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SECONDO 500 RIASSUNTO COINCISO, Appunti di Storia Moderna

RIASSUNTO SUL 2 CINQUECENTO COMPLETO

Tipologia: Appunti

2018/2019

Caricato il 08/04/2019

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Scarica SECONDO 500 RIASSUNTO COINCISO e più Appunti in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! Politica e religione nell’equilibrio del secondo Cinquecento: l’Europa atlantica 1. La ricerca dell’egemonia: la Spagna di Filippo II  La divisione dell’impero voluta da Carlo tra il figlio Filippo II e il fratello Ferdinando V nel 1556 inaugura una diversa fase nella storia della monarchia spagnola. Se infatti fino ad allora la Spagna è stata solo una delle parti di un impero che aveva ancora un’aspirazione universale, essa diviene ora  il  modello di quella  che lo  storico Elliott  ha definito «monarchia composita»:  un insieme di   realtà   territoriali   e   istituzionali  diverse  e  autonome  che   fanno capo  a  un  unico sovrano che le governa attraverso un sistema di viceré, governatori e funzionari. La pace con la Francia di Cateau­Cambrésis (1559) confermò il predominio della Spagna sulla penisola italiana. Il re spagnolo riuniva sotto di sé non solo la  Spagna e i domini italiani (Sicilia, Sardegna, Napoli e Milano) ma anche i Paesi Bassi e i territori d’oltremare  (Perù, cioè Nuova Castiglia, e Messico, o Nuova Spagna), cui si aggiunse nel 1580 il Portogallo. La  figura  di  Filippo  II  è   a   tal  punto paradigmatica  di  un’epoca che   lo  storico   francese Fernand Braudel   intitolò   la  sua opera forse più   significativa  Civiltà  e   imperi del  Mediterraneo nell’età   di   Filippo   II.   Eppure   –   a   detta   dello   stesso   Braudel   –   Filippo   II   rimane   una   figura enigmatica. Il  rey prudente, come veniva chiamato per la sua estrema lentezza nel consultare le carte di stato sulle quali passava le sue giornate, è  stato a lungo identificato con il suo estremo rigorismo religioso. La sua ortodossia lo rese intollerante verso ogni forma di devianza al punto da divenire protagonista di una “leggenda nera” che ha unito per lungo tempo la sua figura e la Spagna in un giudizio fortemente negativo. Salito al trono spagnolo nel 1556, Filippo II governa per circa un quarantennio (1556­1598), conferendo una forte impronta burocratica allo Stato, che può godere dell’impegno di funzionari zelanti che affiancano il re nell’esercizio del suo potere. Da un punto di vista istituzionale il sovrano è affiancato da consigli  (Consejos). Questi sono di due tipologie differenti:  alcuni sono costituiti per  impegnarsi  su temi specifici  (guerra,   finanza,   Inquisizione),  altri  sono  invece  espressione delle  realtà   regionali  della  Spagna e  dei   territori   stranieri  da essa  governati  (Italia,   Indie, Fiandre).   I  consigli  del   regno  svolgono   in  molti  casi  un   ruolo  di   controparte  del   sovrano,  nel tentativo di condizionarne la politica e di salvaguardare l’autonomia delle diverse regioni contro l’accentramento della corona. Una politica di salvaguardia delle proprie autonomie viene svolta in Spagna soprattutto dai Consigli di Aragona e di Catalogna, più restii ad accettare le imposizioni regie,  soprattutto in merito all’esazione fiscale,  che le numerose guerre intraprese dalla Corona rendono una necessità costante. Localmente il  governo delle diverse regioni dell’impero è  affidato inoltre ai  nove viceré (Valencia,  Aragona,  Catalogna,  Navarra,  Sicilia,  Sardegna,  Napoli,  Perù   e  Nuova Spagna)  e  ai governatori (Milano, Paesi Bassi). La struttura istituzionale non rende però conto delle complesse dinamiche che caratterizzano la vita politica durante il  regno di Filippo II.  Abbandonati  i Paesi Bassi   e   i   consiglieri   legati   alla   figura  paterna,  il   sovrano  si   lega   soprattutto  all’aristocrazia castigliana, e la corte è soggetta allo scontro tra diverse fazioni, che si contendono il favore del re influenzandone la politica politica su un piano più  generale.  A corte,  le due fazioni degli Alba Toledo e degli «ebolisti», capeggiati da Ruiz Gómez de Silva principe di Eboli si alternano nelle grazie del sovrano. Uno dei favoriti del rey prudente è appunto il duca d’Alba, il quale ha un ruolo di primo piano anche nella repressione violenta della rivolta dei Paesi Bassi. Queste reti familiari e clientelari (patronage) superano inoltre i confini nazionali coinvolgendo i ceti dirigenti delle varie province e creando rapporti trasversali con le casate degli altri domini spagnoli (ad esempio nei territori   italiani).  Si  costituisce  in   tal  modo quella  che  lo  storico  francese Maurice  Aymard ha definito  «una  internazionale di  uomini  politici,  militari  e amministratori»  legati  alla  Spagna da interessi e valori comuni. Sul piano religioso Filippo II è sovrano intollerante, convinto che il suo impero debba essere governato da una sola legge e ispirato da una sola fede. La politica religiosa del rey prudente è ossessionata  dall’idea della «purezza di sangue»  (limpieza de sangre) che si concretizza in un furioso attacco non solo contro le minoranze musulmane ed ebraiche presenti nel paese ma anche contro coloro che attuano una prudente politica di conversione alla religione dominante (moriscos e conversos). Nel 1567 ai moriscos è impedito di continuare a parlare la propria lingua, e l’insieme di una   serie  di   limitazioni  conduce  a  una   rivolta   (1568),   che  si  conclude  con   la  deportazione  di centomila moriscos nei diversi territori dell’impero. Nel 1609 è infine decretata la loro espulsione definitiva,   con   conseguenze   catastrofiche   sull’economia   interna   spagnola  poiché   porta   al depauperamento   del   settore   agricolo,   nel   quale   campo   i  moriscos  avevano   rappresentato un’importante risorsa. L’Inquisizione ha un ruolo centrale nella vita del paese. La sua pervasività era stata forte anche prima dell’avvento al trono di Filippo II e la sua alleanza con la Corona incrollabile, al punto da   suscitare   malumori   in   più   di   un   vescovo   della   penisola,   infastidito   dall’estensione   delle prerogative   inquisitoriali   a   tutto   svantaggio   di   quelle   della   gerarchia   ecclesiastica.   Con   il rafforzamento dello stato da parte del  rey prudente  questo legame si stringe sempre di più e  la Sacra Inquisizione diviene a tutti gli effetti uno dei bracci politici della Corona. Questo non impedisce lo  scontro con altre realtà della Chiesa spagnola come la Compagnia di Gesù che, soprattutto in una prima fase, è assai vicina ad alcune figure dell’alumbradismo come Juan de Ávila e aperta alla cooptazione dei conversos all’interno dell’ordine. In questa sua battaglia per la purezza della fede  la monarchia spagnola trova un alleato privilegiato nel papato. La Lega santa promossa dal pontefice assieme a Venezia, al granducato di Toscana e a Genova per sconfiggere i turchi che imperversano nel Mediterraneo trova in Filippo II un alleato naturale. Postasi a capo della Lega rinnovando il mito della crociata contro i turchi, la Corona dà il comando di una grande spedizione al fratello del re, don Juan de Austria, riportando una  decisiva   vittoria   nella   battaglia   di   Lepanto   del   1571.   Si   tratta   in   realtà   solo   di   un momentaneo   ripiegamento   dell’espansione   ottomana,   e   lungi   dal   rappresentare   il   punto   di partenza per una nuova crociata tanto gli ottomani quanto la Spagna trovano presto altri interessi, spostando l’asse centrale del proprio intervento dal Mediterraneo. Indubbiamente però la battaglia di Lepanto rappresenta un  evento importante sul piano simbolico:   la disfatta dei turchi venne religioso   si   susseguirono   infatti   in   Europa,   le   più   devastanti   delle   quali   furono   quelle   che incendiarono la Francia per quasi l’intera seconda metà  del XVI secolo, mettendone in forse la stessa  unità   statale.   Il  caos  e   le  crudeltà   che  le  accompagnarono  restarono così   impresse nella memoria dei contemporanei che tali guerre incarnarono il simbolo stesso della dissoluzione in cui rischiava di  precipitare quel  paese che,  nel  nome dei  dogmi e delle  appartenenze di   fede, rifiutava di riconoscere un’autorità sovrana comune. Le guerre di religione francesi sono otto, cadenzate lungo un arco temporale di trentasei anni,   dal   1562   al   1598:   non  particolarmente   significative  dal   punto  di   vista  militare   (nessuna battaglia   fu  mai  veramente   risolutiva,  anche  perché   spesso  gli   eserciti   in  campo avevano  tutto l’interesse alla prosecuzione delle ostilità), sono invece connotate da alcune caratteristiche politiche e   sociali   profondamente   “moderne”,   quasi   una  remota   anticipazione   di   molti   conflitti   del Novecento. Anzitutto,   esse   sono   probabilmente  la   prima   vera   guerra   continentale   conosciuta dall’Europa. In linea di principio gli avversari in campo sono due: le comunità francesi di fede calvinista, i cosiddetti ugonotti (fr. huguenots, dal ted. Eidgenossen, «confederati»), e l’alleanza tra alcune   famiglie   aristocratiche  e   città   cattoliche,   con gli  ultimi  due  re  della  dinastia  dei  Valois schierati ora con gli uni ora con gli altri. Ma al conflitto prendono parte, con interventi diretti o aiuti finanziari e militari, spagnoli, inglesi, olandesi, tedeschi, svizzeri e italiani, per mire territoriali o perché  motivati   dalla   consapevolezza   che   la  Francia   è   divenuta  l’ago  della  bilancia   che  può decidere del predominio del cattolicesimo o del protestantesimo in Europa. In   secondo  luogo,   lo  scenario  politico   in  cui  esse si   svolgono,  definito  dalla  debolezza intrinseca  della  monarchia  e  dalla  sua  incapacità  di   imporre  la  pace  tra   le  parti,  diviene l’esempio delle conseguenze drammatiche che un vuoto di potere centrale può arrecare alla collettività: il disordine generalizzato, la guerra di tutti contro tutti sono già all’epoca riconosciuti come il male supremo da cui ogni paese si doveva guardare. Terza caratteristica sono le  violenze compiute contro la popolazione civile e l’uso sistematico dell’assassinio politico come strumento di lotta, una strategia di terrore sconosciuta al medioevo e che avrà invece avuto numerose repliche nei secoli successivi. Infine, le guerre di religione sono una  logorante guerra civile che spezza antichi legami comunitari dividendo le città, i villaggi e le stesse famiglie, combattuta da due grandi partiti organizzati su base nazionale e cementati da un’identità confessionale che travalica le differenze di ceto e comprende i maggiori nobili del regno come i piccoli artigiani cittadini. Una regola comunemente recepita – e tale sarebbe stata fino al XVIII secolo – prescriveva che  uno Stato non potesse essere efficacemente governato se i sudditi non erano uniti nella medesima fede; del resto, tale era stata la regola che aveva dettato la pacificazione di Augusta del 1555, allorché il principio dell’unità confessionale, irrealizzabile per l’impero nel suo complesso, era stato applicato nei singoli principati che lo componevano. Gli ultimi anni del regno di Francesco I (m. 1547) avevano assistito a un inasprimento delle sanzioni contro il crimine di eresia; il suo successore Enrico  II   (1547­1559) aveva sistematizzato  i  provvedimenti   in  materia   istituendo un tribunale speciale contro gli eretici presso il Parlamento di Parigi, la «camera ardente»; e il breve intermezzo di  Francesco II   (1559­1560) era stato dominato dall’esecuzione di  Anne du Bourg, consigliere del Parlamento e raffinato intellettuale, strangolato e arso sul rogo per avere invocato la fine delle repressioni. Malgrado ciò, la penetrazione della Riforma non sembra poter essere arrestata. Da quando Calvino ha stabilmente istituito il proprio governo a Ginevra la conversione della Francia al vangelo diventa   una   priorità:   testi   religiosi   in   francese   e   predicatori   ben   addestrati   penetrano clandestinamente nel paese attraverso il  Delfinato e si  diramano nei centri  grandi e piccoli.  Le comunità   riformate   si   organizzano   secondo   il   modello   ginevrino,   ciascuna   con   il  proprio concistoro elettivo formato da pastori, anziani e diaconi; queste «chiese», come sono chiamate, si riuniscono a loro volta in assemblee provinciali e nazionali, i sinodi. Un primo sinodo nazionale si tiene proprio a Parigi nel 1559, a dimostrazione di come i rigori legislativi siano tutt’altro che un deterrente efficace; nel 1562 sono contate almeno duemila chiese riformate su tutto il territorio francese. Del resto, proprio alla fine degli anni Cinquanta matura una vera e propria svolta nella strategia missionaria calvinista. Se in precedenza il verbo riformato aveva fatto presa soprattutto sui ceti medio­bassi dei centri urbani (commercianti, artigiani, bottegai), da Ginevra ci si concentra ora sulla  conversione dei nobili, a ciascuno dei quali, secondo la struttura sociale dell’epoca, fa capo una galassia più o meno estesa di congiunti, clienti e servitori. La scelta non sarebbe potuta cadere in un momento più opportuno. Nei suoi pochi mesi di regno Francesco II,  quindicenne e gravemente malato, affida le redini del governo agli zii della moglie, Maria Stuart, e cioè il duca Francesco di Guisa e suo fratello, il cardinale Carlo di Lorena, il primate della Chiesa francese. I loro grandi rivali, i Borbone, che in quanto «principi del sangue», cioè  parenti  stretti  del sovrano, godevano del  diritto costituzionale di  governare,   la avvertono come un’usurpazione. Il fatto che i Guisa siano i capifila del cattolicesimo più inflessibile, contrario a qualsiasi ipotesi di tolleranza, contribuisce a dare una netta coloritura religiosa alla lotta per il primato politico nel paese: il figlio cadetto della casa di Borbone, Luigi, principe di Condé,  dà seguito al proprio nascente interesse per il calvinismo assumendo il titolo di protettore delle Chiese riformate di Francia. La situazione è potenzialmente deflagrante. Dopo quasi quarant’anni di guerra contro gli Asburgo gli accordi di Cateau­Cambrésis  lasciano smobilitati grandi e piccoli nobili, ciascuno con i propri uomini in armi. Le condizioni finanziarie della corona sono catastrofiche: quaranta milioni di livres di debito e i tradizionali sistemi di tassazione ampiamente insufficienti a ripianarlo. Le riforme istituzionali di Francesco I avevano dato vita a un sistema politico fortemente accentrato in cui l’ultima funzione consultiva era stata sottratta al tradizionale  Conseil du roi  – un organo allargato formato dai principi del sangue e dagli alti  funzionari della corona – e riservata a un consiglio ristretto la cui nomina era di esclusiva competenza del sovrano: ma ora la congiuntura presenta il rovescio della medaglia, poiché la debolezza del re consegna il paese intero nelle mani dei Guisa. Il biennio cruciale cade fra il 1560 e il 1562. Il 5 dicembre 1560 muore Francesco II. La corona passa al fratello Carlo IX, che però ha solo dieci anni; la reggenza – ossia la prerogativa di esercitare l’autorità suprema nel nome del sovrano – è rivendicata dalla madre, Caterina de’ Medici, vedova di Enrico II. Il suo obiettivo politico è quello di salvare per quanto possibile l’integrità della monarchia per garantire autorità ai figli una volta che abbiano raggiunto la maggiore età. La sua scelta è di cavalcare il disordine scegliendo l’alleanza con l’una o l’altra fazione in base a un mero calcolo di opportunità. Una scelta obbligata, ma che contribuice in fretta a screditare la dinastia e ad attirare su di lei l’odio di buona parte del paese. A Orléans sono convocati gli  Stati generali, la massima   assemblea   nazionale   (dicembre   1560­gennaio   1561):   è   la   prima   volta   dal   1484,   a dimostrazione dell’emergenza in cui versa il regno. Si concludono in un nulla di fatto. Nel settembre del  1561  Caterina   indice  un  «colloquio  di   religione»   a  Poissy,  nella   speranza  che   fra   teologi cattolici e riformati si possa raggiungere una formula di compromesso. Vi partecipano il cardinale di Lorena e Thédore de Bèze, il più stretto collaboratore di Calvino, ma la distanza tra le confessioni è incolmabile. Per scongiurare un conflitto che sembra inevitabile la reggente, consigliata da uno dei pochi uomini indipendenti dalle fazioni, il cancelliere Michel de l’Hôpital, promulga nel gennaio del 1562 un  decreto  di   tolleranza  (editto  di  Saint­Germain):   per   la   prima  volta   è   consentito   il   culto riformato, a patto che si tenga fuori dalle città; concistori e sinodi sono ufficialmente autorizzati, e l’attività dei pastori regolamentata con l’obbligo di prestare giuramento alle autorità. L’editto che avrebbe dovuto acquietare gli animi ha l’effetto opposto. La prima guerra di religione si scatena nel marzo   del   1562,   quando   una   banda   agli   ordini   del   duca   di   Guisa   sorprende   un’assemblea   di ugonotti, a Vassy, e compie una strage. Per tutta risposta Condé e i suoi alleati occupano alcune città del paese, fra cui Lione, mentre contingenti inglesi sbarcano in loro appoggio a Le Havre; eccidi e ritorsioni chiarscono da subito quale sarà stato il volto del conflitto che è appena iniziato. L’episodio più  celebre e tragico delle guerre di religione è   la  strage della notte di San Bartolomeo, che si consuma a Parigi per diversi giorni dal 24 agosto 1572 e nelle province per un paio di mesi. Voluta da Caterina in accordo con il nuovo duca di Guisa, Enrico, essa non è altro che l’esito   della   logica   dello   scontro   religioso   letto   in   chiave   politica   e   portato   al   suo   estremo: l’eliminazione violenta dell’avversario. Malgrado la strage – un numero imprecisato di vittime, di certo diverse migliaia – il fronte ugonotto regge, trasformandosi in una sorta di entità statale nella Francia del sud, con un esercito permanente e un proprio sistema fiscale. La notizia del massacro è accolta con gioia a Madrid e a Roma, dove il  nuovo papa Gregorio XIII celebra una messa di ringraziamento:  ma  il  suo risultato più  duraturo è,  all’opposto,   la  nascita  di  un  movimento di cattolici moderati, i  politiques  (i «politici»), giuristi e funzionari fedeli alla corona, banchieri e mercanti rovinati dalla guerra, nobili avversi ai Guisa, uniti dalla convinzione che l’unità politica dello Stato debba avere la meglio sulla sua uniformità religiosa. Nel 1574 muore anche Carlo IX. Il fratello, Enrico, che due anni prima era stato eletto re di Polonia, sale al trono con il nome di Enrico III; egli conclude una nuova pace con gli ugonotti, ora guidati da Enrico di Navarra (era stato risparmiato nella notte di San Bartolomeo in cambio della conversione al cattolicesimo, salvo poi rinnegare una volta lasciata Parigi): sconfitti più volte in battaglia, nel maggio del 1576 essi riescono a ottenere più di quanto non avessero mai avuto, la libertà  di culto in tutto il regno salvo Parigi, otto piazzeforti per garanzia militare, commissioni miste nei Parlamenti per i processi che li vedevano coinvolti. Con questa mossa la monarchia, che aveva perduto la fiducia dei protestanti per la sua implicazione nella strage di San Bartolomeo, perde anche quella dei cattolici  che guardano a Roma.  Le   confraternite  devote   che   si   sono   costituite  nel   paese   si   riuniscono   in  un  organismo principio il papa non avrebbe potuto concederla, giacché si trattava di un «relapso», ossia di un eretico  che,  dopo  un  primo  ritorno  nell’alveo  della   fede  cattolica,   era   ricaduto  nell’errore.  Le esigenze   della   politica   internazionale   e,   soprattutto,   gli   equilibri   interni   alla   curia   romana suggeriscono però  di  soprassedere.  Clemente VIII,  appena eletto, riceve gli   inviati  di  Enrico di Navarra,  che di per sé  è  un gesto denso di significati.  Nel settembre del 1595  lo assolve dalla scomunica;   a   questo   punto   neppure   i   cattolici   più   intransigenti   possono   appellarsi   a   una giustificazione teologica del loro rifiuto di riconoscere il re. I nobili ugonotti, davanti al consenso cattolico verso il nuovo re, presagiscono una nuova fase di repressioni, e minacciano di mobilitare un’armata che può contare ancora parecchie migliaia di uomini. In realtà, quello che Enrico vuole è tutto meno che una riapertura delle ostilità per motivi di religione. Con l’editto di Nantes, promulgato nell’aprile del 1598, egli apre una fase inedita nella storia francese ed europea.  Agli ugonotti  sono garantiti  la libertà  di coscienza e di culto, con esclusione di Parigi, nonché l’accesso a tutte le cariche pubbliche. Nel Parlamento di Parigi è ripristinata   la   camera   speciale   di   confessione  mista   destinata   a   giudicare   i   casi   giudiziari   che implicassero sudditi protestanti. Per la prima volta uno Stato europeo abbandona la consuetudine dell’uniformità religiosa per riconoscere ufficialmente due confessioni sul proprio territorio. La necessità della tenuta della convivenza civile, messa alla prova da decenni di guerra intestina, ha la meglio sulle ragioni della fede. Più di ogni altra cosa stupisce il fatto che il regno di Francia sia riuscito a  conservare la propria integrità territoriale e la solidità delle proprie istituzioni sociali e politiche dopo quasi quarant’anni di guerra civile. All’inizio del XVII secolo la Spagna, che non ha mai conosciuto un conflitto  entro  i  propri  confini  e  conta  sulle   risorse di  uno sconfinato  impero coloniale,   è  una nazione   prostrata.   La   Francia,   al   contrario,   si   può   presentare   come  il   paese   più   solido   del continente. Di certo, questa formidabile forza di ripresa ha i suoi costi. A pagarli sono prima di tutto i contadini. La taille («taglia»), l’imposta personale, continua a essere pagata essenzialmente da loro; i nobili ne sono esentati e una quantità crescente di borghesi – di coloro che, alla fine, hanno   decretato   la   vittoria   del   Borbone   schierandosi   in   massa   con   lui   –   ottiene   di   evitarla comprando titoli di nobilità o acquisendoli attraverso il servizio pubblico. In compenso il peso delle imposte,  che grava sulle  spalle dei  ceti   inferiori,  non diminuisce rispetto ai   tempi della  guerra, quando   aveva   raggiunto   proporzioni   mai   prima   di   allora   conosciute.   Sul   piano   dei   rapporti confessionali,  gli  ugonotti,  che negli  anni  Sessanta erano probabilmente arrivati  a  costituire  un quinto   della   popolazione   del   regno   si   riducono   a   essere  una   minoranza   militarmente   e intellettualmente agguerrita, ma sostanzialmente relegata al di fuori dei veri spazi del potere, come la corte. I vincitori sono, da questo punto di vista, i politiques, i fautori della monarchia come istanza di pacificazione nazionale. È proprio la monarchia francese, in effetti, a uscire rafforzata dalle guerre di religione. In questo senso, gli istituti di accentramento politico e culturale predisposti nella prima metà del secolo reggono ampiamente alla prova del conflitto contribuendo al formarsi di un’unità nazionale francese che non è mai messa in discussione dalle differenze confessionali. L’ordinanza di Villers­Cotteret, promulgata da Francesco I nel 1539, aveva avuto successo nell’imporre la lingua  d’oeil, ossia il francese della Loira, come lingua ufficiale di tutti gli atti giudiziari del regno, nel prescrivere la tenuta di registri di stato civile e nel delimitare con precisione i confini tra giurisdizione dello Stato e   giurisdizione   ecclesiastica.   La   vittoria   di   Enrico   IV   è   anche   una  vittoria   della   corte   e dell’accentramento   politico   contro   le   tendenze   centrifughe   degli   Stati   generali   e dell’aristocrazia,   e   in   questo   senso   la   strategia   dei   Valois   che,   come   si   è   visto,   mirava   a concentrare il potere decisionale nelle mani del re e del suo consiglio ristretto è fatta propria dal nuovo sovrano. 3. L’ascesa di una potenza europea: l’Inghilterra dell’età elisabettiana (1558­1603) Alla morte di Enrico VIII (1547) l’Inghilterra si ritrova orfana di una figura che ha dominato incontrastata   per   quasi   quarant’anni.   La   morte   del   re   apre   una  crisi   contemporaneamente dinastica e religiosa. Da un lato, i tre eredi Tudor pongono, ciascuno per ragioni diverse, gravi problemi   rispetto   a   quanto  previsto  dal   padre:  Edoardo  ha   solo  nove   anni,   Maria   è   cattolica, Elisabetta è illegittima. Dall’altro, Enrico lascia nell’incertezza la condizione religiosa del regno: benché capo supremo della Chiesa inglese, e dunque scismatico, dal punto di vista del suo credo personale egli può essere considerato ancora cattolico a tutti gli effetti – come dimostra il fatto che nel suo testamento raccomandi  l’anima alla Vergine e ai santi e abbia lasciato dei  legati per  la celebrazione di messe in proprio suffragio. Se il legittimo successore è Edoardo VI, il potere effettivo è dunque assunto da un apposito consiglio   di   reggenza.   Il   quale,   naturalmente,  non   può   contare   su   quell’autorità   con   cui   il sovrano defunto aveva retto con mano ferma il paese. I primi a cogliere questa debolezza sono gli scozzesi, che ridanno fiato alle proprie rivendicazioni di autonomia verso le ingerenze inglesi; benché la Scozia sia un regno autonomo gli inglesi continuano infatti a considerarla da secoli come uno Stato vassallo. Il consiglio di reggenza decide di spegnere quel possibile focolaio di disordine con una campagna militare (1547­48) che però  ha come unico risultato la fuga in Francia della legittima sovrana scozzese Maria Stuart (1542­1567, m. 1587). Edoardo   si   spegne   prematuramente   nel   1553.   È   la   volta   di   Maria,   allevata   nella   fede cattolica. Poche settimane dopo la sua incoronazione papa Giulio III nomina prontamente legato papale   in   Inghilterra   il   grande   cardinale   Reginald   Pole,   raffinato   intellettuale   e   capofila   degli «spirituali» (la corrente del cattolicesimo romano più aperta al dialogo con i protestanti). Sotto una tutela così autorevole Maria conduce un’energica reazione verso quella che ai suoi occhi appare come una pericolosa deriva protestante del paese; il Parlamento abroga le riforme religiose degli anni più recenti ripristinando la situazione del 1547, con la conservazione di fatto di buona parte del culto   e   della   liturgia   cattolica   romana.   Non   mancano   persecuzioni   contro   i   protestanti   più intransigenti (quasi trecento persone sono messe al rogo), al punto di provocare sollevazioni nel paese. La memoria di questi pochi anni basta a guadagnare alla regina un posto d’onore nel libro nero della storia inglese con il soprannome di Bloody Mary («Maria la sanguinaria»). In   un   sistema   costituzionale   in   cui   l’ultima   decisione   spetta   al   sovrano,   la   stabilità   e l’indirizzo politico di uno Stato sono legati a doppio filo alle vicende biografiche di questo’ultimo. Edoardo VI aveva regnato di fatto per un solo anno, Maria per cinque; la regina che va a succederle regna per quarantaquattro, dando il suo nome a quell’età aurea dell’Inghilterra che sarebbe stata nota come età elisabettiana. Per la Chiesa romana Elisabetta è figlia illegittima di Enrico VIII, in quanto   nata   dal   matrimonio   non   riconosciuto   tra   questi   e   Anna   Bolena.   In   altri   termini   è un’usurpatrice.   Il   netto   indirizzo   protestante   della   politica   religiosa   della   nuova   sovrana   è consustanziale alla conservazione di una piena autorità  de iure. L’affermazione della legittimità del  potere  che  ella  ha  appena  conseguito  va   insomma di  pari  passo  con  lo  stabilizzarsi  di  un orientamento protestante della politica religiosa del paese. L’identità   confessionale   dell’Inghilterra   è   infatti   tutt’altro   che   chiara.   Elisabetta   deve fronteggiare due nemici contrapposti: da un lato la Chiesa romana, che continua a porsi come l’autorità suprema di tutti i cristiani, scismatici compresi, e che in Inghilterra conta ancora molti fedeli,   sopratutto fra  i  ceti  nobiliari;  dall’altro  i  puritani,  ossia quanti guardano alla  Chiesa riformata di Ginevra e al suo protestantesimo radicale e sono fautori di un modello ecclesiale antigerarchico e comunitario. La Chiesa anglicana, con le sue liturgie e la sua struttura episcopale, appare ai loro occhi un residuo «papista». In questo senso la politica di Elisabetta fu improntata al pragmatismo.  Un   contenuto   teologico   prossimo   al   calvinismo   è   adottato   nel   quadro dell’ordinamento gerarchico della Chiesa anglicana disegnata da Enrico VIII. La prima mossa, a ridosso dell’incoronazione, è l’Atto di supremazia  (Act of supremacy, 1559), che riconferma la regina come vertice della Chiesa inglese; nella medesima occasione il Parlamento si impegnò a dare unità nella liturgia e nella preghiera al paese con l’Atto di uniformità (Act of uniformity) e il Libro di preghiera comune (Book of common prayer) in una versione più favorevole alle tendenze calviniste. Al tempo stesso, Elisabetta fa divieto al Parlamento di discutere della questione del suo matrimonio, lasciando nell’incertezza il futuro della dinastia e aprendo di fatto, con questo, il problema della successione al trono. Sotto questo aspetto politica internazionale e questione religiosa sono strettamente connesse, giacché la grande potenza cattolica, la Spagna, e con essa il  papato,  riconoscono come  legittima pretendente Maria Stuart,   regina di Scozia e pronipote di Enrico VIII. La   società   inglese  dell’epoca  è   una   fra   le   più   dinamiche  dal  punto  di   vista   sociale   ed economico. La vendita delle proprietà ecclesiastiche al tempo di Enrico VIII e il riassetto giuridico delle campagne hanno  rinvigorito uno sviluppo dell’industria agraria  che risale già  al secolo precedente.   La   nobiltà   terriera   sa   sfruttare   in   modo   imprenditoriale   le   sue   proprietà:   con l’incremento   dell’allevamento   degli   ovini   per   la  produzione   di   lana,   il   comparto   tessile   sta diventando il settore di punta dell’economia inglese. Questo comporta la trasformazione a pascolo di vaste aree prima poste a coltura, secondo un mutamento che va a detrimento dei contadini e   dei   piccoli   proprietari   legati   alla   tradizionale   produzione   agricola.   Il   volano   di   questo processo è il  passaggio dagli open­fields, le terre di proprietà comune a disposizione dei villaggi per   le   loro   colture  di   sussistenza,  alle  enclosures,   le   «recinzioni»  dei   terreni,   che  diventano proprietà privata degli imprenditori e sono sottratte agli usi comuni. Tanto   i   nobili   quanto   i   ceti   cittadini   benestanti   sanno   inoltre  mettere  a   frutto   le   loro ricchezze nell’altro grande settore dell’economia imprenditoriale, il commercio. È in esso che la vocazione marittima dell’isola trova la sua espressione più proverbiale. Le operazioni belliche nei  Paesi  Bassi  e   in  Francia,  che  rendono  talvolta  difficile   l’accesso ai  porti  continentali  della
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