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SE QUESTO è UN UOMO - PRIMO LEVI, Dispense di Letteratura

VITA DELL'AUTORE E SUNTO DELL'OPERA

Tipologia: Dispense

2017/2018

Caricato il 07/02/2018

fantaunix-ciaps
fantaunix-ciaps 🇮🇹

4.1

(33)

18 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica SE QUESTO è UN UOMO - PRIMO LEVI e più Dispense in PDF di Letteratura solo su Docsity! LETTERATURA ITALIANA CONTEMPORANEA Lezione 11 : “Primo Levi – Se questo è un uomo” Docenti video Prof Guido Davico Bonino (Univeristà di Torino) Il romanzo a cui è riservata la conversazione di quest’oggi è uno dei veri e proprio capolavori del secondo Novecento letterario italiano. Mi riferisco a “Se questo è un uomo” di Primo Levi. Cenni biografici Primo Levi è nato a Torino nel 1919 e, caso abbastanza raro fra i letterati della nostra civiltà letteraria del secondo Novecento, è per formazione e per professione un chimico. Allora, i suoi anni, un giovane, nato nel diciannove, non trovava le discipline come Chimica, Fisica, Matematica, Scienza Naturali, fra le primarie dell’ordinamento scolastico; era la cosiddetta riforma Giovanni Gentile, che prediligeva le discipline umanistiche. Eppure questo giovane intellettuale, ebreo, del clan torinese, si indirizza immediatamente verso la Chimica e nella Chimica si laureerà nel 1941. Dico questo perché tutta la carriera professionale di Primo Levi, si svolge non sotto l’insegna della letteratura ma sotto l’insegna dell’industria e segnatamente sotto l’insegna della industria chimica, di cui diventerà prima impiegato, poi funzionario, poi dirigente e negli anni della maturità addirittura direttore generale, e amministratore delegato di una media industria chimica del Piemonte, non lontano dalla città in cui si è formato, in cui sempre risiederà cioè Torino. Fino al 1938, l’ebreo, giovane, torinese Primo Levi non si rende conto, lo scriverà lui stesso, della situazione politica in cui vive, che è quella, come avrete inteso, del Fascismo, ma la promulgazione delle Leggi Razziali appunto nel 1938, diventano, è lui stesso a scriverlo, provvidenziali per lui, perché “costituirono per me la dimostrazione per assurdo della stupidità del fascismo”. Di questa stupidità e diciamo pure la parola a chiare lettere di questa violenza, Primo Levi sarà una delle prime vittime. Dopo aver deciso nel settembre ’43 di rientrare a far parte della Resistenza, viene imprigionato in Valle d’Aosta sopra Saint Vincent a seguito di una coraggiosa azione partigiana. Viene catturato, interrogato più volte finché confessa di essere ebreo e per questo viene inviato a Fossoli, presso Modena, dove si sta creando un campo, assai vasto, di internamento delle persone non gradite dal governo della neo-nata Repubblica di Salò. Alla fine del 1944 gli ebrei laggiù raccolti sono circa 150, ma presto diventeranno 600. Il 22 febbraio del 1944, Primo Levi, insieme agli altri 600, parte per Auschwitz. E’ il doloroso viaggio verso il lager, che durerà, in quanto prigionia sua e di molti altri sopravvissuti, fino al gennaio del 1945, quando per una serie di circostanze fortunate e fortuite, Primo Levi viene liberato e dopo una estenuante odissea che durerà alcuni mesi e che sarà l’oggetto del libro successivo a quello di cui vi stiamo parlando, cioè “La tregua”, pubblicato nel 1963, da cui Francesco Rosi ha, come sapete, tratto un interessante film, fino a quel rientro Levi non può considerarsi “salvato”. In effetti verrà rimpatriato nell’ottobre del 1945. Sarà lui stesso a scriverlo “tornato a caso provai un impulso immediato e violento…” quello di raccontare. Voglio usare questo verbo deliberatamente: raccontare, non testimoniare, perché quello di cui parliamo è sì certo a tutti gli effetti un allucinante documento umano, ma è soprattutto un romanzo, è un grande romanzo e come tale è inserito nel ciclo delle nostre conversazioni. Le principali edizioni di “Se questo è un uomo” Caso curioso e in qualche modo dolente, malinconico, il dattiloscritto di “Se questo è un uomo” che Primo Levi scrive di getto tra il dicembre del ’45 e il narrative per esempio, che in ogni romanzo sono la prima cosa che un lettore colto o comunque appassionato va a vedere, le strutture del tempo e dello spazio, ebbene in questo romanzo, come nella realtà della vita nel lager, il tempo e lo spazio sembrano annullati. Lo spazio è uno spazio coatto, e Levi scrive pagine bellissime sulle varie parti di cui, proprio dal punto di vista architettonico, il lager è costituito, e sono parti destinate tutte a diverse attività dei reclusi, ma tutte all’insegna di una costrizione. La costrizione corporale, il vivere, come dire, annullati, perché ammassati in una serie di spazi, complementari l’uno all’altro, ma organicamente pensati dal genio, certo malefico di un oppressore, perché appunto questa idea di spazio venga quasi vanifica. E ancora l’annullamento del tempo, perché il fatto che l’uomo, nell’universo concentrazionario, ripeta giorno dopo giorno, ad ore estremamente precise, le stesse attività porta non ad una valutazione o sensibilizzazione del tempo, ma all’opposto, alla perdita della coscienza del tempo, come capita di ogni attività monotona o monocorde. Più rifacciamo ad ore fisse lo stesso gesto, pensate ad altre realtà, oggi non più per fortuna vive ed operanti, ma alla realtà di quello che erano le grandi prime industrie meccaniche o tessili o vetrarie dell’Europa dell’Ottocento, la realtà descritta magnificamente a metà dell’Ottocento, all’indomani della cosiddetta rivoluzione industriale, da Charles Dickens nei suoi bellissimi romanzi (Oliver Twist o David Copperfield), là l’uomo era massificato e perdeva assolutamente la coscienza del tempo, allo stesso modo, nel lager, questa coscienza era uccisa. E’ proprio la parola che spesso nel romanzo Primo adopera: “…non pareva possibile che esistesse veramente un mondo ed un tempo, se non il nostro mondo di fango e il nostro tempo sterile e stagnante..”. Su questa oppressione, su questa frustrazione della perdita del concetto di spazio, tempo, che se ci riflettete un momento sono poi i due concetti su cui ogni giorno si fonda la nostra vita quotidiana, anche minuta, se li perdiamo la nostra esistenza sembra non più degna di essere vissuta, “Se questo è un uomo” contiene pagine bellissime. E all’interno di questa perdita della coscienza del tempo e dello spazio, la scoperta tuttavia che l’uomo può essere ancora degno di questo nome. E’ il tema del titolo. E questa scoperta passa attraverso tutta una serie di episodi, distaccati naturalmente l’uno dall’altro, ma che sono all’insegna della stessa molla ispiratrice, che è la molla della solidarietà umana. “Se questo è un uomo” , il romanzo, è forse il più grande poema in prosa che sia stato edificato negli ultimi cinquanta anni a onore delle capacità illimitate da parte dell’uomo di essere solidale, quindi soccorrevole, quindi caritatevole verso l’altro. Solidarietà che passa attraverso prima di tutto i bisogni elementari. E il bisogno più radicato, non c’è bisogno forse neanche di sottolinearlo, in un lager è la fame. “Il lager è la fame, noi stessi siamo la fame, fame vivente”, è un’osservazione che Primo Levi, testimone narratore fa a metà del libro, ma su questa ossessione, “Se questo è un uomo” è ricchissimo di annotazioni dolorose e tragiche. “Persino nel sonno la fame è così ossessiva che i dormienti schioccano le labbra e dimenano le mascelle, sognano di mangiare”. E ad un certo punto, è un episodio che è rimasto nella memoria di moltissimi lettori di questo libro, davanti agli occhi stupiti dei reclusi, al di là di questi vetri sporchi ed appannati dei dormitori luridi del lager, si vede passare una Benna, cioè un motore elettrico, elettrificato e mosso su un carrello semovente, così come nell’imprese di costruzione edile di oggi, che sposta la terra argillosa perché così ha deciso il feldmarschall di Auschwitz. Ebbene per gli occhi avidi di quei prigionieri quella Benna diventa una bocca, le attribuiscono mascelle sdentate, la vedono azzannare e poi vomitare il boccone, notate che questo motore non fa altro che rimuovere terra, davanti ad ogni morso di questo pasto della draga, le bocche dei prigionieri, sto citando ovviamente Levi, si socchiudono e poi danzano in su e poi in giù, miserabilmente visibili sotto la nostra pelle floscia. Anche uno strumento meccanico diventa una allegoria della fame che perseguita i prigionieri. Ebbene è proprio la fame che fa scattare i più commoventi episodi di solidarietà. I reclusi, alcuni di questi reclusi, che nascondono una parte della misera razione del pane che a ciascuno spetta per darlo all’amico, al compagno, al fratello umano che ha più bisogno di noi. Scoperta della solidarietà, scoperta diciamo pure della carità, qui siamo in un universo laico, ma il richiamo è naturalmente ad una grande lettera di Paolo, San Paolo, alla lettera ai Corinzi, su Caritas, che cosa è Caritas , e in questo universo senza Dio, in questo universo di persone che hanno perduto probabilmente la fede in qualcosa di superiore, una laica carità, una carità paolina, laicamente adottata, ha la sua importanza. Lettura di Dante e realtà del lager Ma la solidarietà passa anche attraverso vie inattese. Siamo davanti a forse all’episodio più bello. E’ diventato famoso in tutto il mondo, questo episodio a cui sto per fare riferimento, l’episodio della lettura, anzi della recitazione a memoria da parte di Primo, dell’autore testimone, del canto di Ulisse, della Divina Commedia di Dante naturalmente, dell’inferno dantesco, il famoso vigesimo sesto, o ventiseiesimo canto della prima cantica dell’Inferno, che Primo Levi fa perché vuole insegnare l’italiano ad un compagno di lager. Pikolo si chiama questo compagno, con la k no con la c, una k soltanto, è un alsaziano e naturalmente non ha l’obbligo di sapere l’italiano, lingua un po’ minoritaria, ieri come oggi, ma Primo Levi si è intestardito a insegnarglielo a tutti i costi. E naturalmente non ci sono libri nel lager, la letteratura, i classici, anche i maestri di vita e di poesia come Dante, se si sanno, si sanno a memoria e Primo Levi ricorda quel canto di Ulisse, che forse molti di voi ricorderanno, quando mi diparti’ da Circe, che sottrasse me, sì gran tempo là presso Gaeta prima che Enea si la nominasse, né dolcezza di figlio né la pieta, ecc. eccc. Primo Levi ricorda male il canto perché la memoria in giorni e mesi così difficili e dolorosi, anche di debolezza fisica, non è sempre allerta eppure quello che ricorda a Pikolo, lo recita. Vuole fargli sentire che in quel canto c’è tutto e c’è soprattutto un verso che Ulisse dice ai compagni là sul picciolo naviglio quando sono, come Dante dice, quando sono diretti a passare le colonne d’Ercole e quindi a valicare il magico confine di Gibilterra per uscire oltre il Mediterraneo e spingersi, chissà dove, saranno come tutti ricorderete inghiottiti da un gorgo, ma il verso, la formula che Ulisse trasmette ai compagni è, come ricorderete, Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtude e canoscenza o conoscenza. E’ questo che Primo Levi vuole dire a Pikolo: Fatti non foste a viver come bruti, ricordati Pikolo non siamo stati creati da un dio, se un dio c’è, per vivere come bruti. Quello che Primo Levi vuole passare è un messaggio di riscatto. Questo episodio bellissimo è diventato celebre, presente addirittura a quanto ci è dato conoscere, in un numero altissimo di antologie scolastiche liceali e non, di vari paesi europei, l’episodio della recitazione del canto Ulisse da parte di Primo Levi al suo compagno di lager. E’ un altro esempio di un’altra solidarietà, molto più alta, molto più nobile, che passa attraverso la letteratura, e la letteratura al grado somma, perché dire Dante e dire Divina Commedia non vuol dire mica la Vispa Teresa, vuol dire uno dei grandi documenti della letteratura al più alto livello di ogni tempo. Ebbene anche la poesia aspra dell’Inferno può essere una prova della solidarietà umana. L’elemento onirico nel romanzo
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