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SE QUESTO E' UN UOMO, Sintesi del corso di Letteratura Italiana

Sintesi e analisi di tutti i capitoli di Se questo è un uomo

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021
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Caricato il 27/10/2021

alba_labbate
alba_labbate 🇮🇹

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Anteprima parziale del testo

Scarica SE QUESTO E' UN UOMO e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! SE QUESTO E' UN UOMO Se questo è un uomo (edito nel 1947 dalla casa editrice De Silvia, e ristampato con alcune varianti da Einaudi nel ’58) è una delle più importanti opere di Primo Levi, in cui egli narra l’esperienza della sua deportazione nel lager di Auschwitz, in quanto ebreo. La stesura del libro prende avvio dopo il ritorno a casa avvenuto nel dicembre del 1945 e fu concitato e frettoloso, Levi scrisse sul treno, di notte e nei momenti liberi, in cui non lavorava (nella fabbrica Duco di Avigliana) tanto che il libro gli cresceva tra le mani senza una struttura prestabilita. Il titolo del libro è un drammatico interrogativo che Levi rivolge ai lettori. Egli riflette sulle conseguenze dell’annientamento dell'identità e della dignità dell’uomo operato sistematicamente dai nazisti e domanda se possano definirsi uomini questi prigionieri privati di tutto e resi incapaci di difendersi e di reagire. Levi ha due esigenze: Liberatoria, che implica un coinvolgimento personale ed emotivo; Dare voce ai ‘sommersi’ ovvero alle vittime che hanno fatto ritorno a casa, attraverso la scrittura. Lo scopo della testimonianza, quindi, è quello di conservare la memoria riferendo con precisione e chiarezza i fatti accaduti; POESIA: L’opera si apre con una poesia, con datazione 10 gennaio 1946 e inserita nell’edizione del ’58. Essa è una poesia che nel romanzo non ha un titolo, ma nella raccolta lirica "Ad ora incerta" ne possiede uno ben preciso: Shema. Shema è un termine ebraico che significa “ascolta” ed è l’inizio di una preghiera ebraica che tratta dell'amore che l’uomo deve portare a Dio, con l'impegno di tramandare la fede di padre in figlio. Primo Levisi rivolge a tutti coloro che conducono una vita normale, tranquilla e confortevole, affinché non chiudano gli occhi davanti alla sofferenza e alla condizione di disumanità vissute da coloro che sono stati rinchiusi nei campi di concentramento. Infatti, nel verso 5, “Considerate se questo è un uomo”, l’uomo a cui Levi si riferisce non è il carnefice, perché chi perde l'umanità non sono i carnefici, sono i prigionieri. | campi di concentramento sono il più grande esperimento mai provato sull’uomo, e ci mostrano la reazione dell’uomo portato alla sua più marginale estremità: la perdita dell'umanità. La colpa peggiore dei nazisti è stata la degradazione dell’uomo a bestia, di genocidi tanti ci sono stati e tanti ce ne saranno, ma la peculiarità dell’olocausto è questa. Il poeta quindi, traumatizzato dall'esperienza vissuta, rivolge un appello al lettore ed all'uomo in generale affinché non venga mai dimenticato ciò che è accaduto, perché si tenga viva la memoria dell’orrore della deportazione e dello sterminio degli ebrei raccontando la Shoah ai propri figli, per far sì che mai più possa ripetersi una tale follia. La poesia si conclude con un monito per coloro che rimarranno indifferenti all’imperativo della memoria, sui quali, come una maledizione, si abbatteranno tragedie e castighi. (Levi non era un ebreo praticante, paradossalmente scoprirà l'ebraismo nel lager.) PREFAZIONE: La prefazione è introdotta da un paradosso: “per mia fortuna sono stato internato ad Auschwitz solo nel 1944..” egli esordisce definendosi fortunato per essere stato deportato in un periodo in cui era relativamente più facile riuscire a sopravvivere alle dure condizioni di vita dato che i tedeschi, necessitando di manodopera, avevano leggermente migliorato il tenore di vita dei prigionieri. Levi prosegue dando le motivazioni che lo hanno spinto alla stesura del libro che sono quelle di “fornire documenti per uno studio pacato dell'animo umano”, la radice del male è nell’idea dello straniero come nemico, sentimento considerato da Levi “infezione latente”, che al termine del suo percorso porta al Lager. Gli ebrei, paradossalmente, non erano stranieri, non erano provenienti da altre terre, erano lì da millenni. Levi si è sentito straniero, trattato da straniero, pur non essendosi mai sentito neppure ebreo. Quindi questo libro non è fatto solo per ricordare, ma soprattutto per educare. IL VIAGGIO, CAP I: Nel primo capitolo Primo Levi racconta le circostanze della sua cattura il 13 dicembre 1943, da parte della Milizia fascista mentre si trovava con un gruppo di partigiani. Dopodiché, il 26 gennaio del 1944, dal carcere di Aosta, Levi, viene portato prima al campo di smistamento di Fossoli (in provincia di Modena) e poi un mese dopo ad Auschwitz. Già nel titolo "il viaggio" c'è di per sé una citazione ad un fondamentale concetto dantesco, quello appunto del viaggio: "A te convien trovare un altro viaggio" dice Virgilio a Dante all’interno della Commedia. Il viaggio di Levi inizia con una serie di riferimenti danteschi in quanto bisognava trovare le parole per descrivere questo male incredibile, che non può essere creduto, Levi non può far altro che riferirsi alle parole di chi quel male l’aveva già vissuto, se pur in senso metaforico. Ogni riferimento alla Shoah inizia sempre con il viaggio, c'è sempre l’immagine del vagone, del treno, del binario. Il viaggio è parte integrante della sofferenza, ne è l’inizio. Levi quindi parte dal viaggio, parte dal giorno della sua cattura, sottolineando che fu catturato dalla milizia fascista, dagli italiani, e non dai tedeschi, mostrando senza margine di dubbio la corresponsabilità italiana nel massacro. Levi aveva 24 anni e definisce il se del tempo come un isolato. Le leggi razziali entrarono in vigore circa quattro anni prima della sua cattura, Levi di anni ne aveva 20, e dai suoi vent'anni non era più stato un cittadino. Ha vissuto, come i molti della sua generazione, in un regime di segregazione, questo ha favorito la sua chiusura in sé stesso, in un mondo dentro di sé, costruito, secondo le sue parole, di "scarsa realtà". Viveva fuori da quella realtà del mondo "vero", e viveva in un mondo fatto di "CIVILI FANTASMI CARTESIANI" Cartesio è il simbolo della razionalità, egli ha razionalizzato l’universo; dire che il mondo di Levi era fatto da fantasmi cartesiani significa che egli si era creato una corazza di protezione fatta, a rigor della sua scienza, di razionalità. Reagisce con una chiusura rispetto ad una realtà che sembra impazzita, una chiusura fatta di ragionamento logico. Primo Levi finisce in una banda partigiana fatta da poche persone disorganizzate, che egli definisce addirittura "squalificate", nessuno di loro era un combattente. Pensò che dichiararsi partigiano l’avrebbe portato a morte certa, ma che ammettere il suo status di "cittadino ITALIANO di razza ebraica" gli avrebbe risparmiato più di tante sofferenze. Levi, come molti altri, non aveva consapevolezza di ciò che stava accadendo. Si ritrovò nel campo di Fossoli al cui interno vi erano svariate famiglie ebree. Tutto cambia con l’arrivo delle SS, perché con loro arriva il preannuncio della deportazione di tutti gli ebrei (anche bambini, anziani e malati) verso un altro luogo e per ogni fuggitivo in 10 sarebbero stati fucilati. Alla viglia della partenza è possibile ritrovare un’altra immagine dantesca, Levi descrive infatti quella notte come: "Tale che si conobbe che occhi umani non avrebbero dovuto assistervi e sopravvivere" Essa è una notte tale che è meglio non dire ciò che è stata, si fa prima a definirla nella sua negazione che nel suo essere. Quando la notte va oltre, Levi, scopre una cosa che lo sorprende, nella baracca numero 6 è in atto una celebrazione. Lui sente tutto, e se ne sta lì davanti ad ascoltare quel dolore, che per lui è nuovo, ma per colore che lì dentro pregano e piangono è vecchio di secoli. Primo Levi scopre qui, per la prima volta, il dolore dell’esodo, scopre qui di essere ebreo. La scoperta delle radici avviene nel momento in cui queste stesse radici vengono negate, nel momento in cui ebrei non si può essere più, Levi scopre la sofferenza del popolo senza terra. L’alba, sinonimo ed immagine di speranza, colse Levi e tutti gli ospiti di Fossoli l'inferno” Ogni inferno che si rispetti ha una porta d’ingresso ed una scritta d'accoglienza: “Lasciate ogni speranza, o voi che entrate” Recitava quella dell’inferno dantesco. Anche in Dante i diavoli non parlavano la lingua degli uomini, e qui iniziamo a scoprire il tedesco come lingua dell'inferno. C'è un altro importantissimo elemento, quello del “dramma scenico” che veniva messo in atto durante gli arrivi, e che non era un modo di Levi di interpretare le cose, i tedeschi seguivano, in un certo qual modo, un copione, studiato matematicamente per sgretolare l'umanità dei nuovi arrivati. Questo dramma teatrale è stato esattamente pensato per essere tale. Chi ha scritto “il lavoro rende liberi” seguiva un copione, chi ha inserito un lavandino d’acqua che non si può bere in una stanza d'’assetati, stava seguendo un copione. L'immagine è qui quella di essere parte di una commedia tragica, a tratti addirittura grottesca. “Adesso è il secondo atto” dice Levi, riprendendo il concetto della dimensione teatrale. La persecuzione inizia con una recita. Quando vedono i prigionieri nelle loro divise a righe, Levi ed i suoi compagni si chiedono chi fossero questi “fantasmi”, ma noi, da lettori, siamo perfettamente consapevoli della loro identità. Nella stanza entra infine una SS (un soldato nazista) che inizia a dare ordini in tedesco, tradotti da un interprete che fa parte del gruppo dei deportati: “Bisogna mettersi in fila..., spogliarsi..., togliersi le scarpe.. Quattro uomini con rasoio, pennelli e tosatrici, vestiti con pantaloni e giacche a righe con un numero cucito sul petto entrano e radono e tosano tutti. | deportati, tutti nudi e tosati, vengono portati in una sala docce fredda in cui rimangono per un certo lasso di tempo con i piedi immersi nell'acqua senza che succeda nulla. E allora cominciano a domandarsi che sarà di loro, dove sono gli altri, le donne, i bambini, se mai li rivedranno, perché vengono fatti stare tutti nudi in quella stanza, perché non gli vengono date spiegazioni. Durante il momento delle docce Levi fa un pensiero molto particolare, che mette ancor più in risalto il nostro essere lettori “onniscienti” rispetto agli attori inconsapevoli degli eventi: “Se faremo la doccia è perché non ci ammazzano ancora” Sappiamo benissimo invece, il legame che nel campo le docce avessero con la morte. Levi ci racconta tutto questo non col senno di poi, ma ci riporta esattamente le sue sensazioni del tempo, non ci vuole raccontare l'evento come fatto concreto, ci vuole far capire innanzitutto quello che avevano provato. Non è importante quello che è successo nel campo, ma quello che è successo a loro. Levi nonostante tutto sa di essere un testimone inaffidabile, perché lui ce l’ha fatta. Il processo in atto, durante e dopo le docce, non è di sterminio: è fatto per ridere di loro. L’autore utilizza il noi, ma man mano il suo noi, diventa sempre più un io; si passa dal racconto collettivo a quello individuale. Nel campo di concentramento si è soli. Ad un certo punto arriva un vecchio prigioniero, che risponde a qualche loro domanda; gli dice dove si trovano, Monowitz, in una fabbrica di gomma che si chiama Buna, che presto gli verrà fatta la doccia e la disinfezione e gli saranno dati scarpe e vestiti come i suoi e che tutti dovranno lavorare nella fabbrica. Egli fugge appena sente il suono di una campana. Dalle docce inizia allora a scorrere acqua bollente, ma subito dopo tutti vengono cacciati con urla e spintoni nella camera vicina, che è gelida e gli vengono forniti stracci e scarpacce. | deportati raggiungono, infine, nudi correndo nella neve un’altra baracca dove viene loro concesso di vestirsi. Tra campo e campo le notizie non circolano, sono isolati. La narrazione è al presente ed al futuro, non è una memoria passata, si usa il presente assoluto o presente storico: Il lager è presente in lui, nella sua memoria, ma questo presente è anche un ammonimento nei nostri confronti, è un eterno presente perché è un eterno rischio. La nuova identità è quella di prigioniero: 174517, questo è il nuovo nome di Levi, il suo nuovo battesimo. Egli vorrà questo numero, questo nome, inciso anche sulla sua tomba, perché questa è una condizione tale che neanche la morte permette di superarla. Il numero dice tutto, l'epoca d’ingresso, il convoglio, la capacità di resistere. Si crea una sorta di gerarchia, per cui i numeri più “vecchi” vengono particolarmente rispettati. Levi mira a guardare la sua storia mettendo una certa distanza fra se e gli eventi. Gli dicono, ad un certo punto “da qui si esce dal camino”, ma Levi non ha idea del significato di quella confidenza. Quando gli portano via del ghiaccio, che aveva raccolto per dissetarsi, Levi chiede “perché”, e la risposta che riceve gli rimarrà particolarmente impressa: “Qui non c’è perché.” Perché il campo è stato creato? Levi si da una risposta riguardando il Canto 27 dell’Inferno, dove i diavoli dicono ai dannati “qui non è come sulla terra”. Un’altra referenza ha dante segue in “atroci nubi sanguigne”, questa atmosfera che nel campo trasuda sangue ha lo stesso colore dell’inferno dantesco. A fine della prima lunghissima giornata i prigionieri vengono infine radunati e contati in un vasto piazzale al centro del campo dove rimangono poi in sosta in piedi per un’altra ora finché, accompagnati dalla musica allegra di una fanfara che suona Rosamunda ed altre marce, arrivano nel piazzale anche i deportati che fino allora erano stati al lavoro, camminando “come fantocci rigidi fatti solo di ossa”. Levi ha un primo colloquio con un prigioniero, che si basa principalmente sulla questione linguistica, un ragazzo lo chiama ponendogli domande in tedesco ma lui non capisce e gli raccomanda di resistere alla sete e non bere fino alla sera. Gli chiede da dove viene, e poi Levi capisce che questo ragazzo è un fabbro, un ebreo polacco, e che si trova li da 3 anni. Lui dice al ragazzo di essere un chimico, e, sappiamo bene, è la sua condizione di chimico che lo salverà. Questo dialogo si interrompe, e Levi ci confida che questo ragazzo non l’ha mai più rivisto, ma che lo ha “accompagnato alla casa dei morti”, in un'ulteriore citazione alla memoria di una casa morta di Dostoevskij, un racconto di prigionia, al quale Levi si rifà particolarmente nella descrizione fisica del campo. Il campo ha 3 categorie: 1. CRIMINALI- triangolo verde 2. POLITICI- triangolo rosso 3. EBREI- stella di David rossa e gialla. | più pericolosi, per i prigionieri stessi, sono i criminali. Le SS sono poche e si vedono di rado. In se questo è un uomo, gli atti violenti sono compiuti dai Kapo, che sono a loro volta prigionieri. Vi è dunque la trasformazione di vittime in carnefici. Nel campo vigono regole ferree e complicate a cui attenersi. Queste regole, apparentemente assurde, sono volte a privare con ferocia i prigionieri della dignità umana. L'organizzazione del lavoro mira a sfruttare il più possibile e con metodo “scientifico” i deportati, chi non ce la fa è destinato a morire. Levi da subito capisce che l’unico modo per sopravvivere è seguire le regole del campo, evitare questioni, fingere sempre di aver capito e non fare mai domande, rimanere sempre all’erta, tenere sempre d'occhio le proprie cose e tenere conto che qualsiasi oggetto può essere utile. Bisogna imparare a vivere in una condizione di ostilità, in un ambiente poco accogliente, e in questo Levi si rifà alla lettura “Richiamo della Foresta” che è tradizionalmente una lettura adolescenziale. Il capitolo si chiude con un ragionamento dal taglio filosofico, quasi aristotelico, nella dualità di pensiero fra coloro convinti che sia la fine, che non si può più vivere, e chi nonostante le condizioni disumane di vita, continua a sperare che ci sia una via di salvezza. Manca dunque la capacità alla moderazione, la capacità d comprendere fin in fondo la realtà in cui erano stati catapultati. Il capitolo si chiude con una breve riflessione che spiega il titolo del capitolo. L'autore descrive come dopo solo quindici giorni di prigionia, egli si sia trasformato divenendo un'altra persona, una persona sul fondo, completamente annientata e rassegnata, preda perennemente dalla fame, capace di rubare, con le piaghe sul dorso dei piedi, il ventre gonfio, la pelle gialla. L’INIZIAZIONE, CAP Ill: Levi sapeva bene che la narrazione richiedeva l’esplicitare ciò che altrimenti non si sarebbe potuto dire. Levi da verità a ciò che difficilmente può essere raccontato: la violenza psicologica. Noi lettori percepiamo, grazie al romanzo, il peso delle sue sofferenze. Il negazionismo, in ciò, si inserisce come frutto di ignoranza culturale, e Levi ne è particolarmente preoccupato. Era quella, infatti, la minaccia più grande fatta loro dalle SS: “non vi crederà nessuno”. Levi si chiede, anche molto più in là nel tempo, come sia possibile che qualcuno non creda. Questo capitolo ci pone difronte alla, blasfema, “pedagogia del lager”; qui l’IO è al centro della narrazione. Fame, sete e sonno sono i bisogni a cui Levi ed i suoi compagni sono stati ridotti. Nel campo si dorme, ma non ci si riposa mai, si va a dormire con il terrore che qualcosa possa accadere. Levi viene assegnato, dopo vari trasferimenti, al Block 30, ad una cuccetta in cui dorme già un altro prigioniero, Diena, che lo accoglie cordialmente facendogli posto. Inizia così la vita da deportato per Primo Levi che si trova ad affrontare due problemi fondamentali: o il problema della lingua, considerato che il lager è abitato da una babele di persone che parlano lingue diverse e non è facile capirsi. Anche gli ordini e le minacce vengono urlati in lingue sconosciute e per chi non capisce al volo sono botte e punizioni; o il problema del cibo che consiste nella distribuzione di una zuppa e del pane. In questo capitolo viene fatta notare l’assenza del cucchiaio per bere la zuppa, Levi descrive l'angoscia di questa assenza, ma mai l’assenza stessa. Nei lavatoi concorre una nuova forma di tortura, essi sono un luogo sporco, pieno di fango a terra, dove l’acqua esce altrettanto sporca, ma le pareti sono piene di ammonimenti sull'importanza della pulizia, dell'igiene, ai fini della sopravvivenza. Infatti, pochi in quelle condizioni mantengono la voglia di pulizia ed anche Levi, dopo solo una settimana di prigionia, considera il lavarsi come un inutile spreco di energia e completamente inefficace. Nonostante ciò, c’è chi insiste a mantenere l'abitudine di lavarsi come Steinlauf, un cinquantenne che Levi incontra un giorno al lavatoio. Steinlauf nonostante l’inutilità dell’azione è intento a strofinarsi vigorosamente senza sapone e con ben scarsi risultati. Egli si rivolge a Levi chiedendogli perché non si voglia lavare e gli ricorda che smettere di aver cura di sé equivale a cominciare a morire ed a fare il gioco del Lager il cui fine è di ridurre l’uomo a bestia. Aver cura della propria igiene, anche se inutile, è un modo per reagire e sopravvivere, sopravvivere per testimoniare e per affermare la propria di sopravvivere lavarsi in quell'acqua sporca serviva a poco, ma per il benessere psicologico, per il mantenimento dell’I0O, esso era un procedimento utile. “Il lager è una macchina per ridurci in bestie, ma noi bestie non dobbiamo diventare.” Il ricordo funge qui da elemento per preservare la dignità. Il fine ultimo del ricordo è quello di prevenire la possibile ripetizione dell'errore. Ci sono tre modi di affrontare la Shoah: 1. DIARI (memorie) 2. ROMANZI (rielaborazione) 3. LIBRO DI STORIA (cronachismo) Levi non concepisce “Se questo è un uomo” come romanzo, ma come memoria, il romanzo ha sempre un certo corrispettivo con l'immaginazione, con il verosimile. Vale più la memoria che la finzione. Il rapporto con la verità è quello più integro, più diretto. Alcuni prigionieri lavoratori presso le camere a gas, presso i forni, misero in atto un movimento di ribellione, di resistenza, pur sapendo che in quel campo ci sarebbero morti, decisero che la vendetta migliore era quella di mentalmente a casa, di ritrovare la sorella e gli amici, e di essere da loro ascoltati mentre racconta tutto. Si racconta di tutto, e lo si racconta proprio perché qualcuno sta ascoltando. Raccontare diventa la forma per liberarsi, anche se solo in un sogno in cui Levi riesce a fare proprio quello che gli era stato vietato: raccontare. Il timore che questo non avvenga, il rischio, subentra subito dopo. Gli ascoltatori non lo seguono, sono indifferenti al racconto, ciò significa che questo dolore di cui parla sta proprio ne rischio di non essere creduto. Questo sogno non è solo di Levi, è un sogno comune a tutti. Questo rischio è ben presente a Primo Levi, ne parlerà meglio nei Sommersi ed i Salvati, ed è il terrore di trovarsi in una condizione di incredulità o di mal sopportazione della verità. L'altro sogno narrato è quello di mangiare, tutti sognano di mangiare, è un sonno collettivo. Sognare di mangiare per poi svegliarsi con la fame. L’altra cosa che ci racconta di queste notti è il fatto che la sete non veniva sconfitta con l’acqua ma con la zuppa che veniva data ai prigionieri, una zuppa poco nutriente ma con tanta acqua. Ciò provoca un evento che torna spesso nell’opera, la necessità di andare molte volte nella notte a svuotare la vescica e riempire dunque il secchio costantemente. Esso è un elemento che ci riporta alla degradazione di uomo in animale, questo elemento diventa ripugnante, diventa disgustoso, ed attraverso esso si trascinano le loro notti. IL LAVORO, CAPITOLO VI: Il nome del nuovo compagno è Resnyk, ha 30 anni e nonostante abbia vissuto a Parigi per lungo tempo parla un francese strano. Egli si rivela da subito un buon compagno che oltre a non dare grossi disturbi durante il sonno si offre di fare il letto al mattino, operazione che svolge bene e rapidamente. Resnyk viene assegnato anche allo stesso Kommando di lavoro di Levi. Il lavoro consiste nel trasporto di traversine di legno che servono per spostare un grosso cilindro di ghisa che pesa diverse tonnellate. Anche le traversine sono molto pesanti, circa 80 Kg. In questo capitolo si riprende il concetto della perdita d’identità. Levi osserva come tutti sembrino avere fra i 17 ed i 50 anni. "..come le storie della Bibbia" la bibbia nella bocca di un ebreo significa parlare del libro sacro, e di questo libro sacro dice che le storie non sono chiare, non sono comprensibili. Da qui si evince l’interpretazione di Levi di queste storie, Levi qui ha in mente Genesi ed Esodo. Levi si chiede se fra i racconti dei compagni non si stia scrivendo una nuova Bibbia; con ciò non vuole dire che la vecchia bibbia non ha più senso, ma che quello che sta accadendo è un nuovo Esodo, così come il precedente della storia del popolo ebraico. Perché un capitolo che si chiama "Il Lavoro" inizia con una pagina e mezzo su memoria ed identità? Levi sente la necessità di richiamare una serie di nozioni già affrontate, ma ripetute prima di parlare di lavoro, perché questo capitolo ci mostra come il lavoro ha trasformato l’uomo in bestia, l’uomo in animale. Il termine lavoro è stato incontrato per la prima volta all'ingresso ad Auschwitz: "il lavoro rende liberi", ecco il senso di questo passaggio, il lavoro è l’elemento fondamentale per far perdere all'uomo la propria identità, al contrario di ciò che è affermato all'ingresso del campo. Quando si parla di questo si mette in evidenza sempre il ruolo del Kapo, il prigioniero che contribuisce alla riuscita di questo processo di disumanizzazione. In questo passaggio devono portare traversine per costruire una sorta di strada dove far scivolare una cisterna. Torna spesso la parola fango, il fango rende il lavoro più faticoso, più difficile. Il lavoro di trasporto dei pesi ci riporta ulteriormente alla figura di Sisifo. È una fatica enorme, e lo sanno anche i kapo, che percuotono i prigionieri. Alcuni dice, però, gli percuotono "amorevolmente", spingendoli ad andare avanti perché se si dovessero fermare sarebbero uccisi. La salvezza che di giorno in giorno si ha va per raggiungimento di piccoli obbiettivi: arrivare al pranzo, poi arrivare alla sera, ed al giorno dopo. UNA BUONA GIORNATA, CAP VII: Levi sottolinea come nel campo di prigionia le mete che l’uomo si pone siano molto diverse da quelle che si hanno nella vita da uomini liberi. Lo scopo fondamentale che i deportati si pongono e di cui parlano in continuazione è quello di riuscire ad arrivare a primavera, tutto il resto non interessa, non ha la minima importanza. Essi scrutano in continuazione il cielo in cerca di segnali che rivelino l’arrivo della stagione mite. Una giornata in cui spunta un tiepido sole risveglia subito la speranza che il peggio sia passato e che le cose andranno migliorando. Una giornata serena fa notare le cose di cui prima non ci si accorgeva, per esempio il verde dei campi che circondano il lager. L'unica cosa che rimane sempre grigia e squallida è la Buna (la fabbrica), grande quanto una città e popolata, oltre che dai tedeschi, da oltre 40.000 stranieri e dove si parlano 15/20 lingue diverse. Questa descrizione della buna dove non cresce un filo d’erba perché c'è il carbone e del petrolio, corrisponde al paesaggio interiore che ognuno si porta dentro. Anche loro sono grigi. La descrizione del luogo è la descrizione di un'identità. La buna è grigia come loro. La buna è come Babele, a Babele quando dio per punire l’uomo introduce le lingue per impedire ai costruttori di comunicare e di costruire, a babele i costruttori sono puniti in quanto colpevoli. Nella buna non esiste colpevolezza, né tantomeno esiste dio. Non stiamo parlando di disegni provvidenziali, ma di ciò che l’uomo fa all'uomo. Questa buona giornata, non è una giornata straordinaria, e parte dalla conoscenza con un gruppo di ebrei greci definiti come "tenaci, ladri, saggi, feroci, solidali" termini apparentemente contraddittori ma che definiscono un uomo che pur di sopravvivere è capace di ricorrere ad ogni aspetto dell'umanità. Questi ebrei sono determinati a vivere. Questi ebrei sono nel campo da tre anni, per tre anni sono sopravvissuti. Conoscono meglio di chiunque il campo: conoscono Birkenau, conoscono il campanile di Auschwitz. La conoscenza del campo è legata alla conoscenza di quello che accade, loro sanno che cos’è Birkenau, l’eccellenza della strage e dello sterminio. | greci di Salonicco rappresentano la capacità di sfidare i limiti, sono i più adatti a sopravvivere, e la sopravvivenza nel campo è fatta per i peggiori. Nella Buna c'è l'assenza dei colori, qui tutto è grigio e fumo. Tutta questa riflessione sul rapporto tra dio, natura e uomo, serve a far vedere come una buona giornata derivi da un fatto apparentemente insignificante. Il lettore ad inizio capitolo si aspetta una buona giornata e viene avvolto nel ricordo del freddo, del grigio e del lavoro. Dove sta la buona giornata? La ritroviamo improvvisamente, in un oggi storico, “oggi è una buona giornata”, i prigionieri si guardano, c’è il sole, ed è la prima volta che si vedono al sole. Qualcuno sorride. La buona giornata è dettata dal sole. Vi è un riferimento a Leopardi, nella didascalia descrittiva, con l’infelicità e le sue innumerevoli cause. Non si può essere felici nel campo, vi sono tanti gradi di infelicità uno dietro l’altro, eppure il venir meno di uno solo di questi gradi, dà l’idea di trovarsi difronte ad una buona giornata. Il piacere è cessazione del dolore. Il venir meno di uno solo dei tanti dolori rende l’oggi storico una buona giornata. “Quando il freddo è cessato noi ci siamo accorti di avere fame” Siamo difronte ad una considerazione della natura umana che deriva da una conoscenza liceale della letteratura. Per esempio, accade che non appena la stagione primaverile fa cessare il freddo insopportabile contro cui i deportati hanno lottato per tutto l'inverno, subito emerge, con maggiore forza, l’altro grande nemico contro cui i deportati lottano quotidianamente: la fame. Da quel momento tutte le conversazioni vertono sul cibo. AL DI QUA DEL BENE E DEL MALE, CAP VIII: In questo capitolo viene fuori un altro elemento culturale, quando si usa l’espressione” al di qua del bene e del male” ci si riferisce certo ad un proverbio, ma riprende il titolo di un’opera di Nietzsche e della sua opera “AI di là del bene e del male” basato su una logica societaria basata sulle relazioni, di scambio, ma anche di forza. Sono queste ultime ad essere narrate da Levi. Nietzsche ricordiamo è stato rivalutato in chiave nazista dallo stesso Reich, ma la sua filosofia, se pur elitaria, non si è mai, veramente, avvicinata alle idee naziste. Vien qui fuori la questione del lager laboratorio, l'universo concentrazionario viene guardato da Levi come lo guarderebbe uno scienziato. Tutto qui è basato sulla capacità di sopravvivere. La descrizione di questo microcosmo avviene in questo capitolo, Nietzsche aveva pensato al suo libro come l’ambizione di superare la morale, di cancellare la comune etica, e Levi sottolinea come anche nel campo sia successo questo, ma non perché si sia andati al di là del bene e del male, ma perché non si è raggiunta neanche la soglia di essi. In tutto il mondo moderno le relazioni sono il fondamento della società, ma qui siamo difronte ad un mondo nel mondo, un mondeo in cui le leggi di fuor non contano più, però delle tracce di questa società rimangono. Si ritorna ad una certa di primordialità con il baratto, c'è una sorta di valuta, con gli oggetti come valori fissi. Quando arriva qualcosa dall’esterno del lager questa acquista un valore superiore. All’inizio di questo capitolo si dice che da 70 giorni si faceva attendere la cerimonia del cambio della biancheria. Questo ritardo era causato dal fatto che i rifornimenti erano difficili per l'avanzare del fronte, la liberazione era sempre più prossima. Levi apre questo capitolo non facendo procedere la narrazione per una scansione temporale ma concentrandosi attorno ad alcuni nuclei tematici. Qui c'è la presentazione dei rapporti socioeconomici. La stoffa manca nel campo e mancando la stoffa questo diventa un bene prezioso, anche un fazzoletto è importante. | detentori di seconde camicie vengono presi e questo poteva anche costare le morte. In questo passaggio Levi sottolinea sempre la precarietà igienica, che ovviamente causa molte morti. Qui si scambia di tutto, per quanto sia vietato. La dimensione animale di tutti i reclusi viene qui riportata giacché avere merce significa avere più possibilità di sopravvivere, si aggirano “i disperati della fame” laddove possono trovare un po’ di cibo. Gli uomini lì attorno vengono descritti come caratterizzati da “selvaggia pazienza”, la pazienza è umana, segno di intelligenza, la selvaggia pazienza è una contraddizione. Qui le due cose convivono, è frequente l’uso dell’ossimoro nell'opera, proprio perché si vuole mettere in evidenza una contraddizione nella vita dell’uomo. Chi riesce ad usare bene la “borsa” come al solito sono i greci, che sono commercianti di natur. Ciò che si vuole mettere in evidenza è il fatto che in questo contesto abbiamo la sopravvivenza in questa forma bestiale delle leggi dello scambio che sono alla base della società, che però sono leggi che qui acquisiscono un senso diverso, che non vuole essere un senso positivo del rapporto umano, ma la sua degradazione a strumento di sopravvivenza. Esiste un nesso tra il dentro ed il fuori, tra l'universo del campo e ciò che sta fuori dal campo e se passa il tabacco, forse passano anche le notizie, forse passano le informazioni. Il campo è un mondo chiuso, ma non impermeabile. Dentro al campo i valori sono diversi, la camicia è già un patrimonio enorme. Chi viene scoperto finisce nelle miniere di carbone, e i civili che vengono trovati a commerciare con i prigionieri vengono anch'essi internati. Per queste persone il lager è una punizione, hanno compiuto un reato e vengono portati nel lager come punizione, per gli ebrei il lager non è punizione, per loro non c’è un termine, è la vita che a loro è stata concessa. L'atteggiamento delle SS per i furti fra prigionieri, se non riguarda l’oro, è quello di indifferenza. Il disprezzo verso i prigionieri è talmente forte che per loro essi non meritano nemmeno l’odio. Si uccide non perché si vuole necessariamente infierire, si uccide perché quella vita non vale nulla. Che il prigioniero sia vivo o morto non cambia nulla. Nel kabe è facile sopravvivere ed è più facile eludere il regolamento, ma non è fuori dalle logiche del campo. Nel kabe si entra con il cucchiaio ma non si esce mai con esso, viene sempre sequestrato dai vivi o dai morti, per essere rimesso sulla borsa del campo. Se Nietzsche intendeva come per un certo tipo di umanità si potesse andare al di la del alla viltà di far condannare alla fustigazione il suo compagno di ruberie nella speranza di acquisire credenziali per ottenere il posto di lavatore delle marmitte. ALFRED L.: ingegnere sulla cinquantina che da libero dirigeva un’importantissima fabbrica di prodotti chimici. Nel lager aveva ottenuto un posto come pulitore della marmitta degli operai polacchi in cambio di mezza gamella di zuppa al giorno. Ma perseguiva con tenacia il progetto di un ruolo più importante, per questo motivo in maniera meticolosa curava il proprio aspetto per distinguersi dal gregge. Attuò il suo progetto con tenacia ed una rigida disciplina, senza considerazione per sé e per chi gli ostacolasse il percorso. L'occasione del salto di qualità gli capitò con la costituzione del Kommando Chimico di cui venne nominato capotecnico di laboratorio. Quando si trattò di esaminare il nuovo personale si guardò bene dallo scegliere coloro che potevano rappresentare suoi possibili competitori. CAP_X: L’ESAME DI CHIMICA: Nel Lager viene costituito un reparto di specialisti chimici, il Kommando 98. Levi, essendo laureato in chimica, si presenta, con altri 14 Haftlinge, tra cui il suo amico Alberto, per essere inserito nel Kommando, sperando così di migliorare le proprie condizioni di vita andando a far parte di un gruppo di lavoratori qualificati. Chi ha chiesto di farne parte fu sottoposto ad un esame di chimica per verificare che abbiano effettivamente i requisiti richiesti. Qui ritroviamo il modo che Levi ha trovato per salvarsi. Levi però si chiede se i tedeschi abbiano davvero bisogno di chimici o se sia un altro inganno. Levi riassapora la normalità del laboratorio ma non riesce a realizzarne la veridicità neppure mentre sta procedendo alla stesura dell’opera, tant'è che Levi autore si chiede se il Levi attore abbia veramente vissuto questo evento. Questa divisone dell’io attore dall’io autore è nuovamente una citazione a Dostoevskij. Il Doktor Pannwitz, l’esaminatore, lo incuriosisce come aguzzino, si chiede come abbia fatto i conti con sé stesso, come sia sopravvissuto alla colpa, vorrebbe trovarsi difronte a lui come uomo libero, alla pari, perché quando lo guardò in laboratorio lo guardò come si guardano i pesci in un acquario, non come si guardano gli uomini. Nel dire al dottore chi Levi sia, Levi riacquisisce sé stesso, ricorda ciò che ha studiato e si meraviglia di ricordarlo. Parlare con il Dottore lo riporta all’ansia d'esame, un'incredibile parentesi di normalità, e l'esame, nell’assurdità di Auschwitz, sta andando bene. | suoi studi lo stanno salvando. Il dottore gli dà un manuale inglese, che è incredibilmente il manuale che Levi usava all’università. Questa è la situazione che permetterà Levi di tornare in sé stesso, è la riscoperta di sé stesso. Primo Levi vorrebbe salutare il dottore, ma in tedesco sa dire solo mangiare, rubare, morire. CAPITOLO Xl: IL CANTO DI ULISSE: Mentre Levi è impegnato insieme ai suoi compagni di Kommando a raschiare e pulire una cisterna arriva Jean, il più giovane del Kommando Chimico che era stato nominato Pikolo, cioè fattorino-scritturale a cui competeva la pulizia della baracca e delle gamelle, la consegna degli attrezzi e la contabilità delle ore di lavoro. Camminando i due parlano di varie cose, le loro case, gli studi, le loro madri, e poi Jean dice che gli piacerebbe imparare l'italiano. Levi vuole insegnarglielo e per farlo fa una scelta metodologica significativa: ricorrere al canto XXVI dell’Inferno di Dante, quello di Ulisse. Levi recita qualche terzina e poi tenta di tradurle, e continua di strofa in strofa, tra lacune e dimenticanze, continuando a volte in prosa frettolosamente perché nel frattempo stanno per arrivare alle cucine. Il canto diventa così un modo per evadere dall'ambiente brutale del Lager, per ritrovare sé stessi e l'umanità, per ricordare la vita da libero. Il faticoso far tornare alla memoria i versi danteschi si intreccia con la memoria del vissuto di ognuno di loro, il mare, le montagne, il passato. Levi si sforza di recitare la conclusione del canto ma gli tornano alla memoria altri versi, si sforza di ricostruire le rime ma ormai non c’è più tempo, sono arrivati alle cucine. Alla metà del canto, nella divina commedia, Virgilio dice a Dante “Ma misi me per l’alto mare aperto” la ripetizione della M mette in evidenza la parola “ME”, questo sottolineare questa parola diventa fondamentale anche in Levi. Nel discorso che Ulisse fa ai suoi compagni sottolinea il peccato di negare a sé stessi l’esperienza di seguire virtù e conoscenza, il fine dell’uomo. Quando Ulisse parla di virtu e conoscenza intende che gli uomini devono perseguire un tipo di conoscenza virtuosa, non una conoscenza qualsiasi. Ma è Ulisse stesso a non seguire il suo esempio, Ulisse è in uno de gironi più vicini a Lucifero, un condannato. Ulisse è astuto, e l’astuzia è un’intelligenza volta al vantaggio, non al bene. Ulisse è l’uomo che si è voluto fare simile a Dio, l’ha voluto sfidare, è un superbo. Questo tipo di discorso ha senso religiosamente, ma non è universalmente condivisibile. Dante lo pone dove tanto più profondo l’infero non poteva essere, considerandolo come il peggiore dei peccatori. Levi ne ricorda la conclusione, e sente la pressione di far comprendere a Jean la frase "altrui piacque", prima di morire Jean deve comprendere questa cosa, lo deve capire oggi perché domani potrebbero essere tutti morti. Con "altrui piacque" Levi capisce perché sta succedendo quello che sta succedendo. Attraverso una poesia capisce il perché del lager, sconfigge ciò che gli è stato detto all’inizio "qui non c'è nessun perché". Ciò ha a che vedere con la condizione in cui Levi si trova a vivere. Levi, ebreo non praticamente, scopre l'ebraismo a Fossoli, non è mai stato un credente, ora qui scopre una nuova dimensione del rapporto con dio. | sommersi si trovano li perché qualcuno ha voluto fossero li, per la volontà di "altrui". Qui non c’è una riflessione sugli aguzzini, ma su dio. Perché dio ha colpito Ulisse? E perché ha colpito Levi? Ulisse aveva condannato dio perché dio non l’aveva capito, l'aveva punito ingiustamente. Ulisse non accetta la condanna che dio gli ha dato. Levi è nella stessa condizione, egli è il nuovo Ulisse. Dio li ha abbandonati, loro sono vittime dei tedeschi, vittime del nazifascismo, ma sono innanzitutto vittime dell’indifferenza di dio. Se dio c'è, egli ha voluto ciò che non avrebbe dovuto volere. Ulisse è l’eroe di un'umanità che vorrebbe comprendere fino in fondo il suo destino, punito dall’assurdità di un dio che non si può giustificare. Siamo difronte ad una posizione molto dura religiosamente di Levi: se c'è un dio, egli ci ha tradito. Insieme alla bibbia, Dante rappresenta l’altro classico, l’altro codice, che determina la scrittura di Primo Levi, è una lente attraverso la quale Levi interpreta l’esperienza del lager. Levi è un po’ Ulisse, si ritorca fra quelli ingiustamente puniti, perché nell’imperscrutabile volontà di qualcun altro, del suo destino i nazisti si sono fatti strumento. Primo Levi è anche dante, viaggiatore e narratore dell'inferno. In un'intervista Levi riparla di questo passo, dicendo che aveva pensato che Auschwitz fosse la punizione inflitta dalla stupidità barbarica della Germania all’audacia intellettuale degli ebrei, così come fu per Ulisse, uomo che voleva ragionare con la sua testa, punito da un dio barbaro. Questo capitolo rappresenta un nodo fondamentale all’interpretazione di Se questo è un uomo, rende evidente la forza del modello dantesco. Il popolo ebraico è un popolo culturalmente vivace, particolarmente astuto, tutti i più grandi intellettuali, scrittori e musicisti del 900 furono di etnia ebraica, fu come se coloro che sentivano il peso di questa cultura si siano voluti vendicare. Primo Levi fa molta attenzione a non cadere nell’errore uguale e contrario, a non giudicare la Shoah come la colpa di un popolo, l’olocausto non è coscienza germanica. | carnefici avevano nomi e cognomi e non rappresentavano un popolo. CAPITOLO XII: | FATTI DELL'ESTATE: Nell’estate del 1944 il campo si riempie di Ungheresi e Levi, detenuto da ormai cinque mesi, fa ormai parte dei vecchi haftlinge, quelli che non si ponevano più domande sul proprio futuro e su quando tutto quello sarebbe finito, dato che l’esperienza gli aveva dimostrato quanto vana fosse ogni previsione. Se fino ad ora il racconto non aveva spazio o tempo, man mano che ci si avvicina alla liberazione Levi inizia a darci informazioni di tempo, proprio perché esso è la variabile che lo porta alla salvezza. L'inverno è assassino ma l’estate porta sollievo. L'universo del campo si inizia ad aprire, arrivano le prime notizie: lo sbarco in Normandia, l’attentato fallito ad Hitler. Queste relazioni di spazio e di tempo fanno capire che ci si sta avvicinando alla fine della guerra. La Normandia è lontana, ma l’inverno e vicino, e tutti sanno che hanno poco tempo da vivere ancora. La storia era lontana, ma iniziava ad insinuarsi fra il filo spinato del campo. Il campo risente dei bombardamenti, viene meno la produzione della gomma, mancano i rifornimenti. Finisce anche il lavoro di costruzione a cui lavoravano, via via il campo mutava assiema allo stato della guerra. La ferocia raddoppiò, la consapevolezza che la guerra stava andando male e l’esercito russo era vicino, fece vivere ai tedeschi l’idea di trovarsi difronte a dei nemici. Fino a quel momento i prigionieri erano trattati con fredda indifferenza, ora nessun tedesco poteva dimenticare che i prigionieri erano dalla parte dei russi e degli americani che bombardavano le loro case. Ciò non cambiò l'atteggiamento dei prigionieri, indifferenti ormai alla sofferenza. Un lavoratore civile italiano: Lorenzo, si prese cura di levi per sei mesi, sfamandolo e scrivendo a casa sua, senza chiedere alcun compenso. Questo è uno dei fattori della fortuita sopravvivenza di Levi. Non fu tanto il cibo, quanto l’umanità di Lorenzo a salvare Primo Levi. Levi era circondato da non-uomini, bestiame e carnefici. Lorenzo era un uomo, ed ha ricordato a Levi di esserne uno anch'egli. CAPITOLO XIll: OTTOBRE 1944: Gli ultimi mesi della permanenza nel campo vengono raccontati in maniera molto più dettagliata rispetto alle testimonianze precedenti. La vita del campo è stata raccontata più che per scansione cronologica per nuclei tematici ma, con l'avvicinarsi della liberazione la situazione cambia. Non a caso il tempo che passa ha un senso particolare all’inizio ed alla fine. All'ingresso di questo mondo infernale c’è il passaggio dalla vita quotidiana alla nuova vita nel campo. Ora invece siamo vicini al termine di questa terribile esperienza di prigionia. Tornano qui le date: gli ultimi mesi vengono raccontati con una scansione del tempo simile a quella riscontrabile in un diario. Inevitabilmente nel Lager un altro inverno è arrivato e Levi sa bene cosa significa perché ne ha già vissuto uno. Molti non riusciranno a superarlo e quelli che ce la faranno soffriranno ogni giorno, ogni minuto, faticando nel vento e nel gelo con un abbigliamento inadeguato, deboli e affamati. Durante l’estate si è aggiunto un grande numero di deportati che per tutta l'estate hanno alloggiato in due grandi tende. Adesso le tende sono state smantellate e tutti questi prigionieri vanno distribuiti nelle baracche già affollate. Tutto questo significa che, per far posto, presto le selezioni per il crematorio riprenderanno, e nel campo, tra i deportati, già circola la voce. La selezione è la sopravvivenza del più adatto, si ritorna ad una legge darwiniana di natura, in cui sopravvive solo chi è più adatto in quel determinato momento. La descrizione del giudizio delle SS riprende il giudizio di Minosse dantesco. Le schede dei prigionieri vengono passate a destra o a sinistra, ma nessuno sa se la morte sia a destra o a sinistra. Levi descrive una scena di un certo cinismo, si chiede a chi sicuramente morirà se la sua scheda è andata a destra o a sinistra, e si capisce a sinistra si muore. Ci sono stati degli errori, persone che dovevano andare a destra sono finite a sinistra, e così accade per il prigioniero della selezione precedente a Levi. Chi va a morire nei giorni che gli restano riceve doppia razione di cibo, e si crea una situazione di paradosso in cui i prigionieri salvati finiscono per invidiare questa doppia razione. Vi è un passaggio finale ripreso dalle memorie di Dostoevskij, Kuhn prega e ringrazia dio
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