Si utilizza la “modalità della scoperta” (Statera) raccogliendo una grande quantità di esempi ed osservazioni e catalogandoli a seconda delle caratteristiche più evidenti se gli studiosi si attengono alla modalità della scoperta saranno in grado di formulare ipotesi mai avanzate prima senza essere influenzati dalle pre-teorie. Quando vengono identificate delle associazioni sistematiche tra caratteristiche, la classificazione dà luogo a una tipologia, ovvero una sottospecie del genere facilmente riconoscibile rispetto ai caratteri generali. Òa costruzione di una tipologia è spesso il primo passo verso la formulazione di ipotesi che, se confermate da successive osservazioni, potrebbero essere elevate a teorie. Tra l’osservazione di regolarità nella comparsa di alcune caratteristiche e la formulazione di un’ipotesi teorica si trovano elementi che fanno in qualche modo parte del paradigma scientifico in cui si inserisce lo studio specifico. Le classificazioni e le tipologie al fine di essere utili a sviluppare ipotesi di ricerca e quindi a generare nuove teorie devono risultare collettivamente esaustive, cioè tutti i tipi devono poter essere posizionati in una casella e devono essere mutuamente esclusivi. L’ambizione degli scienziati sociali neopositivisti è di arrivare a proposizioni generalizzate, riferendosi alla questione se le scienze sociali debbano aspirare a stabilire leggi come le scienze naturali o solo limitarsi a descrivere i fenomeni. Originariamente si pensava che la differenza tra le due scienze fosse al capacità di controllare o meno l’ambiente in cui le ipotesi vengono formulate e le variabili vengono fatte interagire. Questa posizione è stata abbandonata in favore di una che ammette che le scienze sociali possano al massimo aspirare a generare proposizioni generalizzate limitate nel tempo e nello spazio e avanti validità statistica. Queste eliminazioni hanno due conseguenze: 1. Per ridurre le variabili indipendenti si limita il numero dei casi osservabili e l’affidabilità delle conclusioni 2. Viene ridotta anche l’indipendenza delle osservazioni e quindi l’affidabilità delle conclusioni. IL CICLO DELLA RICERCA L’oggetto della ricerca Da una situazione che non torna si considerano i fenomeni come dei ‘problemi’ degni di essere studiati scientificamente. Un problema è un fatto ritenuto socialmente significativo e teoricamente rilevante perché si scontra con prenozioni e pregiudizi radicati in un corpus di conoscenza acquisito. Da una stessa situazione problematica scienziati sociali diversi si pongono domande diverse tutte degne di spiegazione scientifica. Il primo passo per ogni studioso è giustificare il quesito della propria ricerca. Per partire con la ricerca occorre poi definire i propri concetti, stabilendo una relazione precisa e univoca tra fenomeno, significato e termine, è poi necessario operazionalizzare i concetti, cioè trasformarli in variabili misurabili. È importante stabilire una stretta connessione tra la domanda, la teoria che viene mobilitata al fine di rispondere alla domanda e il caso o i casi empirici da studiare per accettarsi che la teoria risponda alla domanda di ricerca sollevata. —> triangolo che rappresenta la relazione tra domanda (D), teoria (T) e casi empirici (C) al cui interno si trovano i metodi (M), a prescindere da quale parte si inizia D,T e C devono essere presenti e in relazione tra loro, lo spazio della ricerca che delimiteranno richiederà poi l’utilizzo di metodi specifici. Elaborazione e controllo delle ipotesi ‘il metodo scientifico è un potenziamento del buonsenso’ (Isernia). Gli errori più comuni sono: - la sovrageneralizzazione del risultato - Le osservazioni sbagliate che spesso ci inducono a vedere quel che vogliamo vedere - I ragionamenti viziati La specificità dell’approccio scientifico è l’attenzione costante e sistematica per la validità delle proprie affermazioni attraverso una serie di metodi sistematici di rilevazione, analisi e valutazioni delle proprie ipotesi. Infine, la ricerca scientifica è il risultato dello sforzo di una comunità che rendendo pubblici i risultati permette la verifica delle ipotesi. Le strategie di ricerca vi sono varie strategia di ricerca che possono essere determinante dal numero di casi a disposizione, dalla domanda e dalla predisposizione del ricercatore. A) quando si indaga un fenomeno nuovo si vuole innanzitutto interpretarlo, descriverlo e metterne in evidenza le caratteristiche necessarie e accessorie per proporre un termine atto a designarlo B) Quando si ha a che fare con un fenomeno già osservato, ma di cui si percepiscono caratteristiche nuove, si osserveranno le possibili determinanti per prevedere manifestazioni successive o indicare azioni che a esso rispondano. C) Quando invece si formula un’ipotesi o nella verifica di una teoria è necessario accertare quante osservazioni sono disponibili e decidere quali casi studiare con quale metodo. Bisogna distinguere tra analisi che mira a spiegare un singolo evento o fenomeno e analisi che mira a spiegare una classe di eventi o fenomeni, poi bisogna scegliere se porre un’ottica prospettiva (ci chiediamo quali potevano essere i risultati finali) o retrospettiva (cerchiamo di spiegare perché è accaduto l’evento finale). Terminologia: - variabile dipendente = fenomeno o evento che volgiamo spiegare - Variabile indipendente = condizioni che determinano il verificarsi dell’evento - Variabili intervenienti = quelle variabili che alterano l’intensità delle altre variabili indipendenti - Variabili di contesto = variabili che definiscono le circostanze in cui l’analisi comparata ha luogo DALLE STRATEGIE DI RICERCA ALLE TECNICHE Metodo comparato, metodo statistico. Metodi quantivi e qualitativi Il numero di variabili indipendenti e potenzialmente rilevanti e il numero di casi (osservazioni) di cui si dispone determinano il tipo di strategia di analisi da utilizzare. Se si analizzano uno o più casi in base a una caratteristica si ha una classificazione, se si analizzano due o più casi in base a una o più variabili si ha una tipologia, se analizziamo un caso in base a una o più variabili indipendenti avremo una descrizione o uno studio di caso, infine, se si analizzano due casi in base a una o più variabili si avrà una descrizione binaria, da tre casi e tre variabili in poi bisogna attrezzarsi per poter condurre una comparazione rigorosa. Se il numero di variabili indipendenti rimane inferiore al numero dei casi di studio si può scegliere se usare il metodo comparato (o qualitativo) tanto più crescono le variabili tanto più dovremmo utilizzare il metodo statistico (o quantitativo) perché non potremmo più gestire qualitativamente i dati. Infine si può dire che sia impossibile sperare di prendere in considerazione tutte le variabili indipendenti potenzialmente rilevanti anche se in moltissimi studi elettorali e amministrativi possiamo essere ragionevolmente certo di contare tutti i voti esaminare tutte le amministrazioni comunali. - il metodo comparato riceve il suo nome in un famoso articolo di A. Lijphart. Esso si basa sulla selezione in giudiziosa dei casi: per limitare il numero potenzialmente elevatissimo di variabili indipendenti, è possibile selezionare i casi in modo da controllare alcune variabili indipendenti, cioè non farle variare. In questo modo molte variabili indipendenti potenzialmente rilevanti non varieranno nei due casi e quindi potremmo sperare di isolare quelle pochissime variabili indipendenti che possono spiegare il diverso andamento della ricerca. Si può indicare Y= F(X,X…). Grazie a questa strategia possiamo sperare di controllare l'effetto delle prime quattro variabili di contesto ed isolare invece l'effetto della variabile indipendente che la nostra teoria ci induce a ritenere possa influenzare la variabile dipendente. In questo modo avremo indagato l'impatto di una sola variabile indipendente che ci è stata suggerita dalle nostre conoscenze iniziali e dalle pre teorie. I risultati di questa strategia di analisi sono significativi ma non possiamo attribuire un valore alla loro validità. - Se invece optiamo per il metodo statistico avremmo dovuto studiare un numero molto più alto di casi così facendo avremmo dovuto necessariamente includere nel nostro campione sistemi politici molto diversi e raccogliere dati su molte più variabili. Inoltre le procedure statistiche ci permettono di attribuire un valore all'effetto di ciascuna variabile indipendente sulla variabile dipendente. Anche la bontà della correlazione fra le variabili indipendenti e quelle dipendenti e quella dipendente avrebbe avuto un valore R al quadrato. I risultati del metodo statistico infatti sarebbero stati forse meno significativi ma certamente più affidabili. 3. Strutture di governo 4. Tipo di legittimazione su cui si fonda il sistema politico Il controllo della forza Un regime politico costituisce una forma di potere stabilizzato, cioè un sistema strutturato di relazioni che definisce chi prende le decisioni e impartisce comandi vincolanti una certa collettività e come, affinché tali comandi vengano effettivamente eseguiti e rispettati è necessario il ricorso, seppure come mezzo di ultima istanza, alla forza fisica. Per Robert Dahl, l’azione politica rimane sempre al ‘potere, norma e autorità’, meante per Gabriel Almond e Bingham Powell, che riprendono Weber, la politica ha a che fare con ‘l’esercizio della coercizione fisica legittima’. Charles Tilly, infine, ricorda che se è vero che gli stati fanno la guerra, la guerra fa gli stati. Affinché il ricorso alla forza sia efficace tanto nella politica interna quanto in quella internazionale, occorre che i governanti abbiano il controllo esclusivo e che tale monopolio sia stabile e organizzato, militari ed eserciti rappresentano un requisito cruciale di ogni regime politico. La struttura delle forze armate dipende da svariati fattori, le scelte dei governi circa quello che potremmo chiamare il triangolo strategico ovvero la priorità di attribuire rispettivamente all'efficienza dei militari, il tipo del loro sostentamento economico e al loro grado di lealtà. Dalla combinazione di queste caratteristiche derivano le principali configurazioni organizzative che possono assumere i militari: le comunità in armi, gli eserciti di o sostenuti da notabili, eserciti permanenti e le forze armate di professionisti. Da questa combinazione deriva anche il rischio che i militari possono sempre sovvertire il quadro politico e governare direttamente nel caso appunto dei regimi militari. Territorio I regimi politici sono anche entità territoriali: l'appartenenza a esse è definita da confini geografici identificabili. Da sempre il territorio ha costituito uno degli elementi fondamentali della vita politica. In base ai tipi di format territoriali Finer ha classificato i regimi politici: - le città-Stato sono città autonome e sovrane che controllano il territorio in genere non molto ampio, talvolta si organizzano in una lega di città con ampia autonomia. Possono essere governate secondo modalità chiuse o gerarchiche o forme più aperte e democratiche. Talvolta sviluppano sensibilmente i loro possedimenti e finiscono per assumere altre caratteristiche di regimi politici. - Gli Stati in senso stretto, che potremmo definire anche stati moderni si possono distinguere in Stati territoriali, nei quali esiste il controllo amministrativo e militare di un certo territorio molto più ampio di quello delle città stato e che non necessitano di una diffusione tra gli abitanti della coscienza di costituire una comunità. E Stati nazionali dove invece è centrale la consapevolezza di far parte di una stessa comunità politica, tale sentimento è rafforzato dall'omogenizzazione culturale dei sudditi sulla base di criteri linguistici e religiosi storici. - Gli imperi sono associati all'esistenza di un potere sterminato su qualcosa o qualcuno, sono caratterizzati dall'estensione territoriale su larga scala e da una logica espansiva illimitata che non richiede il ricorso alla sola forza. I loro confini sono flessibili e aperti e hanno una composizione diversa sotto il profilo culturale. Le comunità componenti possono godere di svariate forme di autonomia territoriale istituzionale - Le federazioni costituiscono delle modalità di coesistenza e di associazione tra entità politiche che siano essi Stati o città che rimangono autonomi e sovrani sulla base di rapporti contrattuali piuttosto che di una sottomissione imposta dall'alto. Le forme di unione tra Stati possono assumere gradazioni diverse dalle alleanze Inter-statuali alle confederazioni fino ad arrivare i sistemi federali. La struttura del governo Un regime in quanto forma ordinata e stabile di organizzazione del processo politico si può descrivere grazie a tre tipi di regole costitutive che ne assicurano il funzionamento: - la distribuzione della capacità decisionale, - la limitazione del potere del governo e della definizione dei controlli o meccanismi di equilibrio reciproco tra istituzioni - la distribuzione territoriale delle competenze decisionali, cioè la ripartizione dell'autorità sovrana tra livello statale substatale e sovrastatale. I primi due tipi di regole si attengono alla cosiddetta divisione orizzontale dei poteri, cioè la ripartizione delle funzioni tra organi o istituzioni che in un dato sistema politico detengono la sovranità, ovvero il potere sovrano di prendere decisioni vincolanti e di farle applicare. Queste regole riguardano anche la realizzazione delle decisioni da parte di apparati amministrativi e burocrazia. Il ruolo di quest'ultime cambia a seconda del loro livello di sviluppo, specializzazione e formalizzazione, mentre il ruolo di limitazione e controllo delle decisioni e dei comportamenti dell'élite di governo è affidato ad apparati giudiziari. Il terzo insieme di regole fa riferimento alla divisione verticale dei poteri che dà alle architetture istituzionali una configurazione più o meno centralizzata o decentralizzata rispetto alle istanze che emanano dei territori. Queste regole soprattutto nei regimi liberaldemocratici non servono solo a dare un'organizzazione, ma anche a vincolare e limitare l'esercizio del potere. La legittimità Come detto da Max Weber ogni regime politico implica due elementi: un insieme di apparati più o meno presenti e sviluppati a seconda del grado di strutturare azione delle relazioni di dominio e la legittimità necessaria affinché le forme di dominio si stabilizzino e durino nel tempo. Infatti, un ordinamento è riconosciuto come vincolante anche perché le sue decisioni sono credute giuste e vengono accettate. Il monopolio della forza e la legittimità danno ai regimi politici la massima capacità obbligante perché nessun individuo che ricade dentro la loro giurisdizione si può sottrarre alle decisioni prodotte dalle autorità. L'analisi dei regimi politici riguarda sia le componenti strutturali che simboliche e questi aspetti non solo rappresentano il potere, ma costituiscono parte del potere stesso. In questo modo il rapporto tra chi domina e chi viene dominato cessa di essere un'imposizione per diventare interiore. Weber cerca il fondamento della legittimità non tanto su un qualche tipo di evento oggettivo, ma sull'atteggiamento del soggetto legittimante rispetto al potere da legittimare. Indica quattro tipi di legittimità: legittimità carismatica, legittimità tradizionale, legittimità razionale-legale, legittimità popolare e legittimità di risultato. LA PROSPETTIVA SISTEMICA Le origini Meyer Fortes e Edward Evans-Pritchard, agli inizi degli anni 40 curarono un volume intitolato African political systems, nell'introduzione i due studiosi affermavano che si erano resi conto che le teorie dei filosofi politici non erano stati d'aiuto per capire le società che avevano studiato. Per poter cogliere il funzionamento e lo sviluppo della politica nel continente africano sembrava necessario guardare alle società come insieme di reti di relazioni e di interdipendenze tra elementi, così che è un cambiamento in un qualunque punto si sarebbe inevitabilmente ripercosso su tutto il resto. Notarono, inoltre, che queste acquisizioni avevano fondamento anche nelle società industriali e modernizzate dove era riscontrabile un'ampia serie di fenomeni e attività politiche che non erano più riconducibili alle istituzioni statali. Il concetto di sistema politico finiva per porre l'attenzione sulle relazioni tra elementi politici, ovunque queste fossero presenti e si sviluppassero anche al di fuori dello stato dei rapporti formali. In scienza politica la prospettiva sistemica sarebbe diventata celebre all'inizio degli anni 50 grazie a David Easton che in quel periodo diede alla stampa il volume intitolato “the political system”. Per Easton l'idea di un sistema politico si rivelava un punto di partenza appropriato e inevitabile di una scienza politica empirica. Da qui consegue la messa fuoco di alcuni punti teorici e metodologici per nulla scontati al tempo. Molto difficilmente la politica si può separare di netto dagli altri aspetti della vita sociale in questo modo la sfera del politico non si risolveva più nella poderosa costruzione giuridica rappresentata dallo Stato. Infatti, rendere politico un certo fatto o atto è la sua relazione con la destinazione imperativa dei valori per una società. Ciò che contraddistingue in ultima analisi la nozione di sistema politico è la sua natura interattiva, processuale, aperta rispetto ai rapporti con l'ambiente piuttosto che la sua stabilizzazione e istituzionalizzazione. La dinamica del sistema politico Easton concettualizza il sistema politico come una scatola nera; un primo aspetto da sottolineare è l'esistenza di un regolare scambio tra il sistema della scatola nera e il suo ambiente di riferimento. Easton spiega che l'ambiente di un sistema ha natura plurale. Da tutti questi ambienti il sistema politico riceve pressioni o, in senso più neutro, input ai quali deve cercare di rispondere se vuole adattarsi e sopravvivere. Ciò avviene attraverso la produzione di output o decisioni vincolanti. Gli input sono di due tipi: - in primo luogo, abbiamo le domande, che sono delle rivendicazioni o richieste di assegnazioni imperative di beni e valori. In questo senso, quella che chiamiamo politicizzazione di una domanda, consiste nel fatto che attorno a specifici temi è maturata la consapevolezza della necessità di una soluzione imperativa. È importante ricordare che in ogni sistema esistono varie unità di input che assolvono la funzione di trasmissione delle domande, ma anche di regolazione del loro flusso e di manipolazione del loro contenuto ad esempio le burocrazie. - In secondo luogo, per poter processare e rispondere alle rivendicazioni che ricevono, i sistemi politici hanno bisogno di sostegni, vale a dire di energia che consente al sistema di funzionare. Si tratta di rapporti che hanno carattere materiale o che sono associati all'obbedienza che individui e gruppi devono alle decisioni politiche. Tale sostegno può essere specifico, quando la conformità alle decisioni è il frutto dei benefici delle convenienze che più o meno direttamente ci si aspetta di ricavare dalle politiche pubbliche, oppure diffuso, come forma di accumulazione originaria di credito e quindi di legittimità per cui indipendentemente dalla natura delle decisioni i cittadini sentono il dovere morale o civico di accettarne le conseguenze e vi si conformano. Inoltre, Easton fa notare che esiste una famiglia di domande, chiamate within-input, che provengono dall'interno dello stesso sistema e che arrivano direttamente dal leader, partiti istituzioni. È da notare che non tutte le domande riescono ad accedere al sistema, essendo la loro trasmissione è regolata da alcuni meccanismi di filtraggio, selezione e composizione noti come Gate keeper, tali meccanismi manipolano le domande, bloccano quelle pericolose o inattive e controllano il rischio di sovraccarico che caratterizza i sistemi politici, specie se democratici. Si potrebbe dire che sistemi democratici presentano domande facili risposte difficili per contro, i sistemi autoritari hanno risposte facili perché ho imposte dal leader e domande difficili perché non si ha pluralismo. Conversioni e funzioni di processo Relazione tra domande —> conversione —> risposte —> con il relativo feedback cioè l’effetto di ritorno per cui le risposte inevitabilmente finiscono per incidere sulle condizioni che hanno alimentato le domande. Per capire che cosa accade all’interno della black box bisogna far riferimento ad altri autori: Lasswell articola il processo politico in sette stadi o funzioni: informazione, iniziativa, prescrizione, invocazione, applicazione, valutazione, terminazione. Questo contributo cerca di superare l’impostazione formalistica centrata sull’articolazione anacronistica delle funzioni legislativa, esecutiva e giudiziaria. Invece, il lavoro di Almond e Powell, nel quale il processo di conversione viene spacchettato in quattro funzioni che a loro volta delimitano altre fasi del sistema politico. • Articolazione degli interessi: il processo politico viene messo in moto quando gruppi o individui formulano una ‘domanda’ politica che ha a che fare con i loro interessi e la indirizzano il sistema politico. L'analisi dell'articolazione degli interessi e della trasmissione domanda richiede la ricostruzione due aspetti: 1. Le caratteristiche delle strutture politiche coinvolte, a partire dalla distinzione tra strutture a-specifiche e strutture specializzate quali gruppi di interesse 2. I diversi canali di accesso al sistema politico. • Aggregazione degli interessi: ogni sistema politico deve in qualche modo cercare di aggregare le domande che riceve. L'aggregazione implica la predisposizione di programmi di politiche generali attraverso i quali gli interessi vengono presi in considerazione e sono combinati. Questa funzione richiede la mobilitazione di risorse politiche e quindi, la costruzione di coalizioni a sostegno dell’aggregazione. Esistono tre stili di aggregazione che corrispondono ad altrettanti tipi di partito: 1. La negoziazione, basata su compromessi e flessibilità —> partiti pragmatici 2. Il riferimento a valori assoluti che comporta il rispetto di principi rigidi —> i partiti ideologici 3. La tradizione dove prevale la rappresentanza di interessi settoriali o territoriali —> partiti particolaristici. • Formulazione delle politiche pubbliche o produzione delle norme. Il policy making è da un lato l'esito di processi antecedenti come il reclutamento dell'élite, l'articolazione e l'aggregazione degli interessi e, dall'altro, delle caratteristiche delle regole del gioco. In questa fase le domande vengono propriamente convertite in decisioni dotate di autorità e ciò implica la mobilitazione del consenso e il lavoro di costruzione di coalizioni attorno particolari temi o policy. Gli studiosi individuano una classificazione basata su quattro categorie di output: 1. Output estrattivi, appropriazione di risorse di qualche tipo proveniente dall'ambiente esterno 2. Output distributivi, allocazione a individui e gruppi, su basi universali o particolaristiche di denaro, beni materiali, servizi, status e opportunità 3. Output simbolici, volte a rafforzare la legittimità del sistema politico e l'identificazione dei cittadini, comprendono discorsi politici, rituali e cerimonie eccetera. - Egemonie chiuse - Egemonie inclusivo - Oligarchie competitive - poliarchia Dall'altro lato consente di individuare i sentieri storicamente possibili che conducono alla democratizzazione di massa. La la costruzione dello Stato del benessere: lo sviluppo e l'intreccio tra Stato nazionale, democrazia e capitalismo industriale e sono alla base di quella particolare formazione sociale nota come Stato del benessere. Nasce all'inizio della seconda guerra mondiale per contrapporsi allo Stato con totalitario nazionalsocialista come una forma evoluta di Stato liberale centrata sui diritti sociali. Lo Stato del benessere è un prodotto di un insieme di politiche connesse ai processi di modernizzazione, tramite le quali lo Stato fornisce ai propri cittadini protezione contro rischi e bisogni prestabiliti sottoforma di assistenza o sicurezza sociale. L'evoluzione dello Stato sociale si incarica di assicurare a tutti i membri di una data comunità politica, delle adeguate opportunità di vita. Ciò che lo contraddistingue è però l'origine che va ricercata nelle ampie trasformazioni sociali collegati i processi industrializzazione e urbanizzazione, nell’ambito delle funzioni statali vengono, ricondotte tutte quelle attività dirette che ad assicurare la protezione dei cittadini, dei rischi essenziali e della vita lavorativa, così come la redistribuzione di risorse al fine di ridurre le disuguaglianze sociali. Tale tipo di Stato è basato sul riconoscimento dei diritti sociali e comporta non solo l'affermazione dei correlativi doveri di copertura finanziaria, ma anche quella della stessa copertura organizzativa composta dagli apparati e dal personale amministrativo destinati all’ erogazione delle prestazioni previsti dai programmi di welfare. La comparsa dello Stato del benessere ha comportato una vera e propria rivoluzione sociale, istituzionale ma anche politica, perché cambiano radicalmente le strutture, le funzioni e la stessa natura del processo di legittimazione, così come il rapporto tra Stato e società in termini di maggiore integrazione e scambio. Questo complesso di relazioni e aspettative istituzionalizzate, in ultima analisi rafforza la legittimità delle autorità statali e loro potere. Le fondamenta del processo di statalizzazione del rischio vanno cercate nell'interventi delle politiche contro la povertà relative a specifiche situazioni di bisogno sviluppatasi a partire dal XVII secolo in tutta Europa e finanziata attraverso le casse dello Stato. Nella seconda metà dell’ ‘800 si trova la realizzazione del principio di copertura universale, vale a dire la sicurezza sociale. Marshall descrive i profondi cambiamenti sociali e istituzionali indotti dalla formazione dello Stato del benessere attraverso il concetto di cittadinanza. Lo sviluppo della modernità era analizzato dallo studioso inglese come un progressivo accumularsi di diritti civili, politici e sociali. I tre tipi di cittadinanza individuati da Marshall sono la cittadinanza politica, la cittadinanza civile e la cittadinanza sociale. Negli ultimi 12 anni la crisi del sistema di welfare si è cronicizzata in seguito alla globalizzazione, alla crisi economica del 2008 e alle pressioni dell'unione europea in difesa della stabilità finanziaria dei bilanci pubblici. Tuttavia, è stato osservato come lo Stato del benessere sia ben lontano dall'essere morto: si può individuare alcuni significativi trend che hanno fatto parlare di una sua ricalibratura. TRASFORMAZIONI E SFIDE DELLO STATO CONTEMPORANEO Sabino Cassese ha parlato dell'esistenza di almeno tre crisi dello Stato: la prima si era verificata negli anni precedenti alla prima guerra mondiale, la seconda inizia con gli anni 80 del XX secolo e la con la terza è quella prodotta dalla globalizzazione e contraddistingue l'inizio del XXI secolo. Questa nuova fase dello sviluppo statale assume non solo le forme familiari, dell'eccesso dello Stato, ma anche quelle della carenza dello Stato. In entrambi casi a essere sfidate sono la legittimità e l'efficacia delle istituzioni statali., sia la base di giustificazione morale e i principi che consentono di accettare le decisioni statali, sia la capacità di risolvere i problemi collettivi di fornire beni pubblici all'individui che vivono entro i confini di uno Stato. Lipset ha evidenziato che tra queste due componenti della sua attualità c'è una stretta correlazione, dove l'efficacia può rafforzare o, in caso di ricorrenti performance negative, può dissipare la legittimità dello Stato aprendo la strada alla risoluzione del sistema al cambiamento dei regimi. Crisi per eccesso di stato L'eccesso di Stato a riguardato la politicizzazione integrale della società civile opera dei sistemi totalitari. La crisi storica dei totalitarismi di destra con la fine della seconda guerra mondiale, e di sinistra con il crollo del muro di Berlino, ha gettato le premesse per le successive ondate di democratizzazione. Ci interessa soffermarci sulla situazione di ipertrofia dello Stato democratico che ha prodotto significative reazioni in tutte le democrazie occidentali nell'ultimo trentennio. Da un diverso punto di vista, la questione dell'eccesso di Stato è stata rafforzata esplorando il tema dell'ingovernabilità dei sistemi politico amministrativi. L'ingovernabilità è stata vista come l'esito non intenzionale del pluralismo e della facilità di accesso dei gruppi sociali opportunistici alle sedi delle decisioni imperative in contesti democratici come conseguenza del gigantismo dello Stato contemporaneo e del conseguente sovraccarico di funzioni. La debolezza delle istituzioni statali per questi autori andava cercata nelle conseguenze della scarsa autonomia dello Stato rispetto all'ambiente sociale o nel deficit di capacità amministrativa e fiscale frutto delle moltiplicarsi senza tregua delle funzioni pubbliche dall’atra parte, lo sviluppo della globalizzazione economica e finanziaria e lo sviluppo disuguale e squilibrato a livello mondiale sono questioni che difficilmente lo Stato in grado è stato in grado di fronteggiare da solo. Bruno Dente ha messo in risalto come una delle prime conseguenze di questo nuovo scenario mondiale sia stata la riduzione della responsabilità politica dello Stato, il che si verifica in tre direzioni distinte ma convergenti negli esiti di indebolimento dello Stato: - la tecnocrazia, ovvero la devoluzione di poteri e responsabilità di apparati e istituzioni non elettive, le cosiddette istituzioni non maggioritarie che decidono sulla base di criteri tecnici e non politici. - La multilevel governance, le formazioni statali diventano semplicemente dei nodi o livelli in una rete più ampia della quale si sviluppano interdipendenze istituzionali tra entità sovrastatali e substatali volti a produrre politiche codecise. - La rimercificazione per cui sempre maggiori servizi e funzioni vengono sottratti al controllo pubblico statuale e devoluti al mercato attraverso le privatizzazioni, all'inserimento di logiche di mercato nello stesso funzionamento delle burocrazie pubbliche al fine di accrescerne la produttività. Crisi per carenza di Stato Il problema di deficit di statualità non è una novità, se ne parlava già con riferimento agli ordinamenti statuali prodotti dei processi di decolonizzazione e con la le ondate democratiche del dell'impero post sovietico nel 1989. Hobbes definì la carenza dello Stato come la ragione principale per cui i sudditi possono considerarsi sciolti dall'obbligo di obbedienza al sovrano a causa della sua inettitudine al comando e di conseguenza di assolvere al dovere al dovere fondamentale che è quello di proteggere dai danni che ognuno può provocare all’altro. Hobbes dunque, ci avverte della rilevanza del problema di uno Stato contraddistinto non dall'eccesso del suo potere ma dal suo difetto. Susan Strange avverte che molte delle principali funzioni dello Stato sono oggi in declino; ne consegue che l'ambito dell'autorità statale nella società e nell'economia si sta riducendo. La perdita del monopolio della forza legittima Huntington ha detto che ciò che distingue i regimi politici non è tanto la forma di governo ma il loro grado di governo, non la forma ma la forza. Un conto è lo Stato come complesso di istituzioni apparati, un altro diverso con te la statualità: disporsi da un minimo a un massimo di forza delle istituzioni statali per questo definisce la classificazione dei regimi statali sulla base del rischio della loro distruzione: stati risolti, falliti, in via di fallimento e deboli. Per il failed States index, stilato da found for Peace, relativo alla valutazione 178 paesi su una scala che va da 120 a 0, i sistemi politici con più elevato rischio sono caratterizzati da: pressione demografica, se ci sono flussi di rifugiati, vendette tribali o private, squilibri economici e povertà, corruzione, delegittimazione delle istituzioni pubbliche, deterioramento dei servizi pubblici essenziali, violazione di diritti umani e ricorso arbitrario alla violenza, perdita di controllo della forza da parte degli apparati di sicurezza, interferenze di attori sovranazionali. Hague e Harrop suggeriscono che il fallimento si può definire funzionalmente come l'incapacità dello Stato di esercitare il suo ruolo principale ossia monopolizzare l'uso legittimo della forza all'interno del territorio. Robert Rotberg, afferma che non è l'intensità assoluta della violenza che contraddistingue uno stato fallito, ma piuttosto sono la sua intensità e persistenza. D'altra parte, il collasso va considerato istituzionalmente e indica il tracollo dell'organizzazione statale e la sua sostituzione da parte di enti privati o subnazionali. In tutti i casi l'organizzazione statale sperimenta un vuoto di autorità e lo Stato e si riduce a una espressione geografica. Spesso, non è chiaro se il fallimento si riferisce allo Stato in quanto tale o semplice ad ambiti funzionali in particolare l'ordine pubblico la sicurezza esterna. La trascendenza dei confini la deterritorializzazione Il progetto dello Stato moderno prevedeva una sostanziale sovrapposizione di confini territoriali reali, economici, culturali, politici. Il processo di costruzione dello Stato comportava, dunque, di fatto una saturazione amministrativa di un dato territorio, tale processo di saturazione e confinamento, nella realtà, è stato molto più imperfetto di quanto normalmente non fosse postulato. La globalizzazione ed altri cambiamenti strutturali dell'economia e della società hanno favorito le forze dirette alla trascendenza dei confini. Lo stato del XXI secolo sembra, caratterizzato da un sostanziale processo di deterritorializzazione, di perdita di confini, il che equivale alla perdita di capacità di regolazione di tutta una serie di fenomeni. Tra questi si hanno le comunicazioni e lo spostamento delle persone. Cassese mette in evidenza che le stesse nozioni di frontiera e di confine sono malleabili. Gli Stati appaiono catturati nella duplice e contraddittoria tendenza tra spinte integrative, che sono il portato della loro storia passata e di controspinte disintegrative, tra processi di confinamento e di rivincita del territorio, tra apertura e chiusura delle frontiere. L'incongruenza tra Stato e nazione I regimi del XXI secolo, siano essi e democrazie mature o meno, mostrano svariate incongruenze tra Stato e nazione. Queste incongruenze e contraddizioni sono riflesso della storia delle difficoltà incontrate dai processi di omogenizzazione culturale dei cittadini e della stessa costruzione dello Stato. Nelle arie della vecchia Eurasia dove hanno dominato nei due secoli precedenti gli imperi si sono sviluppati il nazionalismo e le nazionalità. Sia la sfida del molto multiculturalismo sia quella dell'immigrazione sono destinati a crescere di intensità in futuro, così, gran parte del vecchio continente sembra riorganizzarsi sulla base di Stati multinazionali o di nazioni-Stato. Linz individua quattro modi di combinare popolo e nazione, cioè di conciliare costruzione dello Stato e costruzione nazione: - tipo uno: regimi mono nazionali. Ricordano l’ idealtipo dello Stato moderno, dove l'identificazione del demos con la nazione può condurre all'espulsione degli stranieri seguendo una logica di pulizia etnica. In questi casi, si ripropone il conflitto tra centro e periferie come una forza determinante della strutturazione della politica moderna. - Tipo due: regimi etnici. Più correttamente si parla di democrazia rivolta solo ai membri di un gruppo del gruppo nazionale-etnico dominante. In questo scenario si accetta la differenza tra Demos e nazione. Ciò getta le premesse per una cittadinanza simmetrica, poiché le minoranze residenti in territorio si riconoscono i diritti civili e sociali ma non quelli politici. Ciò non esclude che i gruppi minoritari si possono in qualche modo organizzare talvolta anche mobilitare. - Tipo tre: regimi assimilatore. In questo caso assistiamo a uno sforzo massimo per integrare le minoranze nella cultura nazionale mentre a esse non si annette alcuno status speciale né alcun diritto culturale. Le minoranze, del resto, hanno come obiettivo principale il raggiungimento magari nello spazio di qualche generazione della piena integrazione. - Tipo quarto: regimi multinazionali. Questa situazione fa riferimento a una soluzione inclusiva delle minoranze, il che comporta l'accettazione di una società pluralistica nella quale la diversità non è considerata diversamente. Linz, precisa che ci sono molti modi in cui riconoscere diritti collettivi individuali. In alcuni casi la democrazia consensuale il federalismo possono creare le premesse di uno Stato plurinazionale democratico basato sulla lealtà nei suoi confronti, senza che ciò comporti un'integrazione nazionale: avremo così una nazione Stato piuttosto che uno Stato nazione. Il tipo uno rende difficile sviluppi democratici, il tipo tre appare difficile da realizzare in presenza di gruppi minoritari che rifiutano di essere integrati, mentre le strategie del tipo due sono un ripiego che può aprire la strada le soluzioni molto culturali del tipo quattro. Anche Dahl arriva alla conclusione che oggi nella maggior parte dei casi è il multiculturalismo a rappresentare l'alternativa possibile alla stretta coincidenza tra popolo e nazione. Il punto nodale, è trovare soluzioni di convivenza che siano, almeno in larga misura, coerenti con i valori le istituzioni e le procedure della democrazia. La sovranità degli Stati nazionali può essere messa in discussione da processi di trasferimento di poteri ora verso l'esterno, favore di entità sovranazionali, ora verso l'interno, tramite processi di evoluzione di competenze e funzioni a livelli istituzionali substatali. In entrambi casi ciò che gli Stati possono fare o non fare dipende da scelte e accordi che essi stessi hanno siglato e ai quali sono sottoposti autonomamente per accrescere la loro capacità di fronteggiare nuovi problemi sovranazionali, se non addirittura globali. La perdita di sovranità degli Stati è, ancora più evidente nei rapporti con il mercato, fenomeno chiamato economizzazione della politica. CAP IV: MODELLI DDEMOCRATICI E REGIMI ANTAGONISTICI IL SIGNIFICATO DELLA DEMOCRAZIA NELLA STORIA Secondo Aristotele, la democrazia è quel sistema di governo che garantisce l'accesso a un numero di soggetti più vasto possibile, ma costituisce una forma corrotta, perché orientata al fallimenti tali politiche pubbliche, una crescita economica globale senza precedenti, il nuovo ruolo della Chiesa cattolica dopo il concilio Vaticano secondo, il cambiamento la politica estera di alcuni attori e il ruolo dei media nel processo di condivisione globale da parte dell'opinione pubblica. Huntington non negava l'impatto che la fine delle ideologie concorrenti aveva comportato sgombrando il campo da variabili esplicative di tipo socio economico, ma denunciava, al cospetto delle tesi sulla superiorità del modello democratico occidentale un nuovo forte motivo di tensione legato alla dimensione culturale. Su questo terreno lo scienziato politico immaginava l'avvento di un nuovo scenario mondiale che avrebbe definito con il suo libro sullo scontro di civiltà. In questo lavoro si teorizzavano l'incompatibilità democratica e perfino la maggiore inclinazione alla violenza di alcune civiltà alternative a quella originaria occidentale. Tuttavia questo d’ipotesi non hanno evidenza empirica. Negli ultimi anni la discussione si è ulteriormente arricchita da un lato, sulla scia degli studi classici sulla transizione che puntano a spiegazioni in chiave diacronica della sedimentazione dei fattori economici sociali alla base della democrazia in diversi casi si cerca di capire perché la democrazia è un obiettivo così difficile dall'unione del mondo; dall'altro lato, molti autori insistono sulla difficoltà nell'adattamento agli standard democratici delle caratteristiche culturali di determinate società, riproponendo un classico tema come il rapporto tra cultura civica democrazia. Charles Tilly mostra come i corsi e ricorsi alla democratizzazione non sono certamente esauriti con l'emergere di un nuovo quadro politico in Europa all'indomani della scomparsa del socialismo. Secondo Freedom House, una delle think tanks che si occupano della misurazione del monitoraggio del livello democratico dei regimi contemporanei, gli ultimi 15 anni oltre 100 paesi hanno garantito una performance democratica accettabile. Freedom House misura in realtà una condizione essenziale della democrazia, che possiamo definire come libertà complessiva, attraverso due indici che coprono rispettivamente l'estensione dei diritti civili e l'estensione dei diritti politici. Le misure vengono successivamente convertite in valori nominali da cui origina la mappa della libertà di Freedom House. Pur costituendo l’insieme più ampio dei 195 inclusi nella mappa la famiglia dei regimi liberi ne rappresenta soltanto il 45%. Molti sono i casi di regimi semiliberi nei quali il livello complessivo di libertà ha subito una drastica riduzione. Il problema della diminuzione del del livello di libertà ha interessato anche molti paesi di democrazia consolidata: secondo Freedom House, nel 2005 la media complessiva dell'indice di libertà andata progressivamente calando, invertendosi dunque il trend di rafforzamento democratico che aveva accompagnato la terza ondata. L'aspetto più preoccupante è probabilmente la disaffezione che molti cittadini delle democrazie consolidate mostrano oggi verso le democrazie le sue procedure. Varie organizzazioni hanno offerto misure alternative basate su criteri più sofisticati. In particolare la scala democratica di Prezworski, che misurava la rispondenza dei sistemi politici contemporanea con quattro criteri relativi: alla reale rappresentatività del governo, alla libertà delle elezioni legislative, all'esistenza di un sistema partitico pluralista e alla capacità di un medesimo sistema di regole di produrre sufficiente alternanza al potere. Il il tentativo più ambizioso tra i progetti recenti è quello di Varieties of Democracy che analizza il livello di democrazia attraverso il sondaggio di esperti, chiamati a esprimere il proprio parere sul funzionamento dell'istituzioni e il rilevamento sistematico di una serie di dati fattuali su partecipazione, inclusione sociale e ampiezza dell’informazione. LE DEMOCRAZIE CONTEMPORANEE Possiamo classificare i problemi delle democrazie consolidate con tre livelli diversi di investigazioni che riporta altrettanti esempi di questioni. - Interrogativo cognitivo: una volta raggiunto un soddisfacente accordo sulla definizione delle garanzie democratiche, in quali e quanti modi si possono applicare tali principi e, in ultima analisi, quanto sono dissimili tra loro in modelli democratici, guardando il funzionamento delle istituzioni e le concrete realizzazioni dei principi teorici di inclusività - Interrogativo interpretativo: posta la nostra capacità di distinguere tra diversi tipi di regime democratico, quali fattori spiegano il consolidamento di un regime modello o la tendenza di un dato regime ad avvicinare in modo più marcato i connotati di un tipo ideale - Interrogativo normativo: esiste un modello di democrazia che risulta più desiderabile e, sulla base di evidenze inconfutabili, più capace di esprimere elevate performance e rispetto alle finalità essenziali della democrazia stessa Recentemente, l'attenzione si è spostata su un tema di grande successo come l'emergere di possibili forme di democrazia diretta rispetto alle comuni forme di democrazia rappresentativa. La natura rappresentativa della democrazia non è mai stata messa in dubbio. Tuttavia questa discussione è fondamentale per tenere vivo il principio inclusiva della democrazia stessa e soprattutto per mostrare il bisogno continuo di democrazia dal basso fu possibile, a partire dagli anni ’60, sviluppare più profonde riflessioni sulla diversa natura dei vari regimi democratici. Gabriel Almond, aveva ragionato sulla differenza tra i sistemi democratici e sulle due rive dell'Atlantico, utilizzando il livello di omogeneità della cultura politica come principale fattore esplicativo. Arend Lijphart nei suoi primi studi mette a fuoco il modello consociativo di democrazie, al fine di spiegare la tendenza di alcuni sistemi dell'Europa continentale a creare le condizioni di un governo allargato con maggioranze sovradimensionate, coalizioni ideologicamente complesse svariati meccanismi di contrappeso costituzionale rispetto al governo maggioritario, espressione del vincitore elettorale. La prima tipologia si basa su due dimensioni di analisi: la configurazione della società e rapporti tra le élite. La tipica democrazia consociativa, di cui Paesi Bassi costituivano un esempio empirico paradigmatico rappresenta l'incrocio tra una cultura politica tendenzialmente eterogenea ed élite orientate al compromesso, capace dunque di generare un equilibrio impossibile nel caso delle democrazie centrifughe, connotate da cultura eterogenea ed élite conflittuali. Democrazia maggioritaria e democrazia consensuale Nel volume “le democrazie contemporanee”, Lijphart lanciava una proposta ben più forte, con una tipologia nuova e soprattutto con l'invito a una ricerca sistematica su tutte le democrazie rilevanti. La proposta si basava su due modelli polari denominati: modello maggioritario e modello consensuale di democrazia. Essi venivano discussi prima sul piano teorico, attraverso la creazione di due dimensioni e poi scandagliate attraverso una serie di dati empirici, le cui distribuzioni spingevano l'autore a confermare e la bontà dei due idealtipi e la tendenza delle democrazie a variare le proprie caratteristiche in modo coerente con essi. Il libro, costruito su 19 casi di democrazia di medio periodo, e ai quali venivano aggiunte, in una seconda edizione, le tre democrazie dell'Europa meridionale uscita dall'esperienza autoritaria negli anni 70, avrebbe avuto un enorme successo, questo contribuendo a sviluppare un fervente dibattito sui utilità dei modelli democratici reali e sulle loro implicazioni. Da questo studio sarebbe nato il volume “patterns of Democracy” la definizione teorica dei due modelli polari rimaneva quella originale, ma questa volta le democrazie sotto la lente dello studioso erano ben 36 e il tempo di osservazione si allunga fino a mezzo secolo permettendo l'estrapolazione di determinanti circa gli spostamenti di medio periodo dei molti regimi democratici. Oltre a ribadire la coerenza nella comparazione dei dati raccolti nelle diverse democrazie, relativi a tutte le variabili lungo le due macrodimensioni, grazie a tecniche di riduzione della complessità statistica, offre un’affascinante mappa delle democrazie contemporanee, Lijphart rilanciava con forza la tesi del migliore rendimento complessivo di un modello più gentile democrazia come quello consensuale capace di offrire politiche più confacenti sotto il profilo di rispetto di diritti e dell’inclusività senza peraltro perdere terreno vantaggio delle democrazie maggioritarie sul piano delle politiche economiche. Lijphart afferma che l'esistenza di vincoli socio culturali istituzionali precede la scelta di molte delle soluzioni, rendendo dunque difficile costruire artificialmente un nuovo modello di democrazia in un dato contesto, la sua netta propensione per il tipo consensuale è stata fortemente criticata utilizzando una serie di argomentazioni che vanno dalla pura critica metodologica sul tipo di evidenze prodotte e di altri ad altri rilievi focalizzati esclusivamente sull'interpretazione dei dati. La visone economica e razionale della democrazia A partire da Cordocet è noto il paradosso per cui un gruppo composto da tre decisori razionali non mostra necessariamente un set di preferenze ordinate in quanto collettività, a questo paradosso si collega il teorema dell'impossibilità di Aaron, costrutto fondamentale nella teoria economica della democrazia, che mostra come dilemmi messi in evidenza da molti autori circa l'impasse decisionale in un contesto collettivo siano in realtà elementi di un problema più complesso, quello appunto dell'impossibilità di pensare un sistema decisionale democratico infallibile. Il teorema di Aaron mostra che in ogni processo decisionale, al fine di superare l'impossibilità di creare un'unica funzione del benessere sociale attraverso l'aggregazione delle preferenze individuali, può essere necessario sacrificare una delle convenzioni teoriche della democrazie, tali condizioni sono la non dittatorialità, l'ammissibilità universale di ogni tipo di preferenza, l'ottimitalità paretiana e l'indipendenza di alternative irrilevanti. La garanzia di un'aggregazione certa delle preferenze individuali, e quindi la formazione della vera maggioranza possono avvenire, rendendo l'individuo più importante agli altri nel processo oppure limitando le preferenze degli attori in gioco o rinunciando a degli esiti stabili in un dato processo decisionale. Le implicazioni legate al teorema di Aaron sono numerose e possono essere applicate a varie modalità di costruzione di sistemi decisionali o di coalizioni tra attori. La visione della democrazia contemporanea derivata dagli strumenti dell'analisi economica e appoggiatasi all'idea di razionalità dei decisori conobbe nel secondo dopoguerra un’ importante filiera di studi e di grazie all'uscita di un volume dal titolo significativo "la teoria economica della democrazia”, il cui autore Anthony Downes, arguiva che le preferenze politiche aggregate in un contesto competitivo sono funzione della capacità degli elettori di ordinare le proprie preferenze massimizzando razionalmente la propria utilità individuale. Unitamente al concetto di razionalità degli attori in gioco, la visione individualista ed economica della democrazia rivaluta un secondo elemento fondamentale, quello della responsività insito nella definizione empirica di democrazia. Dovendo però analizzare tale elemento in un contesto di attori individuali tendenzialmente opportunisti, gli studiosi parametrizzano la capacità di risposta di un qualsiasi attore democratico rispetto alle modalità con cui esso conferisce o riceve una specifica delega.Si tratta della delicata questione del rapporto tra principali (popolo) e agenti (rappresentanti) che sottende all'immagine della democrazia come una catena di conferimenti di potere del popolo sovrano fino al più importante degli attori politici. Questa teoria derivata dall'analisi economica ha applicazioni rilevanti per l'analisi della stabilità democratica ponendo il problema dell'accountability al centro della ricerca. Lo studio empirico ha infatti dimostrato che tale sfida rappresenta un dilemma della democrazia, poiché l'impossibilità di un pieno e continuo flusso di informazioni tra delegati e deleganti determina l'abilità dell'accountability democratica soggetta a continue fasi di riflusso. I REGIMI ANTAGONISTI E L’AEREA GRIGIA DELLA QUASI DEMOCRAZIA Conoscere le alternative alla democrazia significa capire i limiti della proposta democratica e esorcizzare i rischi di crisi e crollo della democrazia stessa una volta che sia stata ristabilita. Una fondamentale distinzione tra le varie non democrazie riguarda il grado di continuità con i regimi del passato. Alcuni regimi indicati in letteratura come regimi tradizionali presentano la sopravvivenza di antiche forme di governo più democratico, mostrando caratteri simili esperienze che preesistevano alla democrazia moderna o che le hanno convissuto. In questa famiglia di regimi possiamo individuare oggi gli ultimi retaggi storici delle monarchie assolute o i regimi sultanistici. Lo sviluppo di una più ampia fenomenologia del regime non democratico avviene invece nel corso del XX secolo, quando le vicende di tante forme di non democrazie si sono incrociate con il delinearsi dei sistemi democratici. La proposta centrale è quella di Juan Linz che sviluppa una generica, ma fondamentale distinzione tra regimi autoritari e regimi totalitari. I regimi autoritari: sono sistemi con pluralismo politico limitato e non responsabile, senza un'elaborata ideologia guida, ma con mentalità caratteristiche, senza mobilitazione politica estesa o intensa, se non occasionalmente, e con un leader o un piccolo gruppo dirigente che esercita il potere entro limiti formalmente mal definiti ma abbastanza prevedibili nella realtà. Il caso studio è la Spagna di Franco. Si è trattato certamente di una dittatura che tuttavia non condivideva fino in fondo la flusso ideologico di un totalitarismo come può essere la Germania di Hitler. Questa natura non ideologica del era legata alla persistenza di un limitatissimo pluralismo composto da attori preesistenti al regime. Il leader del regime fu senza dubbio cruciale, con il suo carisma nella fase di instaurazione seguita alla guerra civile, ma è indubbio che sia stato affiancato da un limitato gruppo dei detentori del potere centrale. I leader dei regimi autoritari non hanno un’organizzazione ferrea che funge da propaganda ideologica e giustifica l'uso estremo del potere della violenza, ma piuttosto una serie di visioni caratteristiche come il mito della patria o della famiglia. Il regime totalitario: è un sistema caratterizzato da monismo politico, ruolo indiscusso del partito unico, ideologia codificata, articolata e finalizzata alla realizzazione di un programma di politicizzazione della società, continue azioni di concreta mobilitazione sociale con persecuzione sistematica di ogni attore non rispondente al programma, uso indiscriminato della violenza repressiva e limiti non prevedibili rispetto all'uso del potere gestito dal partito, dal gruppo dirigente e dal leader stesso. I casi studio sono alla Germania nazista e l'unione sovietica di Stalin. Il totalitarismo nazista si appoggiava a un'ideologia tipicamente nazionalista, mentre quello di Stalin si muoveva, teoricamente, dai principi di un'ideologia internazionalista. La soppressione del pluralismo si muove nel nazismo in una retorica di accentuazione dell'idealismo, mentre la retorica comunista enfatizza la missione egalitaria dell'ideologia dominante. I rapporti nell'élite dominanti presentano pure alcune differenze come le logge dell’organizzazione paramilitare nel nazismo, quello della burocrazia di partito nel caso dell'unione sovietica. Il razzismo nazista è un elemento ideologico cruciale, che condurrà a politiche distruttive, mentre la violenza di massa dell'Urss staliniana si conclusione della studiosa è pertanto la seguente: democrazie liberali e buona governance a livello di Stato nazionale debbono essere sviluppate in parallelo, il che comporta una rinnovata attenzione per il disegno di regime democratico che in ogni tempo e in ogni contesto può essere messo in discussione. CAP V: PARTITI, ELEZIONI E SISTEMI DI PARTITO CHE COSA SONO I PARTITI E CHE COSA FANNO? I partiti politici moderni sono costitutivi della stessa esperienza democratica. Tra democrazia e partiti c'è una relazione reciproca: la prima crea le opportunità per la formazione e azione dei secondi, che la mettono in opera avvicinandola cittadini. Da un altro lato la stessa morte la democrazie rappresentative si può imputare i partiti. La definizione dei partiti è altamente complessa. Negli anni ’50 Maurice Duverger aveva evidenziato come nel tempo si erano succedute diverse definizioni di partito, da quelle centrate sull'ideologia del partito dottrina della tradizione liberale e sulla base sociale il partito classe tradizionale marxista quelle basate sulla loro struttura il partito-organizzazione. I partiti politici, specie nel contesto dei moderni regimi democratico-rappresentativi, non possono essere ricondotti esclusivamente al fatto ideologico, la rappresentanza di interessi o la dimensione organizzativa. Un’ ulteriore componente deve essere esplicitata: la natura e la qualità dei rapporti competitivi e cooperativi che ogni partito intrattiene con gli altri. Così, a partire dal secondo dopoguerra, si è sviluppata la definizione di partito squadra o team di leader che concorrono per il voto popolare. La prospettiva competitiva della democrazia definita da Shumpeter avverte che ciò che contraddistingue le democrazie è l'esistenza di una pluralità di partiti liberi di competere, con mezzi pacifici legali per il controllo del potere politico. Dunque, sotto il profilo normativo, democrazia e competizione sono strettamente associate. Definizione di Sartori un partito è qualsiasi gruppo politico identificato da un'etichetta ufficiale che si presenta alle lezioni, ed è capace di collocare attraverso le elezioni (libere o no) candidati alle cariche pubbliche. Questa definizione è minima poiché pone l'attenzione sulle caratteristiche necessarie di un partito. Negli ultimi due decenni in molte democrazie appaiono soggetti politici che si presentano alle elezioni e che lottano per l'assegnazione delle cariche pubbliche rifiutando l'etichetta di partiti. Il criterio di Sartori dunque, ci dice che se tali formazioni pur rifiutando l'appellativo di partiti hanno successo le elezioni e riescono a conquistare con una certa stabilità posizione di autorità in parlamento addirittura nel governo, allora sono considerati dei partiti. Tuttavia, sono necessarie due precisazioni. La prima riguarda il fatto che la definizione di Sartori richiede due condizioni: la presenza di un sistema liberaldemocratico e l'assenza di forme realmente antisistema. La seconda precisazione è relativa al fatto che le poste in gioco per le quali partiti competono sono tre: ricerca dei voti (vote seeking), occupazione delle cariche pubbliche (office seeking), e controllo delle politiche pubbliche (policy seeking). Tali obiettivi vanno considerati primari poiché dal loro conseguimento dipende la capacità dei partiti di soddisfare le domande dei rappresentati. Uu uno l'altro di questi obiettivi servono a differenziare i tipi di partito e a stabilire alcuni condizioni degli aspetti organizzativi e ideologici: i partiti elettorali sono vote seeking, i partiti clientelari office seeking e quelli di massa policy seeking. Una definizione più estesa ma complementare rispetto a quella di Sartori: i partiti sono associazioni di donne e uomini, più o meno organizzate ma comunque in grado di durare, che competono per i voti popolari al fine di far accedere i loro leader, attivisti e simpatizzanti alle cariche pubbliche e, quindi, cercare di influenzare le scelte collettive. I partiti svolgono molteplici attività alcune principali altre secondarie e strumentali. Si possono raggruppare queste funzioni in due macroambiti: quello botto-up, della rappresentanza o socialee quello top-down della decisione o istituzionale. Per riprendere una distinzione classica, possiamo parlare direttamente di funzioni di input e funzione di output. Anthony King elabora negli anni 60 un elenco delle funzioni dei partiti. Funzioni di input o rappresentative 1. Integrazione e mobilitazione dei cittadini. L'azione dei partiti rende operativa nella mente dei cittadini l’ idea di una più ampia comunità politica. I partiti organizzano la partecipazione il che implica un'attività di socializzazione e di filtraggio delle informazioni. Questa attività comporta l'integrazione, cioè la capacità di creare collegamenti stabili tra centro e periferia tra elettori e istituzioni tra governanti e governati. 2. Strutturazione del voto. Rientrano in questa funzione tutte quelle attività definite genericamente electioneering, che hanno a che fare con la formazione degli orientamenti politici e delle opinioni degli elettori, con la propaganda, con la necessità di assicurare un collegamento tra candidati e partiti e con l'organizzazione delle campagne elettorali. Quando l'immagine dei partiti è fissata nella mente degli elettori si finisce per sfruttarne le preferenze e si può parlare di un sistema partitico funzionante. 3. Aggregazione degli interessi si riferisce alla funzione messa fuoco da Almond e Powell con la quale si entra nel cuore del processo di rappresentanza politica. Con essa le molteplici domande trasmesse al sistema politico vengono trasformate in alternative politico programmatiche generali. L'azione dell'aggregare implica sempre un mediare e regolare, un valutare e interpretare. A monte, tale funzione implica l'esercizio di un ruolo di gate keeper ovvero di un ruolo giocato dai partiti al governo all'opposizione nel controllare l'accesso di gruppi di interesse dell'élite alle sedi decisionali e nello stabilire le priorità degli interessi rispetto alle vere domande. A valle ciò richiede la formazione di un'agenda pubblica e decisionale, ma anche la definizione dei programmi che hanno un'elevata possibilità di essere realizzati. Funzioni di output o di governo 1. Reclutamento dei leader e del personale politico. Come conseguenza del processo di democratizzazione i partiti hanno finito per controllare il reclutamento del personale per le cariche pubbliche. Da questo punto di vista i partiti sono un modo per sottrarre il controllo delle posizioni di potere alle vecchie élite. Tuttavia, le élite e tradizionali resistono e si adattano al nuovo sistema, mentre nel quale stessa democrazia rappresentativa si introducono distorsioni legate alla professionalizzazione della politica alla burocratizzazione dei partiti. La celebre legge ferrea dell'oligarchia di Michels si esprime proprio questa deviazione. Con la politica di massa si sviluppò un sistema di reclutamento misto rigidamente controllato dai partiti per la in cui la scelta dei candidati precede la loro elezione. 2. Organizzazione e conduzione del governo. In primo luogo i partiti svolgono una funzione costituente e fondante dello stesso regime democratico. Ciò richiede la capacità di canalizzare e socializzare il controllo del regime si delineano due livelli del gioco politico: quello delle politiche e delle decisioni dove la competizione aperta a tutti gli attori in campo e quello del regime e delle istituzioni che richiede una limitazione della competizione. In secondo secondo luogo, i partiti assolvono importanti compiti procedurali o istituzionali risolvendo complessi problemi di coordinamento e di operatività impliciti nel funzionamento delle istituzioni di governo nei rapporti tra istituzioni. 3. Influenza delle politiche pubbliche. Questa funzione a che fare con la capacità di problem solving: i partiti cioè cercano di trovare soluzioni ai problemi collettivi e di controllare il policy making, cioè la formulazione e l'implementazione delle politiche pubbliche. Ciò richiede di convertire gli impegni programmatici, rispetto ai quali si è chiesto il consenso degli elettori, in decisioni autoritative. Ma anche di affrontare con tempestività ed efficacia di shock esterni e le emergenze che investono il sistema politico e che richiedono spesso di deviare dagli impegni elettorali. La partecipazione al voto e l'organizzazione del processo elettorale, oltre a creare legittimità per il regime, rappresentano la funzione minima che contraddistingue sistemi politici rispetto ad altre organizzazioni o gruppi politici. Sono i partiti presentano infatti i propri candidati alle elezioni per l'allocazione delle cariche pubbliche. Secondo alcuni studiosi la funzione minima che partiti svolgono è quella di coordinamento e di integrazione. R.D. Katz afferma che tale funzione riguarda tre livelli: il coordinamento interno del sistema di governo e all'istituzioni politiche, il coordinamento esterno di elettori e candidati nella società in territorio e il coordinamento tra i due ambiti del governo e della società, costituisce la vera e propria funzione di linkage. I partiti di massa sono agenzie di collegamento tra società e Stato, sono principalmente partiti di rappresentanza. Via via che i regimi democratici si sono consolidati e la società stessa è mutata, tali funzioni di input sono diventate meno rilevanti per il sistema politico. Perlopiù continuano essere centrali per i cosiddetti partiti di testimonianza, formazione base ideologiche etnico territoriale o religiosa spesso su posizioni estreme che articolano domande di gruppi ristretti di elettori o porzioni di territorio per i partiti di protesta che mobilitano il sentimento dell'insoddisfazione dei cittadini di gruppi sociali contro la classe politica, i partiti di governo, le istituzioni tradizionali la rappresentanza. Per contro le funzioni di output o situazionali hanno finito per prevalere. I partiti della fine del XX secolo e dell’inizio del XXI secolo sono minimi quali strumenti di rappresentazione politica, sono invece massimi quali organi dello Stato. Tuttavia, nell'ambito delle stesse funzioni istituzionali, come si accennava, quelle decisionali di problem solving appaiono sempre più vincolate mentre le uniche funzioni che sembrano avere ancora una certa rilevanza sono quelle di nomina e quelle con me connesse alla gestione del potere. Che cosa fanno i partiti nei regimi autoritari? Si tratta di una questione finora implicita. Anche i partiti autoritari o meglio totalitari sono caratterizzati non solo della propria particolare struttura ma anche da specifiche condizioni. La distinzione posta tra partiti egemoni che ammettono l'esistenza di formazioni satelliti minori e partiti totalitari. Nel complesso i partiti non democratici non sono uno strumento di espressione della società, ma sono una tecnologia di coercizione, estrazione e mobilitazione dall'alto sulle della società. L'intensità estrattivo-coercitiva della narrazione si riduce via via che da totalitarismi si passa a partiti egemonici. Con riferimento ai partiti totalitari come quello fascista nazista Linz ricorda che forniscono una serie di funzioni rilevanti: - la politicizzazione delle masse: incorporazione, inquadramento, integrazione, presa di coscienza e conversione - Il reclutamento, l'esame, la selezione e la formazione di una nuova élite politica - Il controllo di una gamma di situazioni o posizioni specializzate che potrebbero trasformarsi in centri di potere non politicamente indipendenti. - Funzione di direzione e di guida che implica di occupare le cariche politiche di ogni livello di governo con individui eletti nominati. Il partito egemone, invece tipico nei paesi dell'Europa orientale fino al crollo del comunismo sovietico rappresenta l'interesse delle classi lavoratrici. Il punto è che si rinviene una certa omologia perlomeno di facciata tra le funzioni partitiche in contesti autoritari e democratici. QUATTRO PROSPETTIVE DI ANALISI: I PARTITI COME ORGANIZZAZIONE Per dare conto alla varietà dei partiti possiamo avvalerci di quattro prospettive di analisi: quella organizzativa, rappresentativa, istituzionale e competitiva. Si tratta di prospettive interdipendenti e complementari anche se si sono sviluppate in autonomia l'una dall'altra. Tutti si pongono il problema di spiegare il cambiamento dei partiti I partiti di élite Si tratta di partiti aristocratici e borghesi, conservatori e liberali che si affermano nel XIX secolo in Gran Bretagna e negli Stati Uniti e poi nel resto dell'Europa. Il contesto istituzionale in cui si collocano è quello del parlamentarismo classico del suffragio ristretto ai soli ceti possidenti. I partiti di élite si limitano a svolgere una funzione di rappresentanza individuale, ovvero trasmettere le domande che emanano da segmenti ristretti di elettori socialmente omogenei. La loro unità organizzativa elementare è la forma del comitato elettorale costituito da gruppi di persone scelte di norma per cooptazione. Sotto il profilo strutturale i comitati sono degli organismi stabili e temporanei che si attivano solamente soltanto durante le campagne elettorali. In queste formazioni politiche che vengono dette anche partiti di notabili, la fonte del potere politico va cercata nell'influenza sociale e nell'esistenza di tratti patrimoniali. La politica costituisce ancora un'attività volontaria, ciò però non significa che non alimenti rendite. In questo tipo di partito la qualità domina su tutto: vastità del prestigio abilità della tecnica importanza della ricchezza. Questi partiti sono assorbiti dalle relazioni con le istituzioni, sono interni al parlamento poiché costituiscono gruppi parlamentari ante litteram nei quali è possibile la concentrazione dell'azione dei singoli deputati. Questa esigenza tanto più avvertita se si considera che i rappresentanti eletti per via partitica una volta approdati nel parlamento hanno possibilità di seguire nella loro attività la propria coscienza con il cosiddetto divieto di mandato imperativo. I partiti di massa I mutamenti che investirono i sistemi politici occidentali, In particolare l'allargamento del suffragio universale e la prima democratizzazione condussero a uno scenario di grande trasformazione che avrebbe gettato le basi per l'instaurazione della democrazia dei partiti. Il protagonista di questa stagione politica fu il partito di massa o burocratico così definito da Weber, organizzativo di massa come disse Sartori. Si tratta di grandi organizzazioni collettive, radicate nella società e con vasti apparati di militanti iscritti. Dal punto di vista funzionale Neumann ha parlato di partito di integrazione sociale, affrettandosi a specificare che poteva assumere due forme antinomiche: quella del partito di integrazione domanda democratica o totalitaria. Con la massificazione della politica l'infrastruttura del potere finisce per poggiare su partiti solidificati che penetravano organizzavano la società. Gli iscritti perciò sono la materia stessa del partito la sostanza della sua azione. Un elemento organizzativo centrale per il funzionamento dei partiti di massa è la sezione un termine che significa parte di un tutto. Si tratta di un'unità aperta a tutti i cittadini e al quale ci si può iscrivere liberamente ciò che conta è il numero degli aderenti. Socializzare ed educare iscritti Da un punto di vista tecnico regole e meccanismi elettorali riguardano la traduzione o conversione dei voti in seggi. Douglas W. Rae distingue tra election law, cioè legislazione sulle elezioni electoral law, cioè legge elettorale. I sistemi elettorali hanno rilevanza per le conseguenze che producono sui sistemi di partito e sui partiti. La distinzione classica e più semplice è quella che prende spunto dalla formula elettorale adottata e distingue tra sistemi elettorali maggioritari e proporzionali e misti. Nei sistemi maggioritari di solito associati a collegi uninominali vale la regola elementare che il partito più forte nel singolo collegio vince il seggio in palio. I sistemi maggioritari si possono distinguere sulla base della regola che utilizzano per definire la maggioranza vincente. Se questa è data dal numero dei voti più alti senza requisiti si può parlare di plurality, dove il candidato che ottiene anche un solo voto in più degli altri eletti immediatamente first past the post; ne consegue che il sistema plurality a turno unico in collegi uninominali. Il problema con questo tipo di scrutinio è che può arrivare al traguardo e vincere il seggio in palio in un candidato poco rappresentativo. Il sistema majority stabilisce che per ottenere il seggio in palio occorre conseguire la maggioranza assoluta (50% +1). Possiamo essere certi che con questa regola non si hanno candidati poco rappresentativi, poiché almeno la metà +1 degli elettori iscritti nel collegio dovrà aver votato per il vincente. Tuttavia si apre la domanda che riguarda che cosa succede se il candidato non raggiunge la maggioranza assoluta. Le soluzioni sono due. La prima chiama gli elettori a votare nuovamente e per questo e questa volta per vincere il seggio basta la maggioranza relativa. Per tale ragione si parla di sistema doppio turno. L'orientamento prevalente è quello di ridurre il numero dei candidati che l'elettore trova al secondo turno: esempio i primi tre o quattro più votati, se si parla dei primi due si parla di ballottaggio. Per contro si può anche decidere di fissare una soglia percentuale di voti. Più il filtro per accedere al secondo turno è selettivo più lo scrutinio a doppio turno ha un impatto costrittivo sulla competizione produce effetti disrappresentativi. Il secondo meccanismo per risolvere il problema dei candidati sotto la soglia al primo turno il sistema del voto alternativo vigente in Australia. Questa volta invece di chiedere agli elettori di ritornare a votare dopo qualche settimana gli si chiede di esprimere un voto ordinale, ovvero di graduare per preferenza tutti i candidati presenti nel collegio. Nel caso in cui nessun candidato abbia la maggioranza assoluta nelle prime preferenze vengono distribuiti i voti tra i candidati togliendo quelli dati al candidato meno votato. I sistemi proporzionali sono sempre abbinati a circoscrizioni plurinominali. In questi sistemi i seggi in palio nelle circoscrizioni sono suddivisi tra i partiti in proporzione alle quote di voti ottenuti. I sistemi proporzionali variano molto tra loro e si possono distinguere in base al grado di disproporzionalità introdotto da diversi meccanismi che lo caratterizzano. La distorsione della proporzionalità può dipendere da: formula elettorale, ampiezza delle circoscrizioni, saldi elettorali, premio di maggioranza e tipi di scheda. Si ricava che esistono sistemi elettorali proiettivi, che favoriscono la rappresentatività e sistemi elettorali selettivi che invece agevolano la governabilità. Negli ultimi decenni infine, sono stati predisposti dei sistemi elettorali misti che vorrebbero in qualche modo contemperare le esigenze della rappresentanza a quelle della governabilità e stabilità. A tal fine gli elettori scelgono i propri rappresentanti con regole elettorali ibride: una parte dei seggi attribuita con regole maggioritarie, l'altra con lo scrutinio proporzionale. Al riguardo si è soliti distinguere tra sistemi misti dipendenti e indipendenti. Nel primo caso si parla anche di sistemi paralleli dove i due tipi di regole coesistono in autonomia e non interferiscono o vengono utilizzati anche a livelli elettorali distinti. Nel secondo caso invece, la distribuzione dei seggi a un livello dipende da quanto accade nell'altro livello. L'individuazione dei sistemi elettorali non risponde solo ad esigenze tecniche, ma è rilevante per la loro conseguenze sulla manipolazione delle scelte dell'elettore, sotto o sovra rappresentazione dei partiti e influenza il numero dei partiti. Il primo ad aver trattato il tema in maniera scientifica è stato Duverger dalla cui analisi si fanno discendere le leggi di Duverger che sono una legge un’ipotesi: - legge di Duverger, il sistema maggioritario a turno unico plurality tende al dualismo dei partiti o bipartitismo - Ipotesi, i sistemi a doppio turno o rappresentanza proporzionale tendono al multipartitismo. Rae e Riker hanno chiarito l'operatività della legge di Duverger elaborando la proposizione di Rae/Riker per cui lo scrutinio plurality è sempre associato alla competizione bipartitica, eccetto quando esistono partiti espressivi di forte minoranze locali. Da parte sua Sartori parla di leggi di tendenza, ha precisato che il formato bipartitico è associato all'esistenza di due condizioni necessarie: la dispersione territoriale delle preferenze degli elettori e la strutturazione su scala nazionale del sistema dei partiti. La sistematizzazione recente più efficace del dibattito in materia di sistemi elettorali dei loro effetti si deve a Cox che distingue tra effetti meccanici o effetti diretti del sistema elettorale, prodotti dalla semplice applicazione applicazione delle regole di trasformazione dei voti in seggi ed effetti psicologici indiretti che vengono definiti come il coordinamento strategico degli elettori e dei candidati. Proprio per evitare o attutire gli effetti diretti e gli elettori sono indotti a praticare il voto strategico, cioè scelgono non il partito al quale si sentono più affini, ma il partito più prossimo alle loro preferenze originario che magari ha più realistiche possibilità di vittoria. La critica di Sartori ha sostenuto convincentemente che le leggi di Duverger vanno precisate ricordando che la loro efficacia è tanto più forte in relazione al grado di strutturazione del sistema partitico. Il che dipende sia dall'esistenza di partiti minimamente organizzati e stabili su scala nazionale sia dal consolidamento di fedeltà prevedibili degli elettori. Il ragionamento di Sartori stabilisce che i sistemi elettorali forti, maggioritari o altamente disproporzionali, hanno effetto riduttivo del numero dei partiti, ma solo se il sistema partitico è strutturato su base nazionale. Se il sistema partitico organizzato è solo a livello locale, gli effetti riduttivi si avranno solo a livello di collegio, da qui l'anomalia di un sistema plurality che aumenta la frammentazione partitica. Se, per contro, il sistema partitico fortemente strutturato il sistema elettorale è debole si possono avere ancora esiti bloccati o controbilancianti che derivano dalla logica di funzionamento del sistema partitico. I PARTITI COME SQUADRE DI LEADER IN COMPETIZIONE La nozione di sistema partitico è stata trattata in maniera sistematica da Duverger, ma è con Sartori un ventennio dopo che l'analisi dei sistemi di partito compie un importante progresso. L'espressione coglie l'insieme di relazioni competitive/cooperative stabili tra partiti. I sistemi partitici si possono analizzare sulla base di tre criteri principali: il numero dei partiti, le loro dimensioni e le relazioni reciproche. La loro operatività influenza l'orientamento di voto la formazione dei governi, la stabilità e rendimento la stessa democrazia. Il criterio numerico costituisce uno degli aspetti più evidenti che permette di cogliere un tratto cruciale del funzionamento di ogni sistema politico: la concentrazione e la frammentazione del potere al suo interno. La distinzione classica di Duverger è quella tra monopartitismo che appartiene ai regimi non democratici, bipartitismo e pluripartitismo. La questione del conteggio porta con sé l’aspetto relativo alla forza dei partiti. Si tratta di un argomento in gran parte intuitivo, per cui in ogni sistema ci sono partiti che sopravanzano agli altri, per ruolo, per posizione nel governo e per dimensioni elettorali e parlamentari. Al fine di dare conto della taglia parlamentare ed elettorale dei partiti un primo criterio piuttosto pragmatico è quello di conteggiare solo i partiti che riescono a superare una certa percentuale dei seggi. Jean Blondel considera la forza elettorale dei partiti tenendo conto sia dell’incidenza elettorale dei due partiti maggiori che dei rapporti di forza che passano tra questi e gli altri. Nella tipologia di Blondel i multipartitismi differiscono a seconda che siano con o senza un partito predominante. La classificazione di Sartori ha costituito il paradigma per l'analisi dei sistemi di partito nella seconda metà del XX secolo ed è stato in grado di risolvere la questione del conteggio dei partiti e dei reciproci rapporti di forza fissando delle regole di conteggio volte a discriminare tra i partiti che contano e quelli irrilevanti: - un partito per quanto piccolo deve essere contato se ha un potenziale di coalizione, cioè se è indispensabile per formare maggioranze di governo - Un partito per che non abbia affinità di coalizione deve, comunque, essere contato se ha un potenziale di ricatto, cioè se la sua presenza condiziona la direzione della competizione nella produzione delle politiche pubbliche. Una volta che i partiti sono stati contabilizzati adeguatamente, il loro numero costituisce il formato del sistema partitico. Per capire come funziona un sistema partitico è necessario sapere anche sulla natura dell'intenzione che vi si svolgono. Dalla combinazione tra formato numerico e meccanica si ricavano tre configurazioni sistemiche: - la configurazione unipolare: è tipica delle situazioni monopartitiche e non democratiche, senza competizione e ricambio di gruppi al potere che si presentano in due configurazioni diverse, quella dei sistemi monopartitici e quella dei sistemi con partiti egemoni. Tale situazione può caratterizzare le democrazie qualora la dinamica competitiva sia limitata dai comportamenti degli attori che orientano elezione dopo elezione il loro sostegno verso un partito producendo un sistema a partito predominante - La seconda configurazione bipolare: assorbe i casi del sistema bipartitico dei sistemi di pluralismo moderato, mostra una direzione della competizione centripeta e con elevata probabilità di produrre alternanza tra governo e opposizione. In questo tipo l'alternanza può avvenire tra i singoli partiti o tra coalizioni di partiti. Nei sistemi multipartitici moderati spesso un partito minore può ricoprire un ruolo di governo indipendentemente dall'orientamento politico della maggioranza. In questo caso si parla di partiti pivot. Infine, negli ultimi due decenni la crisi dei partiti tradizionali ha talvolta favorito la comparsa di sistemi bipolari, dove la competizione è tra coalizioni e schieramenti. - La configurazione multipolare: coincide con i sistemi partitici polarizzati dove la competizione tende a essere centrifuga, presenta forze estremizzate e opposizioni bilaterali, mentre l'alternanza al governo lascia il monopolio del governo ai partiti di centro. In questi sistemi spesso si afferma un partito dominante, capace di controllare anche per lunghi periodi il governo perché ottiene la maggioranza relativa dei seggi, rimanendo attore centrale delle quali azioni di governo. L'unica forma di avvicendamento possibile al governo in questo caso è costituita dal cosiddetto ricambio periferico in cui il partito dominante resta il governo mentre cambiano i parti partner minori della coalizione. La tipologia di Sartori può essere utilizzata anche per dar conto del mutamento dei sistemi di partito, da questo punto di vista il cambiamento implicherebbe un alterazione del formato e/o della meccanica del sistema partitico, ovvero del numero dei partiti rilevanti del grado di polarizzazione. In un contesto democratico, per Sartori lo spostamento è più interessante è quello dei sistemi partitici che da multipartitici polarizzati conduce a sistemi multipartitici moderati. Wolinetz ha addirittura proposto di abolire l'etichetta di multipartitismo polarizzato, perché ormai priva di significato, per sostituirla con quella di multipartitismo estesi cioè di sistemi con molti partiti anche se non più antagonisti tra loro. Non mancano segnali opposti di neopolarizzazione. CAP VI: ASSEMBLEE E CIRCUITI RAPPRESENTATIVI LO SVILUPPO STORICO DELLE ASSEMBLEE RAPPRESENTATIVE I sistemi politici hanno sempre enfatizzato, accanto alle figure dei leader o condottieri, l'influenza di istituti collegiali, più o meno elitari, che in qualche misura raffigurano la comunità alla base del sistema stesso. La spinta che legittimava lo sviluppo di queste istituzioni era la necessità di bilanciare i poteri dati, ovvero la monarchia, con forme di rappresentanza imposte di stessa iniziativa regia, dai feudatari. La differenza principale tra le assemblee rappresentative premoderne e quelle contemporanea si trova nella collocazione delle prime in un contesto dualistico di legittimazione dove il parlamento non esprime la sovranità popolare, ma piuttosto una funzione di bilanciamento rispetto alla legittimità del sovrano. Il livello di consolidamento organizzativo dei parlamento i moderni era molto più modesto rispetto alle assemblee dell'era contemporanea. Gli esiti di strutture istituzionali anche vicine nel tempo simili nelle proprie caratteristiche furono molto diverse e le differenze che emersero dallo sviluppo di uno o dell'altro caso sono fondamentali per capire l'effettivo ruolo delle assemblee. Queste differenze sono i punti di partenza degli studiosi per enfatizzare i momenti di distacco rispetto a quel tipo di istituzione assembleare che ha accompagnato la storia fino alle grandi rivoluzioni nazionali. Per gloriosa rivoluzione si intendono gli eventi che nel 1688 portarono all'abdicazione del re cattolico Giacomo Secondo gli Stewart e all'instaurazione di un regime di stampo dittatoriale. In questa fase storica caratterizzata da conflitti religiosi e dinastici il parlamento di Westminster si era progressivamente emancipato chiedendo al monarca di presentarsi al cospetto dei rappresentanti e ascoltare i loro pareri e argomentare le proprie scelte. Infatti, la gloriosa rivoluzione conduce immediatamente al Bill of Rights nel 1689 primo atto formale di conferimento al parlamento inglese di una serie di prerogative in materia fiscale e militare. Le rivoluzioni borghesi del secolo successivo, quella americana e quella francese, furono altrettanto fondamentali grazie al lavoro di assemblee parlamentari transitorie o permanenti, che poi costituirono i modelli di parlamento chiesti in tutta Europa nel 1848. La nozione di parlamento non può essere esaustiva rispetto alla categoria generale delle assemblee rappresentative democratiche, poiché si attaglia soprattutto all'esperienza democratica europea, dove ha prevalso il sistema di fusione dei poteri. Dove invece si è imposto, sull'esempio degli Stati Uniti d'America, il modello della separazione dei poteri, il termine che indica la tipica istituzione legislativa nazionale è invece quello di congresso. Nelson Polsby studiò il percorso evolutivo del congresso USA alla ricerca dei fattori che potessero spiegare l'avvento di un formidabile luogo di potere politico, adattando all'uopo il concetto di istituzionalizzazione. Un processo di istituzionalizzazione avviene quando una serie di candidati degli elettori di fronte a un cambiamento delle regole in gioco. Inoltre, è necessario fissare la differenza tra effetti macro ed effetti micro. Possiamo classificare tre tipi di effetti: - effetti meccanici sul livello macro della rappresentanza - Effetti meccanici sul livello micro dell’autonomia individuale e della responsabilità degli eletti - Effetti indiretti sulla strategia di azione rappresentativa degli eletti e dei loro selettori FUNZIONI E STRUTTURE DI DELLE ASSEMBLEE RAPPRESENTATIVE DEMOCRATICHE Storicamente il bicameralismo rappresentava la necessità di distinguere gli Stati ovvero i ceti sociali ammessa la rappresentanza. Il bicameralismo moderno serve, invece, a bilanciare la rappresentanza tra le tante comunità presenti in un sistema politico. Lijphart dimostra il netto predominio dei bicameralismi tra le democrazie stabili. C'è una netta correlazione tra l'impiego del bicameralismo e la dimensione del sistema politico, così come evidente che i paesi federali e complessi sotto il profilo etnico culturale tendono a sviluppare seconde camere con poteri istituzionali rilevanti. Il monocameralismo è una situazione istituzionale perseguibile nel caso dei sistemi politici semplici, relativamente piccoli connotati di omogeneità politico culturale. In tutti gli altri casi la presenza del bicameralismo può essere spiegata in misura diversa dall’esito di una cultura istituzionale complessa e dal pluralismo sociale I bicameralismi i più influenti sono connotati da poteri equivalenti nelle due camere e diversa capacità rappresentativa. Le seconde camere deboli ovvero quelle caratterizzate da poteri molto inferiori rispetto alle prime, possono distinguersi tra forme di palese incongruenza rappresentativa, come le camere di rappresentanza nobiliare o di nomina o parte di un sistema di divisione funzionale dei compiti legislativi nel quale pur rivestendo ruoli inferiori si specializzano. La quarta categoria, quella delle seconde camere con poteri uguali ma con una forte congruenza nelle modalità rappresentative al cospetto delle prime, determina quello che viene chiamato bicameralismo ridondante, dove le seconde camere sono forti ma finiscono per indebolire il sistema senza aggiungere una capacità rappresentativa alternativa complementare. Articolazioni strutturali delle assemblee legislative 1. Le assemblee possono essere più o meno vaste. Si è soliti fare riferimento a una correlazione tra la grandezza della comunità rappresentate l'ampiezza delle camere. Tuttavia, è un’ approssimazione e questo lascia supporre che alcuni paesi con evidenti problemi di complessità e compromessi costituzionali difficilmente negoziati abbiano avuto bisogno di un parlamento particolarmente numeroso. 2. Struttura di coordinamento e di conduzione istituzionale delle assemblee: la pari dignità degli eletti non consente una distinzione sul ruolo eminentemente politico, dando al presidente un voto più pesante come si fa spesso negli ordini esecutivi. Tuttavia, in molti parlamento il presidente per prassi tende a non esprimere il proprio voto per perseverare il suo ruolo di garante all'interno dell'assemblea. 3. L'articolazione interna all'assemblea relativa allo sviluppo dei gruppi partitici. I gruppi possono rappresentare lo strumento principale per il controllo delle organizzazioni partitiche esterne sui propri eletti, ma anche un modo per opporre all'apparato di partito un secondo establishment avvantaggiato dalla sua centralità istituzionale. Un sistema maggiore di controllo partitico esterno attraverso i gruppi parlamentari si legherebbe un paradigma di governo il partito forte, mentre la tipica caratterizzazione individualistica a lungo studiato negli Stati Uniti sarebbe anche funzione di un basso grado di istituzionalizzazione partitica al cospetto delle organizzazioni del congresso del potere individuale dei singoli congressman. 4. Un elemento fondamentale da analizzare e infine, è quello relativo alla posizione che il governo riveste nelle stesse articolazioni parlamentari. Non si tratta di un elemento formale di maggiore o minore rispetto dell'esecutivo: lo spazio dedicato al governo infatti un indicatore evidente del tipo di rapporto che si intende favorire all'interno di un'aula parlamentari. Una serie di specifiche facoltà possono infatti essere consentite all'esecutivo per dominare l'agenda parlamentare Tutti questi elementi sono oggetto di un'attenta analisi comparativa tesa a comprendere il livello di dominio della maggioranza e rispetto al modello più includente di confronto con tutte le parti rappresentative nell'arena parlamentare. Questa ricostruzione per modello e quell'aria è spesso riproposta in termini di tipologia tra un modello avversariale e uno policentrico di parlamento: il primo modello, idealmente raffigurato da Westminster è proprio delle democrazie maggioritarie, mentre il secondo, raffigurato con la classica arena semicircolare, si è sviluppato nelle cosiddette democrazie consensuali. Una lettura diversa, basata sulla capacità trasformative dei parlamenti può individuare un continuum che va da un minimo di impatto sugli output che finisce per sviluppare l'organo legislativo soprattutto come un'arena nella quale riportare i conflitti e visioni, un massimo impatto dove invece prevale l'immagine di un parlamento trasformatore, ovvero capace di influire in modo significativo sui processi decisionali. Un recente contributo classificatorio, Kreppel, ha reintrodotto tale distinzione collocando le assemblee rappresentative in uno spazio così costruito su due dimensioni: l'autonomia istituzionale, misurata dall'indicatore di indipendenza rispetto agli altri poteri dello Stato, il livello di autonomia dei membri dell'assemblea, che può avere un'origine individuale o partitica. Questo contributo crea uno spazio più ampio dove considerare sia le evidenti differenze causate da vincoli di sistema sia le diverse ragioni di rafforzamento delle prerogative dei rappresentanti che possono essere ricercate nella forza dei partiti esterni. Infine, la teoria sul sui poteri di veto assume che un parlamento strutturato con bicameralismo forte, commissioni influenti, articolazioni partitiche particolarmente autonomi dipendenti dall'organizzazione esterno il ruolo politico della presidenza delle camere debba essere concepito come sistema capace di produrre molti contrappesi. COME CAMBIANO LE FUNZIONI PARLAMENTARI Dalle definizioni classiche all’analisi empirica delle funzioni parlamentari Walter Bagehot è l'autore che per primo ha approfondito la funzionalità dei parlamenti i moderni. Nel suo libro "la costituzione inglese" del 1867 offre una mirabile esemplificazione di come l'assemblea fosse capace di allargare e riqualificare lo spettro delle proprie facoltà divenendo una fondamentale cerniera istituzionale nel regime che comincia ad assomigliare a una democrazia rappresentativa. Nella sua visione, oltre alla funzione elettiva si trovava posto per la funzione espressiva, la funzione informativa, funzione educativa, funzione finanziaria e la classica funzione legislativa. Lavori di politica comparata hanno classificato parlamento e congressi incrociando le loro funzioni formali con l'effettiva capacità di influenza semplificano le dimensioni funzionali in tre aggregati che corrispondono alla collocazione delle assemblee legislative nella catena di deleghe appena accennata: 1. Come agente del corpo elettorale e del popolo sovrano i parlamenti e i congressi devono rappresentare le istanze e trasferirle nel sistema questo tipo di attività è la funzione rappresentativa 2. Come principale rispetto ai meccanismi decisivi del sistema politico, essi devono sostenere precise richieste titolari delle tante amministrazioni e monitorare i comportamenti questa è una funzione che si può definire come di controllo sul governo. 3. In qualche misura a metà tra le due dimensioni si trova la vecchia funzione legislativa che comprende l'ulteriore mandato individuato da Bagehot come la funzione di bilancio. Si tratta di compiti legati al ruolo che le assemblee rivestono sul versante dell’output. Vecchie e nuove assemblee legislative Gli eletti nelle assemblee, oggi, fanno varie varie cose, a cominciare da un continuo lavoro di proiezione delle visioni presenti la società, attraverso quel peculiare significato chiamato ricettività. La condizione necessaria per mettere in atto tale funzione è un sufficiente pluralismo interno, garantita dalle regole elettorali e dalla stessa dimensione dell'istituzione parlamentare. I parlamento i bipartitici avversariali delle democrazie maggioritarie, rappresentano essenzialmente le due parti che incarnano le visioni politiche preponderanti lasciando ai singoli rappresentanti il compito di difendere, attraverso iniziativa legislativa personale il proprio collegio e quindi il territorio in esso compreso. Invece, il parlamento tipico della democrazia consensuale scelto con un principio di proporzionalità, risulta naturalmente più orientato a rappresentare le molte voci di una società. Un altro elemento è la trasformazione di lungo periodo dei profili dell'élite parlamentari definisce che le mutate capacità rappresentative: i rappresentanti tendono a inseguire i cambiamenti sociali sul piano delle loro competenze tecniche e della loro preparazione culturale, dunque le esperienze ingegneristiche tecnico scientifiche stanno bilanciando la prevalenza della cultura umanistica. La trasformazione dei partiti in strumenti di reclutamento dell’élite costituisce il fattore alla base di questi fenomeni, ma è sempre più evidente, parallelamente al percorso di ridimensionamento dei partiti stessi l'atteggiamento dei singoli parlamentari di voler assomigliare ai propri cittadini di riferimento. Parlamenti, leggi e processi decisionali I parlamenti e i congressi sono organi chiamati a produrre leggi e tenere ordinato l'insieme delle fonti normative di un determinato sistema. Si hanno tre dimensioni sulle quali misurare l'effettivo impatto decisionale delle istituzioni rappresentative: - azioni dei singoli rappresentanti eletti costituisce una prerogativa fondamentale per fare di un singolo individuo un attore credibile nei processi decisionali. Sotto questo aspetto, si può affermare che i parlamentari pur essendo formalmente uguali dentro l'aula hanno un peso decisionale diverso - Dimensione delle facoltà legislativa in senso stretto che gioca una parte fondamentale nella quantità di poteri rimasti in mano ai parlamentari di fronte alla facoltà di agenda, iniziativa riserva legislativa delegata al governo - Sul piano della capacità di interdizione durante i flussi decisionali, un fatto di fondamentale importanza costituito dalle regole che consentono ai legislativi di rallentare se non bloccare l'azione del governo Un complesso di regole pratiche spiega anche il ruolo del parlamento nei processi correzione della finanza pubblica che già nella seconda metà del XX secolo sono diventati una componente essenziale del calendario politico istituzionale. Più recentemente, un fortunato filone di studi approfondito proprio il tema della disciplina di bilancio ovvero la ricerca di una procedura adatta per favorire il comportamento esemplare tutte le istituzioni coinvolte nel processo. Controllo sul governo e ruolo dell’opposizione Il tema della politica finanziaria nelle analisi dei processi di bilancio porta alla funzione parlamentare di controllo sul governo. Il rapporto tra organo legislativo ed esecutivo e, in particolare, l'articolazione esecutivo-maggioranza-opposizione mette in evidenza l'importanza di una misurazione della forza istituzionale del governo, ma anche il problema della natura unitaria più o meno del sostegno politico di maggioranza. L'intreccio di queste variabili genera una molteplicità di configurazioni con le quali il legislativo può contrastare e controllare la le attività di governo: - question time direttamente rivolto ai responsabili della conduzione di governo - Azioni di sindacato ispettivo (interrogazioni, interpellanze) - Audizioni nell'ambito delle facoltà informative legislative - Inchieste Questa classificazione porta a una valutazione relativa all'ordine dell'uso dei vari strumenti: question time le azioni volte specificatamente al responsabile azione governo solo uno strumento tipico dei sistemi maggioritari, dove l'esecutivo viene fuso con la maggioranza parlamentare e viene incalzato dall'opposizione. Le altre attività di potere ispettivo possono invece contenere gli obiettivi più diversi. Le audizioni costituiscono uno strumento utile per varie finalità, ma orientato essenzialmente alla ricerca di una credibilità dell'interesse dell’azione parlamentare che intende avvalersi di queste prerogative per conoscere il punto di vista delle informazioni provenienti dalla società civile così come gli altri poteri di Stato. Le inchieste, infine, si rifanno alle facoltà aggiuntive degli organi legislativi e alla loro autonomia rispetto ai poteri dello Stato. La maggiore complessità dei sottoinsiemi decisionali ha comportato il bisogno da parte dei massimi istituzioni che rappresentano la politica nazionale di verificare la legittimità di una serie di procedure e la coerenza tra gli esiti che scaturiscono da tali procedure la volontà generale. LE ASSEMBLEE TERRITORIALI O PICCOLI PARLAMENTI? Il tema dei rapporti tra Unione Europea e parlamenti nazionali ci conduce verso una problematica più ampia che può essere definita come lo sviluppo dell'assemblea risma in un sistema politico multilivello, ovvero la proliferazione di strutture della rappresentanza al di sopra al di sotto del livello è stata un'azione. In particolare, cambia il ruolo delle assemblee territoriali o subnazionali e si impongono forme complementari di essere assemblearismo sovranazionale. Il ruolo delle assemblee territoriali nel sistema politico Il primo elemento da mettere a fuoco è quello della crescita reputazionale delle assemblee territoriali. Infatti, in 42 democrazie contemporanea, sia il livello complessivo di potere legislativo delle assemblee subnazionali che la loro capacità di controllo sull'operato del governo centrale è aumentato in modo consistente, tanto da spingere gli autori a parlare di un'era regionalizzazione dei sistemi politici. Negli ultimi decenni si sono imposti anche percorsi più complessi di collaborazione interistituzionale che attribuiscono alle assemblee regionali compiti di monitoraggio su specifici processi decisionali o addirittura la competenza su interi settori di politiche pubbliche che vengono sottratte dal legislatore centrale. Da qui nasce una situazione - Il premierato elettivo è una forma di governo nella quale la legittimazione personale popolare del capo dell’esecutivo non corrisponde un mandato garantito ma deve essere confermato nel tempo e dalla fiducia parlamentare. Il giudizio sostanzialmente critico che ha accompagnato l'unica applicazione empirica di tale modello di democrazie contemporanea l'esperienza israeliana tra il 1996 al 2003 che però non ha tuttavia cancellato la popolarità della soluzione del premierato elettivo. La variabilità più evidente si conferma intorno al terzo tipo quello del semipresidenzialismo, identificato con il sistema della V Repubblica francese, esso consta di un governo rispondente al legislativo, coerentemente con il parlamentarismo di stampo europeo, di un capo di Stato elettivo, che condivide i poteri esecutivi con il Primo Ministro, di cui tende ad azzerarne la figura quando è dello stesso colore politico del presidente stesso. Formazione, fiducia e crisi. Vincoli costituzionali e procedurali sul sistema di governo Due dimensioni affiancano le attività dell'esecutivo: la dimensione dell'operatività e del rendiconto, ovvero della responsabilità assunta dai governanti. All'interno del parlamentarismo si possono vedere gli effetti intervenienti di una serie di precetti a cominciare dal processo di formazione: è vero che in tutti i parlamentarismi il governo è legittimato per via indiretta attraverso le camere, ma il suo processo di formazione può essere regolato in modi diversi in modi diversi, alcuni più semplici e altri più complessi. L'esistenza di una specifica procedura per celebrare la fiducia parlamentare è un ulteriore elemento che sposta nell'arena parlamentare nella fase post elettorale alcune importanti decisioni su chi e come si governerà. Dove questa procedura non esiste sono i risultati elettorali e quindi le decisioni prese dei competitori partitici prima della competizione elettorale a trovare un'automatica applicazione. Tuttavia, esistono anche varianti costituzionali del parlamentarismo positivo che lo proteggono dal rischio di eccessiva instabilità: è il caso dell'istituto la cosiddetta sfiducia costruttiva che vige in Germania in Spagna dove la camera bassa può ritirare la sua fiducia a un dato governo, in corso di legislatura, avanzando però un nuovo nome per la guida del governo che viene investito con lo stesso voto. La delega ministeriale e il rapporto tra capo del governo e ministri Come vengono prese le decisioni che competono all’esecutivo? Nel caso del presidenzialismo la legittimazione diretta del capo di Stato a cui conferisce il potere esecutivo nella sua interezza. In questo senso, il presidenzialismo rappresenta la paradossale continuità di un principio monocratico. L'effetto di questo paradosso è di creare una situazione di governo del leader, capace di dominare il consiglio dei propri collaboratori con poteri assoluti di delega, nomina e licenziamento. Questa enorme estensione del potere esecutivo viene bilanciata non dentro il governo ma torno adesso con i pesi e contrappesi disegnati nel sistema federale a poteri separati: un forte legislativo, una corte suprema a tutela del sistema giurisdizionale, l'autonomia e la pressione degli Stati membri. Nel governo retto sul rapporto di fiducia tra legislativo ed esecutivo lo spazio di variazione del rapporto tra capo del governo e ministri, spazia tra una significativa applicazione del principio monocratico, grazie alla quale il capo del governo ha pieni poteri di scelta sulla squadra ministeriale e ne dirige il lavoro obbligando i singoli ministri a determinare azioni, fino alla piena applicazione il principio collegiale, nella quale un primus inter pares governa assieme ai ministri che ha proposto. Il primo dei due modelli si presenta quando il sistema bipartitico e il sostegno parlamentare da parte del solo partito vincitore garantiscono una sorta di fusione tra esecutivo e maggioranza parlamentare. Tale modello è esemplificato storicamente dal caso britannico definito governo del Primo Ministro oppure premiership. All'estremo opposto troviamo invece un governo collegiale che caratterizza alcuni parlamentarismi europei tra cui anche l'Italia della prima Repubblica. Anche sistemi duali nei quali un presidente eletto contende il potere esecutivo al governo parlamentare, possiamo applicare un simile range di variazione. Nel semipresidenzialismo francese si ha coabitazione tra un presidente e un governo di due partiti avversi che rende i rapporti tra i due leader dell’esecutivo e i ministri molto complesso: il Primo Ministro rimane dimezzato dal Presidente della Repubblica che però non può intervenire sulla delega dei ministri. Anche in un contesto di fusione tra maggioranza parlamentare e presidenziale non è comunque detto che il dualismo tra i due leader non possa generare qualche elemento di tensione, specialmente quando la maggioranza è prodotta da una coalizione. In ogni caso il Presidente la Repubblica non può fare e disfare il gabinetto, pertinenza esclusiva del Primo Ministro che ne risponde all'assemblea nazionale. Il massimo livello di controllo presidenziale si ha quando si realizzano due condizioni di coerenza tra la maggioranza parlamentare presidenziale e dell'unità di partito nel cartone o nel cartello presidenziale. Si può quindi dedurre che il sistema francese comporta sempre un minor livello di applicazione del principio monocratico rispetto al presidenzialismo puro. In quest'ultimo può verificarsi la situazione degli studiosi che chiamano governo diviso o governo dell'anatra zoppa, nella quale la maggioranza legislativa di colore diverso da quello il presidente può tenere in scacco quest'ultimo osteggiando le misure prese dall'amministrazione. Approcci recenti hanno combinato una dettagliata analisi empirica di lungo periodo con spunti teorici diversi, inclusi alcuni riassunti della Rational Choice e hanno elaborato ampie riflessioni sulla variabilità dei sistemi di governo democratici, al fine di controllare l'effettivo comportamento della delle diverse soluzioni istituzionali. In particolare, l'utilizzo della teoria della delega nell'analisi dei processi di formazione e interruzione dei governi conferma l'evidente distanza di due modelli che possono essere empiricamente associati al modello parlamentare e presidenziale. Il primo modello comporta una catena di deleghe in cui l'unitarietà e quindi la coesione di ogni agente rispondono al proprio principale sulla base di una chiara attribuzione di deleghe. L'applicazione rigida del modello minimizza i rischi di deviazione del rapporto di delega e quindi gli squilibri evidenti tra aspettative reali comportamenti. Questo idealtipo sarà dunque caratterizzato, osservando i vari anelli della catena, da primi ministri con una forte delega parlamentare, da ministri con ampi spazi di manovra sottoposto allo screening del premier stesso con che giudica i suoi ministri, infine da un rapporto ugualmente biunivoco e trasparente tra ministri ora divenuti i principali agenti, Il modello della delega attuale invece è connotato da rapporti ugualmente univoci e trasparenti, che tuttavia sviluppano delle due strade parallele, poiché l'elettorato presidenziale e quella del congresso sono tecnicamente diversi anche se attivati contestualmente. Il presidente ha ampi poteri di delega ma è sottoposto allo screen del congresso così come gli agenti del parlamento indica incaricati delegare i compiti di attuazione legge alle agenzie governative. GOVERNI, PARTITI E TEORIA DELLE COALIZIONI La dimensione partitica del governo La democrazia moderna esprime sempre un governo di partito, nel senso che la corrispondenza tra leader partitici in competizione e i futuri governanti, così come tra manifesti elettorali e future agende di governo, è sempre diretta e spesso addirittura asimmetrica. Quando si ritiene che questo legame sia scarso, può capitare che si sollevi da parte degli intellettuali il bisogno di un governo di partito capace di rendere responsabile e ordinato il passaggio tra la sfera della mera rappresentazione delle idee a quella sintesi che dovrebbe condurre all'indirizzo politico e saggio. Quando invece i partiti sono troppo presi in società è facile riscontrare un discorso pubblico apertamente antipartitico. Richard S. Katz ha messo in elaborazione empirica del concetto di party government: il governo di partito si realizza quando le decisioni vengono prese da un personale di partito eletto nelle cariche più rilevanti dell'esecutivo, le politiche pubbliche sono gestite all'interno dei partiti, che agiscono con sufficiente coesione nella difesa di tali piattaforme e i detentori delle cariche sono reclutati e agiscono come rappresentanti del proprio partito nella loro esperienza di governo. Michael D. McDonald e Ian Budge hanno confrontato la capacità dei partiti di fare ‘agenda di governo’ dimostrando che l'inerzia del governo e la natura declaratoria dei manifesti partitici producono un basso livello di impatto dei partiti nell'azione di governo, un'argomentazione presente sviscerata anche da altri studi settoriali delle politiche pubbliche. L'analisi qualitativa comparata di Jean Blondel e Cotta aiuta a capire quali sono i fattori specifici di un dato sistema o di un altro tipo che spiegano un forte impatto dei partiti nell’azione di governo. Questi ultimi contributi, inoltre, hanno cercato di superare l'originaria definizione di party government per individuare la soglia di sotto dimensioni nelle quali questo complesso rapporto prende le forme più disparate. La teoria delle coalizioni Uno dei campi di azione dell'approccio razionalista che spiega i fenomeni politici assumendo il comportamento individualista dei soggetti coinvolti e lo studio dei governi considerando i partiti come giocatori impegnati a contendersi varie poste durante i processi di formazione funzionamento degli esecutivi. In particolare le domande a cui i fautori delle teorie delle coalizioni, William Gamson e William Riker, hanno cercato di rispondere sono: 1. chi forma una coalizione? 2. come vengono distribuiti i portafogli ministeriali? 3. Quali fattori spiegano l'equilibrio della coalizione o, al contrario, la fine di un'esperienza di coalizione? Seguendo lo schema prevalente nell'ampia letteratura dovremmo distinguere tra tre tipi di contributi: i modelli classici dove i giocatori sono rigidamente considerati office seeking, i modelli incentrati sulla natura policy seeking dei partiti e i modelli razionali che mantengono centrale il ruolo giocato da alcune istituzioni. I primi contributi formalizzati negli anni ’60 introducevano il semplice assunto della coalizione minima vincente, ovvero quella coalizione che diventa perdente con la sottrazione di un solo giocatore, una coalizione risicata che tuttavia garantisce ai partner la più conveniente allocazione delle soglie in palio. Questa argomentazione razionale dovrebbe essere sufficiente per permettere la formazione di un governo composto dai due partiti che raggiungono la più risicata delle maggioranze possibili in parlamento. La coalizione minima vincente sarà la coalizione con il minor numero di partiti, a prescindere dall'esistenza di soluzione con maggioranze ancora più risicate. Proseguendo con l'argomentazione relativa all'importanza della continuità politica degli attori, per consuetudine presentati in un continuum da destra a sinistra, troviamo l'ulteriore contributo teorico della maggioranza minima connessa che, basandosi sull'assunto della natura unidimensionale dello spazio politico, impone un esito diverso. Questa coalizione consiste nell'inclusione di un partito piccolo vicino ai loro ideali di modo che si possa garantire coerenza politica alla maggioranza. Gli studi basati sulla teoria delle coalizioni a distanza minima introducono il tema della riduzione della distanza ideologica tra i partner, che comporta la conoscenza dell'effettiva affinità nelle posizioni programmatiche, che contesta la previsione di una probabile coalizione basata su un numero più ridotto possibile di giocatori. Tuttavia, se il partito estremo venisse considerato antisistema, o comunque non così vicino agli altri partiti collocati su quel versante politico, e quindi con un potenziale di coalizione troppo basso, potrebbe scattare una seconda soluzione centrista comprendente due partiti maggiori dello scenario politico. La somma di incentivi contrari alla coalizione minima può portare, in contraddizione con gli assunti delle prime teorie delle coalizioni, a una serie di soluzioni oversize, cioè coalizioni fatte di un numero di partiti più alto rispetto a quello atteso, in modo da condividere gli onori ma anche gli oneri di un difficile governo. L'argomentazione del calcolo costi-benefici di una data coalizione è stato il punto di partenza dei contributi basati sull'approfondimento delle reali capacità di coalizione degli attori in lizza. La seconda generazione delle teorie di coalizione si è concentrata sull'esistenza di compensazioni policy seeking per la partecipazione a un'esperienza di coalizione. Viene quindi spiegata l'importanza dello spazio di contrattazione che genera risultati assai diversi a seconda della possibilità di accordi interpretati sulle questioni centrali sull’agenda. I risultati più noti delle ricerche di questo filone di studio sono sintetizzabili come la teoria delle coalizioni a maggioranza contratta, e si sviluppano grazie a studi che hanno il merito di riprodurre la capacità predittiva generalizzata della teoria a favore dei modelli più verosimili. Michael Laver e Kenneth A. Shepsle impostano un lavoro ricco di spiegazioni narrative che rafforzano l'importanza dello spazio di contrattazioni nella formazione e nella crisi dei governi, formalizzano quindi un modello in cui le preferenze dei vari attori partitici in almeno due settori di politica pubblica genera uno spazio per compromessi accettabili la cui sovrapposizione sarà capace di spiegare la propensione a determinate condizioni piuttosto che altre. Tendenzialmente sono i partiti che controllano l'elettore mediano ad avere i win sets più compatibili con gli altri e quindi la possibilità di costruire la futura collezione. Tuttavia, aumentando le variabili intervenienti e la complessità nelle preferenze degli attori si può vedere che nessuna soluzione si riveli accettabili per gli attori richiamati al governo. Questa situazione è alla base della spiegazione del fenomeno diametralmente opposto alla ricerca della maggioranza, il governo di minoranza dove un esecutivo è affidato a un partito o cartello partitico considerato non estremistico o antisistema, tenuto in vita da un appoggio esterno. In questo caso, i governi di minoranza sono classificabili vicino a quelli integralmente tecnici comparsi occasionalmente in situazioni di crisi. Kaare Strøm in uno studio ha dimostrato che c'è un secondo tipo di governo minoritario che va considerato come una soluzione ordinaria, dettata dai costi di coalizione giudicati troppo elevati da parte di alcuni giocatori. Questo spiega perché in alcuni paesi come le democrazie nordiche, la soluzione minoritaria è stata la norma più che l'eccezione nel corso del secondo dopo guerra che produce governi stabili capaci nonostante una base di appoggio parlamentare limitata. Un discorso evolutivo non dissimile può essere fatto riprendendo gli studi che hanno affrontato l'altro tema tradizionale delle studio delle coalizioni ovvero come si allungano le spoglie ministeriali tre partiti e coalizioni. Anche in questo caso si passa da una generazione intuitiva ma incapace di spiegare tutte le implicazioni del fenomeno a teorizzazioni più raffinate e basate sul potenziale di coalizione e sulla policy seeking. Gli studiosi di terza generazione dell'est delle qualità della teoria delle coalizioni, vicini alla porta all'approccio della Rational Choice e peculiarità delle politiche urbane e metropolitane di oggi. Sul primo punto si può indicare a titolo di esempio l'impatto della ricerca comparata sulla classe politica locale e sulle istituzioni esecutive nelle grandi città. Circa la seconda dimensione di analisi, si può vedere la peculiarità nelle politiche pubbliche urbane, varie ricerche comparate hanno mostrato il contributo crescente che tale sfera di azione pubblica offre il complesso del policy making globale. Il punto più rilevante dello sviluppo del governo territoriale, ai fini di questa presentazione introduttiva sul mutamento che sta avendo il concetto esecutivo nel contesto democratico, È quello relativo all'impatto esercitato dalla sfera locale sul sistema di governo complessivo. L'istituto del governo locale metropolitano sono i veri protagonisti di un sistema crescente di condizionamenti e di interventi pubblici che non si esplicita tanto nell'attività istituzionale ordinaria, quanto nella formazione di soggetti misti, come le agenzie territoriali ed agenzie partecipate, che hanno il compito di spendere risorse anche pubbliche per garantire implementare politiche pubbliche locali. La crescita della governance locale ha effetti indiretti sulla struttura dell'élite politiche e sulla stessa leadership centrale. Anche in questo caso bisogna evidenziare che si tratta di un trend comune a molte democrazie, incluse quelle che hanno sempre seguito un modello centralistico di organizzazione statale di ceto politico. In Italia, le figure dei sindaci e dei leader locali hanno costituito negli anni 90 il punto di ripartenza di un percorso di costruzione del ceto politico. CAP VIII: AMMINISTRAZIONE E BUROCRAZIE BUROCRAZIA OVVERO LA GESTIONE QUOTIDIANA DEL POTERE Da sempre i decisori politici hanno percepito l'amministrazione come un problema, così come da sempre hanno dovuto fare i conti con la sua indispensabilità, infatti il rapporto tra decisione politica e amministrazione è molto complesso. La politica in azione, sia nella fase di elaborazione delle decisioni, sia nella fase di attuazione, vede nelle burocrazie una protagonista fondamentale. Il ruolo della burocrazia essenziale per il perseguimento di uno dei fini ultimi della politica: il mantenimento dell'ordine sociale. Max Weber ricorda come in uno Stato moderno, il potere reale, che non si manifesta nei nei discorsi parlamentari in dichiarazione di brani, bensì nel manovrare l'amministrazione della vita quotidiana, sta necessariamente inevitabilmente nelle mani della burocrazia, sia militare che civile. Se, come sostiene Marx Webber, la politica è la gestione quotidiana del potere le burocrazie risultano essere attori politici fondamentali per la comprensione complessiva di che cos'è e come funziona la politica. Burocrazia ha un doppio significato: da una parte la burocrazia è uno specifico modo di organizzare un insieme di persone, dall'altra parte è uno specifico modo di organizzare un insieme di ufficio. I CONCETTI DI ‘BUROCRAZIA’ E DI ‘PUBBLICA AMMINISTRAZIONE’ Vincent de Gourmay coniò il nuovo termine di burocrazia, egli era un funzionario pubblico francese vissuto nella prima parte del XVIII secolo, che riflettendo sulla propria esperienza professionale sulla base della propria visione dell'economia il termine burocrazia per stigmatizzare come la Francia è dominata da una casta di impiegati, funzionari intendenti. Il concetto moderno di burocrazia nasce, pertanto, con l'accezione negativa che nei secoli successivi riaffiora nel dibattito pubblico. Il termine deriva da kratos = dominio e bureau= ufficio. Durante tutto l'ottocento, in Europa si sviluppò un acceso dibattito intellettuale sul concetto di burocrazia che vede grande coinvolti grandissimi studiosi come Tocqueville che teorizzarono la burocrazia come forma di governo antitetico alla democrazia, Gaetano Mosca distinse invece le forme di governo in feudale burocratico. Alla fine di questo percorso si colloca il contributo di Max Weber che traghetta il dibattito sulla burocrazia nell'ambito della filosofia della teoria politica all'ambito delle scienze sociali e ne dà una definizione: la burocrazia è l'apparato amministrativo tipico del potere legale, distingue quest'ultimo dal potere tradizionale, il cui apparato amministrativo è costituito dalla nobiltà e dal potere carismatico. Per Weber la burocrazia è l'elemento fondamentale della formazione dello stato moderno e della trasformazione della sua natura infatti afferma il progresso verso un con un corpo di funzionari e burocratico, fondato sull'assunzione, sullo stipendio, sulla pensione, sull'avanzamento, sull'informazione specialistica e sulla divisione del lavoro, su competenze fisse, sulla conformità agli atti, sulla subordinazione e sulla sovra ordinazione gerarchica, costituisce il criterio il trattamento univoco di modernizzazione dello Stato. La burocrazia si caratterizza per i seguenti elementi costitutivi: gerarchia, divisione del lavoro, imparzialità nei comportamenti, impersonalità nelle relazioni interne di esterne, elevata specializzazione, professionalizzazione e reclutamento basate su regole certe promozioni basate sul principio di anzianità o sul merito. Questo tipo di organizzazione per Weber non solo è l'espressione della prevalenza del potere legale ma è anche una forma di organizzazione efficiente delle funzioni statuali. Queste caratteristiche costitutive rendono le burocrazie particolarmente capaci di produrre un senso di affidabilità nei decisori politici e di godere di una persistente legittimazione agli occhi dell'opinione pubblica infatti, dopo trent'anni di riforme ispirate al cosiddetto new public menagement che hanno cercato di superare di del tipo di burocrazia weberiana per introdurre meccanismi e stili organizzativi di tipo aziendalistico e imprenditoriale, molti osservatori ricercatori vedono il ritorno di forme di azione pubblica in cui le caratteristiche della definizione sembrano ritornare. L'idealtipo burocratico di Max Weber è pertanto un punto di riferimento essenziale per l'analisi del comportamento amministrativo e per il ruolo che le politiche le pubbliche amministrazioni svolgono il processo politico. Il new public management spinge i burocrati a uscire dal tradizionale sistema di controllo delle procedure per enfatizzare la funzionalità dei processi. Gli obiettivi diventano manageriali, mentre l'enfasi convenzionale basata sul potere dei dirigenti viene sostituita dagli obiettivi di ogni singola unità amministrativa corrispondente alla responsabilità di uno Stato dirigente. La trasparenza e l'apertura all'informazione all'interno dell'organizzazione prendere il posto della tradizionale riservatezza di burocrati, mentre la struttura burocratica tende a un processo di accentramento e specializzazione. Il concetto di pubblica amministrazione è un concetto più ampio rispetto a quello di burocrazia, se infatti è vero che la gran parte delle organizzazioni pubbliche è a carattere burocratico, è anche vero che in queste stesse amministrazioni possono coesistere elementi organizzativi di tipo non burocratico. Un esempio è lo spoil-system, cioè quelle nomine politiche dei dirigenti pubblici che stanno all’ opposto dell'idealtipo weberiano . Inoltre, si possono osservare delle pubbliche amministrazioni senza Stato come ad esempio le organizzazioni internazionali.. La pubblica amministrazione può essere definita in termini funzionali o in termini strutturali. Guy Peters spiega come dal punto di vista funzionale, l'amministrazione può essere intesa come un insieme di attività mediante le quali si attuano norme, ovvero come la traduzione di regole generali in decisioni specifiche. Dal punto di vista strutturale, le pubbliche amministrazioni sono l'insieme degli apparati organizzativi la cui primaria finalità è quella di svolgere le funzioni richieste dalle decisioni politiche formalizzate. GLI ELEMENTI COSTITUTIVI DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE La struttura e l’organizzazione Per struttura intendiamo l'insieme dei principi costitutivi mediante i quali sistemi amministrativi nazionali vengono disegnati, per organizzazione facciamo riferimento alle caratteristiche mediante le quali le amministrazioni impostano le proprie attività. Lo studio più importante è quello di Luther Gulick che sottolinea l'esistenza di quattro principi medianti quali articolare gli assetti strutturali delle pubbliche amministrazioni: 1. Il criterio territoriale è quello in cui le differenze tra le diverse tradizioni e storie amministrative appaiono più evidenti, poiché l'evoluzione dei sistemi amministrativi ha condotto a modifiche contaminazioni di tratti originari. Questo criterio distingue tra quei sistemi amministrativi nazionali che sono tendenzialmente centralizzati e che quindi hanno unità amministrative centrali che operano su tutto il territorio nazionale con uffici decentrati e sistemi amministrativi che hanno una segmentazione di apparati amministrativi che insistono nella stessa area di politica pubblica. 2. Il criterio del processo rimanda alle modalità sistemiche mediante le quali le pubbliche amministrazioni operano e all'articolazione della divisione del lavoro tra le strutture amministrative. Una modalità è quella di organizzare i processi amministrativi di modo che i ministeri svolgano al tempo stesso l'attività di progettazione, attuazione e controllo delle attività. C'è poi il caso di strutture organizzative in cui invece c'è una separazione tra l'apparato che ha il compito di progettare controllare l'intervento e l'apparato pubblico che attua le politiche. Un'altra modalità di articolare i processi amministrativi rappresentato dalla creazione di autorità indipendenti che hanno la finalità di regolare e indirizzare un settore di politica pubblica al fine di preservare e tutelare l'interesse collettivo. 3. Il criterio relativo ai destinatari o all'oggetto trattato invece, fa riferimento al fatto che l'articolazione istituzionale dell'amministrazione può andare a configurarsi in modo tale da focalizzare la propria attenzione su uno specifico gruppo di interesse o settore della società. Peters fa giustamente notare che questo principio di organizzazione per clientele può diventare organizzazione a favore di clientele. Si tratta di un tipo di organizzazione che può essere confusa con l'organizzazione per specifici settori della politica pubblica ma che si caratterizza per il fatto di concentrarsi su uno specifico gruppo di riferimento. 4. Il criterio organizzativo dell'obiettivo da raggiungere è un po' problematico, se è vero che ogni struttura amministrativa viene creata con un fine specifico, è anche vero che l'obiettivo organizzativo originario può modificarsi anche in modo significativo. Le decisioni su questa dimensione delle amministrazioni sono meramente politiche basate sulla cultura dell'amministrazione e le caratteristiche di un determinato sistema politico. Le pubbliche amministrazioni sono organizzazioni e pertanto le modalità mediante le quali vengono declinate le fondamentali dimensioni che caratterizza l'agire amministrativo sono particolarmente significative. Le teorie organizzative ci insegnano che le dimensioni più significative sono: il livello di formalizzazione, le modalità di distribuzione dell'autorità, il tasso di socializzazione, il livello di centralizzazione, il livello è il tipo di professionalizzazione. In particolare, l’idealtipo burocratico weberiano si caratterizza per un'elevata formalizzazione e gerarchizzazione, per una forte centralizzazione decisionale, per un'elevata professionalizzazione anche se con specializzazioni tendenzialmente monodisciplinare. Il tipo imprenditoriale, invece, a una formalizzazione più bassa, la gerarchia è moderata, la struttura organizzativa è fortemente decentrat, la professionalizzazione invece elevata ma pluridisciplinare, è presente una consistente capacità di leadership da parte dei vertici dell’amministrazione. Il personale Le modalità con cui il personale pubblico viene reclutato, selezionato, promosso incentivato costituiscono un elemento chiave per indirizzare le capacità dell'azione amministrativa. Anche su questa dimensione, il punto di partenza di ogni riflessione è costituito dal modello burocratico, nel quale le caratteristiche del pubblico impiego erano ben specificate. Si tratta di un modello di organizzazione del personale pubblico che è stato predominante fino alla fine degli anni ’70, mentre a partire dagli anni 80 le diverse ondate di riforma hanno modificato in modo significativo il modello originario attraverso l'introduzione di meccanismi e strumenti di gestione provenienti dal mondo del lavoro privato. L'organizzazione del personale del modello burocratico tradizionale è caratterizzata da una selezione basata sul titolo di studio, scarsa mobilità verso il privato, forme accentrate di reclutamento, immobilità del posto, elevato spirito di corpo, progressione della carriera basata sull'anzianità, rappresentatività della società, rapporto di lavoro fondato perlopiù sulla legge con poco spazio per la contrattazione. Nel corso degli ultimi decenni sono stati introdotti i principi di organizzazione del personale pubblico che hanno fortemente ridotto di rigidità del modello storicamente sedimentato. Tra questi si hanno la specializzazione professionale, l'elevata mobilità tra impiego pubblico impiego privato, le forme decentrate di reclutamento, la contrattazione collettiva, la retribuzione parzialmente legata alla performance individuale sono stati variamente introdotti nei paesi occidentali a partire dal modello anglosassone. Le procedure Il modello burocratico tradizionale è caratterizzato intrinsecamente da una logica procedurale basata semplicemente sul rispetto delle leggi e delle norme. In questo contesto lo scopo dell'amministrazione è quello di applicare o attuare la legge, invece nel mondo anglosassone le procedure amministrative non sono mai state unidirezionali ma ci sono caratterizzate per un forte coinvolgimento di gruppi di interesse e del ruolo dei giudici. Il modello burocratico di azione amministrativa è stato progressivamente contaminato dall'introduzione di nuovi strumenti e di nuovi principi procedurali mutati mutuati dal mondo delle organizzazioni private. La pianificazione per obiettivi, il controllo di gestione, la valutazione del personale delle performance istituzionali, la trasparenza e il diritto di accesso dei cittadini, l'utilizzo massiccio del government hanno radicalmente innovato le modalità di azione delle amministrazioni, pure all'interno delle traiettorie amministrative nazionali. Queste trasformazioni delle procedure hanno implicato un aumento di complessità dei processi decisionali che non sono più lineari, in quanto caratterizzati da un'azione unidirezionale delle pubbliche amministrazioni, ma sono basati su continue interazioni tra più attori. Tale apertura verso l'esterno delle procedure amministrative ha degli effetti non irrilevanti nel rapporto tra politica amministrazione e cambia anche il quadro di riferimento nel quale si colloca l'azione le pubblica amministrazione. Maggiore apertura significa esigenza di maggiore capacità di risposta e Questa diversità di vedute deriva dal fatto che ciascuna prospettiva teorica tende enfatizzare alcuni aspetti rispetto ad altri della complessa interazione tra politici e burocrati. In questo senso, deve essere apprezzato il realismo analitico della prospettiva della politica burocratica che suggerisce non solo di contestualizzare le relazioni tra politici e burocrati, ma anche di non enfatizzare in una logica di separazione nella logica di conflitto permanente quanto piuttosto una di integrazione dinamica. Questa integrazione può assumere caratteri competitivi e cooperativi nella quale ciascuno dei due attori mette in gioco le risorse a propria disposizione al fine di ottenere dei vantaggi. I politici possiedono quindi tre risorse fondamentali: la legittimità, il controllo delle risorse finanziarie il potere di decidere. I burocrati, invece, possono contare su: competenza tecnica, stabilità, forza delle ideologia burocratica e possibilità di mobilitare gruppi di interesse di riferimento per la propria sfera di azione. Queste risorse rendono i politici e burocrati sia capaci di stringere di stringere alleanze sia di perseguire strategie autonome, ma anche li rende anche dipendenti gli uni dagli altri. L’amministrazione e i processi decisionali Il ruolo delle pubbliche amministrazioni nei processi decisionali non è ridotto dal rapporto tra politici e burocrati, infatti le amministrazioni nella loro azione quotidiana interagiscono continuamente con la società e con il sistema politico a tutti livelli istituzionali. È importante porre attenzione alle modalità con le quali le amministrazioni agiscono nei processi decisionali. Dalle amministrazioni vengono infatti raccolte le informazioni sulla base delle quali i decisori politici decidono, nelle amministrazioni sono scritte le proposte di legge i progetti di politica pubblica. In questo senso l'apoliticità delle amministrazioni è un dato oggettivo proprio perché le pubbliche amministrazioni sono attori politici e devono interagire con gli altri attori divenendo al tempo stesso ricettori di richieste, pressioni, domande sociali si tratta di interazioni con il mondo esterno che possono prendere diverse forme più o meno legittime e trasparenti. I gruppi di interesse svolgono continuamente la loro attività di pressione a tutti livelli dei processi decisionali, dalla formazione dell'agenda all'implementazione. Le amministrazioni hanno un evidente convenienza non solo istituzionale a interagire con i gruppi di interesse per ottenere risorse importanti per la loro azione: informazioni, autonomia e potere. In questo senso le amministrazioni come tutte le organizzazioni hanno bisogno di strutturare relazioni con l'ambiente esterno, la ricerca di quell'interdipendenza che consente loro di sopravvivere scambiando risorse e diminuire il tasso di incertezza rispetto all'ambito della propria azione. Peters ha individuato quattro tipi di relazioni che le amministrazioni possono instaurare con i gruppi di interesse: - le relazioni legittime sono quelle relazioni che sono consentite, se non addirittura formalmente richiesto all'interno di un sistema politico. Questo tipo di relazioni è sempre più diffusa nei sistemi occidentali dove la legislazione richiede che vi sia il coinvolgimento diretto nella fase di attuazione di una politica dei principali portatori di interesse all'interno della stessa. Il coinvolgimento si verifica, per estensione, e per convenienza di chi ha il compito di decidere anche a livello della formulazione delle decisioni: in questa fase è ormai normale che le amministrazioni preposte a supportare il decisori politico discutano con i portatori degli interessi di riferimento il contenuto dei provvedimenti che si intende prendere. - Le relazioni di clientela sono quelle che per l'amministrazione si verificano quando un gruppo di interesse diventa il rappresentante esclusivo di un determinato settore di politica pubblica. Si tratta di un effetto che può scaturire dalla capacità di prestazione di un gruppo di interesse rispetto agli altri che insistono su un determinato settore e che può portare alla cattura dell'amministrazione di riferimento. Questa relazione assicura il totale monopolio del gruppo di interesse in termini di rappresentanza è un rapporto di dipendenza totale da parte dell’amministrazione. - Le relazioni di parentela sussistono quando un gruppo di interesse ottiene dei benefici diretti e costanti delle amministrazioni grazie alla stretta vicinanza con un partito al governo. In questi casi, il gruppo di interesse ottiene un accesso diretto all'amministrazione di riferimento che, vista la consistente sponsorizzazione politica del gruppo stesso, non può che confermarsi alle sue richieste. Questo tipo di relazione vede svolgere un ruolo relativamente passivo alla pubblica amministrazione è più raro di rispetto a quella clientelare. - Le relazioni illegittime sono quelle che si verificano quando sono presenti gruppi di interesse che non si vedono riconosciuti sufficiente rappresentanza oppure che sono esclusi per motivi politico-ideologici da relazioni significative con le amministrazioni. È un tipo di relazione particolare, nella quale le amministrazioni possono avere sia un ruolo passivo o attivo. Si tratta di una relazione che può manifestarsi nei settori di politica pubblica caratterizzati da relazioni clientelari o di parentela. DEMOCRAZIA E PROBLEMI DELL’AMMINISTRAZIONE Le burocrazie sono delle organizzazioni con un elevato tasso di gerarchia basata sulla competenza tecnica che offrono alla politica democratica il modo per potere realizzare le sue politiche ma sono anche situazioni che possono sviluppare logiche autonome di funzionamento e culture organizzative che non necessariamente sono coerenti con l'esigenza politica democratica. L'esigenza di accountability, intrinseca ai processi decisionali democratici è una sfida continua per i decisori politici. Performance, delega e ‘accountability’ L'accountability burocratica può essere sintetizzata come l'esigenza che le amministrazioni rendano conto del loro operato in modo trasparente e continuativo ai responsabili politici e quindi alla collettività. Questa esigenza si è evidenziata nel corso degli ultimi decenni a causa di quelle trasformazioni della politica contemporanea che hanno aumentato la pressione della domanda sociale sulle istituzioni democratiche. I governi si trovano pertanto di fronte alla necessità di controllare l'operato delle burocrazie, alle quali vengono spesso delegate competenze decisionali in senso stretto. Delega politica e accountability democratica sono due facce della medesima medaglia: la divisione del lavoro all'interno dei processi decisionali tra politici e burocrati, tra istituzioni pubbliche pubbliche amministrazioni. La questione dell'accountability non è solo un dato intrinseco dei processi decisionali, ma è anche il prodotto di strategie di delega che i decisori pongono in essere scaricando sulle burocrazie le responsabilità decisionali. Spesso i decisori politici possono approvare leggi nelle quali la definizione degli obiettivi o dei mezzi per raggiungerli ambigua, oppure in cui vengono stabiliti linee di indirizzo generale lasciando la fase di attuazione alla burocrazia. Le deleghe che i decisori politici assegnano alle burocrazie comportano due rischi: - l'azzardo morale, il rischio che gli apparati amministrativi utilizzano la discrezionalità concessa per perseguire fini propri, incoerenti o incongruenti da quelli previsti, questa eventualità è presente nei processi decisionali quando le burocrazie coinvolte non condividono gli obiettivi statuiti. - La selezione avversa è il rischio di sbagliare nella scelta della burocrazia ovvero del meccanismo burocratico a cui affidare determinati compiti: si possono sbagliare l'assegnazione delle competenze attuative tra le diverse amministrazioni oppure il meccanismo procedurale mediante il quale le amministrazioni devono coordinarsi per raggiungere un obiettivo oppure si può sbagliare l'individuazione del dirigente a cui affidare la responsabilità di un determinato intervento. Il circuito performance-delega-accountability burocratica produce una persistente esigenza di controllare l'operato burocratico da parte dei decisori politici. Tuttavia, le necessità di controllo politico non coprono tutta la gamma dell'accountability burocratica ma solo la parte direttamente pertinente con gli obiettivi dei decisori politici l'efficacia delle politiche da essi perseguite. Infatti le burocrazie non devono solo rendere conto ai decisori politici ma devono anche agire nel rispetto della legalità e dei diritti degli individui. Controllo politico della burocrazia e ‘accountability democratica I meccanismi di controllo politico delle burocrazie possono essere esercitati sia a livello legislativo sia livello esecutivo. I meccanismi propri delle assemblee legislative sono di tipo procedurale e di tipo strutturale. Per quanto riguarda gli strumenti procedurali più rilevanti sono: la produzione di una legislazione dettagliata al fine di limitare la discrezionalità burocratica, l'individuazione di meccanismi di monitoraggio che allertino i legislatori rispetto eventuali anomalie, l'uso di strumenti finanziari stringenti vincolanti, l'uso di indicatori di performance, la richiesta di report periodici e l'uso di strumenti di acquisizione di informazioni e come le audizioni. Lo strumento strutturale più importante riguarda la possibilità legislativa di decidere a quale o quali amministrazioni affidare l'attuazione di determinate scelte. A livello di esecutivo lo strumento principale di controllo della burocrazia è rappresentato dalla politicizzazione delle cariche dirigenziali, ovvero all'introduzione di strumenti progressivi di collaborazione reciproca equazione tra attori politici e vertici burocratici, il cui uso si è andato ampliando in modo consistente negli ultimi decenni in tutte le democrazie occidentali. Si è trattato di un processo di notevoli dimensioni che è stato causato anche dalla progressiva attuazione dei principi del new public management. L'accountability democratica si inserisce in uno specifico regime di accountability che è caratteristico di ogni sistema politico e che non è solo dato dagli assetti costituzionali, ma anche dalle caratteristiche costitutive della dinamica del sistema politico. In ogni regime di accountability esistono degli specifici strumenti con i quali si cerca di assicurare l'accountability burocratica. Essi sono: - strumenti legali giudiziari, vanno dalla giustizia amministrativa di alcuni paesi dell'Europa continentale alla rule of law dei paesi anglosassoni, nei quali non esiste un diritto particolare per gli apparati pubblici e ogni cittadino può dire alle corti giustizia qualora si senta discriminato dall'azione amministrativa. - Gli strumenti valutativi sono quelli tipici delle nuove tecniche manageriali: la valutazione delle performance istituzionali individuali, l'individuazione di indicatori di performance da raggiungere, le balance score card. - Gli strumenti informativi sono legati agli obblighi di trasparenza e sono riconducibili alla presentazione di report periodici sulle proprie attività e all'auditing, cioè l'attività di valutazione, da parte di un soggetto terzo, della conformità contabile procedurale di un amministratore di un'attività amministrativa e della sua corrispondenza sostantivo agli obiettivi prefissati - Gli strumenti rappresentativi e partecipativi riguardano sia quelle pratiche di democrazia deliberativa che stanno introducendo in molti paesi, sia la presenza di burocrazie rappresentative della composizione della popolazione. BUROCRAZIE E AMMINISTRAZIONI NEL XXI SECONO. LE SFIDE DELLA GLOBALIZZAZIONE Negli ultimi anni dopo la diffusione delle riforme basate sul new public management si sta prendendo sempre più corpo l'ipotesi di un'evoluzione neoweberiana dello Stato e una riscoperta della burocrazia. Nel caso delle democrazie dell'Europa continentale, emerge la capacità del modello tradizionale burocratico di adattarsi alle sfide contemporanea, mediante l'inclusione di alcune innovazioni che lo modificano ma non lo trasformano radicalmente. Lo Stato si riafferma come principale facilitatore per la ricerca di soluzioni ai problemi della globalizzazione e delle trasformazioni tecnologiche, demografiche e ambientali. Il fatto che la gran parte dei problemi di policy assume una dimensione sovranazionale rende lo Stato, e quindi le sue burocrazie, ancora centrali come attori strategici anche se dotati di una sovranità più limitata. Nei paesi dell'Europa continentale si sta riaffermando il diritto amministrativo seppure aggiornato e modernizzato al fine di perseverare i diritti dei cittadini. Al mantenimento di queste caratteristiche si accompagnano alcuni cambiamenti: - il passaggio dall'azione orientata alla conformità all'azione orientata alla risoluzione dei problemi dei cittadini, mediante la creazione della cultura della qualità del servizio - Il supporto al funzionamento della democrazia rappresentativa con strumenti di partecipazione ampie consultazioni - L'introduzione di meccanismi di controllo ex post e senza abbandonare quelli ex ante Il mescolarsi di vecchio e nuovo crea le condizioni una burocrazia neoliberale: una burocrazia rinnovata che si trova ad agire in processi decisionali sempre più articolati sia livello nazionale sia livello sovranazionale. In particolare la dimensione sovranazionale sia livello di integrazione europea sia a livello di internalizzazione di alcune politiche, emerge come la gran parte le dinamiche di coordinamento e governance caratterizzata da una tendenza a regolare, seppure in modo leggero e diretto ad amministrare. Identificano processi di convergenza tra linguaggi giuridiche delle pubbliche amministrazioni che presuppongono una tendenziale omogenizzazione a livello globale della modalità di azione delle culture organizzative. Emerge come nell'era della globalizzazione dell'internalizzazione le burocrazie non scompariranno ma anzi saranno un pilastro dei processi decisionali a tutti livelli. CAP IX: OPINIONE PUBBLICA, PARTECIPAZIONE E COMUNICAZIONE POLITICA ORIZZONTALE E OPINIONE PUBBLICA Con l'età delle rivoluzioni liberali del XVIII secolo e la conseguente massificazione della politica alla visione verticale della politica si è sostituita quella orizzontale che porta a galla la varietà dei processi politici che non possono più essere ricompresi nell'ambito dello stato e delle sue istituzioni. Tre aspetti hanno contraddistinto accompagnato il processo di democratizzazione e quindi lo sviluppo della politica orizzontale e che sono al centro della stessa qualità della democrazia rappresentativa: l'opinione pubblica, la partecipazione politica e la comunicazione politica. Walter Lippmann afferma che nelle democrazie le opinioni pubblica è il primo motore. Per opinione pubblica si intende l'insieme delle rappresentazioni e immagini che gli individui e i gruppi si formano, più o meno autonomamente, e che ne orientano il comportamento. In genere le che la loro partecipazione possa avere un impatto sul processo politico e quindi valga la pena di compierla. Almond e Powell definiscono cultura politica la costellazione di orientamenti soggettivi e atteggiamenti nei confronti di specifici oggetti politici. Il lavoro di Almond e Verba “The Civic Culture" si propone una tassonomia dei tipi di cittadino: - il cittadino civico. Lo studio di Almond e Verba mise in risalto che il tipo di cultura politica dominante nelle democrazie occidentali allora più stabili era rappresentato da cittadini gruppi che combinavano coinvolgimento e mobilitazione attiva assieme con adesione passiva e apatia. Infatti le democrazie per sopravvivere avevano bisogno oltre che di cittadini informati e competenti, di cittadini leali, ovvero sostanzialmente fiduciosi verso le norme le istituzioni e gli attori della democrazia - Il cittadino insoddisfatto è quello più attivo politicamente, più democratico, più istruito del partecipante standard. Non sono più i settori marginalizzati della popolazione che sono maggiormente privati delle risorse fondamentali a costruire la base di massa per sfidare l'élite, ma sono quelli che hanno livelli relativi ali di risorse partecipative, compreso le abilità, le istruzioni e le reti che li rendono in grado di lanciare o di unirsi alle varie attività delle campagne dimostrative. - Il cittadino autoespressivo. Le trasformazioni della dalla fine degli anni ’60 hanno provocato delle trasformazioni profonde nelle società avanzate le generazioni più giovani avrebbero sperimentato un indebolimento dell'attaccamento ai valori materialistici del benessere a favore dell'emergere dei valori postmaterialisti. Questo cambiamento intergenerazionale avrebbe portato alla ribalta temi inusitati e scontanti così come avrebbe condotto a una più forte rivendicazione di democrazia partecipativa di azione diretta di decentramento. In questo spostamento di valori dei cittadini erano implicite due tendenze: la prima è la politica non convenzionale, la seconda è il trionfo della cultura consumistica post-moderna e a riflusso nel privato. Sono stati definiti come valori auto espressivi caratterizzati da partecipazione democratica, tolleranza, uguaglianza di genere autonomia personale. - Il cittadino apatico ci si riferisce a uomini e donne non necessariamente insoddisfatti ma semplicemente disinteressati, poco informati e scarsamente attivo. Questi cittadini non sono del tutto marginali, anzi di norma tengono d'occhio la sfera politica per cogliere le scelte le situazioni che minacciano i loro interessi. NESSUNO GLIELO CHIEDE: avere le capacità essere motivati e mostrare una certa efficacia politica non sono condizioni sufficienti alla partecipazione. Il paradosso di Olson secondo cui l'individuo comune sarebbe più razionale non partecipare e attendere di incassare i benefici dell'impegno degli altri. Il dilemma di Hirschamn è una risposta il paradosso di Olson: quando le donne gli uomini si impegnano considerano gli sforzi sostenuti non come costi ma piuttosto come parte dei benefici. In breve dal far parte di un partito movimento si ricavano non solo dei benefici estrinseci, ma anche dei benefici intrinseci riconducibili alla dimensione espressiva simbolica della partecipazione. Sotto il primo profilo la partecipazione è il riflesso del coinvolgimento dell'individui in un network di reclutamento attraverso i quali vengono sollecitate e attivate le richieste di partecipazione. Ciò ha due implicazioni: - la prima è che in queste reti si produce e si capitalizza l'insieme di capacità organizzative e comunicative che sono essenziali per prendere parte attivamente - La seconda è relativa alle sedi dove queste competenze possono essere acquisite. Questi elementi sono alla base del cosiddetto modello del volontariato civico secondo cui a fondamento della partecipazione troviamo la vecchia concezione di Tocqueville delle associazioni e delle istituzioni della società civile e di democrazia. A questo elenco vanno aggiunti anche i partiti politici, la partecipazione diventa così prodotto della socializzazione, dell’educazione e dell'organizzazione. Nel tessuto associativo si costruiscono e rafforzano i legami. Questa è la faccia espressiva della partecipazione politica che rimanda al modello dell'identificazione partitica teorizzata da Pizzorno. Per lo studioso si partecipa solo se si è uguali, ma il sentimento di uguaglianza è una costruzione sociale delle attività politiche associative che ci coinvolgono. I partiti di massa hanno per molto tempo fornito tutte queste attività e grazie alla loro capacità di distribuire incentivi divisi in tre categorie: - incentivi individuali o selettivi, perlopiù costituiti da ricompense materiali anche se non esclusivamente economiche - Incentivi collettivi che sono di due tipi: espressivi, quando essi derivano dal sentimento di appartenenza e dalla conseguente solidarietà e di scopo ovvero che conseguono dall'impegno di realizzare certe finalità programmatiche ideologiche comunque associate alle linee strategiche dei partiti - Incentivi organizzativi o di processo, ricavati dal coinvolgimento attivo e dei membri nelle attività decisionali interne e attraverso i meccanismi di delega e decentramento. Quando le strutture di intermediazione politica sono in crisi allora vengono meno anche gli incentivi a prendere parte, quindi la gente non partecipa. È molto vicina a queste spiegazioni sono le interpretazioni che Putman dà alla nozione di capitale sociale che: esso riguarda le relazioni tra gli individui, le reti sociali e le norme di reciprocità e di affabilità che ne derivano. In tal senso il capitale sociale è strettamente connesso a ciò che è stato definito virtù civica. LA COMUNICAZIONE POLITICA Si può parlare di comunicazione politica come comunicazione a due vie o di comunicazione aperta tra autorità e cittadini, il che rende sempre possibile il feedback, cioè una comunicazione di ritorno dai secondi ai primi. In questo senso la comunicazione implica un flusso più o meno costante di informazioni, messaggi, discorsi che investe gli attori del processo politico. La comunicazione è una necessità per la politica dalla quale è difficile sottrarsi e anche la non comunicazione veicola dei significati. Merriam parla di questi aspetti come credenda e miranda del potere politico mentre Laswell li considerava limiti politici, una posizione meno impegnativa si ricava invece dello strutturale funzionalismo di Almond e Powell. Per i due studiosi americani la comunicazione politica costituirebbe una terza funzione sistemica, accanto alla funzione di socializzazione e di reclutamento. La letteratura sul tema della comunicazione politica mette in risalto due posizioni: quella di chi infatti enfatizza il sostantivo comunicazione e quella di chi rimarca la centralità della qualificazione politica. Del primo tipo fa parte la proposta di Lasswell che circoscrive l'ambito della comunicazione politica ad alcuni elementi definitorie: chi dice cosa, attraverso quale canale o medium, nei confronti di chi e il feedback. La comunicazione politica riguarda gli scambi e le interazioni che hanno a che fare con l'interesse generale, anche se talvolta si tratta di temi rispetto ai quali c'è un accordo di fondo, dall'altra sono controversi e allora diventano fonte di mobilitazione di schieramenti pro e contro. La comunicazione politica, accanto ai suoi consueti fini di conoscenza e di informazione politica ed interpretazione della realtà politica si pone l'obiettivo di persuadere i cittadini per conseguire fini di parte. Pertanto, non può che riflettere l'ambivalenza caratteristica della politica: ora strumento di integrazione e di trasparenza che aumenta la qualità della democrazia ora arma nella lotta del potere, in questo caso è tanto più soggetta a manipolazioni distorsioni quanto più ci allontaniamo dai contesti democratici. I contenuti della comunicazione politica sono l'interesse generale la lotta per il potere, ma anche le informazioni e l'insieme degli elementi simbolici. Da questo punto di vista la comunicazione politica si risolve nell'insieme di scambi o interazioni che si realizzano tra attori politici, mass media e pubblico dei cittadini, essi devono essere sempre coinvolti allo stesso tempo e con la stessa intensità in ogni attività comunicativa. In astratto questo modello definisce una situazione di parità ideale fra soggetti la cui comunicazione prende forma nell'interazione che stabiliscono di volta in volta l'uno con l'altro. Mazzoleni definisce tale modello di comunicazione politica pubblicistico-dialogico appunto perché riflette le interazioni discorsive che passano tra diverse sfere istituzionali e gli attori più o meno specializzati che in esse si muovono. Le ricerche empiriche hanno dimostrato che il peso dei tre attori nelle concrete situazioni dei diversi contesti politici e di fatto è sbilanciato, risultando assai più forte quello dei mass media. La politica trova sempre più espressione all'interno dell'arena dei mass media di cui ha assimilato la logica di fondo diventando dipendenti in misura rilevante dalla stessa dinamica. In questo modo finirebbe per rappresentare lo spazio dove si costruisce il potere, in cui le relazioni di potere vengono decise trattori politici e sociali in competizione. In questo senso si parla di mediatizzazione della politica che rinvia alla centralità dei mass media dei professionisti dell'informazione alla luce di due parametri in parte sovrapponibili: quello sistemico, che mira a cogliere il grado di subordinazione-autonomia dei media e dei loro operatori della politica è quello mass mediale, relativo all'orientamento professionale dei mezzi di comunicazione di massa. Il parametro sistemico è stato elaborato negli anni ’70 da Blumer e Gurevich ed è costituita alla base di quattro dimensioni: 1. La struttura proprietaria del sistema dei media, il grado di controllo statale dei mass media, massimo nei sistemi autoritari ma sensibile anche in alcuni democrazie. 2. Il grado di partisanship dei mass-media è tanto maggiore quanto più i giornali, ma potremmo aggiungere anche le televisioni, sono di proprietà delle forze politiche e dei loro leader o di governo. La stampa di partito e la lottizzazione la televisione pubblica sono indicatori efficace del parallelismo politico che può intercorrere tra media e politica 3. Il grado di integrazione dell'élite politico-mediale: tra i due gruppi c'è separatezza o c'è simbiosi? 4. Il grado in cui la professione di giornalista è percepita come indipendente da pressioni e viene riconosciuta la sua funzione sociale. Il parametro mass mediale, sempre studiato da Blumer e Katz, è l'elaborazione di un continuum che a un polo vede l'orientamento pragmatico in questo caso i mass media sono portati a dare copertura informativa a quegli aspetti di elementi della vita politica che si ritengono corrispondere alla domanda del loro pubblico. Al polo opposto invece troviamo l'ordinamento partigiano tipico di un giornalismo sensibile alle esigenze del sistema politico che mette in secondo piano le regole le pratiche della logica mediale. Nel primo caso prevale il modello avversariale, fatto da un giornalismo eroico, negli altri casi si oscilla tra il modello del collateralismo, del giornalismo schierato politicamente e il modello competitivo. Oltre alla ricostruzione delle modalità di relazione tra politica e media i principali filoni di ricerca nel campo della comunicazione politica si possono ricondurre a tre ambiti: il processo di comunicazione, le tendenze strutturali e la costruzione e diffusione delle notizie. Farell e Webb hanno parlato dell'esistenza di tre mondi o fasi della comunicazione politica che caratterizzerebbero le democrazie occidentali. La prima fase è quella premoderna, che coincide con l'epidemia dei partiti di massa alla quale hanno fatto seguito quella della rivoluzione televisiva e della rivoluzione delle telecomunicazioni, entrambe contraddistinte dalla crisi della democrazia dei partiti dell'avvento della democrazia del pubblico. Pippa Norris si sofferma sulle caratteristiche delle campagne elettorali, parlando di campagne rispettivamente premoderne, moderni e post moderne. Blumler e Kavanagh indicano l’esistenza di tre età della comunicazione politica. La prima età della comunicazione politica era contraddistinta dal dominio dei partiti di massa e dall'influenza indiretta del sistema dei media, le due più recenti sono caratterizzate dalla mediatizzazione della politica. Da un diverso punto di vista potremmo parlare di una tendenza di lungo periodo alla americanizzazione della politica. La crescente importanza del marketing politico ha avuto una doppia valenza: da un lato, volta a valorizzare le potenzialità del candidato rispetto a un certo segmento di lettori, dall'altro il ricorso a campagne comunicative negative. Tale tendenza è stata poi favorita anche dalla commercializzazione, cioè la rilevanza dei network privati. L'evidente tendenza alla personalizzazione della politica può assumere svariate forme distinte: - la personalizzazione in senso stretto, relativa alla rilevanza che nella campagna elettorale l’orientamento del voto all'immagine del candidato piuttosto che elementi collettivi quali le ideologie o il partito - La liberalizzazione dei vertici dei partiti, che fa riferimento al rafforzamento decisionale dei leader e all'indebolimento del peso dei meccanismi di controllo, oltre che alla centralità dell'immagine del leader è amplificata dei media nella competizione elettorale. - La presidenzializzazione fa riferimento all'acquisita rilevanza dei vertici degli esecutivi tanto più se le eletti direttamente dagli elettori Nei primi decenni del XXI secolo, si registra la tendenza strutturale all'egemonia dei nuovi media. Le origini di questa fase vanno ricercate negli sviluppi tecnologici che hanno portato la diffusione dei social network rendendo obsoleta la stessa nazione di mediatizzazione. Si parla sempre di più di una quarta età della comunicazione politica caratterizzata dalla disintermediazione o dalla mediatizzazione estesa. In queste trasformazioni c'è il rischio che la proliferazione e la diversificazione dei canali mediali alimentano la frammentazione dei pubblici, con il conseguente all'aumento della competizione tra politici e partiti e della volatilità degli elettori. GLI ATTORI DELLA POLITICA ORIZZONTALE Il tema dei gruppi di interesse rappresenta uno dei contributi più caratterizzanti originali della scienza politica specie nella sua tradizione americana. Arthur Bentley affermava che quando i gruppi sono adeguatamente definiti, ogni cosa è definita, in questo modo Bentley non solo definisce un programma di ricerca per la nuova scienza politica, ma si ricollega a una visione della politica e della società americana che da Alexis de Tocqueville arrivava ai teorici del pluralismo come Truman e Dahl. leadership. In questa prospettiva risaltano tre caratteristiche della leadership: personali, strumentali e situazionali. Organizzazioni e gruppi sono tenuti assieme dallo sviluppo di un sistema di credenze condivise e dal senso di solidarietà che interno corre tra i partecipanti. Touraine afferma che gli elementi chiave dell'esperienza storica dei movimenti sono costituiti da tre principi: l'identità, cioè il farsi riconoscere rispetto ad altri attori del sistema sociale politico, di opposizione cioè l'individuazione dell'avversario, che rafforza la coscienza dei partecipanti di appartenere al movimento e di totalità, cioè il fatto che l'oggetto il conflitto sociale politico investe lo stesso sistema storico di azione, ovvero il sistema di classe dei valori e degli interessi dominanti. Porta propone uno schema di analisi per cui questi sono il prodotto di un processo complesso che prevede quattro stadi: la strutturazione relativa all'individuazione di una particolare categoria sociale, l'identificazione di tali gruppi con specifici sistemi normativi e valoriali, la politicizzazione del conflitto che viene alimentata dalla crisi della democrazia rappresentativa e dalla ricerca di opportunità di partecipazione di nuovi equilibri tra Stato e mercato e la mobilitazione. Infine, esistono molte forme di azione collettiva: volontariato, associazionismo, gruppo di interesse e un partito. Ciò che contraddistingue i movimenti sociali, come abbiamo visto con Tarrows è che la loro azione è di tipo conflittuale rivolta contro le élite. Per i movimenti è centrale la mobilitazione a favore di specifiche rivendicazioni, che richiedono sforzo organizzativo di azione collettiva di disabilità pubblica e mediatica. Sidney Tarrows individua i tipi storici di movimenti • I movimenti espressivi orientati all'affermazione di un'identità e rapporti antagoniste con il sistema di interessi e valori dominanti. • I movimenti di riforma che rivendicano libertà e diritti e, in genere, il conseguimento della cittadinanza o dei suoi particolari aspetti • I movimenti integralisti che mirano a sovvertire le istituzioni politiche sociali moderne e per raggiungere tale obiettivo ricorrono ad attività apertamente conflittuali. • I movimenti comunitari che rifiutano le istituzioni esistenti e cercano di costruire comunità alternative e autosufficienti sottratte alla loro influenza senza cioè senza avere l'intenzione di sovvertire l'ordine sociale ma piuttosto di convivere. La capacità di organizzazione di mobilitazione di gruppi sociali in vista di un'azione collettiva è fortemente condizionata dal grado di chiusura del sistema, della sua capacità di repressione. Nell'apertura e recettività del sistema politico dipendono, invece, gli esiti delle rivendicazioni dei movimenti che per Tilly comportano sempre in un un qualche genere di equilibrio nella distribuzione dei poteri. Tali esiti possono essere: 1. procedurali, ovvero relativi all'accesso a istanze di concentrazioni di conquista di uno statuto dell’interlocutore ufficiale. 2. sostanziale, cioè nella misura in cui si traducono in misure concrete 3. strutturali, cioè producono una modificazione della stessa struttura delle opportunità politiche, come la richiesta di elezioni anticipate, la rottura di una forma di coalizione di governo. Di conseguenza alle trasformazioni dei sistemi di rappresentanza i movimenti evolvono verso ulteriori nuove forme che rendono il confine più sfumato dalla Porta e Andretta ricavano una nuova tipologia: - gruppo di interesse pubblico: caratterizzato da intense identità universalistiche e monotematico con una struttura organizzativa e membership formale, strategie di intervento di lobbying e concentrazione - Associazione di un nuovo volontariato: caratterizzata da identità universalistiche, struttura organizzativa permanente, partecipativa e reticolare strategie di intervento di essere di offerta di servizio - Circolo contro culturale caratterizzato da identità universalistiche, struttura organizzativa partecipativa reticolare, strategie di processo anche radicale sono queste forme che si avvicinano di più ai gruppi interessano amici di Almond e Powell - Comitato: caratterizzato da identità localistica, struttura organizzativa partecipativa, flessibile con bassi livelli di coordinamento strategie di azione che privilegiano la protesta seppure in modi moderati. Sull'onda di mutamenti che le società avanzate hanno subito negli ultimi anni sono nati movimenti e giustizia globale e movimenti antiausterità. Entrambi i casi costituiscono una risposta alla crisi di legittimità delle democrazie del XXI. Data la natura reticolare e discontinua, dei movimenti la questione delle loro trasformazioni dovute al trascorrere del tempo e ai i rapporti con le istituzioni pone sfide cruciali per la loro stessa identità sopravvivenza, la rottura istituzionale e della routine quotidiana prodotta dall'esplosione dello Stato nascente è per sua stessa natura destinata a esaurirsi nel tempo, da qui derivano la trasformazione e conversione dell'effervescenza collettiva in cambiamento e innovazione istituzionale. Il tema è al centro dei contributi di Kriesi e Neveu da cui ricavano quattro tendenze evolutive: - la prima è proprio l'istituzionalizzazione, che si registra quando il movimento cessa di essere un mezzo di mobilitazione in vista di un fine condiviso per trasformarsi in un di pressione o anche in un partito politico. - La commercializzazione, quando il movimento si trasforma in una specie di impresa sociale che eroga servizi commerciali - La terza tendenza evolutiva è costituita dall'involuzione che Neveu chiama orientamento alla coviabilità. L'azione mobilitante diretta a sostenere la sfida collettiva lascia il posto alle attività espressive, il movimento diventa uno spazio di socialità che fornisce servizi e attività ludiche agli aderenti e simpatizzanti. - L'ultima è la radicalizzazione che sia quando il movimento si avvita su se stesso esasperando i tratti conflittuali antisistema. CAP X: PROCESSI DECISIONALI E POLITICHE PUBBLICHE LA POLITICA IN AZIONE La politica è anche un’attività, una sfera di azioni finalizzate a risolvere i problemi ritenuti di rilevanza collettiva. La politica, intesa come attività finalizzata a individuare e cercare di risolvere i problemi collettivi non è fatta solo di momenti topici oppure di singole decisioni, ma di una serie continuativa di azioni in azioni, discussioni, di progettazioni, svolte a diversi livelli in diversi contesti all'interno del medesimo sistema politico. La politica in azione è quindi fatta di processi complessi e articolati in cui possono in scarsi dinamiche che diluiscono le decisioni elettorali oppure l'impegni presi dai detentori del potere. I processi decisionali hanno bisogno di categorie concettuali ad hoc per essere compresi spiegati. Secondo Heclo, i processi decisionali non sono solo caratterizzati da interessi, più o meno legittimi o più o meno ampi, che cercano di tutelare se stessi ma anche da una ineludibile attività mediante la quale una collettività cerca di affrontare l'incertezza del presente del futuro e di mantenere la propria integrazione e costruire il proprio futuro. Per affrontare la politica in azione è opportuno ricordare il concetto di politica pubblica, quindi un modo di affrontare i processi decisionali per il quale chi ha il potere è solo uno degli elementi costitutivi del processo mediante il quale si decide cosa fare e si attua la decisione presa. Quindi è necessario adottare una prospettiva analitica più articolata dei processi decisionali, capace di focalizzare l'attenzione non solo su chi vuole cose ma anche su come i problemi collettivi vengono costruiti in quanto tali, le modalità di interazione tra gli attori, la rilevanza di fattori spesso incontrollabili dai decisori stessi. Ad esempio la crisi internazionale o gli esiti non intenzionali di decisioni precedenti o dell'aggregazione di comportamenti individuali. Si tratta di concettualizzare la politica in azioni come politica pubblica, integrando alcuni approcci teorici tipici della scienza politica rispetto ai processi decisionali con i contributi propri dell'analisi delle politiche pubbliche. I PROCESSI DECISIONALI COME POLITICHE PUBBLICHE Decidere deriva al verbo latino ‘de-cadere’ che significa a portar via. Il momento in cui qualsiasi decisione viene presa non è che la fine di un lungo percorso attraverso si costruisce la sua decisione. La comprensione della formalizzazione di un atto di volontà che, tagliando via, sceglie una specifica alternativa rispetto a un problema deve essere inserito in uno specifico contesto storico-temporale e deve considerare il processo che ha portato a questa scelta. L'analisi delle politiche pubbliche concettualizza la politica in azione come politica pubblica Heclo sottolinea che le politiche pubbliche non sono fenomeni che si autodefiniscono, bensì categorie analitiche, i cui contenuti sono identificati dall'analista più che dallo stesso policy maker. Le politiche pubbliche non sono leggi, non sono procedimenti amministrativi non sono decisioni questo è un punto in comune delle varie definizioni. Inoltre, vi sono anche dei punti impositivi su cui nella diversità degli approcci teorici di una sufficiente condivisione tra gli studiosi: in primo luogo, il fatto che le politiche sono caratterizzate da un'intenzionalità perseguita dagli attori coinvolti, che sono i veri protagonisti delle politiche. In secondo luogo, le politiche sono un fenomeno dinamico e processuale, che si sviluppa nel tempo. Questi tre elementi (attori, intenzionalità e dinamicità) sono stati variamente utilizzati nelle proposte di definizione avanzata in letteratura. Per ordinare questa varietà è utile dividere la gamma delle definizioni in due tipi: quelle ristrette, che focalizzano l'attenzione sul ruolo del governo o comunque su quello di un'autorità pubblica, quelle ampie che mirano a concludere a includere una maggiore varietà di attori ed eventi. Definizioni ristrette di politica pubblica: - Dye: ogni cosa che i governi scelgono di fare o non fare - Lowi: deliberata coercizione, cioè un insieme di statuizione finalizzate a fissare i propositi, i mezzi, i soggetti e gli oggetti della coercizione - Mèny e Thoeing: il prodotto dell'attività di un'autorità dotata di potere politico e legittimità a governare Queste definizioni riducono la politica pubblica una prospettiva tradizionale che la vede come un fenomeno molto simile alla decisione politica discreta. Definizioni ampie di politica pubblica: - Friederich: un corso di azione intenzionale di una persona, un gruppo o un governo all'interno di un dato ambiente che presenta opportunità e vincoli per la policy si ripromette di utilizzare e superare nello sforzo di raggiungere un fine e realizzare un obiettivo un’intenzione - Ranney: una particolare gamma di oggetti che sono intesi concernere un desiderato corso di eventi una selezionata linea di azione, la dichiarazione di indipendenza di intendenti e una implementazione degli intenti. - Dunn: l'insieme delle azioni compiute da un insieme di soggetti, che siano in qualche modo correlate alla soluzione di un problema collettivo che sia generalmente considerato di interesse pubblico Queste definizioni ampie di politica pubblica consentono di includere una pluralità di dimensioni e di elementi rilevanti per un processo decisionale. Infatti essi non solo assumono una dinamica processuale delle decisioni di policy ma anche la presenza di una pluralità di attori che agiscono con il fine di risolvere i problemi collettivi o percepiti come tali. Lasswell propone di ordinare funzionalmente le attività che si manifestano nel corso dei processi di policy, gli studiosi delle politiche pubbliche sono andati via via disegnando e perfezionando, nel corso degli anni 60 e 70, una modellistica finalizzata a ordinare, scomponendo la la costitutiva complessività di tali processi. Queste proposte tutti abbastanza simili suddividono le dinamiche processuali delle policy in alcune fasi: la costruzione dell'agenda, la formulazione del programma di policy, l'implementazione del programma statuito, la valutazione e l'eventuale estinzione della politica stessa. Queste dinamiche sono delle vere proprie arene politiche al tempo stesso autonomi interdipendenti con gli altri. Per arena politica si intende uno schema istituzionalizzato di comportamenti in cui determinati attori perseguono un determinato obiettivo. I processi decisionali si sviluppano non solo linearmente ma anche attraverso un meccanismo di compresenza diacronica di arene in cui, senza soluzione di continuità, si agisce per definire il problema, per decidere sulle soluzioni da adottare, per attuare decisioni già prese. LA FORMAZIONE DELL’AGENDA La funzione strategica dell’agenda setting Bachrach e Baratz con i loro lavori sottolineano come la fase di formazione dell’agenda ha assunto un ruolo centrale nell'analisi delle politiche pubbliche. Infatti è proprio nella costruzione dell'agenda che si struttura quella selezione delle alternative che è lo strumento supremo per l'esercizio del potere. È sempre nel processo di individuare dei problemi collettivi che si manifesta la seconda faccia del potere quella che secondo Bachrach e Baraz consiste nella capacità di alcuni attori elitari di far convergere l'attenzione pubblica su alcune questioni piuttosto che altri. La strategicità dell'agenda setting, pertanto, risiede nel fatto che la posta in gioco e delle dinamiche che si manifestano in questa fase-arena è costituita proprio dal decidere ciò su cui si deve decidere. La struttura dell’agenda setting L'agenda di policy è un insieme di problemi, teorie causali, simboli e valori che, in qualche modo e con una diversa intensità entrano nell'attenzione dell'opinione pubblica degli attori del sistema politico. - agenda sistemica è l'insieme delle questioni che una comunità politica ritiene meritevoli, se pur con diverse variabili intensità, di una qualche attenzione - L'agenda istituzionale è l'insieme dei problemi chiaramente definiti che vengono tenuti in esplicita considerazione degli attori decisionali - L'agenda decisionale è l'insieme dei problemi sui quali gli attori preposti alle decisioni agiscono attivamente al fine di prendere una decisione c. La policy community rappresenta una vera e propria comunità in senso sociologico. I membri di questo tipo di struttura relazionale condividono non solo un interesse comune per un settore di politica pubblica ma anche il riconoscimento reciproco. La policy community è composta da un numero stabile e non elevato di attori che tendono a negoziare tutte le questioni relative a un determinato settore di policy con uno stile consensuale. Questo tipo di network tende a conquistarsi un ruolo egemonico all'interno di un settore di politica pubblica. La probabilità che questi network sopravvivano nel tempo è piuttosto elevata. d. Il concetto di advocacy coalition costituisce una rappresentazione teoricamente molto forte che delinea il processo decisionale come un'arena in cui si contrappongono almeno due network che competono per imporre le proprie soluzioni. Si tratta di network composti da insieme di attori appartenenti ad una varietà di istituzioni pubbliche e private a tutti livelli di governo che condividono un determinato insieme di credenze fondamentali e che cercano di manipolare le regole, le risorse finanziarie pubbliche e il personale dell'istituzioni governative al fine di raggiungere i loro obiettivi nel tempo. La loro principale caratteristica è la condivisione di uno specifico insieme di valori da perseguire e gli strumenti e strategie da utilizzare. Questo tipo di struttura relazionale delinea un processo formula attiva nel quale un network dominante impone le proprie decisioni in un contesto in cui viene continuamente sfidato da almeno un altro network. La dinamica della decisione I MODELLI DI DECISIONE. L'analisi della decisione politica, cioè del processo di scelta tra più alternative, seppur ridotte dal processo di agenda è un'attività complessa che necessita di una consistente razionalizzazione teorica. In questo senso sono disponibili quattro modelli di riferimento consolidati in letteratura: - il modello razionale assume che il decisore sia unitario e che abbia nelle proprie possibilità uno stato di certezza cognitiva che consente di massimizzare l'utilità della decisione, avendo modo di vagliare tutte le possibili alternative, simulando in modo realistico i possibili effetti. Si tratta di un modello difficilmente utilizzabile nell'analisi dei processi decisionali - Modello cognitivo non riesce a risolvere il problema fondamentale dei modelli razionali: l'assunto di unitarietà del decisori. Si può assumere che quando un progetto solo decisionale viene formalizzato, la decisione finale sia il prodotto di un attore concepibile come unitario, ma questa semplificazione rende illeggibili tutte le quelle caratteristiche della dinamica interna al processo decisionale che sono le vere cause del contenuto della decisione stessa. È evidente che quando si tratta di assumere decisioni politiche che hanno come destinatari una comunità politica l'assunto di unitarietà dell'atto decisionale è forzante con il rischio di sottostimare quanto la costruzione del consenso necessario a raggiungere un accordo decisionale influenza il contenuto della decisione stessa oltre che il processo decisionale di per se. - Il modello incrementali affinato nel corso del tempo partendo dalla proposta di Charles Lindblom si basa su un assunto tanto realistico quanto troppo spesso trascurato: il fatto che i processi decisionali siano caratterizzati dall'interdipendenza di una pluralità di attori partigiani. Ciò non toglie che in questo modello le decisioni originino necessariamente da un accordo tra logiche di azioni, interessi, valori piuttosto di selfie diversificati tra loro. Viste queste caratteristiche la dinamica incrementali si sviluppa focalizzando l'attenzione degli attori sulle questioni per le quali l'accordo è necessario e più facilmente raggiungibile. Ciò significa che il contenuto della decisione si sposterà solo marginalmente dallo status quo ante e sarà quindi incrementali. - Il modello del bidone della spazzatura offre una prospettiva radicalmente diversa da quella dei tre precedenti perché rompe la logica lineare del processo decisionale. Questo modello si basa sull'assunto di una sostanziale irrazionalità dei processi decisionali stessi. Essi sono caratterizzati da attori con preferenze mutevoli e niente affatto date dalla rottura della logica secondo cui prima si definisce il problema e poi si trova una soluzione. Le soluzioni preesistono i problemi e aiutano a definirli si tratta di un modello decisionale contro intuitivo che assume la sostanziale casualità dei processi decisionali e del contenuto della decisione politica. Questo modello modello enfatizza come l'azione e le preferenze degli attori decisionali siano intrinsecamente fluttuanti e incerte se non ancorate a pratiche istituzionalizzate. IL CONTESTO POLITICO-ISTITUZIONALI. Il processo formulativo che porta alla formalizzazione di una decisione politica non si svolge in un vacuum, ma si dipana all'interno di uno specifico contesto politico-istituzionale che ne influenza gli esiti. Le diverse strutture dei sistemi politico- istituzionale incanalano i processi decisionali rendendo più o meno possibile alcune configurazioni e rendendo più o meno adeguati per l'analisi dei processi stessi, alcuni modelli decisionali piuttosto che altri. Due concetti possono catturare l’influenza aggregata dei fattori politico- amministrativi-istituzionali: - la teoria degli veto players individua le capacità di un attore di bloccare qualsiasi cambiamento perseguito in un processo decisionale. Ciò significa che quanto più numerosa sarà il novero degli attori capaci di azioni efficace di veto tanto più probabile sarà che il processo si concluda con un nulla di fatto o con un incrementassimo minimo. Tuttavia, le caratteristiche decentrate dello Stato possono rappresentare una risorsa per sfuggire a situazioni di stallo dovuta all'esistenza di un consolidato blocco di interessi. - Il concetto di policy style cerca di cogliere l'influenza del governo politico-istituzionale costruendo una tipologia basata sull'attitudine dei governi ad avere una propensione di anticipare i problemi o a reagire a essi e sulle caratteristiche delle loro relazioni con gli altri attori di policy. Si tratta di un concetto molto discusso in relazione al fatto che spesso la gran parte dei governi sembra adottare uno stile reattivo/consensuale, ma al tempo stesso è utile per cogliere il modo in cui le decisioni vengono prese in un determinato contesto politico LA POSTA IN GIOCO. Le caratteristiche della posta in gioco influenzano fortemente la dinamica della formulazione delle decisioni, rimandando a una prospettiva normativa e prescrittiva. Le caratteristiche dell'arena decisionale strutturano quelle della posta in gioco e quindi il comportamento degli attori. L'analisi della posta in gioco può essere sviluppata primariamente attraverso tre approcci: L'approccio tipologico risale ai contributi di Theodore Lowi che assume come le caratteristiche della policy in gioco determinano quali attori siano i protagonisti del processo decisionale, quali siano le loro relazioni e quale sia il contenuto della decisione. La proposta tipologica di Lowe si basa sulla dicotomizzazione del criterio fondante la sua definizione di politica pubblica, la coercizione. Il prodotto di questo esercizio classificatorio è la famosa quadripartizione delle politiche in: - le politiche distributive sono quelle in cui gli attori partecipanti ottengono in qualche modo tutti un qualche vantaggio. Se la posta in gioco distributiva molti attori partecipano al processo decisionale. - Le politiche redistributive spostano benefici e spettanze da un macro gruppo sociale a un altro e vede la partecipazione di attori fortemente rappresentativi delle classi sociali e ruolo attivo da parte dei governi - Le politiche regolative mirano a modificare il comportamento degli individui o di specifici attori collettivi o gruppi di interesse mediante obblighi e sanzioni. Si tratta di politiche altamente conflittuali - Le politiche costituenti sono quelle che stabiliscono le regole del gioco di un determinato settore di politica pubblica. Esse vedono come destinatari delle decisioni gli stessi decisori ed è per questo che raramente sono efficaci. La proposta di Lowie risulta empiricamente poco applicabile dove la quotidianità dei processi decisionali si mostra come un mix di queste componenti. James Wilson avanzò una proposta basata sulla dicotomizzazione dei costi e dei benefici per come sono percepiti dai destinatari delle decisioni stesse. Si tratta di una proposta che evidenzia soprattutto elementi importanti per capire la dinamica decisionale rispetto al contenuto della posta in gioco: se i benefici o i costi sono concentrati, i destinatari potenziali della decisione sono fortemente incentivati a organizzarsi e ad agire. Il secondo approccio teorico è utile per analizzare il ruolo della posta in gioco nella dinamica decisionale è quello di la teoria dei giochi, soprattutto nelle applicazioni più realiste. Sottolinea come i diversi possibili schemi di gioco decisionale si basino sulla percezione degli attori, cioè seconda che si reputi no che il gioco sia a somma positiva o somma zero. Il terzo approccio teorico per analizzare la rilevanza della posta in gioco è quello offerto dall'analisi razionale-istituzionale e in particolare dalla teoria dell’ institutional analysis and developement proposta del premio Nobel Elinor Ostrom. In questo approccio, le caratteristiche della posta in gioco sono strutturate da un complesso insieme di fattori: le decisioni prese precedentemente, le caratteristiche del bene in gioco, le regole istituzionali, le caratteristiche culturali, sociali ed economiche della comunità di riferimento. Il contenuto della decisione Le strategie di politica pubblica sono costituite da un insieme di principi generali di azioni di politica pubblica accompagnati da specifici strumenti. I principi strategici riconducono a specifiche visioni ideali del come le politiche pubbliche dovrebbero essere realizzate e hanno un elevato contenuto normativo ideologico, la scelta di una specifica strategia implica la scelta di una specifica teoria causa-effetto rispetto al problema che si intende risolvere. Le strategie di policy sono costrutti teorici mediante i quali alcuni valori di fondo dei decisori vengono perseguiti attraverso la scelta di una specifica definizione del problema, di una specifica modulazione delle azioni da perseguire, attraverso la scelta di specifici strumenti di politica pubblica. L'aspetto più importante è che la strategia di policy è basata sulla scelta proprio di particolari principi costitutivi che sono correlati con i valori che si intende perseguire. Uno strumento di policy è un metodo o un meccanismo mediante il quale viene indirizzata l'azione collettiva al fine di raggiungere un effetto desiderato. Uno dei componenti delle strategie di politica pubblica infatti la scelta dello strumento di policy non è meno controversa della scelta della policy stessa. La letteratura ha composto varie classificazioni degli strumenti di policy: - Cristopher Hood classifica gli strumenti in quattro tipi generali: la nodality cioè la capacità dei governi di svolgere un ruolo per il portale nei processi informativi, l'authority cioè il potere legale e la legittimazione dei governi, la treasury ovvero le risorse finanziarie a disposizione dei governi e l'organization cioè la capacità di azione diretta, almeno attraverso gli eserciti, polizia le burocrazie. - classificazioni proposte da Doern, Phidd, Schneider e Ingram: I primi due utilizzano come principio classificatorio livello di legittimazione della coercizione individuando cinque tipi generali di strumenti: l'autoregolazione, le esortazioni, la spesa pubblica, la regolazione che include anche la tassazione e la proprietà pubblica. La seconda classificazione è incentrata sulle caratteristiche motivazionali del comportamento individuale e presenta cinque tipi generali di principi: gli strumenti autoritativi (intesi come presenza/assenza di disposizioni normative che indirizzano l’azione), gli incentivi (presenza/assenza di stimoli premiali esterni all'azione), gli strumenti che incidono sulle capacità di azione degli attori (assenza/presenza delle risorse necessarie all’azione), gli strumenti esortativi e simbolici (quelli che cercano di incidere sui valori e sulle percezioni degli attori) e gli strumenti che cercano di incentivare l’apprendimento. - La distinzione analitica proposta da Michael Howlett: gli strumenti sostantivi sono quelli medianti quali tutti i governi determinano direttamente il tipo, quantità, la qualità e la distribuzione di determinati beni e servizi a società. Gli strumenti procedurali, invece, influenzano gli esiti delle politiche attraverso la manipolazione delle caratteristiche dei processi politica pubblica. La dimensione procedurale di ogni tipo di strumento di politica pubblica è particolarmente rilevante quando lo Stato limita il proprio intervento diretto e costruisce strategie di policy in cui governa a distanza le politiche utilizzando strumenti procedurali. Una questione rilevante riguardo gli strumenti di politica pubblica concerne la loro neutralità. Alcuni studiosi li ritengono neutri e quindi semplici mezzi per raggiungere degli obiettivi, mentre altri ritengono portatori di specifici significati, simboli e valori e non sono semplici mezzi ma anche i veicoli di una determinata concezione delle cose. La verifica empirica è altamente complicata, ma di certo nella realtà dei processi decisionali gli stessi attori tendono a confliggere proprio su questa flessione questione. La scelta degli strumenti e delle strategie è complessa e fortemente influenzata dallo status quo e da pressioni esterne oppure a mode del momento. Spesso i decisori scelgono di adottare un nuovo strumento senza una seria riflessione ma solo perché ritenuto in quel dato momento politicamente opportuno. Questa dinamica ha condotto all'esistenza di strategie di politica pubblica caratterizzate dall'assemblaggio di strumenti appartenenti a diverse tradizioni amministrative e a differenti teorie causali e questo è il trionfo del policy mix. L’IMPLEMENTAZIONE Nessuna decisione politica produce un qualsivoglia impatto sulla realtà se prima non viene trattato attraverso una serie di azioni senza le quali la decisione non ha alcun effetto. Il processo decisionale non produce effetti sulla realtà se non attraverso l'avvio di un nuovo processo in cui esiste il concreto rischio che gli obiettivi prefissati non vengano raggiunti ovvero vengono distorti. Questo processo decisionale viene definito implementazione, cioè l'insieme delle azioni dirette al raggiungimento di obiettivi posti da precedenti decisioni di policy. Jeffrey Pressman, Aaron Wildavsky e Bardach cercano di capire nei loro lavori l’implementation deficit, cioè la difficoltà mostrata ad alcuni rilevanti programmi di politica pubblica nel raggiungere gli effetti desiderati nella realtà statunitense. Si tratta di studi a carattere fortemente prescrittivo che si ponevano il problema di capire come superare le questioni che strutturalmente un programma di politica pubblica deve affrontare nella fase di implementazione per evitare di essere inefficace. Da questi lavori è originato il dibattito rispetto alla questione del policy design. Il dibattito, sviluppatosi tra gli anni 70 e 80, si è articolato e tra fautori di un approccio top-down e fautori di un approccio bottom-up. I primi erano sostenitori della tesi che per evitare le distorsioni implementative si deve prestare particolare attenzione al contenuto della decisione politica. I che gestisce le attività dell'organizzazione stessa. Esempi di organizzazioni internazionali nel campo e la pace della sicurezza sono le Nazioni Unite e la Nato, il WTO in campo economico. A questi accordi, che pure delimitano la sovranità degli Stati anche in modi nuovi e significativi, rimangono però nell'alveo degli accordi fra Stati, occorre affiancare gli accordi che vanno proliferando tra attori privati che decidono di auto regolare una serie di aspetti economici e professionali legati alla loro attività. Anche le organizzazioni non governative e non profit si danno da fare per promuovere standard di comportamento internazionali o per promuovere protocolli internazionali. Tutto ciò mostra come i problemi dei nostri giorni non possono più essere affrontati e risolti a livello nazionale ma necessitano di forme di cooperazione regolamentazioni internazionali. Altri due fenomeni confermano la volontà di prendere in seria considerazione le esternalità causate dall'azione dei governi o attori economici nazionali sui cittadini degli Stati. Da un lato, abbiamo l'adesione a codici comportamento socialmente responsabili da parte di imprese multinazionali. La teoria sociale dell'impresa teorizzato che l'impresa non sarebbe solo dei detentori di azioni ma di tutti coloro che nell'impresa lavorano, consumano i suoi prodotti o che vivono negli ambienti da essa impastati si passa da share holder a stake holder. Dall'altro lato, abbiamo imprese private che hanno acquisito uno straordinario potere regolativo anche su Stati sovrani. Tra questi si hanno le grandi agenzie di rating finanziario che svolgono il ruolo di controllo dei mercati finanziari sorvegliando sulla solidità degli istituti di credito e dei debiti nazionali degli Stati. Questi sviluppi hanno indotto gli studiosi di relazioni internazionali a dibattere se la sovranità degli Stati nazionali non fosse ormai già venuta meno da un lato, Ohmae e Kratochwil abbracciano la tesi dello svuotamento degli Stati sovrani a favore della creazione di un nuovo ambito globale; dall’altro, Strange e Slaughter, mentre osservano l'indebolimento del controllo dello Stato sul proprio territorio, notano anche l'emergere di forme alternative di potere economico e politico attraverso il quale gli attori statali mantengono il controllo sul contesto in cui operano. VERSO UNO STATO POST-NAZIONALE Sfide alla sovranità tradizionale Lo Stato moderno è un’idealtipo, esso incarna lo stato pienamente sovrano, cioè completamente in grado di controllare il proprio territorio e totalmente autonomo nelle relazioni con gli altri Stati. È stato creato nel 1648 con il trattato di pace di Vestfalia, che sancì la formazione sul continente europeo di un sistema di Stati cioè di un numero limitato di Stati che non avrebbero potuto espandersi senza intaccare il territorio di un altro e senza sconvolgere l'intero sistema. All'espansione bellica da questo momento in poi si sostituirono la diplomazia e la politica come sistemi di regolazione e normali di questo delicato sistema. Anche l'omogeneità della popolazione nazionale era solo ideale, ciò che invece succedeva era che alcuni gruppi venivano discriminate, alcune culture marginalizzate e alcuni ignorate. Le società moderne devono infatti vedersela sempre di più con i gruppi minoritari che chiedono che le loro identità vengano riconosciute, le loro differenze culturali accolte e accettate si può parlare di multiculturalismo e di pluralismo culturale come una sfida della moderna democrazia del modello Stato moderno. La sovranità degli Stati pertanto non viene sfidata solo dal basso cioè dalla mobilitazione subnazionale ma anche dall'alto ovvero dal processo di integrazione europea e internaizonale. Il novecento è quindi da un lato il culmine del progetto di costruzione delle democrazie autonome e sovrane, ma anche il momento del declino di questa autonomia. Globalizzazione e democratizzazione La globalizzazione è un fenomeno di omologazione, di integrazione e di interdipendenza delle economie dei mercati internazionali e di uniformazione di modalità produttive di prodotti su scala mondiale. Democratizzazione e globalizzazione hanno causato una straordinaria mobilitazione di numerosi soggetti economici e sociali sulla scena internazionale. Si parla di movimenti sociali transnazionali di governi locali che operano internazionalmente, come il World social forum che cerca di proporre una globalizzazione contro egemonica. Inoltre le global cities sono città che per la loro straordinaria concentrazione di risorse possono giocarsela alla pari con gli Stati sociali sovrani. Dal lato della democratizzazione si hanno due fenomeni opposti che si sono intrecciati negli anni 60 e 70. Da una parte, mentre nelle democrazie più mature e spesso anche sedi delle economie più ricche montava la richiesta di maggiore partecipazione alle decisioni politiche di minore ingerenza dello Stato nella vita nelle finanze dei cittadini. Dall'altra parte negli stessi anni Inghilterra, Francia e Italia si andavano mobilitando le minoranze etniche linguistiche così come i lavoratori e gli studenti anche se la ricerca di maggiore coinvolgimento nei processi decisionali. Democratizzazione significa non solo maggiore richiesta di partecipazione ma anche diffusione di regimi democratici nel mondo. Interdipendenza e integrazione economica L'ascesa delle multinazionali è iniziata negli anni 30 per raggiungere il suo culmine negli anni 70, ma dagli anni 80 in poi si parla di impresa globalizzata. Le filiere di produzione si estendono dai paesi del primo mondo a quelli del terzo mondo sfruttando sempre più i vantaggi comparati delle rispettive economie. In molte zone del mondo la globalizzazione dell'economia viene sperimentata come interdipendenza, in Europa l'interdipendenza è stata voluta e ricercata dai governi gli Stati membri. La comunità, poi unione, europea è il progetto più ambizioso che mira riconoscere rafforzare l'interdipendenza fra Stati nazioni per trasformarli in Stati membri. Si ha interdipendenza quando le decisioni prese da uno Stato hanno ripercussioni anche sulle condizioni di vita dei cittadini di un altro Stato, e viceversa; quando cioè queste ripercussioni non possono essere facilmente ignorate, perché impongono costi significativi soprattutto quando sono reciproche. Successivamente alla creazione della comunità europea del carbone e dell'acciaio nel 1951 e della comunità economica europea gli Stati membri si sono gettati fin dagli anni 80 alla realizzazione del mercato comune europeo, sancito dai trattati di Lussemburgo, Maastricht e Amsterdam. L'obiettivo di armonizzare le caratteristiche di tutti i prodotti e scambiati all'interno la comunità europea era illusorio, occorreva piuttosto affermare il principio del mutuo riconoscimento e accettare come commerciabili nel mercato comune tutti i prodotti in commercio in ciascuno degli Stati membri a meno che non fosse provata indubitabilmente la dannosità del prodotto per la salute e per la società. Secondo una dinamica che Haas e Schmitter chiamarono di spillover, la libera circolazione dei beni, di servizi, dei capitali e dei lavoratori avrebbe comprato anche l'adeguamento progressivo dei modi di produzione dei sistemi di welfare. Si è presa conoscenza del fatto che creare un grande mercato unico comportava molto di più della libera circolazione delle merci e finiva per incidere sui molti fattori che influiscono sulla produzione di beni e di servizi. Per facilitare ulteriormente gli scambi si decise pertanto di promuovere tassi di cambio sempre meno variabili delle valute dei paesi del mercato comune. Nel 1979 si decise di legare fra loro le valute dei vari Stati membri in bande di oscillazione reciprocamente limitate e poi nel 1999 si arrivò a legare fra loro le monete di alcuni paesi membri in cambi fissi alla fine di adottare dal 2002 una moneta comune l’euro. La creazione della moneta comune ha reso palese la reciproca interdipendenza degli Stati appartenenti all'area euro, la gestione della politica monetaria e del tasso di cambio con l'estero che consegue la fusione delle varie monete in una moneta unica presuppone il contenimento delle spinte inflazionistiche deflazionistiche interne. Essere parte di un sistema monetario comune comporta una un sovrappiù di responsabilità da parte dei paesi membri. Mantenere un'economia reale in buona salute, in altre parole, non è una responsabilità solo nei confronti cittadini del proprio paese ma anche nei confronti dei cittadini degli altri paesi dell'unione monetaria. La credibilità finanziaria è spesso lo specchio della credibilità politica di un altro paese la cui classe politica deve dimostrare di essere in grado di indirizzare l'economia verso produzioni competitive. Vantaggi e svantaggi dell’interdipendenza Secondo Dani Rodrick le innovazioni tecnologiche non permetterebbero ai paesi di tornare completamente indietro, ma è certo che una sensibile riduzione nel grado di interdipendenza è sempre possibile. Tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo il grado di apertura e di interdipendenza fra paesi occidentali era molto elevato, secondo alcuni anche più elevato di quello attuale. L'interdipendenza porta grandi vantaggi, ma crea anche i particolari vulnerabilità. Fra queste la diversa reattività agli shock economici che proprio grazie all'elevata interdipendenza si propagano molto velocemente. Il vantaggio principale di un ritorno entro i confini nazionali è che le comunità nazionali sono o almeno si ipotizza che ti ventino anche comunità di solidarietà, in teoria all'interno di comunità internazionale si è disposti a farsi carico di chi è colpito dalla crisi economica e, più in generale, dei nuovi rischi sociali. Ogni crisi economica comporta una sorta di squalificazione del profilo produttivo di un sistema economico alcune produzioni devono essere abbandonate e altre diventano dominanti. Il capitale umano del tutto internamente prodotto può essere un fattore determinante di crescita. La riconversione delle strutture infrastrutture produttive non è semplice, ma ancora più complessa è la riqualificazione della forza lavoro. Si argomenta che se questa solidarietà fra gruppi sociali può verificarsi all'interno di comunità nazionale è altamente improbabile che accada fra comunità nazionali, seppure volontariamente resi interdipendenti come gli Stati membri dell'Unione Europea. É quindi possibile sottrarsi alla globalizzazione? In un mondo sempre più affollato e sempre più piccolo, l'interdipendenza è inevitabile. Squilibri economici e politici, politici e sociali in una parte il mondo inevitabilmente si ripercuotono anche altrove. L'interdipendenza dà anche maggiori scelte agli investitori, ai consumatori e a certe categorie dei lavoratori nei paesi emergenti. Rodrick spiega come la globalizzazione abbia causato uno svilimento dei lavori manuali nei paesi sviluppati e una corrispondente valorizzazione dei lavori più intellettuali. Infine, l'interdipendenza anche dei flussi di comunicazione ha reso sempre più facile conoscere in tempo reale ciò che succede altrove e quindi rende l'operato di tutti i sistemi politici anche più trasparente. La circolazione delle informazioni e l'esistenza di organizzazioni multilaterali permettono, infine, alle minoranze politiche dei vari paesi di avere accesso a informazioni e versioni dei fatti che i governi nazionali potrebbero avere interesse a tenere nascoste. DAL GOVERNMENT ALLA GOVERNANCE L’ascesa della società transnazionale Gli Stati nazionali devono poter competere con altri sistemi produttivi nell'economia globale, quelli europei devono regolare gli scambi in molte aree di policy con altri Stati nazionali europei, soddisfare le richieste provenienti dalla società civile internazionale e collaborar e con i livelli di governo subnazionale all'idea all'attuazione di politiche di interesse nazionale e regionale. Lo Stato-nazione si trova al crocevia di una molteplicità di lavoro di relazioni con altri soggetti pubblici e privati. I problemi che deve affrontare non sono più risolvibili esclusivamente grazie all'azione governativa delle burocrazie ministeriali ma grazie al concorso di molti altri livelli di governo organizzazioni non governative. Una delle manifestazioni più rilevanti della globalizzazione è la mobilitazione della società civile transnazionale. Tipologie di mobilitazione transnazionali, Keck e Sikkink e Tarrow - alcune di queste organizzazioni sono reti di associazioni nazionali o locali che si mobilitano in particolari ambiti di policy creando un certo coordinamento fra le azioni. Tra queste associazioni ci sono quelle ambientaliste, di difesa dei diritti umani e di intervento umanitario come la Croce Rossa. - Ci sono anche i movimenti che si sono formati su singole questioni per poi diffondersi per emulazione da paese a paese e ad esempio i movimenti per i diritti civili, per la pace e contro il nucleare - Vi sono movimenti che, pur essendo partiti da singoli episodi, si sono progressivamente organizzati a livello centralizzato e hanno saputo proporre momenti di controinformazione e mobilitazione in occasione di importanti incontri internazionali come il World social forum - Vi sono organizzazioni le cui la cui attività principale fare lobbying a favore di alcune categorie, che si mobilitano soprattutto là dove esistono organizzazioni internazionali che hanno il potere di prendere decisioni rilevanti. Tutte queste associazioni sono contraddistinte dall'avere un carattere reticolare, sia che sia stato creato dall'alto o che si sia creato dal basso, e la loro capacità di influenzare i processi decisionali direttamente o indirettamente attraverso il lobbying sistematico o la mobilitazione sporadica in occasione di importanti eventi e grandi appuntamenti periodici. L'attività principale di queste associazioni è di attirare l'attenzione su questioni che potrebbero sfuggire ai decisori e all'attenzione pubblica e può proporre contro informazione. Michael Lipsky teorizza che gli strati più marginali della popolazione che subiscono soprusi e ingiustizie devono estendere il conflitto aldilà dei confini locali, rimanendo entro i quali risulterebbero sicuramente perdenti. Governare con i cittadini co-governance I soggetti che chiedono azioni di governo spesso richiedono anche di essere coinvolti nella risoluzione dei problemi che sollevano. Molte nuove azioni di governo non possono essere condotte senza il loro consenso, gli incrementi di produttività che la sfida della globalizzazione richiede non possono essere ottenuti se non grazie lo sforzo condiviso e corale dei rappresentanti lavoratori imprenditori, insegnanti e formatori, getti di servizi amministratori. Il passaggio dal government alla governance riflette un cambiamento epocale nel modo di governare avvenuto nel XX secolo all'interno gli Stati nazionali. Questo cambiamento è stato determinato da molti dei fattori ricordati sopra, tra i quali il desiderio da parte di cittadini di un maggiore coinvolgimento nelle decisioni riguardanti la loro esistenza. In parte per arginare il crescente numero di domande poste al sistema politico, in parte per venire incontro alla domanda di maggior coinvolgimento e partecipazione, lo Stato ha progressivamente rinunciato a comandare e prescrivere e si è maggiormente predisposto orientare e regolare. interdipendenza tra sistemi produttivi, commerciali, finanziari e monetari ha moltiplicato i vincoli reciproci tra i sistemi economici con ripercussioni evidenti sui sistemi sociali e politici. La moltiplicazione degli impegni presi con i cittadini ha portato l'aumento della pressione fiscale in molti paesi europei e a forme di protesta contro i partiti di governo e alla creazione di nuovi partiti di opposizione che non si collocano più lungo i tradizionali cleavages identificati da Rokkan, ma anche lungo un nuovo cleavage costituito dalla contrapposizione tra valori materialistici e valori post-materialisti. I partiti-cartello e i partiti professionali sono espressione delle nuove modalità di finanziamento degli stessi, a carico dei cittadini dello Stato. Quindi, proprio mentre procedeva il processo di maturazione e consapevolezza democratica dei cittadini, si veniva contemporaneamente a creare un divario crescente tra promesse realizzazioni, che ha alimentato sentimento di disillusione, apatia e ostilità nei confronti della politica. Lo stato del benessere Lo Stato del benessere e la politica macroeconomica keynesiana avevano promesso crescente benessere alle generazioni del dopo guerra. Non così per le generazioni che avevano invece vissuto il periodo tra le guerre né purtroppo per la generazione nate dagli anni 70 in poi. Nemmeno il periodo dei cosiddetti 30 gloriosi gloriosi convenzionalmente considerato con il periodo di crescita e sicurezza ingegnerizzati era stato poi veramente tale. In Italia, così come in altri paesi del sud Europa, lo Stato del benessere in realtà è stato costruito più tardi che negli altri paesi europei ovvero a partire dalla fine degli anni ’70 proprio mentre il periodo di crescita mondiale stava per finire a causa della crisi petrolifera in molti paesi avanzati si innescava la prima crisi economica del dopo guerra. Finiti gli investimenti infrastrutturali necessari per la ricostruzione alla conquista del consenso nell'immediato dopo guerra, si procedette in Italia a costruire lo Stato sociale proprio mentre l’economia andava in crisi. Le imprese pubbliche, che avevano avuto il compito di trainare l'industrializzazione e l'approvvigionamento di energia dell'Italia tra le due guerre, si fecero carico di nuovi problemi come l'industrializzazione del sud e l'assorbimento delle industrie mature Nord. I margini produttività erosi dall'aumento dei salari e soprattutto dall'aumento dell'energia vennero recuperati attraverso la svalutazione della moneta e l'inflazione che però andarono ad alimentare nuovamente l'aumento dei costi delle importazioni dei prezzi. Si curarono così dagli anni ’70 le basi di quel debito pubblico sempre crescente che perseguirà l'Italia fino ai giorni nostri proprio nel momento in cui veniva creato, lo Stato sociale italiano era già in crisi, una traiettoria simile conobbero i paesi del sud Europa, mentre quelli del Nord Europa, che da tempo finanziavano il loro stato sociale con le tasse incontravano l'opposizione sempre più radicata dei cittadini. Il sovraccarico e le soluzioni neocroporatiove Negli anni ’70 gli Stati europei del Nord del sud Europa sperimentarono crescenti difficoltà economiche e crescenti domande da parte dei cittadini, si registrava dunque un sovraccarico democratico. Secondo questi studiosi, il problema era l’eccesso di domande poste al sistema politico, non la sua limitata capacità di dare risposte tuttavia nel mezzo di una crisi che colpiva tutte le principali democrazie europee si vedeva uno sparuto numero di piccole democrazie che sembravano incapaci di difendersi dalla crisi economica meglio di altri. Erano le democrazie consensuali del Nord Europa, dalla Scandinavia alla Germania, i Paesi Bassi e l’Austria. Il segreto del loro successo veniva identificato nella capacità delle parti sociali di dialogare e negoziare, in tempi di crisi, uno sforzo collettivo per migliorare la competitività i cui frutti, in tempi di ripresa, sarebbero stati ripartiti equamente tra capitale e lavoro. Il segreto di questa capacità di arrivare ad accordi credibili e duraturi veniva identificato nella presenza di associazioni di lavoratori e datori di lavoro solide strutturate, la cui leadership era in grado di negoziare patti credibili e farli rispettare dalla propria base. Il corporativismo o neocorporativismo acquistava così una nuova connotazione più progressista democratica rispetto alla sua origine fascista. Il datore di lavoro si impegnavano a rinunciare, in tempi di profitto, a parte dei loro profitti e condividerli con i lavoratori anche grazie a una favorevole politica fiscale e redistributiva statale; i lavoratori si impegnavano a moderare, in tempi di recesso le loro richieste salariali salariali e ad accettare modifiche nell'organizzazione del lavoro che avrebbe fatto recuperare competitività all'imprese. Lo Stato era colui che garantiva questi accordi e si impegnava a favorirli ammortizzando le ripercussioni sociali e le eventuali riconversioni industriali attraverso una politica attiva del lavoro, della formazione professionale e degli investimenti. In alcuni paesi, i lavoratori erano ulteriormente garantiti dal fatto di essere coinvolti nella condizione nelle scelte di politica industriale dell'imprese. Garantivano questi accordi perlopiù governi socialdemocratici, favorevoli ai lavoratori ma attenti anche a non alienare il capitale I paesi caratterizzati da equilibri politici ed economici più fragili non riuscirono ad attuare politiche simili e pagavano il prezzo della crisi. Un gruppo di studiosi prese spunto da questa riflessione degli anni 70 80 per sviluppare una teoria che sintetizzasse i modelli distinti i modelli distinti sia l'organizzazione economico-sociale della produzione, sia l'organizzazione dello stato sociale. Appartengono a questa letteratura sia le teorizzazioni sui monti del welfare, sia quelle sulla varietà dei capitalismi in base alle quali economie di mercato coordinate vengono contrapposte economie di mercato liberali o più semplicemente economie di mercato non coordinate. Il riflusso neoliberista e la public choice Nelle economie di mercato liberali la reazione alla crisi degli anni 70 fu quindi fondamentalmente diversa da quella messa in atto nelle economie di mercato coordinate. Grazie ai rispettivi sistemi politici negli Stati Uniti e nel Regno Unito di Reagan e della Thatcher riuscirono a imporre la loro nuova linea guida di politica economica senza grosse opposizione. Privatizzazioni, riduzione dei servizi sociali, abbassamento delle tasse progressive sul reddito e innalzamento di quelle regressive e sui consumi al fine di ridurre l'inflazione galoppante e restituzione di credibilità alla sterlina furono l'ingredienti fondamentali della teoria economica monetaria che la Thatcher abbraccia l'inizio degli anni 80. La teoria monetarista ha inferto un colpo letale all'idea stessa che l'intervento dello stato sull'economia potesse essere positivo, lo Stato doveva essere limitato il più possibile perché tendenzialmente inefficiente e controproducente. Il mercato veniva invece ritenuto capace di autoregolarsi e comunque in grado di raggiungere livelli più elevati di efficienza allocativa delle risorse rispetto a quanto potessero essere le decisioni politiche. La privatizzazione era la soluzione di tutte le disfunzioni di servizi pubblici. La democrazia stessa andava limitata e le scelte di policy affidate a scelte razionali che potevano essere simulate da esperti. La public Choice presume invece di desumere da pochi assunti economici quali decisioni debbano essere prese, sostituendo pochi algoritmi matematici alla dialettica politica. Anche l'azione pubblica deve ispirarsi a criteri di mercato e cercare di ottenere i profitti o comunque non generare perdite, nello svolgimento delle proprie essenziali funzioni. Di conseguenza, ogni obiettivo non profittevole viene tendenzialmente eliminato e ogni utilizzatore che non può permettersi il prezzo di mercato viene escluso da servizi essenziali. L'eccessiva fiducia nel mercato che si impone in seguito all’ affermarsi del paradigma della public Choice non solo avrebbe portato agli squilibri distributivi alla base della corrente crisi, ma anche fornito un'aura di scientificità alla profonda disaffezione della politica che si andò a verificare negli anni a venire. Crisi economica e crisi della politica. Lezioni dal tempo presente La scienza politica comparata ha appena cominciato a studiare gli effetti della recessione seguita alla crisi del 2007 e può già contare su varie implicazioni teoriche. L'interrogativo di partenza, in molti dei lavori prodotti sul rapporto tra crisi economica e mutamento politico, riflette il classico tema dello stretto legame tra disuguaglianza sociale e comportamenti politici. Un modo ovvio di studiare questo aspetto è quello di continuare a raccogliere evidenze rispetto a una serie di comportamenti politici e sociali già conosciuti così da poter comparare i fenomeni, e stimare le conseguenze determinate da forti elementi intervenienti come le crisi economiche. L'Europa periferica e in generale le realtà democratiche più povere rappresenterebbero, sotto questo profilo, un incubatore interessante di nuove idee, generate per rispondere all'omogenizzazione politica promossa dal paradigma neoliberalista. Spostandosi sul livello sistemico di analisi, altri studiosi si sono concentrati sui regimi democratici che hanno più sofferto gli effetti della crisi. I paesi dell'Europa del sud ad esempio sono al centro in una serie di analisi, i cui primi risultati mettono in luce similarità evidenti sul piano del parziale mutamento di cleavage e della profonda ristrutturazione sociale, ma anche alcune singolarità che svelano la persistenza di elementi specifici di un determinato sistema. Strettamente collegato a quest'ultimo tema è l'enorme sforzo della ricerca dedicata al fiorire di nuovi soggetti nella politica attiva: si tratta di partiti-movimento in verità molto diversi tra loro. Spesso l'etichetta di populismo viene utilizzata per catalogare almeno una parte di queste formazioni ma, a prescindere dall'implicazioni sulla vicinanza o meno di tali soggetti a un nuovo modello di soggetto collettivo di articolazione e domanda, il nesso tra la profondità delle ferite causate dalla crisi e il successo di queste forze politiche, almeno in Europa è solitamente dimostrato. Hooge e Marks affermano che si tratterà di una lunga strada, visto che si scommettono addirittura sul rilancio della teoria dei cleavages, mostrando come la crisi abbia favorito la persistenza di una nuova frattura transnazionale quella tra i sostenitori dell'integrazione globale e la politica e il ripensamento nazionalista destinati a strutturare in modo robusto la competizione politica in molti paesi. Su un altro versante della ricerca, gli effetti la crisi possono essere rintracciati nell'inversione di rotta subita dalla diffusione dei valori collettivi un tempo percepiti come vitali per la democrazia, ad asserirlo è lo stesso inventore del post materialismo, Ronald Inglehart nella sua riflessione condotta con Pippa Norris DEMOCRAZIA, O IL SUO CONTRARIO? La disillusione verso la democrazia L'efficienza allocativa non può essere l'unico criterio normativo in base al quale valutare la bontà delle decisioni di policy per vari motivi. In primo luogo, l'efficienza è una relazione tra i mezzi e i fini: l'identificazione di questi ultimi non può essere prodotta da un calcolo di efficienza, ma solo da un'autentica scelta politica. In secondo luogo, l'efficienza non è l'unico criterio di base al quale valutare una decisione: partecipazione, condivisione, pluralismo possono essere criteri altrettanto importanti per il buon funzionamento di una comunità politica. Infine, i calcoli costi-benefici considerano solo ciò che in qualche modo ha un prezzo, mentre molti costi e benefici non vengono mai inclusi in questi calcoli. Ad oggi pare che la politica sia diventato l'oggetto di scorno generale, quasi indicasse un'attività di dubbio valore. Una spiegazione si può forse cercare nel ribaltamento dell'eccessivo ottimismo e quindi nella successiva disillusione nella capacità della politica di ottenere livelli sempre più elevati di benessere materiale. Una seconda spiegazione può invece avere a che fare con la sensazione che la democrazia sia una costruzione troppo fragile, costantemente soggetta a tentativi di sovvertimento e inevitabilmente tendente a degenerare nel suo contrario. Infine, una terza spiegazione metterebbe in discussione la pretesa stessa della democrazia di rendere i cittadini padroni del proprio destino e considererebbe la democrazia invece come una finzione che nasconde una realtà di privilegio e disuguaglianza. Apatia e disincanto I primi sintomi di apatia e disincanto nei confronti della politica si manifestarono negli anni 70 quando l'azione dei partiti politici inizia registrare un distacco sempre più marcato degli elettori tradizionali dalle organizzazioni partitiche. La teorizzazione dei partiti pigliatutto suggeriva che gli elettori rimanevano fedeli partiti di massa più per i benefici che derivano dall'essere membri che per la capacità intrinseca dei partiti di rapprese stare I loro interessi. I sintomi di questo cambiamento furono un evidente declino della membership partitica, tassi decrescenti di partecipazione attiva sia elettorale che a più ampio spettro e indici crescenti di mobilità interpartitica. La risposta dei partiti fu di diluire ulteriormente gli appelli ideologici e di enfatizzare invece gli aspetti meno controversi, ma anche meno identificanti, delle rispettive piattaforme elettorali. Diventava sempre più difficile determinare chi appartenesse alla classe operaia e a chi e chi va a quella capitalistica, dopo la caduta del muro di Berlino e la fine del comunismo, parvero poi esaurirsi anche le grandi ideologie del ‘900, i partiti dovettero ricorrere sempre più a tecniche di marketing per vendere i loro prodotti elettorali. Il rapporto tra elettori ed eletto si è sfilacciata il controllo della base sulla leadership si affievoliva. Michels che aveva teorizzato nel 1911 la legge ferrea dell'oligarchia in base alla quale la dirigenza, anche di partiti votati alla democrazia come il partito socialdemocratico tedesco, tende a distaccarsi sempre di più dall'esperienza vissuta dai membri fino ad avere più cose in comune con le dirigenze degli altri partiti che con la propria base. Negli anni ’80 e ’90 questo fenomeno si diffuse non solo tra i partiti, ma anche nelle associazioni sindacali. Il rapporto di rappresentanza, che in tempi di partiti di massa veniva perfezionato prima del voto in base a una conoscenza profonda del programma politico del candidato, diventa ormai una scelta fatta sulla base di un'offerta superficialmente presentata e che veniva a perfezionarsi per così dire solo al termine del mandato elettorale se il candidato dimostrava di aver saputo ben interpretare l'interesse degli elettori. Antipolitica e neopopulismo La democrazia è uno dei modi in cui le comunità governano se stesse ed è quindi soggetta a trasformazioni legate all'inevitabile cambiamento nell'organizzazione della convivenza sociale. Crisi periodiche delle regole dell'istituzioni che reggono queste comunità sono normali, ma rischiano di alienare i cittadini dalla stessa dialettica democratica e di portare intervalli più o meno lunghi di dittatura. La crisi democratica dagli anni ’80 in poi si è manifestata soprattutto come apatia, disinteresse rifiuto della politica. Alla scadente performance istituzionale si accompagna uno sfilacciamento del sistema partitico e una crescente instabilità dei governi. La sensazione generalizzata è che l'instabilità politica sia la causa delle scadenti prestazioni. In un ciclo che tende ad autoalimentarsi gli spostamenti di voti da un partito all'altro aumentano l'instabilità sistemica e accorciano gli orizzonti temporali delle leadership partitiche, che tendono a rincorrere il consenso tramite misure L'importanza di queste forme di partecipazione è tornata alla ribalta in seguito alla rinnovata attenzione rivolta al capitale sociale. Grazie uno studio condotto da Robert Putnam, Robert Leonardi e Raffaella Nanetti nelle regioni italiane la tematica del capitale sociale, presente da molto tempo nella sociologia politica entrata anche nella riflessione politologica. La tesi di Putnam, in particolare, vede che la partecipazione politica è conseguente alla presenza di rapporti di reciprocità e fiducia interpersonale diffusi, sinteticamente vengono in indicati come civicness, si sviluppano in realtà facendo altre attività spesso non direttamente collegata alla politica. L'essere disposti a utilizzare il proprio tempo per attività che non sono necessariamente benefici immediati personali, segnala un senso di forte di collegamento sociale con gli altri membri della comunità. Da queste attività e da questi atteggiamenti deriva una serie di ricadute positive anche per il rendimento dell’istituzioni di governo e per la tenuta della democrazia. - in primo luogo i rappresentanti politici saranno probabilmente partecipi di questa diffusa cultura sociale e quindi si asterranno da comportamenti che possano tradire la fiducia dei propri cittadini - In secondo luogo, anche qualora i rappresentanti politici non fossero animati da sentimenti così elevati, si sentirebbero comunque da essa controllati sapendo che comportamenti devianti rispetto alle aspettative diffuse non vengono condonati - In terzo luogo, questa potenziale sanzione è tanto più reale quanto maggiore il capitale sociale esistente, premessa per ogni azione collettiva di successo volta a sfiduciare un rappresentante che dimostri di non meritare la fiducia della comunità. Putnam pone il capitale sociale sia alla base tanto della democrazia quanto dello sviluppo economico. Questa attenzione al capitale sociale anche influenzato le convinzioni e le azioni di organizzazioni internazionali come la Banca mondiale. La mobilitazione sociale e democratica diretta La partecipazione politica è strettamente legata alla mobilitazione sociale. Partecipare alla vita politica significa anche essere disposti a mobilitarsi a favore o contro decisioni o non decisioni politiche. Uno dei modi classici in cui cittadini possono esercitare entrambe queste funzioni e attraverso la mobilitazione sociale, spesso a livello locale. I movimenti segnalano la presenza di preferenze di policy molto sentite e condivise dalla popolazione, forse per il modo in cui vengono gestiti o forse per il carattere aggressivo illegale che spesso assumono, raramente riescono nel loro intento. A parziale correttivo di questa sensazione, si registra in sempre più numerosi esempi di consultazioni di cittadini prima che le decisioni vengano prese. Le amministrazioni, soprattutto quelle locali, sembrano aver capito che è meglio consultare i cittadini prima di prendere le decisioni invece che gestire la protesta dopo che esse sono state prese. Si è pertanto messa in campo tutta una serie di strumenti di democrazia diretta come le consultazioni pubbliche. Queste consultazioni, che pure appartengono alla categoria della democrazia diretta si differenziano dai referendum popolari organizzati a livello nazionale. L'utilizzo crescente di queste consultazioni di segnalano lo spostamento da un modello “decido, annuncio, difendo” a un modello maggiormente partecipativo. Le basi teoriche e filosofiche di questa che viene chiamata democrazia associativa e partecipativa sono da ritrovare in Tocqueville e poi rielaborate da teorici come: Joel Rogers, Paul Hirst e Erik Wright. Fra i limiti della democrazia partecipativa, vi è soprattutto l'incertezza circa la rappresentatività delle opinioni così raccolte e degli interessi sondati, ma fra i vantaggi vi è certamente il senso di possedere le decisioni. La democrazia deliberativa Un ulteriore evoluzione è la democrazia deliberativa, con questa espressione si indicano delle modalità particolari di consultazioni strutturate di modo da assicurare che ai processi deliberativi partecipino anche i cittadini estratti da tutti i gruppi sociali presenti sul territorio al fine di assicurare il più ampio ventaglio di opinioni. Mentre la democrazia partecipativa si affida alla spontanea mobilitazione dei cittadini, la democrazia deliberativa vuole fare in modo che possibilmente tutti partecipino. L'idea è che affinché vi sia una vera democrazia tutte le opinioni e tutte le preferenze di policy debbano essere accuratamente registrate, anche quelle di coloro che spontaneamente non parteciperebbero. Alla base si trova la convinzione elaborata da Jurgen Habermas secondo cui per democrazia non significa solo contare i voti, ma registrare le preferenze di tutti i cittadini perché tutti possono contribuire con buoni argomenti al dibattito e perché tutti hanno uguale valore morali. L'obiettivo della democrazia deliberativa è arrivare al consenso che è possibile raggiungere se tutti i partecipanti si attengano ad alcune regole, come la buona argomentazione e non nascondano informazioni rilevanti e non inducano gli altri a pensare che le proprie preferenze siano diverse da quelle che effettivamente sono. Infatti la deliberazione è un metodo fondamentalmente diverso dalla negoziazione che, invece, mette anche comportamenti strumentali e strategici. Li strumenti la democrazia deliberativa si differenziano quindi dalla democrazia associativa o partecipativa perché cercano di far si che a partecipare siano tutti i gruppi sociali. Vi sono diversi modi per cercare di ottenere questo risultato: il metodo della porta aperta, il campionamento casuale e il campionamento strutturato. Certi studiosi hanno messo in risalto alcuni aspetti problematici della deliberazione come la tendenza all'auto selezione e il rischio che i consensi deliberativi vengano monopolizzati ma hanno anche documentato il valore aggiunto di questi esperimenti. La democrazia deliberativa è uno dei modi più innovativi per riconnettere I cittadini alla politica combattere apatia e disincanto. NUOVE DECLINAZIONI DELLA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA La riflessione sulla rappresnetanza Secondo Rosanvallon, lo stato di salute della democrazia contemporanea non sarebbe così compromesso e le sue manifestazioni più caratteristiche non sarebbero poi così patologiche, ma solo l’espressione della costante tra sovranità positiva e sovranità negativa e dei vari modi in cui si sostanzia la ‘controdemocrazia’. Nadia Urbinati ripercorre la genealogia del concetto di democrazia rappresentativa, rinviene in essa due aspetti fondamentali: il diritto all'espressione della volontà (isonomia) il diritto all'uguale espressioni del giudizio (esegoria). Urbinati ritiene che sia stata data troppa importanza all'espressione della volontà e che si sia quindi concepita la rappresentanza come delega da un principale (popolo) a degli agenti (politici), mentre rimane relativamente in ombra l'espressione del giudizio, sia nella sua manifestazione positiva sia nella sua manifestazione negativa. Se il rapporto tra popolo e governanti fosse davvero quello di un principale con il suo agente, allora non si avrebbero che hai due possibilità: - Il principale dà istruzioni molto precise all’agente e così facendo lo trasforma in un semplice delegato. In questo caso, il controllo del principale sull’agente esplicitato ex ante e l'eventuale deviazione dell’agente dalla volontà del principale è perseguibile legalmente quale rottura del contratto di delega. - l’agente una volta autorizzato dal principale, ne faccia l'interesse nel modo in cui ritiene più opportuno senza più consultare il principale e così facendo si trasformi in un fiduciario. In questo caso, l'unico modo in cui principali può controllare la gente ex post è non rinnovandogli la delega alla scadenza del contratto. Questi indicano i due tipi di rappresentante il delegate e il trustee teorizzati da Burke Urbinati e Rosanvallon non vedono queste raffigurazioni del rapporto tra rappresentato e rappresentante come insoddisfacenti e non colgono la complessità della rappresentanza nella democrazia rappresentativa. Per Urbinati il rapporto tra rappresentato e rappresentante non è equiparabile semplicemente come il rapporto tra il principale e la gente, ma il rapporto tra i due continua nel tempo ed è circolare: il rappresentato attiva e sorveglia il proprio rappresentante facendo sentire la sua voce ed esercitando il suo giudizio anche durante il mandato di rappresentanza. Dalla fine degli anni ’90 circa, i cambiamenti nella domanda e nell'offerta politica esaminati sopra hanno stimolato un'ampia riflessione teorica sulla rappresentanza. - governo rappresentativo si intende quel tipo di governo parlamentare che basa la propria legittimità sul fatto di riflettere, nella sua composizione e nelle sue scelte di policy, le indicazioni dell'elettorato. - Democrazia rappresentativa è un concetto più ampio che indica un modello di democrazia che si differenzia da altri modelli di democrazia per il fatto di basare la sua legittimità sul rapporto di rappresentanza che si esprime soprattutto, ma non solo, nel modello elettorale. La democrazia rappresentativa è quindi un concetto più normativo che descrittivo, che ricomprende una pluralità di meccanismi che assicurano che le decisioni politiche vengano prese in modo da conformarsi alla volontà dei cittadini. - rappresentanza indica il rapporto tra rappresentato e rappresentante su cui si basano sia la democrazia rappresentativa sia il governo rappresentativo, che può sostanziarsi in aspettative e comportamenti piuttosto diversi. Rappresentanza e rappresentatività in una democrazia sono assicurate non solo dal rapporto di rappresentanza stesso, che pure occupa un posto centrale, ma anche da una serie di altre garanzie politiche, diritti fondamentali e meccanismi istituzionali che caratterizzano un sistema politico democratico. Anna Pitkin nel 1977 conduce un'analisi lessicografica del rapporto di rappresentanza, prendendo in considerazione le numerose accezioni con cui questo termine viene utilizzato per concludere che poi dei significati di rappresentanza normalmente utilizzati sono al più parziali. Anche Pitkin considera fondamentale il fatto che si crei un momento di distacco e di riflessioni tra i desideri dei rappresentanti le azioni dei rappresentanti, che permette a entrambi di entrare in un dialogo deliberativo per stabilire quale sia il modo migliore per fare gli interessi dei rappresentati. Più succintamente Pitkin ribadisce che il rappresentante deve perseguire gli interessi dei propri rappresentati in modo da rispondere almeno potenzialmente ai loro desideri in modo che l'eventuale conflitto tra questi desideri possa essere risolto tenendo conto dei loro interessi. Jane Mansbridge ha contribuito a rilanciare la riflessione sulla rappresentanza chiedendosi quali condizioni possono assicurare che i rappresentanti davvero cerchino di rappresentare le preferenze degli elettori e che non finiscano invece preoccuparsi i propri interessi. Distingue quattro tipi di rappresentanza: 1. Rappresentanza provvisoria è quella caratteristica del rapporto principale-agente: l’agente permette di agire al meglio delle proprie capacità per promuovere gli interessi del principale, e questo potrà verificare se è così è stato solo al termine del rapporto di rappresentanza. Se l'agente non ha agito bene, l'unica punizione nelle mani del principale è di non rinnovare il rapporto di rappresentanza. 2. Rappresentanza anticipatoria l’agente sapendo che la punizione per un cattivo servizio sarà la mancata riconferma del mandato, cercherà di agire in modo da conquistare di nuovo il favore degli elettori. Tuttavia, non è definito di quali elettori si tratti visto che basta un rappresentante accontenti degli elettori. 3. Rappresentanza giroscopica perché, come un giroscopio che ruota attorno al proprio asse, il rappresentante trae da sé stesso le idee e le visioni del mondo che finirà con il rappresentare. All’elettore non rimane che osservare i convincimenti del candidato e votarlo nel caso in cui queste idee e visioni siano anche le sue. Il rappresentante è disconnesso da un partito e da un elettorato, l'unica speranza che ha di ottenere in questo modo buona rappresentanza di aver saputo scegliere bene il candidato. 4. Rappresentanza surrogata, cioè quella rappresentanza offerta dal rappresentante di un altro distretto che quindi non si può votare ma che in qualche modo porta avanti le visioni del mondo dell’elettore. Nessun tipo di rappresentanza garantisce che il rappresentante agirà effettivamente in consonanza con le idee ed interessi dei rappresentanti. Michael Seward scardina completamente il concetto che il rapporto di rappresentanza sia in qualche modo un contratto e fornisce ciò che potremmo chiamare una visione costruttivista della rappresentanza, la indica come pretesa di rappresentanza. Secondo lo studioso il rapporto di rappresentanza è molto più complesso e coinvolge potenzialmente ben cinque elementi: un attore, che indica un soggetto, che sta al posto di un oggetto, che si rapporta a un referente ed è offerto a un pubblico. In questa teorizzazione si vede come la rappresentanza avviene in molti modi anche al di fuori dell'istituzioni della democrazia rappresentativa e come vi possa essere, anche in questi contesti più canonizzati, molta inventiva circa le varie componenti del rapporto di rappresentanza. Per Seward il rapporto di rappresentanza è una corruzione sociale La nuova centralità dell’acuntability Una direzione in cui si è mossa la riflessione sulla rappresentanza è quella dell’accountability. Avendo accettato il fatto che il legame tra rappresentato e rappresentante si consolida solo ex post e non si forma ex ante l’ unica opportunità di recuperare la propria sovranità è non rinnovare il mandato dell’incumbent. L'accountability però è tanto più difficile da osservare quanto più complesso sono il governo e la società. Dato che è diventato oggettivamente molto difficile sapere esattamente chi decide cosa e chi fa cosa e a quale livello, ma è diventato ancora più difficile attribuire colpe e meriti sia quando le cose vanno male sia quando esse vanno bene. Trasparenza e leggibilità delle interazioni sono condizioni necessarie affinché si possano attribuire i meriti e colpe e si possa chiedere conto dei risultati ottenuti. A tale riguardo la letteratura ha provveduto a distinguere diversi tipi di accountability, tutti intesi come forme di responsabilità e di rendiconto stabilità di chi detiene cariche di governo. L'accountability verticale per svariate ragioni questo tipo di controllo diretto da parte degli elettori si presenta oggi piuttosto indebolita. Da qui parte l'esigenza di corroborare meccanismi di controllo delle autorità attraverso quella che viene chiamata accountability orizzontale o accountability interistituzionale, nel senso che sono altre istituzioni a limitare e vagliare i comportamenti di chi ricopre cariche pubbliche di governo. Nelle società avanzate e pluraliste un
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved