Scarica SECONDO 500 RIASSUNTO COINCISO e più Appunti in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! Politica e religione nell’equilibrio del secondo Cinquecento: l’Europa atlantica 1. La ricerca dell’egemonia: la Spagna di Filippo II La divisione dell’impero voluta da Carlo tra il figlio Filippo II e il fratello Ferdinando V nel 1556 inaugura una diversa fase nella storia della monarchia spagnola. Se infatti fino ad allora la Spagna è stata solo una delle parti di un impero che aveva ancora un’aspirazione universale, essa diviene ora il modello di quella che lo storico Elliott ha definito «monarchia composita»: un insieme di realtà territoriali e istituzionali diverse e autonome che fanno capo a un unico sovrano che le governa attraverso un sistema di viceré, governatori e funzionari. La pace con la Francia di CateauCambrésis (1559) confermò il predominio della Spagna sulla penisola italiana. Il re spagnolo riuniva sotto di sé non solo la Spagna e i domini italiani (Sicilia, Sardegna, Napoli e Milano) ma anche i Paesi Bassi e i territori d’oltremare (Perù, cioè Nuova Castiglia, e Messico, o Nuova Spagna), cui si aggiunse nel 1580 il Portogallo. La figura di Filippo II è a tal punto paradigmatica di un’epoca che lo storico francese Fernand Braudel intitolò la sua opera forse più significativa Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II. Eppure – a detta dello stesso Braudel – Filippo II rimane una figura enigmatica. Il rey prudente, come veniva chiamato per la sua estrema lentezza nel consultare le carte di stato sulle quali passava le sue giornate, è stato a lungo identificato con il suo estremo rigorismo religioso. La sua ortodossia lo rese intollerante verso ogni forma di devianza al punto da divenire protagonista di una “leggenda nera” che ha unito per lungo tempo la sua figura e la Spagna in un giudizio fortemente negativo. Salito al trono spagnolo nel 1556, Filippo II governa per circa un quarantennio (15561598), conferendo una forte impronta burocratica allo Stato, che può godere dell’impegno di funzionari zelanti che affiancano il re nell’esercizio del suo potere. Da un punto di vista istituzionale il sovrano è affiancato da consigli (Consejos). Questi sono di due tipologie differenti: alcuni sono costituiti per impegnarsi su temi specifici (guerra, finanza, Inquisizione), altri sono invece espressione delle realtà regionali della Spagna e dei territori stranieri da essa governati (Italia, Indie, Fiandre). I consigli del regno svolgono in molti casi un ruolo di controparte del sovrano, nel tentativo di condizionarne la politica e di salvaguardare l’autonomia delle diverse regioni contro l’accentramento della corona. Una politica di salvaguardia delle proprie autonomie viene svolta in Spagna soprattutto dai Consigli di Aragona e di Catalogna, più restii ad accettare le imposizioni regie, soprattutto in merito all’esazione fiscale, che le numerose guerre intraprese dalla Corona rendono una necessità costante. Localmente il governo delle diverse regioni dell’impero è affidato inoltre ai nove viceré (Valencia, Aragona, Catalogna, Navarra, Sicilia, Sardegna, Napoli, Perù e Nuova Spagna) e ai governatori (Milano, Paesi Bassi). La struttura istituzionale non rende però conto delle complesse dinamiche che caratterizzano la vita politica durante il regno di Filippo II. Abbandonati i Paesi Bassi e i consiglieri legati alla figura paterna, il sovrano si lega soprattutto all’aristocrazia castigliana, e la corte è soggetta allo scontro tra diverse fazioni, che si contendono il favore del re influenzandone la politica politica su un piano più generale. A corte, le due fazioni degli Alba Toledo e degli «ebolisti», capeggiati da Ruiz Gómez de Silva principe di Eboli si alternano nelle grazie del sovrano. Uno dei favoriti del rey prudente è appunto il duca d’Alba, il quale ha un ruolo di primo piano anche nella repressione violenta della rivolta dei Paesi Bassi. Queste reti familiari e clientelari (patronage) superano inoltre i confini nazionali coinvolgendo i ceti dirigenti delle varie province e creando rapporti trasversali con le casate degli altri domini spagnoli (ad esempio nei territori italiani). Si costituisce in tal modo quella che lo storico francese Maurice Aymard ha definito «una internazionale di uomini politici, militari e amministratori» legati alla Spagna da interessi e valori comuni. Sul piano religioso Filippo II è sovrano intollerante, convinto che il suo impero debba essere governato da una sola legge e ispirato da una sola fede. La politica religiosa del rey prudente è ossessionata dall’idea della «purezza di sangue» (limpieza de sangre) che si concretizza in un furioso attacco non solo contro le minoranze musulmane ed ebraiche presenti nel paese ma anche contro coloro che attuano una prudente politica di conversione alla religione dominante (moriscos e conversos). Nel 1567 ai moriscos è impedito di continuare a parlare la propria lingua, e l’insieme di una serie di limitazioni conduce a una rivolta (1568), che si conclude con la deportazione di centomila moriscos nei diversi territori dell’impero. Nel 1609 è infine decretata la loro espulsione definitiva, con conseguenze catastrofiche sull’economia interna spagnola poiché porta al depauperamento del settore agricolo, nel quale campo i moriscos avevano rappresentato un’importante risorsa. L’Inquisizione ha un ruolo centrale nella vita del paese. La sua pervasività era stata forte anche prima dell’avvento al trono di Filippo II e la sua alleanza con la Corona incrollabile, al punto da suscitare malumori in più di un vescovo della penisola, infastidito dall’estensione delle prerogative inquisitoriali a tutto svantaggio di quelle della gerarchia ecclesiastica. Con il rafforzamento dello stato da parte del rey prudente questo legame si stringe sempre di più e la Sacra Inquisizione diviene a tutti gli effetti uno dei bracci politici della Corona. Questo non impedisce lo scontro con altre realtà della Chiesa spagnola come la Compagnia di Gesù che, soprattutto in una prima fase, è assai vicina ad alcune figure dell’alumbradismo come Juan de Ávila e aperta alla cooptazione dei conversos all’interno dell’ordine. In questa sua battaglia per la purezza della fede la monarchia spagnola trova un alleato privilegiato nel papato. La Lega santa promossa dal pontefice assieme a Venezia, al granducato di Toscana e a Genova per sconfiggere i turchi che imperversano nel Mediterraneo trova in Filippo II un alleato naturale. Postasi a capo della Lega rinnovando il mito della crociata contro i turchi, la Corona dà il comando di una grande spedizione al fratello del re, don Juan de Austria, riportando una decisiva vittoria nella battaglia di Lepanto del 1571. Si tratta in realtà solo di un momentaneo ripiegamento dell’espansione ottomana, e lungi dal rappresentare il punto di partenza per una nuova crociata tanto gli ottomani quanto la Spagna trovano presto altri interessi, spostando l’asse centrale del proprio intervento dal Mediterraneo. Indubbiamente però la battaglia di Lepanto rappresenta un evento importante sul piano simbolico: la disfatta dei turchi venne religioso si susseguirono infatti in Europa, le più devastanti delle quali furono quelle che incendiarono la Francia per quasi l’intera seconda metà del XVI secolo, mettendone in forse la stessa unità statale. Il caos e le crudeltà che le accompagnarono restarono così impresse nella memoria dei contemporanei che tali guerre incarnarono il simbolo stesso della dissoluzione in cui rischiava di precipitare quel paese che, nel nome dei dogmi e delle appartenenze di fede, rifiutava di riconoscere un’autorità sovrana comune. Le guerre di religione francesi sono otto, cadenzate lungo un arco temporale di trentasei anni, dal 1562 al 1598: non particolarmente significative dal punto di vista militare (nessuna battaglia fu mai veramente risolutiva, anche perché spesso gli eserciti in campo avevano tutto l’interesse alla prosecuzione delle ostilità), sono invece connotate da alcune caratteristiche politiche e sociali profondamente “moderne”, quasi una remota anticipazione di molti conflitti del Novecento. Anzitutto, esse sono probabilmente la prima vera guerra continentale conosciuta dall’Europa. In linea di principio gli avversari in campo sono due: le comunità francesi di fede calvinista, i cosiddetti ugonotti (fr. huguenots, dal ted. Eidgenossen, «confederati»), e l’alleanza tra alcune famiglie aristocratiche e città cattoliche, con gli ultimi due re della dinastia dei Valois schierati ora con gli uni ora con gli altri. Ma al conflitto prendono parte, con interventi diretti o aiuti finanziari e militari, spagnoli, inglesi, olandesi, tedeschi, svizzeri e italiani, per mire territoriali o perché motivati dalla consapevolezza che la Francia è divenuta l’ago della bilancia che può decidere del predominio del cattolicesimo o del protestantesimo in Europa. In secondo luogo, lo scenario politico in cui esse si svolgono, definito dalla debolezza intrinseca della monarchia e dalla sua incapacità di imporre la pace tra le parti, diviene l’esempio delle conseguenze drammatiche che un vuoto di potere centrale può arrecare alla collettività: il disordine generalizzato, la guerra di tutti contro tutti sono già all’epoca riconosciuti come il male supremo da cui ogni paese si doveva guardare. Terza caratteristica sono le violenze compiute contro la popolazione civile e l’uso sistematico dell’assassinio politico come strumento di lotta, una strategia di terrore sconosciuta al medioevo e che avrà invece avuto numerose repliche nei secoli successivi. Infine, le guerre di religione sono una logorante guerra civile che spezza antichi legami comunitari dividendo le città, i villaggi e le stesse famiglie, combattuta da due grandi partiti organizzati su base nazionale e cementati da un’identità confessionale che travalica le differenze di ceto e comprende i maggiori nobili del regno come i piccoli artigiani cittadini. Una regola comunemente recepita – e tale sarebbe stata fino al XVIII secolo – prescriveva che uno Stato non potesse essere efficacemente governato se i sudditi non erano uniti nella medesima fede; del resto, tale era stata la regola che aveva dettato la pacificazione di Augusta del 1555, allorché il principio dell’unità confessionale, irrealizzabile per l’impero nel suo complesso, era stato applicato nei singoli principati che lo componevano. Gli ultimi anni del regno di Francesco I (m. 1547) avevano assistito a un inasprimento delle sanzioni contro il crimine di eresia; il suo successore Enrico II (15471559) aveva sistematizzato i provvedimenti in materia istituendo un tribunale speciale contro gli eretici presso il Parlamento di Parigi, la «camera ardente»; e il breve intermezzo di Francesco II (15591560) era stato dominato dall’esecuzione di Anne du Bourg, consigliere del Parlamento e raffinato intellettuale, strangolato e arso sul rogo per avere invocato la fine delle repressioni. Malgrado ciò, la penetrazione della Riforma non sembra poter essere arrestata. Da quando Calvino ha stabilmente istituito il proprio governo a Ginevra la conversione della Francia al vangelo diventa una priorità: testi religiosi in francese e predicatori ben addestrati penetrano clandestinamente nel paese attraverso il Delfinato e si diramano nei centri grandi e piccoli. Le comunità riformate si organizzano secondo il modello ginevrino, ciascuna con il proprio concistoro elettivo formato da pastori, anziani e diaconi; queste «chiese», come sono chiamate, si riuniscono a loro volta in assemblee provinciali e nazionali, i sinodi. Un primo sinodo nazionale si tiene proprio a Parigi nel 1559, a dimostrazione di come i rigori legislativi siano tutt’altro che un deterrente efficace; nel 1562 sono contate almeno duemila chiese riformate su tutto il territorio francese. Del resto, proprio alla fine degli anni Cinquanta matura una vera e propria svolta nella strategia missionaria calvinista. Se in precedenza il verbo riformato aveva fatto presa soprattutto sui ceti mediobassi dei centri urbani (commercianti, artigiani, bottegai), da Ginevra ci si concentra ora sulla conversione dei nobili, a ciascuno dei quali, secondo la struttura sociale dell’epoca, fa capo una galassia più o meno estesa di congiunti, clienti e servitori. La scelta non sarebbe potuta cadere in un momento più opportuno. Nei suoi pochi mesi di regno Francesco II, quindicenne e gravemente malato, affida le redini del governo agli zii della moglie, Maria Stuart, e cioè il duca Francesco di Guisa e suo fratello, il cardinale Carlo di Lorena, il primate della Chiesa francese. I loro grandi rivali, i Borbone, che in quanto «principi del sangue», cioè parenti stretti del sovrano, godevano del diritto costituzionale di governare, la avvertono come un’usurpazione. Il fatto che i Guisa siano i capifila del cattolicesimo più inflessibile, contrario a qualsiasi ipotesi di tolleranza, contribuisce a dare una netta coloritura religiosa alla lotta per il primato politico nel paese: il figlio cadetto della casa di Borbone, Luigi, principe di Condé, dà seguito al proprio nascente interesse per il calvinismo assumendo il titolo di protettore delle Chiese riformate di Francia. La situazione è potenzialmente deflagrante. Dopo quasi quarant’anni di guerra contro gli Asburgo gli accordi di CateauCambrésis lasciano smobilitati grandi e piccoli nobili, ciascuno con i propri uomini in armi. Le condizioni finanziarie della corona sono catastrofiche: quaranta milioni di livres di debito e i tradizionali sistemi di tassazione ampiamente insufficienti a ripianarlo. Le riforme istituzionali di Francesco I avevano dato vita a un sistema politico fortemente accentrato in cui l’ultima funzione consultiva era stata sottratta al tradizionale Conseil du roi – un organo allargato formato dai principi del sangue e dagli alti funzionari della corona – e riservata a un consiglio ristretto la cui nomina era di esclusiva competenza del sovrano: ma ora la congiuntura presenta il rovescio della medaglia, poiché la debolezza del re consegna il paese intero nelle mani dei Guisa. Il biennio cruciale cade fra il 1560 e il 1562. Il 5 dicembre 1560 muore Francesco II. La corona passa al fratello Carlo IX, che però ha solo dieci anni; la reggenza – ossia la prerogativa di esercitare l’autorità suprema nel nome del sovrano – è rivendicata dalla madre, Caterina de’ Medici, vedova di Enrico II. Il suo obiettivo politico è quello di salvare per quanto possibile l’integrità della monarchia per garantire autorità ai figli una volta che abbiano raggiunto la maggiore età. La sua scelta è di cavalcare il disordine scegliendo l’alleanza con l’una o l’altra fazione in base a un mero calcolo di opportunità. Una scelta obbligata, ma che contribuice in fretta a screditare la dinastia e ad attirare su di lei l’odio di buona parte del paese. A Orléans sono convocati gli Stati generali, la massima assemblea nazionale (dicembre 1560gennaio 1561): è la prima volta dal 1484, a dimostrazione dell’emergenza in cui versa il regno. Si concludono in un nulla di fatto. Nel settembre del 1561 Caterina indice un «colloquio di religione» a Poissy, nella speranza che fra teologi cattolici e riformati si possa raggiungere una formula di compromesso. Vi partecipano il cardinale di Lorena e Thédore de Bèze, il più stretto collaboratore di Calvino, ma la distanza tra le confessioni è incolmabile. Per scongiurare un conflitto che sembra inevitabile la reggente, consigliata da uno dei pochi uomini indipendenti dalle fazioni, il cancelliere Michel de l’Hôpital, promulga nel gennaio del 1562 un decreto di tolleranza (editto di SaintGermain): per la prima volta è consentito il culto riformato, a patto che si tenga fuori dalle città; concistori e sinodi sono ufficialmente autorizzati, e l’attività dei pastori regolamentata con l’obbligo di prestare giuramento alle autorità. L’editto che avrebbe dovuto acquietare gli animi ha l’effetto opposto. La prima guerra di religione si scatena nel marzo del 1562, quando una banda agli ordini del duca di Guisa sorprende un’assemblea di ugonotti, a Vassy, e compie una strage. Per tutta risposta Condé e i suoi alleati occupano alcune città del paese, fra cui Lione, mentre contingenti inglesi sbarcano in loro appoggio a Le Havre; eccidi e ritorsioni chiarscono da subito quale sarà stato il volto del conflitto che è appena iniziato. L’episodio più celebre e tragico delle guerre di religione è la strage della notte di San Bartolomeo, che si consuma a Parigi per diversi giorni dal 24 agosto 1572 e nelle province per un paio di mesi. Voluta da Caterina in accordo con il nuovo duca di Guisa, Enrico, essa non è altro che l’esito della logica dello scontro religioso letto in chiave politica e portato al suo estremo: l’eliminazione violenta dell’avversario. Malgrado la strage – un numero imprecisato di vittime, di certo diverse migliaia – il fronte ugonotto regge, trasformandosi in una sorta di entità statale nella Francia del sud, con un esercito permanente e un proprio sistema fiscale. La notizia del massacro è accolta con gioia a Madrid e a Roma, dove il nuovo papa Gregorio XIII celebra una messa di ringraziamento: ma il suo risultato più duraturo è, all’opposto, la nascita di un movimento di cattolici moderati, i politiques (i «politici»), giuristi e funzionari fedeli alla corona, banchieri e mercanti rovinati dalla guerra, nobili avversi ai Guisa, uniti dalla convinzione che l’unità politica dello Stato debba avere la meglio sulla sua uniformità religiosa. Nel 1574 muore anche Carlo IX. Il fratello, Enrico, che due anni prima era stato eletto re di Polonia, sale al trono con il nome di Enrico III; egli conclude una nuova pace con gli ugonotti, ora guidati da Enrico di Navarra (era stato risparmiato nella notte di San Bartolomeo in cambio della conversione al cattolicesimo, salvo poi rinnegare una volta lasciata Parigi): sconfitti più volte in battaglia, nel maggio del 1576 essi riescono a ottenere più di quanto non avessero mai avuto, la libertà di culto in tutto il regno salvo Parigi, otto piazzeforti per garanzia militare, commissioni miste nei Parlamenti per i processi che li vedevano coinvolti. Con questa mossa la monarchia, che aveva perduto la fiducia dei protestanti per la sua implicazione nella strage di San Bartolomeo, perde anche quella dei cattolici che guardano a Roma. Le confraternite devote che si sono costituite nel paese si riuniscono in un organismo principio il papa non avrebbe potuto concederla, giacché si trattava di un «relapso», ossia di un eretico che, dopo un primo ritorno nell’alveo della fede cattolica, era ricaduto nell’errore. Le esigenze della politica internazionale e, soprattutto, gli equilibri interni alla curia romana suggeriscono però di soprassedere. Clemente VIII, appena eletto, riceve gli inviati di Enrico di Navarra, che di per sé è un gesto denso di significati. Nel settembre del 1595 lo assolve dalla scomunica; a questo punto neppure i cattolici più intransigenti possono appellarsi a una giustificazione teologica del loro rifiuto di riconoscere il re. I nobili ugonotti, davanti al consenso cattolico verso il nuovo re, presagiscono una nuova fase di repressioni, e minacciano di mobilitare un’armata che può contare ancora parecchie migliaia di uomini. In realtà, quello che Enrico vuole è tutto meno che una riapertura delle ostilità per motivi di religione. Con l’editto di Nantes, promulgato nell’aprile del 1598, egli apre una fase inedita nella storia francese ed europea. Agli ugonotti sono garantiti la libertà di coscienza e di culto, con esclusione di Parigi, nonché l’accesso a tutte le cariche pubbliche. Nel Parlamento di Parigi è ripristinata la camera speciale di confessione mista destinata a giudicare i casi giudiziari che implicassero sudditi protestanti. Per la prima volta uno Stato europeo abbandona la consuetudine dell’uniformità religiosa per riconoscere ufficialmente due confessioni sul proprio territorio. La necessità della tenuta della convivenza civile, messa alla prova da decenni di guerra intestina, ha la meglio sulle ragioni della fede. Più di ogni altra cosa stupisce il fatto che il regno di Francia sia riuscito a conservare la propria integrità territoriale e la solidità delle proprie istituzioni sociali e politiche dopo quasi quarant’anni di guerra civile. All’inizio del XVII secolo la Spagna, che non ha mai conosciuto un conflitto entro i propri confini e conta sulle risorse di uno sconfinato impero coloniale, è una nazione prostrata. La Francia, al contrario, si può presentare come il paese più solido del continente. Di certo, questa formidabile forza di ripresa ha i suoi costi. A pagarli sono prima di tutto i contadini. La taille («taglia»), l’imposta personale, continua a essere pagata essenzialmente da loro; i nobili ne sono esentati e una quantità crescente di borghesi – di coloro che, alla fine, hanno decretato la vittoria del Borbone schierandosi in massa con lui – ottiene di evitarla comprando titoli di nobilità o acquisendoli attraverso il servizio pubblico. In compenso il peso delle imposte, che grava sulle spalle dei ceti inferiori, non diminuisce rispetto ai tempi della guerra, quando aveva raggiunto proporzioni mai prima di allora conosciute. Sul piano dei rapporti confessionali, gli ugonotti, che negli anni Sessanta erano probabilmente arrivati a costituire un quinto della popolazione del regno si riducono a essere una minoranza militarmente e intellettualmente agguerrita, ma sostanzialmente relegata al di fuori dei veri spazi del potere, come la corte. I vincitori sono, da questo punto di vista, i politiques, i fautori della monarchia come istanza di pacificazione nazionale. È proprio la monarchia francese, in effetti, a uscire rafforzata dalle guerre di religione. In questo senso, gli istituti di accentramento politico e culturale predisposti nella prima metà del secolo reggono ampiamente alla prova del conflitto contribuendo al formarsi di un’unità nazionale francese che non è mai messa in discussione dalle differenze confessionali. L’ordinanza di VillersCotteret, promulgata da Francesco I nel 1539, aveva avuto successo nell’imporre la lingua d’oeil, ossia il francese della Loira, come lingua ufficiale di tutti gli atti giudiziari del regno, nel prescrivere la tenuta di registri di stato civile e nel delimitare con precisione i confini tra giurisdizione dello Stato e giurisdizione ecclesiastica. La vittoria di Enrico IV è anche una vittoria della corte e dell’accentramento politico contro le tendenze centrifughe degli Stati generali e dell’aristocrazia, e in questo senso la strategia dei Valois che, come si è visto, mirava a concentrare il potere decisionale nelle mani del re e del suo consiglio ristretto è fatta propria dal nuovo sovrano. 3. L’ascesa di una potenza europea: l’Inghilterra dell’età elisabettiana (15581603) Alla morte di Enrico VIII (1547) l’Inghilterra si ritrova orfana di una figura che ha dominato incontrastata per quasi quarant’anni. La morte del re apre una crisi contemporaneamente dinastica e religiosa. Da un lato, i tre eredi Tudor pongono, ciascuno per ragioni diverse, gravi problemi rispetto a quanto previsto dal padre: Edoardo ha solo nove anni, Maria è cattolica, Elisabetta è illegittima. Dall’altro, Enrico lascia nell’incertezza la condizione religiosa del regno: benché capo supremo della Chiesa inglese, e dunque scismatico, dal punto di vista del suo credo personale egli può essere considerato ancora cattolico a tutti gli effetti – come dimostra il fatto che nel suo testamento raccomandi l’anima alla Vergine e ai santi e abbia lasciato dei legati per la celebrazione di messe in proprio suffragio. Se il legittimo successore è Edoardo VI, il potere effettivo è dunque assunto da un apposito consiglio di reggenza. Il quale, naturalmente, non può contare su quell’autorità con cui il sovrano defunto aveva retto con mano ferma il paese. I primi a cogliere questa debolezza sono gli scozzesi, che ridanno fiato alle proprie rivendicazioni di autonomia verso le ingerenze inglesi; benché la Scozia sia un regno autonomo gli inglesi continuano infatti a considerarla da secoli come uno Stato vassallo. Il consiglio di reggenza decide di spegnere quel possibile focolaio di disordine con una campagna militare (154748) che però ha come unico risultato la fuga in Francia della legittima sovrana scozzese Maria Stuart (15421567, m. 1587). Edoardo si spegne prematuramente nel 1553. È la volta di Maria, allevata nella fede cattolica. Poche settimane dopo la sua incoronazione papa Giulio III nomina prontamente legato papale in Inghilterra il grande cardinale Reginald Pole, raffinato intellettuale e capofila degli «spirituali» (la corrente del cattolicesimo romano più aperta al dialogo con i protestanti). Sotto una tutela così autorevole Maria conduce un’energica reazione verso quella che ai suoi occhi appare come una pericolosa deriva protestante del paese; il Parlamento abroga le riforme religiose degli anni più recenti ripristinando la situazione del 1547, con la conservazione di fatto di buona parte del culto e della liturgia cattolica romana. Non mancano persecuzioni contro i protestanti più intransigenti (quasi trecento persone sono messe al rogo), al punto di provocare sollevazioni nel paese. La memoria di questi pochi anni basta a guadagnare alla regina un posto d’onore nel libro nero della storia inglese con il soprannome di Bloody Mary («Maria la sanguinaria»). In un sistema costituzionale in cui l’ultima decisione spetta al sovrano, la stabilità e l’indirizzo politico di uno Stato sono legati a doppio filo alle vicende biografiche di questo’ultimo. Edoardo VI aveva regnato di fatto per un solo anno, Maria per cinque; la regina che va a succederle regna per quarantaquattro, dando il suo nome a quell’età aurea dell’Inghilterra che sarebbe stata nota come età elisabettiana. Per la Chiesa romana Elisabetta è figlia illegittima di Enrico VIII, in quanto nata dal matrimonio non riconosciuto tra questi e Anna Bolena. In altri termini è un’usurpatrice. Il netto indirizzo protestante della politica religiosa della nuova sovrana è consustanziale alla conservazione di una piena autorità de iure. L’affermazione della legittimità del potere che ella ha appena conseguito va insomma di pari passo con lo stabilizzarsi di un orientamento protestante della politica religiosa del paese. L’identità confessionale dell’Inghilterra è infatti tutt’altro che chiara. Elisabetta deve fronteggiare due nemici contrapposti: da un lato la Chiesa romana, che continua a porsi come l’autorità suprema di tutti i cristiani, scismatici compresi, e che in Inghilterra conta ancora molti fedeli, sopratutto fra i ceti nobiliari; dall’altro i puritani, ossia quanti guardano alla Chiesa riformata di Ginevra e al suo protestantesimo radicale e sono fautori di un modello ecclesiale antigerarchico e comunitario. La Chiesa anglicana, con le sue liturgie e la sua struttura episcopale, appare ai loro occhi un residuo «papista». In questo senso la politica di Elisabetta fu improntata al pragmatismo. Un contenuto teologico prossimo al calvinismo è adottato nel quadro dell’ordinamento gerarchico della Chiesa anglicana disegnata da Enrico VIII. La prima mossa, a ridosso dell’incoronazione, è l’Atto di supremazia (Act of supremacy, 1559), che riconferma la regina come vertice della Chiesa inglese; nella medesima occasione il Parlamento si impegnò a dare unità nella liturgia e nella preghiera al paese con l’Atto di uniformità (Act of uniformity) e il Libro di preghiera comune (Book of common prayer) in una versione più favorevole alle tendenze calviniste. Al tempo stesso, Elisabetta fa divieto al Parlamento di discutere della questione del suo matrimonio, lasciando nell’incertezza il futuro della dinastia e aprendo di fatto, con questo, il problema della successione al trono. Sotto questo aspetto politica internazionale e questione religiosa sono strettamente connesse, giacché la grande potenza cattolica, la Spagna, e con essa il papato, riconoscono come legittima pretendente Maria Stuart, regina di Scozia e pronipote di Enrico VIII. La società inglese dell’epoca è una fra le più dinamiche dal punto di vista sociale ed economico. La vendita delle proprietà ecclesiastiche al tempo di Enrico VIII e il riassetto giuridico delle campagne hanno rinvigorito uno sviluppo dell’industria agraria che risale già al secolo precedente. La nobiltà terriera sa sfruttare in modo imprenditoriale le sue proprietà: con l’incremento dell’allevamento degli ovini per la produzione di lana, il comparto tessile sta diventando il settore di punta dell’economia inglese. Questo comporta la trasformazione a pascolo di vaste aree prima poste a coltura, secondo un mutamento che va a detrimento dei contadini e dei piccoli proprietari legati alla tradizionale produzione agricola. Il volano di questo processo è il passaggio dagli openfields, le terre di proprietà comune a disposizione dei villaggi per le loro colture di sussistenza, alle enclosures, le «recinzioni» dei terreni, che diventano proprietà privata degli imprenditori e sono sottratte agli usi comuni. Tanto i nobili quanto i ceti cittadini benestanti sanno inoltre mettere a frutto le loro ricchezze nell’altro grande settore dell’economia imprenditoriale, il commercio. È in esso che la vocazione marittima dell’isola trova la sua espressione più proverbiale. Le operazioni belliche nei Paesi Bassi e in Francia, che rendono talvolta difficile l’accesso ai porti continentali della