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Se questo è un uomo di primo levi, Dispense di Letteratura

analisi e trama di ciascun capitolo dell’opera

Tipologia: Dispense

2021/2022

Caricato il 27/10/2023

elena-masseroni
elena-masseroni 🇮🇹

8 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Se questo è un uomo di primo levi e più Dispense in PDF di Letteratura solo su Docsity! SE QUESTO E’ UN UOMO Se questo è un uomo è il capolavoro di Primo Levi scritto, come ha affermato l’autore stesso, nella prefazione del libro, per soddisfare “il bisogno di raccontare agli altri, di fare gli altri partecipi” l’esperienza della sua deportazione nel Lager di Auschwitz in quanto ebreo. Primo Levi scrive questo libro di getto nel 1946, subito dopo essere rientrato a Torino nell’ottobre del 1945 sopravvissuto alla prigionia, obbedendo all’esigenza di far conoscere a tutti l’esperienza atroce dell’internamento. Titolo: Il titolo del libro è un drammatico interrogativo che Levi rivolge ai lettori. Egli riflette sulle conseguenze dell’annientamento dell’identità e della dignità dell’uomo operato sistematicamente dai nazisti e domanda se possano definirsi uomini questi prigionieri privati di tutto e resi incapaci di difendersi e di reagire. Analisi: E’ un testo autobiografico che viene scritto di getto, sull’onda dei ricordi della terribile esperienza vissuta. Levi mette in luce come in un contesto di simile crudeltà ogni prigioniero sia ferocemente solo e veda dissolversi i principi della convivenza civile e delle regole morali. La narrazione segue in ordine cronologico le tappe cruciali dell’esperienza del Lager a decorrere dal febbraio 1944 al gennaio 1945. L’ordine con cui sono stati scritti i 17 capitoli non è stato dettato da una successione logica ma piuttosto da una necessità “di urgenza”, per esempio: l’ultimo capitolo, “Storia di dieci giorni”, venne scritto per primo. Nonostante questo impeto d’urgenza l’opera Se questo è un uomo ha una scrittura chiara e composta, di grande forza comunicativa. E’ un testo che è stato definito “racconto commentato” in quanto si sviluppa su una alternanza di narrazione e riflessione: Narrazione: la descrizione pone particolare rigore nell’aderire ai fatti e nell’oggettività; Riflessione: l’esposizione dei fatti, che non cade mai nel patetico o nel macabro, viene commentata dall’autore-testimone nel tentativo di capire le ragioni che stanno alla base degli orrori raccontati. Comprendere fino in fondo non è possibile e Levi concludendo l’opera non può che affermare l’impossibilità di capire ed anzi sottolinea che forse è giusto che sia così, “perché comprendere è quasi giustificare”. Trama: Il racconto è preceduto da una poesia, ispirata alla preghiera dell’antico Shemà, messa in epigrafe, in cui l’autore rivolgendosi direttamente al lettore che dalla sua condizione quotidiana di normalità e di sicurezza viene esortato a non dimenticare e sollecitato a giudicare la condizione di chi ha vissuto la degradazione e l’umiliazione: «Considerate se questo è un uomo. Che lavora nel fango. Che non conosce pace. Che lotta per mezzo pane. Che muore per un sì o per un no.» Nella prefazione Primo Levi esordisce definendosi fortunato per essere stato deportato in un periodo in cui era relativamente più facile riuscire a sopravvivere alle dure condizioni di vita dato che i tedeschi, necessitando di manodopera, avevano leggermente migliorato il tenore di vita dei prigionieri. Levi prosegue dando le motivazioni che lo hanno spinto alla stesura del libro che sono quelle di “fornire documenti per uno studio pacato dell’animo umano”, animo umano in cui alberga l’odio razziale per il “diverso”, sentimento considerato da Levi “infezione latente”, che al termine del suo percorso porta al Lager. La necessità di testimoniare per far sapere anche agli altri è come un bisogno elementare da soddisfare, un’impellenza, un impulso violento che fa sì che si determini la frammentarietà del testo in cui i capitoli scritti di getto si susseguono non in base ad una successione logica ma in base ad un ordine di urgenza. Nel primo capitolo Primo Levi racconta le circostanze della sua cattura il 13 dicembre 1943, da parte della Milizia fascista, insieme ad altri ebrei. Levi viene quindi rinchiuso nel campo di internamento di Fossoli, vicino a Modena, dove venivano convogliate tutte le persona non gradite al governo fascista, primi fra tutti gli ebrei che in breve tempo passarono da 150.000 persone a oltre 600.000. Il 21 febbraio del 1944 nel campo trapela la notizia dell’immediato trasferimento, per ordine dei nazisti, di tutti gli ebrei, anche bambini, vecchi e malati, in un campo di concentramento nazista. L’ultima notte viene vissuta tragicamente nella consapevolezza dell’infausto destino che li aspetta, ognuno reagendo a proprio modo, piangendo, pregando, ubriacandosi, ecc.; solo le madri si organizzano per sbrigare i preparativi di viaggio e per poter assicurare ai propri figli il cibo, i vestiti puliti e persino i giocattoli di cui necessitano abitualmente. All’alba, dopo l’appello dei nazisti e la conta dei pezzi (così i deportati vengono definiti dai nazisti) da trasferire, vengono fatti tutti salire alla stazione di Carpi su un treno di 12 vagoni merci piombati, le cosiddette tradotte, in cui vengono stipati, compressi come bestie, 650 persone. E’ la prima occasione in cui si rivela la violenza gratuita e fredda dei nazisti che, in Primo Levi,più che dolore, suscita uno stupore profondo che fa porre all’autore da domanda “come si può percuotere un uomo senza collera?”. Soltanto alla sera, dopo un’intera giornata con i deportati segregati dentro ai vagoni, il treno viene fatto partire. Il viaggio è molto lungo e lento intervallato da soste interminabili. Ad ogni fermata, i deportati attraverso le fessure dei vagoni chiedono pietosamente da bere, da mangiare, un pugno di neve ma i soldati di scorta impediscono a chiunque di avvicinarsi. I prigionieri vengono trasportati in treno fino in Polonia, attraversando prima il Brennero e poi l’Austria. Già in Austria più nessuno di loro cerca di comunicare con l’esterno; tra i deportati predomina ormai lo sconforto, lo smarrimento e la rabbia. Alla quarta notte il convoglio si arresta in mezzo alla campagna deserta, i prigionieri vengono fatti scendere su una banchina illuminata da riflettori, sembrano ombre e sotto lo stretto controllo dei soldati nazisti, di cui non comprendono la lingua, vengono divisi in base all’età e alle condizioni fisiche. Chi indugia viene ucciso all’istante: è il caso di Renzo che troppo a lungo si intrattiene a salutare la fidanzata Francesca e per questo gli viene sparato in faccia. Tutti gli uomini validi, tra cui Levi, utili al lavoro vengono radunati in un gruppo e separati da tutti gli altri. Il gruppo è composto da novantasei uomini e ventinove donne e vengono destinati ai campi di lavoro di Monowitz e Birkenau, mentre tutti gli altri, oltre cinquecento tra donne, anziani e bambini, vanno alla morte. E’ in questo frangente che i deportati entrano in contatto con gli altri prigionieri da tempo detenuti nei campi, Levi li descrive come automi sudici e stracciati, ombre di se stessi, intenti ad armeggiare con i bagagli; l’autore intuisce che quella è la metamorfosi che lo attende. I selezionati (96 su 650) salgono su degli autocarri dove vengono confiscati loro tutti gli averi per una iniziativa personale del nazista di guardia che gli fa capire che tanto non ne avranno più bisogno. Levi citando Dante paragona la guardia tedesca ad un novello Caronte, come questi per traghettare le anime all’inferno chiedeva una moneta così l’aguzzino tedesco si appropria degli oggetti di valore dei prigionieri destinati all’inferno del Lager. Il 2° capitolo descrive l’arrivo dei deportati nel campo di Buna-Monowitz, vicino ad Auschwitz. L’autocarro con i prigionieri si ferma, dopo un breve viaggio di una ventina di minuti davanti ad un cancello con la scritta “Il lavoro rende liberi” (Arbeit macht frei). I deportati vengono fatti scendere ed entrare in una camera “vasta e nuda”, poco riscaldata e con un rubinetto dal quale non si può bere, in quanto l’acqua è inquinata. I prigionieri sono assetati, dopo quattro giorni di viaggio in cui non gli è stato dato nulla da bere, è una vera tortura. E’ “l’inferno”. Nella stanza entra infine una SS (un soldato nazista) che inizia a dare ordini in tedesco, tradotti da un interprete che fa parte del gruppo dei deportati: “Bisogna mettersi in fila…, spogliarsi…, togliersi le scarpe..." Viene raccomandato di fare attenzione di non farsi rubare le scarpe ma poi tutte le scarpe accumulare in un angolo vengono scopate via e mescolate in un mucchio. Quattro uomini con rasoio, pennelli e tosatrici, vestiti con pantaloni e giacche a righe con un numero cucito sul petto entrano e radono e tosano tutti. I deportati, tutti nudi e tosati, vengono portati in una sala docce fredda in cui rimangono per un certo lasso di tempo con i piedi immersi nell'acqua senza che succeda nulla. E allora cominciano a domandarsi che sarà di loro, dove sono gli altri, le donne, i bambini, se mai li rivedranno, perché vengono fatti stare tutti nudi in quella stanza, perché non gli vengono date spiegazioni. Vengono zittiti con brutalità dal maresciallo delle SS attraverso la traduzione dell’interprete (anch’egli un deportato) a cui le parole cattive che è costretto a tradurre storcono la bocca in una smorfia “come se sputasse un boccone disgustoso”. Tutte queste operazioni avviliscono e mortificano i prigionieri e sono volte ad annullare l’umanità dei deportati già al loro arrivo al campo di detenzione. Entra nella stanza un detenuto con la divisa a righe che con un italiano stentato e con accento straniero spiega ai deportati che si trovano nel campo di lavoro di Monowitz in una fabbrica di gomma che si chiama la Buna che dà il nome al campo, che presto gli verrà fatta la doccia e la disinfezione e gli saranno dati scarpe e vestiti come i suoi e che tutti dovranno lavorare nella fabbrica. L’uomo risponde alle domande che gli vengono poste, ma non a tutte, e fa sapere che è entrato lì di nascosto perché “ha un po’ di cuore” e perché gli sono simpatici gli italiani. Egli fugge appena sente il suono di una campana. Dalle docce inizia allora a scorrere acqua bollente, ma subito dopo tutti vengono cacciati con urla e spintoni nella camera vicina, che è gelida e gli vengono forniti stracci e scarpacce. I deportati raggiungono, infine, nudi correndo nella neve un’altra baracca dove viene loro concesso di vestirsi. Primo Levi fa una riflessione sull'aspetto miserabile dei suoi compagni e suo, si pone l’interrogativo se possano definirsi uomini questi prigionieri privati di tutto e resi incapaci di difendersi e reagire. L’opera di annientamento di ogni forma di dignità fisica e morale dei prigionieri viene completata negando loro anche il nome sostituito da un numero tatuato sul polso sinistro. Il nome di Primo Levi è adesso: 174 517, e solo mostrando questo numero egli può ricevere pane e zuppa. A fine della prima lunghissima giornata i prigionieri vengono infine radunati e contati in un vasto piazzale al centro del campo dove rimangono poi in sosta in piedi per un’altra ora finchè, accompagnati dalla musica allegra di una fanfara che suona Rosamunda ed altre marce, arrivano nel piazzale anche i deportati che fino allora erano stati al lavoro, camminando “come fantocci rigidi fatti solo di ossa”. Il primo contatto di Levi con gli altri prigionieri del campo è con un giovanissimo ebreo-polacco, Schlome, sedicenne, già recluso da tre anni, che gli pone alcune domande e gli raccomanda di resistere alla sete e non bere fino alla sera. Il capitolo descrive quindi la struttura e la disposizione dei diversi edifici del campo. Tutti i prigionieri, gli Haftlinge, sono vestiti a righe ma vi è una gerarchia che distingue tre tipologie di prigionieri: i criminali, identificati con un triangolo verde cucito sulla giacca, i politici che invece hanno un triangolo rosso, e gli ebrei, che sono la maggioranza, ed hanno la stella ebraica rossa e gialla come segno di riconoscimento. Nel campo vigono regole ferree e complicate a cui attenersi. Queste regole, apparentemente assurde, sono volte a privare con A metà della notte inizia l’andirivieni dei deportati al secchio, per smaltire il grande quantitativo di acqua ingerito attraverso la zuppa. La legge della baracca prevede che una volta colmo il secchio questo vada svuotato dall’ultimo utilizzatore che è costretto in camicia e mutante (tenuta notturna) ad uscire nella neve per raggiungere la latrina. Compito che con ogni probabilità toccherà ai più inesperti e ai non privilegiati, anche se, come afferma lo scrittore, dato che inevitabilmente qualcosa del contenuto del secchio trabocca sui piedi, è sempre meglio che l’operazione spetti “a noi stessi piuttosto che il nostro vicino di cuccetta”, di cui poi si avranno i piedi all’altezza del viso per il resto della nottata. Tra sonno, veglia e incubi passa la notte e prima dell’alba suona la campana del campo. La guardia di notte accende quindi le luci e urla: “Aufstehen” o in polacco “Wstawac”, “Alzarsi” dando inizio una nuova lunga giornata fatta di freddo, fame, vessazioni e fatica. Nel 6° capitolo: Il compagno di letto di Levi non è sempre lo stesso. Per un certo periodo è un polacco di cui Levi, e tutti gli altri, ignorano il nome, che odora di malattia, ha infatti due grosse piaghe alle tibie ed è debole di vescica, problema per cui si alza, svegliando Levi, anche dieci volte per notte. Quando il polacco entra in ospedale lasciando in consegna i suoi guanti a Levi, subito viene sostituito da un altro polacco alto e rosso di capelli. Il più delle volte i compagni di cuccetta di Levi, dato che lui è basso di statura, sono alti, perché due alti nella stessa cuccetta non riescono a stare. Il nome del nuovo compagno è Resnyk, ha 30 anni e nonostante abbia vissuto a Parigi per lungo tempo parla un francese strano. Egli si rivela da subito un buon compagno che oltre a non dare grossi disturbi durante il sonno si offre di fare il letto al mattino, operazione che svolge bene e rapidamente. Resnyk viene assegnato anche allo stesso Kommando di lavoro di Levi. Il lavoro consiste nel trasporto di traversine di legno che servono per spostare un grosso cilindro di ghisa che pesa diverse tonnellate. Anche le traversine sono molto pesanti, circa 80 Kg. Le condizioni in cui Levi e i suoi compagni devono lavorare sono disumane ed essi cercano di ricorrere a piccole astuzie per poter sopportare la fatica. Per esempio, Levi che dopo il primo trasporto è stroncato dallo sforzo e rischia di soccombere, decidere di chiedere a Resnyk, decisamente più alto, forte e robusto, se vuol essere il suo compagno di lavoro. Con grande stupore dell’autore Resnyk accetta e si rivela un compagno di lavoro gentile e disposto a sobbarcarsi la parte più pesante del lavoro. Nonostante questo per Levi la fatica continua ad essere enorme, chiede quindi, per poter staccare e riprendere le forze, di andare alla latrina che è piuttosto lontana. Una volta al giorno viene concesso di recarvisi ma solo se accompagnati e Levi verrà affiancato da Wachsmann, un altro prigioniero che è stato investito della carica di “accompagnatore alle latrine”. Tornato al lavoro Levi, sempre in coppia con Resnyk, fa ancora 2 o 3 trasporti di traversine, cercando di prendere quelle più leggere finché si sente la sirena che annuncia il rancio di mezzogiorno. Tutti corrono con la loro gamella in mano ma nessuno vuole essere il primo della fila per non avere la razione più liquida, considerato che il Kapo si guarda bene dal rimescolare la marmitta visto che il fondo, ben più sostanzioso, spetta di diritto a lui. Dopo il rancio è prevista una pausa dal lavoro e tutti possono tornare nelle loro cuccette dove possono riposare. I sogni che ognuno fa durante questo intervallo sono i sogni di tutti, ovvero di essere a casa, di fare un bagno caldo, di essere seduti alla propria tavola, di raccontare quanto vissuto. L’avvertimento “Es wird balde in Uhr sein” dolorosamente annuncia che è quasi l’una, manca poco a dover ricominciare. All’una il lavoro riprende, ciascuno torna alla propria fatica. Nel 7° capitolo: Levi sottolinea come nel campo di prigionia le mete che l’uomo si pone siano molto diverse da quelle che si hanno nella vita da uomini liberi. Lo scopo fondamentale che i deportati si pongono e di cui parlano in continuazione è quello di riuscire ad arrivare a primavera, tutto il resto non interessa, non ha la minima importanza. Essi scrutano in continuazione il cielo in cerca di segnali che rivelino l’arrivo della stagione mite. Una giornata in cui spunta un tiepido sole risveglia subito la speranza che il peggio sia passato e che le cose andranno migliorando. Una giornata serena fa notare le cose di cui prima non ci si accorgeva, per esempio il verde dei campi che circondano il lager. L’unica cosa che rimane sempre grigia e squallida è la Buna (la fabbrica), grande quanto una città e popolata, oltre che dai tedeschi, da oltre 40.000 stranieri e dove si parlano 15/20 lingue diverse. Levi riflette sul fatto che ciò che permette agli uomini di sopportare le sofferenze patite nel campo è la capacità della natura umana di non soffrire le pene e i dolori patiti in modo simultaneo, sommandone l’impatto, ma percependoli con un ordine basato sulla causa maggiore. Per esempio accade che non appena la stagione primaverile fa cessare il freddo insopportabile contro cui i deportati hanno lottato per tutto l’inverno, subito emerge, con maggiore forza, l’altro grande nemico contro cui i deportati lottano quotidianamente: la fame. Da quel momento tutte le conversazioni vertono sul cibo. Sigi, un giovane diciassettenne, racconta con grande rimpianto di quando ad un pranzo nunziale non ha finito il suo terzo piatto di zuppa di fagioli e Béla parla di una ricetta per fare la polenta dolce. Anche Levi non resiste a fantasie di fame che gli fanno danzare davanti agli occhi la pastasciutta cucinata al campo di smistamento e lasciata lì alla notizia della partenza il giorno dopo per il lager. Fischer, un ungherese, uno degli ultimi arrivati, è riuscito a conservare mezza razione del pane distribuito al mattino e adesso lo mastica lento e metodico sotto gli occhi affamati di tutti gli altri detenuti; nessuno dei prigionieri di lungo periodo ha la capacità di conservare così a lungo un pezzetto del proprio pane. La giornata, raccontata da Levi in questo capitolo, è speciale, non solo per lo spuntare del sole dopo il lungo inverno, ma anche perché uno dei deportati, Templer, è riuscito a procurare una razione aggiuntiva di zuppa lasciata dagli operai polacchi che lavorano poco distante perché sapeva di rancido e che per i deportati diventa un dono inaspettato capace di placare per un po’ i morsi della fame. A fine giornata, poiché tutti si sentono eccezionalmente sazi, gli animi sono pacificati e non nascono i soliti litigi. Ognuno si ritrova a pensare ai propri cari, cosa che non avviene solitamente, e per qualche ora tutti “possono essere infelici alla maniera degli uomini liberi”. Nel capitolo 8°: Tra i deportati si è creata un’organizzazione economica basata su una sorta di borsa valori clandestina determinata da scambi tra i prigionieri di varia natura: viveri, vestiario ed ogni genere di merce reperibile. Per questo motivo vi è attenzione per ogni minimo accadimento che possa influire sugli scambi. Uno di questi eventi è il cambio della biancheria. La stoffa è un bene prezioso nel campo e l’unico momento per procurarsene qualche pezzetto, come fazzoletto o benda per i piedi, è appena prima che avvenga il momento del cambio, in cui si riesce a tagliare qualche lembo prima di riconsegnare la biancheria utilizzata sino a quel momento senza deturparla. Il cambio di biancheria avviene all’improvviso e molto velocemente proprio per impedire che i deportati possano ritagliare e utilizzare del tessuto. L’angolo più appartato del Lager è quello dove si ritrovano i deportati, spinti dalla fame o da altre necessità, che sono interessati agli scambi. Alcuni barattano la loro piccola razione di pane con della zuppa, da cui tolgono i pochi pezzetti di patata residui sul fondo, per poi tentare di scambiare la zuppa rimasta con del pane, per ritentare da capo l’operazione fino a che non vengono scoperti. Altri barattano la loro camicia per qualcosa da mangiare, pur sapendo che verranno puniti per questo e che così patiranno ancora di più il freddo. Tra la merce oggetto di scambio vi è anche il Mahorca, un tabacco di scarto che viene dato in cambio dei buoni-premi che dovrebbero essere dati ai migliori lavoratori e che invece finiscono regolarmente solo ai Kapos e ai prominenti. I buoni-premio sono diventati così una vera e propria moneta il cui valore varia a seconda dei periodi e degli avvenimenti che influiscono sul mercato. In questo caso il baratto può avvenire anche con l’esterno del campo, con i lavoratori civili della Buna. Il baratto riguarda molti generi di merci fino ad arrivare alle coperture d’oro dei denti. Per quanto riguarda i traffici limitati all’interno del campo, il limite massimo di “guadagno” non supera mai le quattro razioni di pane, perché essendo impossibile stipulare accordi a credito, una razione superiore verrebbe difficilmente preservata da ruberie. Il traffico coi civili, con l’esterno, invece può portare ad “un guadagno di dieci fino a venti e più razioni, che gli vengono corrisposte gradualmente una o due al giorno”, ma se scoperto viene duramente punito dalle SS. Lo Haftling sorpreso in traffici di scambio finisce nelle miniere di carbone, dove difficilmente sopravvive alle atroci condizioni di vita, ed il lavoratore civile complice finisce nel lager, sottoposto alle condizioni di vita dei deportati per un periodo che va dai 15 giorni agli 8 mesi. I lavoratori civili condannati vivono nelle stesse condizioni dei deportati però non vengono tatuati e non vengono rasati, vivono in una sezione a parte del Lager, lavorano in Kommandos particolari e non entrano in contatto con i comuni Haftlinge. Il baratto di generi provenienti dal Lager è duramente condannato dalle SS perché ritenuto basato su materiale appartenente al Lager (in cui si include anche l’oro dei denti dei deportati considerato di loro proprietà) mentre per il baratto dei generi provenienti dall’esterno, dalla Buna, si chiude un occhio. Questo genere di traffico è quindi molto praticato ed è relativo a vari articoli: scope, vernici, filo elettrico, grasso da scarpe, lampadine, spazzole, sapone comune e per barba, lime, pinze, sacchi, chiodi, alcool metilico, benzina. Il Ka- Be, l’ospedale del campo, è il luogo dove più facilmente si svolgono baratti, perché è più facile eludere la sorveglianza e reperire merce. In particolare gli infermieri traggono guadagno dal commercio dei cucchiai (indispensabili per poter mangiare la zuppa) dato che in Ke-Be si può entrare con il cucchiaio ma non uscirne. E’ inoltre luogo di ricettazione della merce rubata in Buna per utilizzarla come materiale sanitario, per esempio tubi sottili di plastica usati per gli enteroclismi e le sonde gastriche, termometri, reagenti chimici e, da un’idea dello stesso Levi e del suo amico Alberto, carta millimetrata da utilizzare per i diagrammi polso-temperatura. La considerazione finale dello scrittore è un invito, rivolto direttamente al lettore, alla riflessione sul significato, in una situazione del genere, dei termini “bene”, “male”, “giusto”, “ingiusto” e su quanto possa sussistere nel Lager dei comuni valori morali. Nel 9° capitolo: Levi considera l’esperienza del Lager una “gigantesca esperienza biologica e sociale” in cui uno sperimentatore può individuare cosa sia essenziale e cosa acquisito nel comportamento dell’”animale- uomo” che lotta per la propria vita. L’autore non crede che in tali condizioni emerga che la sostanza dell’uomo sia fondamentalmente brutale ed egoista ma che si produca invece una momentanea sospensione di alcune consuetudini e istinti sociali. In particolare egli individua l’emergere tra gli uomini di due categorie ben distinte: i salvati e i sommersi. Nella vita da liberi questa distinzione è meno evidente perché l’uomo non è solo ma collocato in una società, emerge invece nettamente nel Lager, dove ognuno è “disperatamente ferocemente solo” nel combattere la lotta per la sopravvivenza. Nel Lager la legge iniqua, che talvolta prevale anche nella vita, del “a chi ha, sarà dato; a chi non ha, a quello sarà tolto” è apertamente in vigore.Così soccombono coloro che si attengono pedissequamente alle regole ufficiali, i Muselmanner (mussulmani – la nota di Levi precisa che con questo nome i vecchi del campo designavano i deboli, quelli votati alla selezione per le camere a gas), che finiscono per essere i primi a indebolirsi e morire. Le statistiche lo confermano dimostrando che tra i numeri esigui dei sopravvissuti non emergono mai dei semplici Haftling ma solo coloro che hanno cercato di emergere come Organisator, Kombinator, Prominent, guadagnando una posizione di lavoro privilegiato, come quella di Kapo, infermiere, medico, ciabattino, musicista, ecc. Chi si è sempre attenuto agli ordini ricevuti, si è limitato a mangiare la propria razione di cibo, si è adeguato alla disciplina del lavoro e del campo, solo eccezionalmente è sopravvissuto più di tre mesi. Questi sono i sommersi, la massa anonima del campo, tutti con la stessa storia di inadeguatezza. Tra i salvati emergono i prigionieri a cui i nazisti avevano dato un ruolo specifico, come i Prominenten (coloro che riescono a predominare sugli altri), i funzionari del campo, tra cui il direttore-Haftling, i Kapos, i cuochi, gli infermieri, le guardie notturne, fino ad arrivare agli scopini delle baracche. Gli ebrei devono lottare duramente per ottenere incarichi da Prominente, rispetto agli altri detenuti che in “virtù della loro supremazia naturale” li ottengono automaticamente al loro arrivo nel campo, e proprio gli ebrei si rivelano i più tirannici e crudeli, consapevoli che se non lo fossero, facilmente potrebbero essere sostituiti da un altro ritenuto più idoneo. La ferocia dei prominenti ebrei è conseguenza anche della necessità di appagare in qualche modo l’odio provato verso gli oppressori scaricandolo sugli oppressi. Oltre ai prominenti vi è anche una categoria di individui che per sopravvivere ha condotto una lotta continua ogni giorno ed ad ogni ora, in vari modi, attraverso aberrazioni e compromessi, aguzzando l’ingegno, sopportando le umiliazioni, reprimendo la propria dignità. Solo gli individui superiori riescono a sopravvivere senza rinunciare al proprio mondo morale. Levi racconta le storie di quattro prigionieri che appartengono alla categoria dei salvati, figure emblematiche della varietà delle vie di sopravvivenza: Schepschel, da quattro anni nel Lager, aveva moglie e cinque figli e un negozio di sellaio. Non eccelle per furbizia, prestanza fisica, coraggio e malvagità e si arrangia con espedienti miseri e saltuari: qualche furto, qualche manufatto quando riesce a procurarsi i ferri del mestiere, qualche piccola esibizione canora per gli operai slovacchi. Anch’egli quando gli si presenta l’occasione cede alla viltà di far condannare alla fustigazione il suo compagno di ruberie nella speranza di acquisire credenziali per ottenere il posto di lavatore delle marmitte. Alfred L., ingegnere sulla cinquantina che da libero dirigeva un’importantissima fabbrica di prodotti chimici. Nel lager aveva ottenuto un posto come pulitore della marmitta degli operai polacchi in cambio di mezza gamella di zuppa al giorno. Ma perseguiva con tenacia il progetto di un ruolo più importante, per questo motivo in maniera meticolosa curava il proprio aspetto per distinguersi dal gregge: viso e mani sempre perfettamente puliti, lavava regolarmente la propria camicia nonostante le difficoltà a reperire il sapone, lo spazio in lavatoio e il rischio di furto mentre la asciugava, era riuscito a procurarsi una divisa a righe della sua misura e pulita. Attuò il suo progetto con tenacia ed una rigida disciplina, senza considerazione per sé e per chi gli ostacolasse il percorso. L’occasione del salto di qualità gli capitò con la costituzione del Kommando Chimico di cui venne nominato capotecnico di laboratorio. Quando si trattò di esaminare il nuovo personale si guardò bene dal scegliere coloro che potevano rappresentare suoi possibili competitori. Elias Lindzin, uomo molto basso ma molto muscoloso, grande lavoratore, molto forte e capace, emana un vigore bestiale. E’ capace di fare mille lavoretti, trasportare enormi pesi, parla continuamente con voce tonante. Grazie alla sua fama di lavoratore forte e infaticabile viene notato e da allora per assurdo smette di lavorare. Infatti viene occupato solo per lavori di particolare perizia e vigore, per il resto è libero di fare scorribande in giro tornando con le tasche gonfie di merce rubata. Levi interrogandosi su che tipo di uomo sia Elias giunge alla conclusione che egli rappresenti l’esemplare umano più idoneo alla vita del Lager perché esternamente appare fisicamente indistruttibile e internamente, in quanto demente, rimane indenne all’annientamento psicologico operato dal sistema nazista. Riacquistata la libertà un soggetto come Elias è destinato a vivere ai margini della società, o in carcere, o in manicomio, mentre nel Lager, dove non esistono né pazzi, né criminali, prospera e trionfa. Henri, è un giovane di 22 anni, intelligente, colto e parla diverse lingue. Dopo che in Buna è morto il fratello egli ha reciso ogni vincolo di affetto e si è concentrato sulla lotta per sopravvivere attraverso tre metodi che gli permettono anche di rimanere “degno del nome di uomo”: organizzazione, pietà e furto. Con la sua capacità di smuovere anche nell’anima più indurita il sentimento di pietà egli è riuscito a tessere una tela di rapporti di amicizia e di protezione che egli ha strumentalmente e strategicamente sfruttato per sfuggire all’annientamento. sbirciare dove venga consegnata la sua scheda: gli sembra a destra. Rientrati nella baracca i prigionieri si rivestono. Tutti cercano di capire da che parte siano state consegnate le schede dei prigionieri scelti per il crematorio e prima ancora che la selezione sia finita arrivano alla conclusione che sono le schede di sinistra. Alcune scelte sembrano incongruenti, per esempio, René, giovane e robusto, è finito a sinistra probabilmente per una svista che forse a favorito proprio Levi che era immediatamente dietro di lui, potrebbe essere avvenuto uno scambio di schede. Le sviste sono abbastanza frequenti perché la selezione è molto rapida e sommaria e ai tedeschi interessa soprattutto liberare dei posti nelle baracche. Finita la selezione viene distribuito il rancio, ai selezionati verrà data doppia razione. Tra i condannati in fila per il rancio vi è Ziegler che quando vede che gli viene versata solo la normale razione con quieta fermezza reclama la doppia razione a cui ha diritto e se ne va solo quando la ottiene. Tra gli scampati vi è Kuhn che a voce alta rivolge una preghiera di ringraziamento a Dio per non essere stato scelto. La sua insensibilità verso chi invece è stato condannato indigna Levi e gli fa dire: “Se io fossi Dio, sputerei a terra la preghiera di Kuhn”. Nel 14° capitolo: E’ novembre e piove, Levi e i suoi compagni di prigionia stanno lavorando in condizioni sempre più difficili, il terreno è diventato una palude e i deportati sono bagnati fradici e senza possibilità di alcun riparo. La riflessione di Levi verte sul cercare di capire che cosa permette agli uomini di sopportare tali condizioni e di non cadere nella disperazione più totale. Egli giunge alla conclusione che ciò che permette loro di andare avanti e tollerare, sono le piccole circostanze favorevoli; quel giorno per esempio è consolante la mancanza di vento, che se ci fosse peggiorerebbe notevolmente la situazione o, in altri momenti, è consolante il pensare che alla sera possa spettare una razione doppia di zuppa ed infine, come ultima razio, rimane sempre al deportato la possibilità di ricorrere all’espediente di gettarsi sul reticolato elettrico o sotto un convoglio per porre definitivamente fine alle sue sofferenze. Levi sta scavando una buca insieme ad altri 3 compagni: Kraus, Clausner e Gounan. Kraus è un ungherese che capisce poco il tedesco e non parla francese, è un ingenuo, non ha ancora imparato i piccoli accorgimenti da adottare per poter sopravvivere, lavora troppo senza capire che più si lavora più si è soggetti a stanchezza, deperimento, fame e quindi alla selezione per la camera a gas. Kraus è ancora legato alla mentalità dell’onesto lavoro impiegatizio del mondo esterno, in cui più uno lavora più mangia e guadagna. La logica del lager è ben diversa ed è più conveniente cercare in ogni modo di risparmiare energie per sopravvivere. Finito il turno di lavoro i prigionieri rientrano marciando in fila per tre (Zu dreien) e Levi si ritrova proprio a fianco a Kraus che maldestro fatica a tenere il passo. Levi, osservandolo per un attimo, intravede l’uomo Kraus, onesto e buono, che proprio per queste sue qualità è destinato sicuramente a soccombere e allora, spinto da un moto di amicizia, gli racconta un sogno in cui entrambi sono uomini liberi: Levi è con la sua famiglia a Napoli a tavola con moltissime cose da mangiare quando Kraus suona all’uscio, portando in dono una pagnotta ancora calda. Levi lo fa entrare e lo presenta a tutta la famiglia e gli dà da mangiare, da bere e da dormire e tutto è caldo ed accogliente. Kraus si commuove ed in magiaro replica con parole incomprensibili ma il cui senso è di augurio e riconoscenza. In realtà Levi non l’ha sognato per niente perché Kraus non rappresenta nulla per lui se non un momentaneo sentore di umanità e dopo questa parentesi di empatia in lui tornano a predominare le sensazioni di fame e di freddo. Nel 15° capitolo: La pioggia di novembre è diventata neve ed i deportati del Kommando chimico sono rimasti con gli abiti estivi perchè in teoria dovrebbero lavorare al coperto in un laboratorio, in realtà continuano a lavorare all’aperto spostando materiale chimico da un magazzino all’altro. In questo momento sono impegnati a trasportare sacchi di fenilbeta dalla cantina del Reparto Stirolo al magazzino. Per ora, per Levi, essere nel Kommando chimico non ha portato alcun vantaggio, anzi solo svantaggi come il non aver ricevuto cappotti che agli altri sono stati invece distribuiti, o avere sacchi da trasportare che pesano 60 kg., mentre quelli degli altri sono di 50 kg. Il più volte ventilato laboratorio del Dottor Pannwitz nel Bau 939 non è mai stato realizzato. Levi sta riflettendo sul fatto che in quelle condizioni sarà difficile arrivare ad un altro inverno, le forze non bastano più, quando avviene l’imprevedibile: Levi è tra i tre Haftlinge, un belga, un rumeno e un italiano, scelti per il Laboratorio “Die drei Leute vom Labor”, ovvero in italiano “le tre persone del laboratorio”. Gli altri deportati si congratulano e tra loro anche Alberto che ne è ben felice, sia per amicizia, sia perché anche a lui ne deriveranno dei vantaggi, visto il legame di alleanza e condivisione che sta alla base del loro legame. Levi promosso a specialista del laboratorio di chimica ha diritto a camicia e mutande nuove e ad essere sbarbato ogni mercoledì. L’atmosfera del laboratorio, i suoi macchinari, la vetreria, gli odori per un attimo riportano a galla il ricordo dell’aula universitaria in Italia. A capo del laboratorio c’è un polacco-tedesco di nome Stawinoga, dottore non in chimica ma in glottologia che li chiama con l’appellativo di Monsieur, cosa che Levi ritiene, in un contesto del genere, ridicola e sconcertante. In laboratorio ci sono 24 gradi e vi sono molti oggetti e materiale da rubare utili per il baratto; il problema di riuscire a superare il rigore dell’inverno e di mangiare abbastanza non si pone più. Già Levi programma di cucirsi una tasca interna segreta per trasportare la merce rubata e di accordarsi con l’inglese che lavora in officina per il baratto. Dopo un anno di Lager sa di poter eludere qualsiasi controllo e sorveglianza. Tuttavia pur sapendo che questo colpo di fortuna aumenta notevolmente le sue possibilità di sopravvivenza Levi sa anche che basta poco, un piccolo errore nelle misure, un vetro rotto, una disattenzione e in un attimo potrebbe ricadere nella situazione precedente e finire al “Camino”. Inoltre c’è l’incognita dei russi che hanno il fronte di guerra sempre più vicino al campo. Levi vive una situazione privilegiata, in campo dalla sera al mattino è uguale a tutti gli altri ma di giorno, al lavoro è al coperto e al caldo, seduto con un quaderno ed una matita, non rischia di essere picchiato ed ha la possibilità di trafficare merce per procurarsi cibo. Ma è proprio questa situazione di tranquillità, come nel Ka-Be e nelle domeniche di riposo, che gli fanno ricordare il suo essere uomo facendo emergere di nuovo la sua coscienza ed è in queste occasioni che inizia a scrivere quello che egli afferma “non saprei dire a nessuno”. Tra i civili del laboratorio ci sono anche delle ragazze, di fronte a loro i prigionieri si sentono sprofondare di vergogna, ripugnanti come sono nell’aspetto e sudici, pieni di pulci e puzzolenti. Le ragazze sono bionde, ben vestite e ben pettinate, anziché lavorare spesso fumano, mangiano, si limano le unghie e chiacchierano tra di loro, provano disprezzo e ripugnanza per i deportati. Sentire le ragazze conversare tra loro della propria vita nel mondo libero riporta alla mente di Levi la sua vita di un anno prima quando ancora uomo libero, quando ancora aveva un nome e una famiglia, un corpo sano e una mente lucida e l’avvenire appariva ricco di aspettative. La considerazione finale è che, anche se riuscisse a spiegare tutto questo alle ragazze certo non lo capirebbero, e se anche lo comprendessero non potrebbero sostenere la sua vicinanza e lo eviterebbero. Nel 16° capitolo: Da quando Levi lavora in laboratorio le occasioni per vedere e parlare con Alberto si limitano alla marcia di rientro alla baracca dopo il lavoro, in cui discorrono di tutto e si aggiornano sulle ultime novità. Nell’ultima settimana Lorenzo (l’operaio civile italiano diventato amico di Levi) fa avere ai due amici ogni sera tre o quattro litri di zuppa. Per poterla trasportare Levi e Alberto si sono ingegnati facendosi costruire, con due pezzi di grondaia, un secchio da Silberlust, il lattoniere, in cambio di tre razioni di pane. Ne è scaturita una sorta di gamella gigante (menaschka) come poche se ne trovano nel campo; l’iniziativa ha inoltre determinato un sensibile miglioramento nella loro considerazione da parte degli altri deportati. D’altra parte le trovate da parte dei due amici non si limitano solo al progetto di procurarsi un’altra gamella gigante, per fare la rotazione con la prima, ma si estendono ad altre 3 imprese che attraverso ingegnose soluzioni e inventiva li vedono complici in commerci che gli fruttano prestigio e gli portano cibo: la sottrazione di una scopa che smembrata e ricostruita è stata così apprezzata da essere seguita da successive ordinazioni dello stesso modello; la richiesta di una lima grossa in magazzino per poi scambiarla con due piccole per rendere una delle due al magazzino e vendere l’altra; la fabbricazione di targhette colorate, al posto di foglietti sgualciti, da distribuire ai deportati che hanno fatto regolarmente la doccia e che gli dà diritto al loro rancio quotidiano. Una sera vi è un cambiamento rispetto ai soliti e stabiliti ritmi del campo e la marcia di rientro alla baracca viene prolungata fino alla piazza dell’Appello. In controluce sullo sfondo della piazza, i due amici intravedono la sagoma della forca. Tutte le squadre di rientro dal lavoro sono state radunate lì per assistere all'impiccagione di un uomo. Levi, durante la sua prigionia, ha già assistito a 13 pubbliche impiccagioni per reati comuni come furti o sabotaggi o tentativi di fuga, ma stavolta il condannato è accusato di aver partecipato ad una rivolta durante la quale è stato fatto saltare un forno crematoio. Il fatto nuovo, che scuote le coscienze, è che prima di morire l'uomo grida: "Compagni, io sono l'ultimo!", “Kamaraden ich bin der Letzel!”. La riflessione di Levi è che: in quell’inferno di rassegnazione e di sterminio, ecco un uomo che trova ancora il coraggio di ribellarsi e resistere. Sino alla fine egli non si è lasciato piegare dalla vita del Lager, ha trovato la forza di reagire e muore davanti ad una massa di uomini inermi e spossati che, anche se intimamente scossi da quell’urlo, rimangono in piedi, curvi, docili, a capo chino, ubbidienti agli ordini dei tedeschi. Se i russi arriveranno a liberarli dalla loro prigionia si troveranno davanti un gregge di inermi in cui non è più ravvisabile alcuna traccia dell’uomo. I tedeschi sono riusciti nel loro proposito di distruzione. Alberto e Levi rientrano, senza riuscire a guardarsi in faccia, nella loro baracca dove, dopo aver soddisfatto la fame dividendosi la zuppa della menaschka, rimangono oppressi da una sentimento di vergogna. Nel 17° capitolo: L’11 gennaio 1945 Levi viene di nuovo ricoverato al Ka-Be nel reparto degli infettivi perché si ammala di scarlattina. Nella cameretta vi sono altri 12 pazienti ma Levi ha la fortuna di avere una cuccetta tutta per sé. Dal barbiere del Ka-Be viene a sapere che i russi stanno arrivando ed il campo verrà presto evacuato. La notizia non provoca in Levi quella reazione emotiva che avrebbe potuto avere solo qualche mese prima, egli rimane distaccato e rassegnato. Anche il medico conferma la notizia comunicando che tutti i malati in grado di camminare sarebbero partiti con tutti gli altri per una marcia di 20 Km., mentre i malati più debilitati sarebbero rimasti in Ka-Be con personale di assistenza scelto tra i meno gravi. Due dei malati, ebrei ungheresi, nonostante fossero molto deperiti, decidono di unirsi ai sani, hanno il terrore di rimanere nel Ka-Be ed anche se è insensato nelle loro condizioni pensare di resistere ad una marcia di quella lunghezza, si coprono sommariamente con degli stracci ed escono dalla finestra; saranno abbattuti dai nazisti dopo pochi km non essendo in grado di proseguire. Alberto passa a salutare Levi prima di partire, è allegro e fiducioso e si unisce a tutti gli altri che nella quasi totalità la notte del 18 gennaio 1945 sparirono durante la marcia di evacuazione, la cosiddetta marcia della morte. Nel campo rimangono solo chi è malato o troppo debole e qualche sano ben consigliato da qualcuno, in tutto il Ka-Be circa 800 persone e nella cameretta in 11. Iniziano per chi è rimasto “dieci giorni fuori del mondo e del tempo”. Il mattino seguente all’evacuazione i malati ricevono l’ultima distribuzione di zuppa ed una distribuzione di pane, nel campo rimangono ancora alcune SS e per un po’ continua a funzionare l’elettricità mentre il riscaldamento delle baracche viene interrotto. Levi si procura quindi delle coperte prendendole dal reparto dei dissenterici. Durante la notte il campo viene bombardato e colpito, le SS abbandonano definitivamente il campo. Nel campo adesso non ci sono più neppure acqua ed elettricità. Il giorno seguente Levi, compreso che non possono resistere a lungo in quelle condizioni, organizza con due prigionieri francesi una spedizione all’esterno del Ka-Be nella speranza di recuperare qualcosa di utile per mangiare e riscaldarsi. All’esterno i segni del bombardamento sono evidenti, alcune baracche bruciano, altre hanno porte e finestre sfondate. Molti deportati cenciosi e scheletrici si aggirano in cerca di cibo, o si scaldano vicino alle braci delle baracche fumanti, o fanno sciogliere sul fuoco la neve in recipienti di fortuna. Levi e i due francesi riescono a procurarsi e portare nella loro baracca una stufa di ghisa e due sacchi di patate. Riescono a far funzionare la stufa ed a cuocere le patate. Gli altri malati in segno di gratitudine gli cedono parte del loro pane. E’ un avvenimento emblematico del fatto che il Lager non esiste più, infatti fino al giorno prima sarebbe stato inconcepibile un simile gesto di generosità perché nel Lager vigeva la legge che diceva: “mangia il tuo pane, e, se puoi, quello del tuo vicino”. La baracca di Levi e dei francesi è l’unica che è riuscita a dotarsi di una stufa e fuori dalla porta si accalcano i malati degli altri reparti ma loro riescono a impedire che entrino. Nelle giornate seguenti durante le escursioni fuori dalla baracca alla ricerca di cibo Levi riesce a trovare nel laboratorio di chimica una batteria carica che gli permette di poter installare l’illuminazione nella baracca. Una sortita fino all’area in cui vivevano le SS frutta a Levi ed ai suoi compagni altri generi di grande utilità che li aiuta a resistere e a far fronte alle difficoltà. Nonostante le SS se ne siano andate capita ancora un episodio di repressione quando un gruppo di SS in fuga ed armato entra nel campo e sorprende 18 francesi che si erano stabiliti nel refettorio delle SS, saranno tutti uccisi con un colpo alla nuca. I cadaveri dei 18 francesi rimangono esposti perché nessuno ha la forza di dargli sepoltura. Così come rimangono abbandonati sparsi nelle baracche e nel campo i corpi dei prigionieri che non erano riusciti a sopravvivere al freddo e alla fame. La camera dove sta Levi con i suoi compagni è separata da quella accanto, dove stanno i dissenterici, da una parete di legno attraverso la quale Levi sente due italiani, non più in grado di muoversi, piangere ed implorare aiuto. Una sera per far smettere quei lamenti, vincendo il ribrezzo di entrare in quella stanza dove molti giacevano morti o moribondi e dove il pavimento era ricoperto di escrementi, Levi decide di portare loro un po’ d’acqua e di zuppa. L’iniziativa ha un effetto controproducente perché da allora i lamenti arrivarono da tutti i prigionieri di quella stanza che giorno e notte chiamarono il nome di Levi implorando aiuto. Anche nella camera di Levi vi sono deportati in condizioni gravissime come Lakmaker un ebreo olandese di 17 anni che debilitato dalle malattie, tifo e scarlattina, una notte nel tentativo di raggiungere la latrina, cade e rimane a terra incapace di muoversi, gli va in soccorso Charles, uno dei francesi che vincendo la debolezza riesce a ripulirlo e riportarlo nella sua cuccetta, disinfettando poi ogni cosa e se stesso con la cloramina. Levi ammira la sua abnegazione. Il quinto giorno la scoperta di un enorme silo di patate, stipate in due fosse lunghissime fuori dal campo, oltre il filo spinato, permette di superare il problema della fame; ce n’è a sufficienza per tutti. Nonostante ciò le condizioni dei deportati peggiorano continuamente, tutti sono estremamente deboli, nessuno guarisce e molti si ammalano di polmonite e diarrea. Molti giacciono incapaci di muoversi nelle cuccette e quando muoiono nessuno se ne accorge. Alla baracca 14 i malati in discrete condizioni riescono ad organizzare una spedizione al campo evacuato dei prigionieri inglesi e ne tornano con un carretto pieno di cibo: margarina, lardo, farina ecc. Tutto il campo ne beneficia perché nonostante gli altri prigionieri non abbiano le forze fisiche per intraprendere la stessa spedizione riescono però ad avere qualcosa tramite il baratto. Così per esempio nella baracca di Levi si ingegnano a costruire candele che scambiano con lardo e farina. Somogyi, già convalescente di tifo e scarlattina, viene preso da febbre alta, cade in un delirio in cui ad ogni respiro mormora “jawohl”, che dura due giorni e muore. Rimane a giacere sul pavimento. I russi finalmente arrivano il 27 gennaio 1945, proprio mentre Levi e Charles, dopo aver sbrigato i lavori più urgenti, hanno trovato le forze per portare il corpo di Somogyi fuori dalla baracca, nella neve grigia. Degli undici infettivi della camera di Primo Levi, 5 sono morti dopo qualche settimana e sei si sono salvati. Alla fine del capitolo XVII è riportata la scritta: “Avigliana-Torino, dicembre 1945 - gennaio 1947”. Le due località indicano: Avigliana la sede della fabbrica dove Levi lavorerà come chimico; Torino la casa dove egli era nato e dove abiterà per il resto della sua vita.
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