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Scritti Sulle Arti - Jean Jacque Rousseau, esame - Filosofia ed estetica musicale - prof. Semi - 2018, Sintesi del corso di Storia Della Musica Moderna E Contemporanea

Riassunto del libro "Scritti Sulle Arti" di Rousseau, propedeutico all'esame di Filosofia ed estetica musicale con prof. Semi

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019
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Caricato il 29/01/2019

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Scarica Scritti Sulle Arti - Jean Jacque Rousseau, esame - Filosofia ed estetica musicale - prof. Semi - 2018 e più Sintesi del corso in PDF di Storia Della Musica Moderna E Contemporanea solo su Docsity! Jean Jacques Rousseau Scritti sulle arti Riassunto DISCORSO SULLE SCIENZE E SULLE ARTI Nel “Discorso sulle scienze e sulle arti” Rousseau afferma che le lettere, le scienze e le arti non fanno altro che abbellire le catene che gravano sugli uomini che vivono in società, soffocano in loro il sentimento di quella libertà originaria per la quale sembravano nati, li inducono ad amare la loro schiavitù e ne fanno popoli inciviliti diventano così uno strumento di controllo da parte dei tiranni. Sarebbe molto più facile vivere in società se il contegno esteriore fosse sempre l’immagine delle disposizioni del cuore, se la decenza fosse la virtù. Prima che l’arte avesse ingentilito i nostri modi e avesse insegnato alle nostre passioni a parlare un linguaggio ricercato, i nostri costumi erano rozzi, ma naturali; e la diversità dei comportamenti rivelava al primo colpo d’occhio quella dei caratteri. Oggi non si osa più apparire ciò che si è: la società è diventata un gregge in cui, posti nelle stesse circostanze, faranno tutti le stesse cose. Non sapremo quindi mai bene con chi avremo a che fare e ciò alimenta sospetti, odio, timori e diffidenze che proliferano sotto quel velo uniforme e perfido di modi civili. Per caldeggiare la sua tesi Rousseau cita Socrate che nella sua dissertazione su pittori e poeti critica la loro presunzione che li porta a considerarsi i più sapienti fra gli uomini e conclude sostenendo che nessuno dei loro talenti equivale alla propria consapevolezza di non sapere nulla. Rousseau prosegue dichiarando che la natura ha reso estremamente faticoso il processo per istruirsi così da preservare gli uomini dalla scienza per proteggerli dal male che questa porta con sé. Ogni arte è nata dal vizio: l’Astronomia dalla superstizione, l’Eloquenza dall’adulazione, la Geometria dall’avarizia, la Fisica da una vana curiosità e la Morale dall’orgoglio umano. Se le nostre scienze sono vane nell’oggetto che si propongono, sono ancor più pericolose per gli effetti che producono: i più temibili sono l’abuso del tempo e il lusso. Nate dall’ozio a loro volta le arti lo alimentano facendo sì che la società perda tempo in sublimi conoscenze che si rivelano inutili in quanto non contribuiscono a renderci più numerosi, meglio governati o più prosperi. Il secondo male è il lusso, nato dalla vanità degli uomini. Esso soffoca la virtù in quanto l’uomo pur di arricchirsi è disposto a qualsiasi cosa. Gli uomini hanno valore per lo Stato solo in base al consumo che essi vi fanno. I nostri politici dovrebbero imparare che col denaro si ottiene qualsiasi cosa, fuorché costui integri e cittadini onesti. Mentre le comodità della vita si moltiplicano, mentre le arti si perfezionano e il lusso si estende, il vero coraggio si snerva, le virtù militari vengono meno, e questa è ancora l’opera delle scienze e di tutte quelle arti che si praticano nella penombra di uno studio. Oggi non ci si domanda più di un uomo se abbia rettitudine, ma se possieda talento; né di un libro se è utile, ma se è ben scritto. Esistono mille premi per i bei discorsi, nessuno per le belle azioni. Rousseau prega perché ci vengano restituite l’ignoranza, l’innocenza e la povertà, i soli beni che possono fare la nostra felicità. Egli ricorda inoltre che i grandi geni della nostra società quali Cartesio e Newton non ebbero bisogno di alcun maestro e solo a quelli che sentiranno la forza di procedere da soli sulle loro orme e di oltrepassarli bisognerebbe permettere di darsi alle arti e alle scienze così da elevare monumenti alla gloria dello spirito umano. Quanto agli uomini ordinari essi dovrebbero restare nella loro oscurità invece di correre dietro ad una fama che gli sfuggirebbe o che comunque non ci renderebbe mai quel che ci è costata. A che pro cercare la nostra felicità nell’opinione altrui se possiamo trovarla in noi stessi? PREFAZIONE AL “NARCISO” In questa prefazione Rousseau decide di parlare di se stesso e afferma che lavorando per meritarsi la propria stima egli ha imparato a non darsi pensiero della stima altrui. Molti sostengono che dichiarandosi contro le scienze Rousseau parli contro le sue stesse convinzioni ma egli ribatte che coloro che lo accusano così temerariamente non si facciano poi un grande scrupolo di parlare contro il loro stesso pensiero. Inoltre egli accetterà tali condanne solo se questi saranno in grado di presentargli un uomo che agisca sempre conseguentemente con le proprie massime (infatti anche se egli stesso afferma di comportarsi male ciò non significa che non agisca in buona fede). 1 Questo è il destino dell’umanità: la ragione ci addita la meta e le passioni ce ne allontanano. Rousseau sottolinea inoltre che anch’egli durante la sua giovinezza tentò di ottenere il titolo di autore e perciò compose molti versi ma non lo si può per questo accusare di aver infranto principi che ai tempi non erano ancora suoi. Dopo aver dissipato le critiche dei propri avversari Rousseau passa ad analizzare una questione che egli ritiene ben più importante: l’influenza che lo studio delle scienze deve avere in ogni occasione sui costumi dei popoli. Innanzitutto egli dimostra che i costumi sono degenerati presso tutti i popoli della terra, a misura che il gusto per lo studio e per le lettere si è esteso fra di loro. Egli distingue inoltre la scienza, astrattamente intesa, degna di ammirazione, dalla folle scienza degli uomini degna solo di derisione e disprezzo. Secondo Rousseau il gusto per le lettere può nascere solo dall’ozio e dal desiderio di distinguersi ma in uno Stato ben costruito tutti i cittadini sono a tal punto uguali che nessuno può essere anteposto agli altri come il più sapiente o persino come il più abile, ma tutt’al più come il migliore (anche questa distinzione è pericolosa). Il gusto per le lettere, la filosofia e le belle arti annulla l’amore per i nostri primi doveri e per la gloria autentica; oggi ognuno vuol essere un uomo piacevole e nessuno si preoccupa di essere un uomo retto. Da qui ancora nasce quell’altra incongruenza per cui negli uomini si ricompensano unicamente le qualità che non dipendono da loro: i talenti infatti, nascono con noi, e solo le virtù ci appartengono. Il gusto della filosofia allenta inoltre tutti i legami di stima e di benevolenza che collegano gli uomini alla società; infatti a forza di riflettere sugli uomini il filosofo impara a stimarli secondo il loro valore, ed è difficile sentire affetto per ciò che si disprezza e così il suo amor proprio aumenta in proporzione alla sua indifferenza per il resto dell’universo. In conclusione Rousseau afferma che i vantaggi che possiamo ricavare dalle scienze e dalle arti sono ben misera cosa se paragonati ai mali che questi comportano. Nella società odierna infatti un uomo per essere onesto deve rinunciare alla virtù, sono state perse l’innocenza e i buoni costumi, nessuno può più mostrarsi per quello che realmente è se vuole essere accettato. La scienza non è fatta per l’uomo in generale. Egli si smarrisce incessantemente nella sua ricerca, e se talvolta la consegue, è quasi sempre a suo danno. Egli è nato per agire e pensare, e non per riflettere. La riflessione serve solo a renderlo infelice senza renderlo migliore né più saggio. Tuttavia è anche vero che le arti e le scienze, dopo aver fatto sbocciare i vizi, sono necessarie per impedire a questi di cangiarsi in delitti. Secondo Rousseau bisognerebbe lasciar sussistere, e persino mantenere con cura le accademie, i collegi, le università, gli spettacoli, e tutti gli altri intrattenimenti che possono procurare qualche diversivo alla malvagità degli uomini, e impedir loro di dedicare la loro inattività a cose più pericolose. Il problema non è più condurre i popoli ad agire bene, occorre soltanto distoglierli dal fare il male. LETTERA A D’ALEMBERT SUGLI SPETTACOLI Rousseau apre la prefazione della sua lettera riportando il passo dell’Encyclopédie che intende commentare. In questo frammento D’Alembert tratta degli spettacoli teatrali che non vengono tollerati a Ginevra poiché si teme il gusto dell’apparenza, della dissipazione e del libertinaggio che le compagnie degli attori diffondono tra i giovani. Egli propone come soluzione a tale timore l’imposizione di leggi severe e rigidamente applicate sulla condotta degli attori che permetterebbero agli spettatori delle opere teatrali di godere di piaceri onesti come quello della filosofia e della libertà. Rousseau tuttavia giudica tale consiglio piuttosto pericoloso in quanto teme che, incoraggiata da un’autorità di così grande peso, la gioventù si abbandonerà a idee verso le quali è già fin troppo incline. Egli inoltre si scusa per la mediocrità del proprio scritto poiché per essere utile occorre essere piacevoli ma la sua penna ha ormai perduto tale capacità. Con questa lettera Rousseau non intende più trattare di vuote chiacchiere di filosofia, ma di una verità pragmatica importante per un intero popolo. Il primo argomento che Rousseau decide di affrontare nella sua lettera è il giudizio che D’Alembert esprime sulla dottrina dei ministri in fatto di fede. Rousseau sottolinea che quando si vuole onorare le persone bisogna che ciò avvenga secondo il loro modo e non secondo il nostro, affinché non si offendano, e anche se si trattasse di fatti e non di lodi ciò non giustificherebbe il fatto di parlarne senza valide legittimazioni. D’Alembert potrebbe inoltre ribattere che le sue critiche non erano rivolte a tutto il ceto ecclesiastico, ma quando ci si rivolge alla maggior parte di un gruppo così piccolo ne risulta inevitabilmente influenzato il tutto. D’Alembert sostiene che molti pastori di Ginevra siano dei sociniani ma lo fa senza nessuna fonte valida, basandosi solo su congetture. Rousseau 2 anche ai cattivi costumi delle attrici e da qui inizia una profusione di pesanti pagine antifemministe nella lunga trattazione dell’immoralità delle donne a teatro. Secondo Rousseau non esistono buoni costumi per le donne all’infuori di una vita ritirata e modesta, e a qualsiasi grido in favore dell’uguaglianza egli ribatte asserendo che questo è il volere della natura e sarebbe un crimine soffocare la sua voce, ogni donna senza pudore è quindi colpevole e depravata, perché calpesta un sentimento naturale per il suo sesso. Data questa premessa l’unico mezzo per estirpare questo male è eliminarne la causa; ciò non significa però che si debbano disprezzare tutti i commedianti, infatti un commediante dotato di modestia, di buoni costumi, di onestà è doppiamente stimabile, come diceva D’Alembert, poiché mostra in questo modo che l’amore per la virtù prevale in lui sulle passioni dell’uomo e sull’influsso della sua professione. Specificatamente alla citta di Ginevra, le braccia, l’uso del tempo, la vigilanza, l’austera parsimonia: questi sono i tesori che essa possiede; un divertimento da persone oziose non farebbe altro che sottrarre alla città tempo e denaro, dal momento che è impossibile che un teatro di prosa si mantenga con il solo contributo degli spettatori. Il primo effetto evidente di questa istituzione sarebbe una rivoluzione delle usanze, che ne produrrebbe necessariamente un’altra nei costumi. Ciò che Ginevra possiede sono divertimenti caratterizzati da una semplicità e un’innocenza che si addicono ai costumi repubblicani quali i circoli in cui gli uomini, dispensati dall’abbassare le loro idee alla portata delle donne e dall’agghindare in modo elegante la ragione, possono abbandonarsi a discorsi gravi e seri senza temere il ridicolo. Queste oneste istituzioni riuniscono tutto ciò che può contribuire a trasformare gli stessi uomini in amici, cittadini, soldati, e di conseguenza in tutto ciò che meglio conviene a un popolo libero. Oggi al contrario gli uomini tentano esclusivamente di divertire le donne perdendo così la propria tempra d’animo. Ovunque dominino le donne, deve dominare anche il loro gusto freddo, grazioso, senz’anima: ed ecco ciò che determina quello di questo secolo. Gli spettacoli moderni, a cui si assiste solo a pagamento, tendono ovunque a favorire e ad accentuare la diseguaglianza fra le ricchezze. In una repubblica l’opulenza di un individuo può facilmente porlo al di sopra delle leggi, il ricco è sempre il vero sovrano. A questo proposito Rousseau si chiede se ormai la diseguaglianza non abbia raggiunto il termine ultimo a cui può giungere senza distruggere la repubblica. Rousseau infine chiude questa lunga lettera contrapponendo le sane feste paesane agli spettacoli teatrali delle grandi città. Non è infatti vero che una repubblica non abbia bisogno di spettacoli ma non bisogna adottare quegli spettacoli esclusivi che rinchiudono tristemente un piccolo numero di persone in un antro oscuro, che li costringono spaventati e immobili nel silenzio e nell’inattività; è all’aria aperta, è sotto il cielo che bisogna riunirsi e abbandonarsi al dolce sentimento della serenità. SULL’IMITAZIONE TEATRALE Il discorso che segue non è che una sorta di antologia, realizzata da Rousseau, dei diversi passi in cui Platone tratta dell’imitazione teatrale. Inoltre tutto ciò che viene affermato qui è riferito in egual modo alla poesia, alla pittura e all’imitazione teatrale. Nella sua repubblica immaginaria Platone assegna dei limiti all’arbitro dei poeti e proibisce loro tutte quelle arti che si riferiscono all’imitazione. Egli considera gli autori drammatici come corruttori del popolo o di chiunque, lasciandosi ingannare dalle loro immagini, non sia in grado di considerarle sotto il loro vero punto di vista. Per imitare un oggetto bisogna averne un’idea, quest’idea è sempre astratta e precedente alla sua realizzazione. Prendiamo ad esempio un architetto che intende realizzare un palazzo. Vi è l’idea di palazzo che esiste nell’intelletto dell’architetto ed è il modello a cui egli si ispirerà (primo livello), il palazzo che verrà effettivamente realizzato dall’architetto (secondo livello), e l’imitazione di tale palazzo che il pittore traccerà sulla propria tela (terzo livello). L’imitazione appartiene dunque al terzo ordine degli enti e sarà sempre di un grado più lontana dalla verità di quanto si pensi. Quel che è peggio è che spesso il pittore non cerca nemmeno di rendere fedelmente la verità dell’oggetto, bensì l’apparenza: lo dipinge come sembra essere, non come esso è; per questo motivo non è necessario conoscere un oggetto per poterlo dipingere e, sempre per questo, la pittura non può portare alla conoscenza. Si potrebbe obiettare che nemmeno il filosofo stesso conosce tutte le arti di cui parla, e che spesso spinge le sue idee tanto lontano quanto il poeta le sue immagini. Ma il filosofo indaga, ci istruisce pur ingannandosi, propone i suoi dubbi in quanto dubbi, le sue congetture in quanto congetture e afferma solo quello che sa. Il filosofo che ragiona sottopone le sue ragioni al nostro giudizio; il poeta, 5 colui che imita, si erge lui stesso a giudice. La pittura fa presa sulla debolezza dell’intelletto umano, sempre precipitoso nel giudicare senza conoscere, inganna i nostri sensi. Per proteggerci da tali illusioni dovremmo affidarci all’esame e all’analisi, imparando così a non giudicare un oggetto per ciò che sembra essere, ma per il fatto che il numero, la misura e il peso lo presentano come tale. Un altro effetto pernicioso della pittura è quello di rovesciare l’ordine delle nostre facoltà e farci subordinare il meglio al peggio. L’abile pittore, che conosce l’arte di avere successo, si guarderà bene dal rappresentare immagini moralmente perfette, che poco attirano l’attenzione degli spettatori, bensì colpisce il pubblico con immagini estremamente contraddittorie che risulteranno molto più accattivanti. In questo modo l’uguaglianza, la forza e la fermezza diventano impercettibilmente qualità detestabili mentre i vizi vengono onorati; e questo rovesciamento delle rette opinioni è l’inevitabile effetto delle lezioni che si va a ricevere a teatro. Nonostante la nostra predisposizione a lasciarci sedurre dalle bellezze dell’arte Platone ci ingiunge di armarci di forza e di razionalità contro tali illusioni, poiché tutto si eclissa e svanisce come un’ombra, accanto alla giustizia e alla virtù. SAGGIO SULL’ORIGINE DELLE LINGUE Capitolo I – La parola distingue l’uomo dagli altri animali: il linguaggio distingue le nazioni tra loro; non si capisce da dove un uomo venga prima di averlo sentito parlare. In origine, non appena un uomo fu riconosciuto da un altro in quanto essere senziente, pensante e simile a lui, il desiderio o il bisogno di comunicargli i suoi sentimenti e i suoi pensieri lo indusse a cercare il mezzo per farlo. In generale i mezzi attraverso i quali possiamo agire sui sensi altrui sono due in tutto, e cioè io movimento (tatto e gesto) e la voce. Benché la lingua del gesto e quella della voce siano entrambe naturali, la prima è più facile e dipende meno dell’altra dalle convenzioni. Si parla assai meglio agli occhi che alle orecchie, il linguaggio più energico è quello in cui il segno ha detto tutto. Ma quando si tratta di commuovere il cuore e di infiammare le passioni, le cose cambiano. Le passioni hanno i loro gesti, ma hanno anche i loro accenti, e questi accenti che vi fanno trasalire, questi accenti dai quali non possiamo distogliere l’organo dell’udito, penetrano attraverso di esso sino al profondo del nostro cuore, vi portano nostro malgrado i moti che li suscitano e ci fanno sentire ciò che ascoltiamo. La lingua di convenzione è propria solo dell’uomo. Ecco perché l’uomo fa progressi, nel bene e nel male, mentre gli animali non ne fanno. Capitolo II – Si deve quindi ritenere che furono i bisogni a dettare i primi gesti e le passioni a strappare i primi suoni. Non si cominciò col ragionare ma col sentire. Non sono state né la fame, né la sete bensì l’amore, l’odio, la pietà, la collera a strappare o primi suoni. È per questo che le prime lingue furono cantanti e appassionate prima d’essere semplici e metodiche. Capitolo III – Come i primi motivi che fecero parlare l’uomo furono passioni, così le sue prime espressioni furono tropi. Il linguaggio figurato fu il primo a nascere, mentre il senso proprio fi trovato per ultimo. Si chiamarono le cose con il loro vero nome solo quando le si vide nella loro forma vera. In principio si parlò solo in poesia, e ci si decise a ragionare solo molto tempo dopo. Capitolo IV – I semplici suoni escono naturalmente dalla gola, la bocca è naturalmente più o meno aperta; ma le modificazioni della lingua e del palato che consentono l’articolazione richiedono esercizio, attenzione, perché non possiamo farle senza intenzione. Le articolazioni sono molto limitate di numero, mentre i suoni sono infiniti e gli accenti che lì sottolineano possono moltiplicarsi con la stessa ampiezza. La lingua originaria, se esistesse ancora, conserverebbe i caratteri origini che la distinguerebbero da tutte le altre. Essa avrebbe molti sinonimi per esprimere il medesimo essere attraverso i suoi differenti rapporti; e pochi avverbi, nonché pochi termini astratti per esprimere questi stessi rapporti. Avrebbe un gran numero di accrescitivi, diminutivi, parole composte, particelle pleonastiche per dare cadenza ai periodi e rotondità alle frasi. Avrebbe molte irregolarità e anomalie, eviterebbe l’analogia grammaticale e privilegerebbe l’eufonia, il numero, l’armonia e la bellezza dei suoni. Capitolo V – Man mano che i bisogni crescono, che gli affari si intrecciano, che i lumi si estendono il linguaggio muta carattere: diviene più preciso e meno appassionato; sostituisce ai sentimenti le idee, non parla più al cuore ma alla ragione. La lingua diventa 6 più esatta, più chiara, ma più monotona, più sorda e più fredda. Un altro modo per comparare le lingue e di giudicare della loro antichità si ricava dalla scrittura: 1. il primo modo di scrivere consiste nel dipingere non suoni ma gli oggetti stessi; 2. il secondo modo consiste nel rappresentare le parole e le proposizioni attraverso caratteri convenzionali; 3. il terzo modo è quello di scomporre la voce parlante in un certo numero di parti elementari, vocali o articolate e con esse formare tutte le parole e le sillabe immaginabili. Questi tre modi di scrivere corrispondono con una certa precisione ai tre diversi stadi in cui gli uomini si uniscono a formare nazioni. La pittura degli oggetti si addice ai popoli selvaggi; i segni delle parole e delle proposizioni ai popoli barbari, l’alfabeto ai civilizzati. Nel tempo molti popoli hanno cercato di raggiungere un alfabeto “completo”, eppure non esiste una quantità di lettere o di elementi della parola determinata in assoluto; ve ne sono di più o di meno secondo le lingue e secondo le diverse modificazioni che si conferiscono alle vocali e alle consonanti. Capitolo VI – In questo capitolo Rousseau mette in dubbio non solo il fatto che Omero sapesse scrivere ma anche l’esistenza della scrittura ai suoi tempi, e lo fa basandosi su tre principali ragioni: 1. Nell’Iliade non viene mai citata la scrittura; 2. Se durante l’Odissea si fossero potute mandare lettere l’opera stessa perderebbe di significato; 3. Omero usa molti dialetti differenti, e si sa che più una nazione legge e si istruisce, più i suoi dialetti sfumano. Da qui si evince che i due poemi restarono a lungo scritti solo nella memoria degli uomini e furono messi per iscritto solo successivamente e con grande fatica. Capitolo VII – Non abbiamo alcuna idea di una lingua sonora e armoniosa che parli con i suoni come con le voci. Noi crediamo di avere accenti nelle nostre lingue, mentre non ne abbiamo alcuno. Quelli che spacciamo per accenti sono in realtà solo vocali o segni di quantità e non indicano alcuna varietà di suono. In tal modo si finisce col confermare il principio secondo il quale per un progresso naturale tutte le lingue letterarie non possono non cambiare di carattere e perdere forza guadagnando in chiarezza; più si attende a perfezionare la grammatica e la logica e più si accelera questo progresso; infine, per rendere rapidamente una lingua fredda e monotona è sufficiente fondare accademie presso il popolo che la parla. Quando una lingua è più chiara per l’ortografia che per la pronuncia, è segno che è più scritta che parlata. Capitolo VIII – Quando si vogliono studiare gli uomini occorre guardarsi intorno, ma per studiare l’uomo occorre imparare a spingere lo sguardo più lontano; occorre innanzitutto osservare le differenze se si vogliono scoprire le proprietà: questo vale anche per le lingue. La principale causa che le distingue è locale, deriva dai climi in cui nascono e dal modo in cui si formano. Per questo motivo cercheremo di seguire nelle nostre ricerche sull’origine delle istituzioni umane l’ordine stesso della natura. Capitolo IX – Nei tempi primitivi gli uomini non erano legati da alcuna idea di fraternità reciproca e avendo come unico arbitrio la forza si credevano nemici gli uni degli altri. Le affezioni sociali si sviluppano in noi solo con i lumi. Chi non ha mai riflettuto non può essere né clemente né giusto né pietoso; d’altra parte non può essere neppure crudele e vendicativo. Chi non immagina nulla sente solo se stesso; è solo in mezzo al genere umano. I primi uomini furono cacciatori o pastori, non agricoltori; i primi beni furono greggi, non campi. Prima che la proprietà della terra fosse distribuita, nessuno pensava a lavorarla. L’uomo in società cerca di allargarsi, l’uomo isolato tende a chiudersi. L’uomo conosce tre modi di vivere: la caccia, la pastorizia e l’agricoltura. Quest’ultima è legata a tutte le arti: determina la proprietà, il governo, le leggi, e a poco a poco la miseria e i crimini, inseparabili per la nostra specie della scienza del bene e del male. Alla suddivisione precedente vanno ricollegati i tre stati dell’uomo considerato nel suo rapporto con la società. Il selvaggio è cacciatore, il barbaro pastore, l’uomo civile agricoltore. Che si cerchi l’origine delle arti o che si osservino i costumi primitivi, si nota che tutto si riconduce in fondo ai mezzi di provvedere alla sussistenza, mentre per quanto riguarda i mezzi che tengono uniti gli uomini, essi sono determinati dal clima e dalla natura del suolo. È quindi con le stesse cause che occorre spiegare la diversità delle lingue e l’opposizione dei loro caratteri. Da sempre le associazioni umane sono state favorite dalle calamità naturali. Costretti ad accumulare provviste per l’inverno gli uomini erano costretti ad aiutarsi a vicenda e a stabilire fra loro qualche forma di convenzione. Anche la scoperta del fuoco e del focolare contribuì a creare i primi luoghi di 7
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