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Semiotica e analisi del testo narrativo, Appunti di Semiotica

Appunti delle lezioni

Tipologia: Appunti

2016/2017

In vendita dal 18/01/2017

Eleonora_Cairo
Eleonora_Cairo 🇮🇹

4.3

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19 documenti

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Scarica Semiotica e analisi del testo narrativo e più Appunti in PDF di Semiotica solo su Docsity! La semiotica è lo studio dei segni nel quadro della vita sociale (dominio della langue, non della parole), disciplina a metà tra la linguistica e la filosofia, diventata una materia di studio accademico negli anni ’60. Il problema della semiotica è definire l’oggetto di studio (il segno). Prima di intenderla come disciplina applicativa bisogna impararne i concetti. “Semiotica è la scienza che studia i sistemi di segni, attraverso i quali avviene la comunicazione” (De Maleo, dizionario) In qualunque situazione ci troviamo, siamo sommersi di segni, che ci informano di qualcosa e che influenzano la nostra percezione del mondo. I segni possono essere interpersonali (es. parole) ma anche più oggettivi (es. icone). I segni ci fanno costruire mappe del mondo circostante, quindi il nostro rapporto con la realtà non è diretto ma mediato. I segni possono attraversare qualsiasi canale sensoriale. “Semiotica è la disciplina che interpreta il modo in cui noi interpretiamo i segni del mondo”. Non tutti i segni sono emessi volontariamente, ovvero tramite comunicazione intenzionale. Comunicare vuol dire relazionarsi in maniera sociale con un’altra persona passandole un’informazione. Secondo il modello Shannon-Weaver (1945), abbiamo una fonte che trasmette un messaggio, che diventa segnale, tramite un trasmittente, il quale tramite un canale e tenendo conto dei rumori, fa sì che il segnale venga ricevuto dal ricettore che trasmetterà il messaggio al destinatario. Questo modello è stato creato in risposta ad una grande emittente (casa telefonica) che voleva apprendere gli elementi della comunicazione telefonica per comprendere la causa della dispersione delle onde. L’informazione è diversa dal messaggio (informazione è l’idea da trasmettere). Per essere trasmesso, il messaggio deve avere una veste materiale, ovvero il segnale, lanciato attraverso un canale, che può incontrare un disturbo (rumore/interferenza), ma comunque viene ricevuto dal ricettore che lo converte in messaggio in modo da poter essere captato dal destinatario. Questo modello, che risulta essere troppo elementare, funziona anche attraverso la comunicazione tra uomo e macchina: prendendo in esame la richiesta di una bevanda alla macchinetta del caffè, abbiamo l’uomo (fonte) che trasmette alla macchinetta l’esigenza di una bevanda (messaggio), che tramite un trasmittente della macchina, convertito il messaggio in segnale, attraverso le parti elettriche (canale)- presupponendo la possibilità di un malfunzionamento della macchina, che potrebbe non permettere alla macchina di interpretare correttamente la richiesta (interferenza)- il segnale viene trasmesso e convertito dal ricettore in messaggio, cosicché il richiedente abbia la bevanda digitata. Il modello funziona anche nella comunicazione tra macchine. Prendendo in esame, ad esempio, il funzionamento della caldaia, le parti del modello qui citato permettono al centro di controllo, di inviare il segnale, poi messaggio alla caldaia di accendersi/spegnersi, quando viene utilizzata acqua calda. È importante capire la differenza tra cosa capisce la macchina e cosa capisce l’umano. In qualunque comunicazione tra umani ci si pongono tre domande: -come accade che qualcosa di immateriale, come l’idea, diventi materiale per poter essere trasmesso (problema della codifica). ES. come fa un’idea a diventare una frase. -come trasportare la cosa materiale da una parte all’altra, ovvero come trasportare il segnale nel canale -come trasformare la cosa materiale in un’idea immateriale che si impianti nel cervello del ricevente, analoga a quando è stata trasmessa (problema di decodifica, tipico dell’ingegneria della comunicazione) Il modello Shannon-Weaver risponde alla seconda domanda, ma non alla prima e alla terza. A questo proposito Roman Jakobson, nel 1960, elabora il suo modello, presupponendo l’esistenza di: -un mittente (o locutore, o parlante) che è colui che invia -un messaggio che è l'oggetto dell'invio -un destinatario (o interlocutore), che riceve il messaggio, il quale si riferisce a -un contesto, la realtà attorno ovvero ciò di cui si parla. Per poter compiere tale operazione sono necessari -un codice, sistema di abbinamenti di idee/contenuti/espressioni, tra cosa immateriale (idea) e materiale (parola) che risulti comune a mittente e destinatario, e -un contatto (o canale) che è una connessione fisica e psicologica fra mittente e destinatario, che consenta loro di stabilire la comunicazione e mantenerla, la possibilità che hanno mittente e ricevente di entrare in comunicazione (in ingegneria rappresenta il contatto fisico). Ad ogni elemento della comunicazione stabilisce una funzione: -Funzione emotiva, ovvero il messaggio si incentra sul parlante (se parla di sé). -Funzione poetica, ovvero il messaggio è contenuto in modo pensato ossia con forma studiata, si sofferma sulla struttura trattenuta sul messaggio in quanto tale. ES. campagna elettorale pro-Eisenhower “I like ike”, la struttura del messaggio trattiene il messaggio, quindi risulta efficace in pubblicità. -Funzione conativa, ovvero il messaggio è incentrato sull’ascoltatore ovvero se vuol far fare qualcosa all’ascoltatore; funzione della manipolazione: “voglio far fare delle cose”. -Funzione fatica, ovvero uso il messaggio per far sì che il canale funzioni; è la prima funzione del linguaggio (la si ha fin da bambini). ES. messaggini: servono per mantenere il rapporto. La funzione fatica coinvolge sia quella emotiva (anche nel neonato si esprime quasi subito) e quella conativa -Funzione metalinguistica, se uso forma per parlare della lingua, “linguaggio che parla del linguaggio” ES. traduzioni oppure dire “dicendo quello, intendevo…”. È l’ultima ad essere sviluppata, poiché richiede padronanza del linguaggio. Le culture ad oralità primaria (senza scrittura) dimostrano che la funzione metalinguistica è fortemente sviluppata con la scrittura. -Funzione referenziale, incentrato su contenuto (informazioni), cioè oggettivo; l’atto comunicativo dirige l’attenzione su alcuni sati del mondo/concetti/informazioni. PS. Alcuni messaggi apparentemente di funzione referenziale, possono averne delle altre. ES. “fuori piove” sottintendendo “prendi l’ombrello” oppure “stai a casa”. Tra questo modello e quello Shannon-Weaver, rimane invariata l’idea che la comunicazione possa fallire: -in caso ci sia interferenza nel canale e il messaggio fisicamente non arriva intatto dall’altra parte -in caso l’emittente e il destinatario non condividano il codice, quindi lo scarto di un codice è tale da non far capire il messaggio. [codifica e decodifica sono speculari] Ogni volta che qualcuno enuncia una regola, bisogna pensare a dei possibili controesempi. Possono esserci situazioni in cui, pur condividendo il codice, non ci si (i fraintendimenti): -sai l’ora? “sì”: il ricevente risponde in maniera inadeguata. Il problema è che il codice della lingua italiana non ricopre tutte le informazioni. Possono esserci situazioni in cui le persone si capiscono nonostante non condividano un codice -uno ti chiede: stai bene? E te tiri fuori l’aspirina in modo da farmi capire che non stai bene. (inferenza sul gesto). -si rompe qualcosa e uno ti sventola furiosamente l’oggetto rotto come per dire che ne ha bisogno e quindi di acquistarne uno nuovo. Immaginiamo che il codice sia un insieme di sottocodici che le persone più o meno condividono. Modello Eco-Fabbri (1965). L’emittente, sulla base del codice di base ma anche di una serie di sottocodici, costruisce il suo messaggio emesso come significante che veicola un significato. Attraverso un canale, il messaggio viene ricevuto e ritradotto come significato, dal destinatario/i, sulla base del codice di base ma anche del sottocodice usato. Questo modello spiega l’esempio di “sai l’ora? Sì” ma non quello dell’aspirina/oggetto rotto. In assenza di codice, è il messaggio che viene interpretato costruendo un abbozzo di codice utile la volta successiva, perché utile per capire comportamenti reiterati/standardizzati. L’ambiguità sparirebbe se si designassero le tre nozioni qui in questione con dei nomi che si richiamano l’un l’altro pur opponendosi. Noi proponiamo di conservare la parola segno per designare il totale (tutto ciò che sta nell’ambivalenza), e di rimpiazzare concetto e immagine acustica rispettivamente con significato e significante.” Saussure 1922 Questo è un rapporto di compresenza: non esiste uno dell’altra. Per spiegare l’ambivalenza, Saussure usa la metafora del foglio di carta: il recto e verso del foglio si implicano vicendevolmente, non si può pensare ad una sola faccia senza che questa richiami in causa anche l’altra faccia del foglio… alla stessa maniera il significante e significato non esistono singolarmente. Li possiamo separare come concetti, definendoli, ma nella realtà delle cose non è possibile separarli. Il riferimento a concetto è un passaggio secondario: posso dire “guarda questo gatto” facendo cogliere a chi mi ascolta il significato di gatto nonostante non vi sia presente fisicamente un gatto. Saussure recide il rapporto tra segno e contesto esterno e si concentra sul segno in quanto tale. Ciò che conta non è il segno materiale come atti di parole specifici, c’è qualcosa che ci permette l’utilizzo delle parole per riguardare i concetti. Il segno riguarda la sfera psichica perché riguarda le associazioni che chiunque appartenente ad una società linguistica farebbe scattare riferendoci ai segni. Se facciamo pronunciare a tante persone una parola, con lo spettrografo vedremmo che ognuna è in maniera infinitesimale differente dalle altre: ogni fonazione è un evento unico e differente. Occorrenza: eventi concreti Tipo: appartiene a dimensione concreta (sostanzialmente stessa distinzione tra langue e parole) esempio: penso a “cane” ma non penso ad un’idea generale del cane ma sulla base di occorrenze specifiche. Singoli atti di parole cambiano la lingua se se ne registrano di nuovi e questi vengono standardizzati. Qual è il rapporto intercorrente a significante a significato? Cosa serve ad un significante o segno? “Il segno linguistico è arbitrario” rapporto tra significante e significato non è determinato ma frutto di una regola sociale assunta da una comunità linguistica. “Il legame che unisce il significante al significato è arbitrario, o ancora, poiché intendiamo con segno il totale risultante dall’associazione di un significante a un significato, possiamo dire semplicemente che il segno linguistico è arbitrario”. Saussure 1922 A meno di non conoscere la previa regola correlativa, non si può fare l’associazione. [segni naturali basati sull’inferenza possono essere interpretati senza regola arbitraria (es. indizi dei detective)]. Significante assomiglia al significato. “La parola arbitrarietà richiede anche un’osservazione. Essa non deve dare l’idea che il significante dipenda dalla libera scelta del soggetto parlante (si vedrà più in basso che non è il potere dell’individuo cambiare in qualcosa un segno una volta stabilito in un gruppo linguistico); noi vogliamo dire che è immotivato, vale a dire arbitrario in rapporto al significato, col quale non ha nella realtà alcun aggancio naturale” Saussure 1922 ES. ceci n’est pas une pipe: è l’immagine di una pipa, non la pipa in sé. La riprova è la pluralità delle lingue. “Quanto alle onomatopee autentiche (quelle del tipo glu-glu, tic-tac ecc.) non soltanto sono poco numerose, ma la loro scelta è già in qualche misura arbitraria, poiché non sono altro che l’imitazione approssimativa e già a metà convenzionale di certi rumori.” Saussure 1922 (ristretto repertorio della lingua) ES. quando eravamo piccoli, i suoni dei fumetti per noi erano solo motivati. Oggi che conosciamo l’inglese, capiamo che assomigliano al suono. Molte delle parole che sembrano onomatopeiche, non lo sono (sono false onomatopee); inoltre, anche nel caso in cui esse abbiano un valore onomatopeico, sono comunque frutto di convenzioni (lingue diverse per stessi suoni non sono completamente identiche, poiché devono rispondere ai criteri fonologici delle lingue che le ospitano). Simboli: in Saussure, sono segni parzialmente motivati (non del tutto arbitrari). M anche in questi casi la motivazione è “fasciata” di convenzione. (bisogna interpretare i simboli all’interno di un codice generale). ES. bilancia della giustizia [Semiologia si occupa dell’arbitrarietà dei segni] Questo suscita molte obiezioni, una delle quali più rilevanti è di Emile Benveniste. “Così l’idea di “sorella” non è legata da alcun rapporto interno alla sequenza di suoni s-ö-r che le serve in francese da significante: lo provano le differenze tra le lingue e l’esistenza stessa di lingue diverse: il significato di “bue” ha per significante b-ö-f da un lato e o-k-s (ochs) dall’altro lato della frontiera” Saussure 1922 “Saussure dichiara testualmente che “il segno linguistico unisce non una cosa e un nome, ma un concetto e un’immagine acustica”. Ma subito dopo afferma che la natura del segno è arbitraria e non ha con il significato “nessun aggancio naturale nella realtà”. È chiaro che il ragionamento è falsato dal ricorso inconsapevole e surrettizio a un terzo termine che non era compreso nella definizione iniziale. Questo terzo termine è la cosa stessa, la realtà. Saussure ha un bel dire che l’idea di “sorella” non è legata al significante s-o-r, non per questo è escluso il riferimento alla realtà della nozione. Quando parla della differenza tra b-o-f e o-k-s si riferisce suo malgrado al fatto che questi due termini si applicano alla stessa realtà. Ecco dunque che la cosa, esplicitamente esclusa in un primo tempo della definizione del segno, vi si introduce per via traversa insediandovi in permanenza la contraddizione” Benveniste, 1966. Saussure dice che i due tipi diversi di pronuncia si riferiscono non al segno ma alla cosa nella realtà esterna. Unico modo di confrontare le due parole è pensare che le due cose si riferiscono allo stesso oggetto nella realtà del mondo. Confronto dei due modi di dire una cosa, si fa ricorso alla realtà esterna. Altra obiezione: Saussure sembra riferire l’arbitrarietà alla convenzionalità (per lui ciò che è arbitrario è dunque convenzionale). “Un’osservazione incidentale: quando la semiologia sarà organizzata, dovrà chiedersi se i modi d’espressione che si fondano su segni interamente naturali, come la pantomima, le spettino di diritto. Supponendo che li accolga il suo oggetto principale sarà nondimeno l’insieme dei sistemi fondati sull’arbitrarietà del segno. In effetti, ogni modo d’espressione ereditato in una società poggia in linea di principio su una abitudine collettiva o, ciò che è lo stesso, sulla convenzione”. Saussure, 1922. La convenzione implica un’operazione metalinguistica di stabilire una regola correlativa che verrà poi applicata agli atti comunicativi. Convenzione e standardizzazione Una convenzione (o regola sociale), per essere tale, deve essere stipulata prima di potere essere applicata. La standardizzazione (invece) è il sedimentarsi di una pratica che è risultata strategicamente efficace per il raggiungimento di un particolare obiettivo. ES. ornitorinco, come si classifica? Anfibio? No perché allatta la prole, quindi lo classifico mammifero. (atto di convenzione, poiché la comunità ha deciso insieme). Per convenzione si deve disporre un metalinguaggio, non un linguaggio. ES. in una lezione, usiamo un linguaggio specifico della materia, ma serve che abbiamo il nostro linguaggio di base comune. L’abitudine comunicativa può dimenticare la base che l’ha generata (si perde il legame iconico originario). C’è un altro tipo di arbitrarietà in gioco nella lingua [il primo era tra significante e significato, (arbitrarietà verticale), ovvero non c’è un motivo specifico per cui un significante si associa ad un significato] che riguarda i rapporti tra i significanti tra loro e rapporto tra significati tra loro (arbitrarietà orizzontale), ovvero non ci sono motivi naturali per cui l’espressione e il contenuto vengano segmentati in base alla lingua. Ogni lingua ha repertori diversi di fonemi. ES. se prendiamo la materia vocale delle vocali, vediamo che ogni lingua segmenta e ritaglia diversamente il continuum delle vocali. Alla nascita ognuno di noi è potenzialmente in grado di articolare qualsiasi suono, man mano che alcuni suoni vengono inarticolati poiché gli adulti di riferimento lo indirizzano su cosa è linguisticamente pertinente, quelli non articolati vengono persi. Pertinenti linguisticamente= sfruttabili da una lingua per produrre un certo significato. La segmentazione interna dei suoni possibili all’interno di una lingua è arbitraria, non c’è un modo migliore o più naturale di altri. La stessa cosa vale sul piano dei contenuti (significati): non c’è un modo naturale per distinguere i concetti tra loro; ogni lingua impone i suoi tagli alla materia di contenuto dei suoi significati (ogni lingua determina i propri contenuti sulla base delle esigenze, del contesto, della storia ecc.). ES. in francese, per dire pecora si usa “mouton”, in inglese si distingue in “mutton” (coscia da mangiare) e “sheep” (animale vivo). Anche il continuum dei rapporti di parentela viene ritagliato arbitrariamente da ogni lingua. Alcune lingue sono addestrate a differenziare i vari contenuti di un concetto, altre no. Obiezione più ovvia da fare: quando manca una parola nella lingua, non vuol dire che manca necessariamente anche il concetto. ES. nonostante io abbia a disposizione una sola parola per nipote, mentre l’inglese ne ha di più, so comunque distinguere i gradi di parentela che fanno di lui il nipote. Esempio molto usato: emozioni e colori, ambiti in cui è chiaro l’intervento della lingua nel segmentare. Per quanto riguarda le emozioni è difficile trovare i corrispondenti identici che designano le emozioni nelle varie lingue, nonostante queste si assomiglino: esistono parole intraducibili nelle varie lingue (es. spleen di Baudelaire), poiché esistono solo in quella lingua (non si trovano parole che, in un’altra lingua, definiscano esattamente ciò a cui la parola corrisponde in una lingua. Nel caso dei colori è particolarmente vistoso questo fenomeno dell’arbitrarietà orizzontale, non nelle lingue affini (ita, fra, ing.), ma se si fa una distinzione tra le lingue distanziate nel tempo, vi sono distinzioni nette. Hjelmslev ha fatto distinzione tra inglese e gallese nella distinzione dei colori. “Dietro ai paradigmi offerti nelle varie lingue dalle designazioni dei colori, possiamo, sottraendo le differenze, scoprire tale continuo amorfo, lo spettro solare, a cui ogni lingua impone arbitrariamente le sue suddivisioni. Se le formazioni in questa zona della materia (della massa amorfa, come la definisce Saussure) sono per lo più approssimativamente le stesse nelle lingue europee più diffuse, non occorre andare molto lontano per trovare formazioni che ad esser non corrispondono” Il gallese riconoscerà cose diverse, somiglianze diverse in certe cose rispetto all’inglese. (possibile obiezione all’idea dell’arbitrarietà orizzontale) arbitrario non è che non ha motivo, ma non ce n’è uno naturalmente giusto. “ La segmentazione compiuta sulla base dell’esperienza non è […] arbitraria nel senso che è stata probabilmente dettata da esigenze di sopravvivenza: una popolazione che vivesse in un deserto di sabbia rossastra, abitata da animali dal pelo fulvo e in cui crescono solo varietà di fiori scarlatti, sarebbe obbligata a segmentare con estrema finezza quella porzione di continuum che noi chiamiamo /rosso/. Ma questo stesso argomento prova anche che la segmentazione +è ‘in un certo modo’ arbitraria, perché popoli diversi segmentano lo stesso continuum percettivo in modi diversi.” Umberto eco, 1975. Umberto eco dice, sempre relativo ai colori, di immaginare di vivere in un mondo tutto rosso, per necessità deve fare delle distinzioni (segmentazione compiuta sulla base dell’esperienza). Popoli diversi segmentano stesso continuum percettivo in modi diversi. ES. “tingo” significa sottrarre oggetti da casa di qualcuno uno a uno finché non ne rimane solo uno: concetto dell’isola di pasqua considerato abbastanza pertinente da attribuirgli una parola. Onieffabilità del linguaggio: ogni parola di ogni lingua può essere tradotta in altre lingue tramite parole o frasi. Se ad un ambito circoscritto si attribuisce una parola, vuol dire che quell’ambito è molto rilevante. Se non viene più usata, cade la parola ma cade anche il concetto o viene confuso tra quelli confinanti. “Vediamo dunque che la materia non formata che si può estrarre da tutte queste catene linguistiche è formata diversamente nelle diverse lingue. Ogni lingua traccia le sue particolari suddivisioni all’interno della “massa del pensiero” amorfa, e dà rilievo in essa a fattori diversi in disposizioni diverse, pone i centri di gravità in luoghi diversi e dà loro enfasi diverse.” Esempio dell’albero (CELL): forma del contenuto in una lingua è diversa dalla forma del contenuto in altre lingue: alcuni contenuti della suddivisione di una lingua, coprono parti di significato che in altre lingue sono più suddivise. Per far capire Hjelmslev fa metafore: Metafora del metallo fuso/secchiello sulla spiaggia/nuvola di Amleto (che cambia aspetto da un momento all’altro), analoga a questa: Materia è come una pasta non lavorata la quale forma ne ricava la sostanza (materia formata). (pasta per dolci, stampino ricava biscotti) Forma: matrice delle opposizioni fonologiche rese pertinenti nelle lingue. Sostanza: suono articolato del linguaggio. Nel piano del contenuto: Materia: insieme delle idee che si vogliono comunicare (esperienza comune agli esseri umani) Forma: insieme delle opposizioni linguistiche che quel determinato codice permette di distinguere. (esempio dell’albero). Sostanza: significati linguistici così come vengono concretizzati e comunicati attraverso atti del discorso. Continuum dell’esperienza non è organizzato, non vi sono punti giusti/sbagliati di organizzazione della materia dell’esperienza. (IMMAGINE) Rapporto tra forma e sostanza non è interdipendente. Non ci possono essere atti di discorso senza una forma (lingua), o insieme astratto di opposizioni che rendono linguisticamente significativi gli atti del discorso, mentre invece in teoria la forma potrebbe esistere senza una sostanza che la realizza. ES. lingue morte, lingue estinte (lingue orali non scritte): forme che non hanno più una sostanza che le rende concrete e che quindi le renda conoscibili, anche se la forma in una qualche sfera ideale continua esistere, c’è stata ma essendo in una forma ideale non è conosciuta. Secondo H. non esiste comunicazione senza codice ma potrebbe esserci codice non utilizzato. Per questo H. dice che non è importante vedere cosa sta intorno al codice, se sappiamo come esso è fatto. Noi non abbiamo un collegamento diretto con il codice, quindi la ricostruiamo a posteriori (dobbiamo capire, dietro alla sostanza quale sia il codice che rende possibile quel tipo di comunicazione). Ambizione di H. è ricostruire la forma linguistica allo stato puro, non rispetto ad una lingua, ma vuole trovare una struttura comune a tutte le lingue esistenti, non solo storicamente ma anche quelle che avrebbero potuto esistere ma non si sono ancora realizzate. (difficile, quindi meglio capire ogni codice e capire elementi comuni e differenze tra questi codici semplici e lingua naturale). Codici ristretti: codici utili solo per fare certe cose ES. codice del semaforo serve solo per far sgomberare il traffico (rimpiazzabili dalla lingua naturale) I codici ristretti sono convenzionali (studiati a tavolino). “Un linguaggio non ristretto o “linguistico” può essere usato per veicolare ogni significato possibile, laddove i linguaggi ristretti come le formule matematiche, si adattano solo a una classe definita di significati. Ogni testo qualsiasi, nel senso più ampio della parola, può essere tradotto in ogni linguaggio non ristretto, mentre ciò non è altrettanto vero per i linguaggi ristretti. Tutto ciò che è espresso in danese può essere tradotto in inglese e viceversa, poiché entrambi sono linguaggi non ristretti. Tutto ciò che è espresso in una formula matematica può essere reso in inglese, ma non è vero che ogni espressione inglese può essere resa in una formula matematica; questo perché il linguaggio delle formule matematiche è ristretto, mentre l’inglese non lo è” Hjelmslev Riprendendo l’esempio del semaforo: ciò che ha in comune con la lingua è che -ha un piano dell’espressione e un piano del contenuto, ognuno dei quali ha una materia e una forma (ESPRESSIONE: materia, lo spettro dei colori, forma, tre posizioni; CONTENUTO: materia, i comportamenti che si possono tenere ad un incrocio, forma, tre posizioni) ciò che è in più è che si possono costruire delle catene di discorso, si possono combinare le possibilità date da quel codice per costruire sintagmi e frasi. I linguaggi hanno due assi: sintagma (frase/catena del discorso) e paradigma (ogni volta che si sceglie un elemento dell’espressione per esprimere un elemento del contenuto e non se ne scelgono altri/insieme di possibilità di scelta). Il sintagma ha funzione “e…e” e il paradigma ha funzione “o…o” (sostituzione). Questa ambivalenza è presente in tutti i codici, anche quelli più improbabili. ES. Menù. Ha tutti i requisiti per essere definito codice. C’è un sintagma e un paradigma. Sintagma: sequenza delle portate secondo certe regole. Paradigma: per ogni parte della cena, ci sono varie scelte possibili. ES. vestiti. Sintagma: (?) Paradigma: scelte possibili di vestiti. Trasgressioni nel sistema della moda sono possibili e frequenti (possono divenire uso comune). Tratti tipici solo del linguaggio verbale (lingue vere e proprie) dal punto di vista strutturale (dal pt di vista funzionale: con codice linguistico si parla di più cose rispetto a codice ristretto). Unico modo per accedere a codice linguistico è partire dall’analisi degli effettivi discorsi (sintagmi che la lingua effettivamente è in grado di produrre). Ogni processo implica un sistema sottostante, non ci sono atti comunicativi prodotti senza l’ausilio di certe regole. Hjelmslev propone procedura di tipo deduttivo: processo di scomposizione del tutto in molte parti, un passaggio di livelli dove l’analisi della lingua si produce attraverso delle scomposizioni, chiamato complesso di analisi. (testo in frasi, frasi in parole, parole in morfemi ecc.). Esistono elementi invarianti non ulteriormente scomponibili (che H. chiama figure dell’espressione) che possono essere paragonati ai singoli pezzi indivisibili della scacchiera (nel linguaggio corrispondono a fonemi/grafemi). Analisi deve procedere in parallelo sui due piani del linguaggio (espressione e contenuto). Sebbene essi siano piani interdipendenti, attraverso l’analisi si effettua piano di astrazione, analizzando prima uno e poi un altro vedendo se gli elementi primi non ulteriormente scomponibili di un piano corrispondano a quelli dell’altro. [i codici sono formati da unità di contenuto] Analisi del piano dell’espressione, si effettua con una certa facilità (con grammatica, morfologia, fonologia ecc.): quando vi sono occorrenze dello stesso tipo (quando frase si ripete) si riduce il repertorio degli elementi in gioco (parole non più infinite, ma costituiscono un corpo circoscritto di elementi), sul piano del contenuto, invece, diventa più difficile. Secondo H. il piano del contenuto è strutturato allo stesso modo di quello dell’espressione (come esistono figure d’espressione, dovrebbero esistere anche figure del contenuto, idee semplici ed elementari che non possono essere ulteriormente scomposte). Come passare da un livello a un livello successivo? Sul piano dell’espressione, il fonema si distingue vedendo se ha valore distintivo in un linguaggio. (prova di commutazione: cambio lettera, se cambia significato, è un fonema distintivo). Es. gatto: definizione analitica: felino maschio. Se pensiamo a felino femmina, si produce un cambiamento nell’espressione e anche del contenuto: gatto diverso da gatta. Se cambio gatto e suino, significato cambia. Felino Suino Ovino Umano Maschio Gatto Porco Montone uomo Femmina Gatta Scrofa Pecora donna Abbiamo ridotto l’inventario degli elementi: potremmo ridurre gatto/a, uomo/donna ecc. in felino +maschio/femmina, umano+maschio/femmina ecc. Grazie a questo schema vediamo cosa hanno in comune/cosa differenzia uomo con porco ecc. (sono interdefinibili). Possiamo spiegare la sinonimia (uomo/umano maschio), antonimia (uomo/donna) ecc. Si capisce la differenza tra codice ristretti e codici linguistici: mentre le figure del contenuto nel codice ristretto intrattengono rapporto 1:1 con l’espressione (si potrebbero sovrapporre le griglie espressione e contenuto, poiché la materia è la stessa). ES. Gatto: G+A+2T+O, felino+maschio non c’è rapporto 1:1, ma solo con la O e il “maschio” (non è che “ratto” è “gatto” perché cambio una sola lettera: non c’è corrispondenza biunivoca). Linguaggio verbale ha doppia articolazione: se scomponiamo gli elementi del linguaggio, possiamo fare una prima scomposizione e una seconda (1 troviamo morfemi che portano parte del contenuto, 2 troviamo fonemi che non portano significato particolare nella parola ES. G di GATTO). (ecco perché codici ristretti e codici linguistici sono ristretti). Codici ristretti non hanno unità non portatrici di significato che, combinati, portano significato. È possibile ridurre il piano del contenuto ad un repertorio chiuso e maneggevole di atomi di significato? No. Spieghiamo perché partendo dallo schema di prima. Esso è incompleto, per poter giustificare il significato degli altri, dovremmo allungare in maniera indefinita lo schema. Femmina/maschio sono una distinzione linguistica, quindi repertorio chiuso. Felino/ovino non hanno garanzia di costituire un inventario chiuso (mondo dell’esperienza ha molti animali, no sistema chiuso). Se si chiude il repertorio, si perde la possibilità di acquisire significati. Non è possibile definire porco, gatto ecc. come unità minime come i fonemi. Non definisco termini globalmente, ma lo faccio localmente. Patrizia viola (cattedra semiotica a Bologna, studi di semantica) dice: sul piano dell’espressione, possiamo analizzarlo facilmente poiché sono fenomeni percepibili (parte espressiva del linguaggio è parte percepibile). Sul piano del contenuto ci sono le idee/ concetti, significati linguistici dal momento in cui una lingua se ne prende carico e li organizza autonomamente, ma per analizzarli dobbiamo effettuare metodo introspettivo per accedervi e fare associazione (discorso può essere registrato). Piano dell’espressione ha elementi misurabili. Piano del contenuto non ha materiale direttamente accessibile Dunque cade il progetto di H. di descrivere e analizzare allo stesso modo entrambi i piani. Non si può definire “femmina” solo come contrario di maschio (come diceva Saussure) ma bisogna riferirlo all’esperienza: non possiamo comprendere concetti di cui non abbiamo avuto esperienza. Quando si introduce un concetto nuovo, bisogna agganciare il significato a parole di cui il significato è già a conoscenza ES. automobile=carrozza senza cavalli. Ogni teoria strutturalista si scontra con la vita vissuta dei parlanti che la fa crollare. Come dicono gli strutturalisti, è vero che noi applichiamo continuamente un principio di classificazione al mondo dell’esperienza. Una volta garantito il contatto con l’esperienza, noi classifichiamo. Dal punto di vista operativo lo strutturalismo è utile per descrivere codici ristretti, ma anche per analizzare porzioni locali di tutti i contenuti linguistici. Non si può utilizzare nello studio della lingua globalmente. C’è una branca della semiotica strutturale che, partendo dall’ide di H. cerca un metodo di analisi strutturale per definire in maniera univoca dei concetti appartenenti ad un insieme semantico. Semantica a tratti: prendendo un significato, lo analizzo scomponendolo nelle sue parti costitutive. (Pottier)? Usa una griglia per definire alcuni mobili, sulla base della presenza/assenza di alcune proprietà. Soffice 1 posto braccioli schienale 4 gambe Sedia - + - + + ricostruire gli elementi costanti (per dirla in termini di Saussure: risalire alla langue attraverso lo studio della parole). Propp afferma che ogni fenomeno viene studiato in base alle sue origini solo dopo che viene descritto. Invece, per quanto riguarda le fiabe, la descrizione è stata a lungo trascurata e per questo luila vuole riprendere. Prima di Propp l’attività strutturalista in rapporto alle fiabe era già stata fatta. “Indice Aarne-Thompson” (1910) dei motivi fiabeschi, nel quale indicano i motivi ricorrenti nelle favole e in quali sono presenti. Modo asistematico di analisi della fiaba: una fiaba può essere presente molte volte in base all’aspetto messo a fuoco. (inventario poco ordinato per chi vuole creare un sistema facile). Propp dice che l’indice non funziona perché basa la classificazione su cose troppo variabili. La nostra classificazione deve individuare un substrato più profondo, a livello dei tipi di narrazione ricorrenti delle fiabe, indipendenti dalle identità dei personaggi, dal tipo di azione. I tipi di azione sono chiamati “funzioni narrative”. (assonanza a Hjelmslev: funzione segnica). Le funzioni narrative sono solo 31. In una fase preparatoria della narrazione (facoltativa) abbiamo: -e: allontanamento dalla casa dei genitori, da dove solitamente parte l’azione; la differenza tra fiaba e leggenda: mentre qui lo spazio è familiare, nella leggenda è utopico -k: divieto/prescrizione es. cappuccetto rosso viene avvertita dalla madre di non rispondere agli sconosciuti. -q: infrazione -v: investigazione (incontro con antagonista) -w: delazione (l’antagonista riceve informazioni sulla vittima) -f: tranello: l’antagonista muta aspetto e inganna l’eroe -y: connivenza: l’eroe si lascia convincere dall’antagonista Il perno della storia è rappresentato da: -X: danneggiamento: l’antagonista reca danno alla vittima; in alcune fiabe, a questo punto la vittima smette di agire lasciando spazio all’eroe. -x: mancanza: in alternativa a X, mancanza della fidanzata, di un mezzo magico, di un oggetto raro ecc. solitamente X e x stanno al posto della fase preparatoria. La storia si sviluppa con: -Y: mediazione: la sciagura/mancanza è resa nota all’eroe. -W: inizio della reazione: l’eroe acconsente ad agire o viene convinto/minacciato a farlo. - ↑: partenza: l’eroe abbandona la casa e, nel cammino, troverà spesso figure che lo aiutano -D: prima funzione del donatore: mette alla prova l’eroe: se supera la prova avrà il mezzo magico. -Z: conseguimento del mezzo magico: ciò che mette l’eroe in condizioni di affrontare la lotta. -R: trasferimento nello spazio: dove c’è l’antagonista -L: lotta -M: marchiatura: la lotta lascia sull’eroe un segno distintivo della sua vittoria; in cenerentola è ad esempio la scarpetta. -V: vittoria, che può produrre: -Rm: rimozione della sciagura/mancanza es. hansel e gretel quando buttano strega nel forno -↓: ritorno, solitamente compiuto nelle stesse forme dell’andata. In una terza fase, possibile come no, abbiamo: -P: persecuzione -S: salvataggio, grazie a sé o a qualcun altro -°: arrivo in incognito: non si fa subito riconoscere o perché non può o perché non vuole -F: pretese infondate: il falso eroe avanza pretese infondate (accade soprattutto nelle fiabe russe). -C: compito difficile (proposto dall’eroe) -A: adempimento: il compito è eseguito -I: identificazione: grazie alla marchiatura l’eroe è riconosciuto. -Sm: smascheramento del falso eroe -T: trasfigurazione: l’eroe si mostra come il vero eroe. -Pu: punizione dell’antagonista/falso eroe, nelle versioni popolari anche in modo cruento -N: nozze, non con contenuto sociale/erotico ma come conclusione e premio per l’eroe. Il modello può essere esteso anche alle fiabe europee e forse anche a più tipi di testo. Propp dà importanza non all’azione in quanto tale ma a quanto incide l’azione nella vicenda. Importante quindi la logica delle azioni dei personaggi. Importante anche la posizione temporale nella vicenda dell’azione. Vi sono 4 regole sintattiche applicabili alla fiaba: -gli elementi costanti sono le funzioni dei personaggi indipendentemente da chi le esegue e come. -numero di funzioni nella fiaba di magia russa è limitato a 31. (ciò ci permette di confrontare Propp con i linguisti strutturali, l’ambizione è la stessa: individuare elementi comuni). -la successione delle funzioni è sempre la stessa, nonostante le funzioni possano essere alcune. -tutte le fiabe di magia russa hanno struttura monotipica (sempre la stessa), le diverse combinazioni che realizzano una parte dello schema, sono sottotipi di questa struttura costante che viene realizzata solo nella fiaba della lotta tra Ivan e il drago. Ciascuna funzione si articola in una serie di sottofunzioni. In modo da avere una formula che rappresenti in maniera chiara ed esaustiva la composizione di tutte le fiabe, utile per confrontarle. ES. cappuccetto rosso [i] situa iniziale: ekqvwfy, XYW(L)(V)Rm In altri generi di racconto, si possono trovare alcune delle funzioni. Vi sono alcuni elementi fondamentali per definire fiaba di magia russa, fiaba ma anche racconto di fantasia e un racconto qualsiasi, un romanzo, spot, serie tv, film (qualunque cosa con contenuto narrativo). L’obiettivo di Propp è rendere il suo metodo di analisi il più astratto possibile in modo da poter essere applicato a più generi. Con l’analisi delle funzioni restano fuori alcuni elementi non funzionali e difficilmente interpretabili. Propp li raccoglie in due grosse categorie: -raccordi, parti della storia che non servono a portare avanti la storia, ma per esempio sono informativi. -motivazioni, parti in cui si spiega perché il personaggio si comporti in una certa maniera (motivano l’azione del personaggio). Assenti nella fiaba, poiché affonda le sue radici nella tradizione orale, che non è introspettiva, non dà motivazioni. ES. epica, eroi e cattivi si comportano così perché è così che si devono comportare, inoltre i personaggi non scelgono mai i loro comportamenti. In caso ci si soffermi sulle motivazioni, è una formazione secondaria, adattata alla contemporaneità. Questo studio morfologico è una parte del percorso di Propp (rimando a citazione “prima analisi sincronica della fiaba, poi analisi diacronica”). Con un secondo volume egli cerca di spiegare le origini delle fiabe. Secondo lui le fiabe sono relitti culturali, trasformazioni profane dei miti che accompagnavano gli antichi riti di iniziazioni delle società arcaiche di cacciatori-raccoglitori. Nelle società agricole questi riti cadono in disuso, ma essendo accompagnate da racconti, questi ultimi, ovvero i miti, vengono tramandate. Dal momento in cui il racconto perde la sua funzione specifica, diventa veicolo di indottrinamento o racconto per bambini, entrando in altri diversi circuiti comunicativi. Così come le azioni narrative sono ricondotte alle 31 funzioni, Propp dice che anche i personaggi sono variabili, ognuno per le sue caratteristiche specifiche, i loro ruoli sono riconducibili a 7 sfere d’azione, che non corrispondono necessariamente a 7 personaggi (una sfera può essere incarnata in più personaggi o un personaggio ne può avere più di una). -sfera dell’antagonista che regge alcuni funzioni ES. danneggiamento, lotta, persecuzione -sfera del donatore che regge alcuni funzioni ES. trasmissione e conseguimento del mezzo magico -sfera dell’aiutante regge funzioni del trasferimento nello spazio, della rimozione della sciagura, salvataggio dalla persecuzione, adempimento del compito difficile, trasfigurazione dell’eroe (il mezzo magico è l’aiutante). -sfera della principessa e del re, suo padre, l’oggetto cercato è la principessa da salvare e chi commissiona la ricerca solitamente è il re, il padre. Regge funzioni dell’assegnazione dei compiti difficili, nozze ecc. -sfera del mandante, colui che convoca l’eroe. Talvolta il re infatti è sia mandante che il padre della principessa da salvare. -sfera dell’eroe -sfera del falso eroe. Vari narratologi riconducono le 7 sfere alla fiaba di magia russa e forse a qualche altra. Si cerca di rendere più astratto questo modello in modo da farlo funzionare anche in altri generi. Algirdas Greimas (semiologo franco-lituano), massimo esponente dell’analisi strutturale del racconto. Egli elabora uno schema ispirato a Propp ma che funziona anche su altri generi narrativi. Elabora un sistema di ruoli narrativi che funziona in qualsiasi situazione narrativa. Schema dei ruoli attanziali, che si può applicare a tutti i testi narrativi. Asse della comunicazione Destinante___oggetto___destinatario Ogni nuovo caso da scoprire ingloba un nuovo programma narrativo, basato sul risolvimento dei casi grazie agli indizi. Watson è l’aiutante dei programmi narrativi di Sherlock, che risolve i casi grazie alla competenza e, quando risolve i casi tramite indizi, fa performanza. Ruolo della polizia: opponente al risolvimento dei casi da parte di Sherlock. Sono anche mandanti, poiché sono loro che l’hanno chiamato. Lo vorrebbero come aiutante nel loro programma narrativo, ma alla fine loro agiscono da opponenti. Rispetto al programma narrativo di base di Sherlock: sconfiggere la noia, la polizia è l’aiutante: gli pongono davanti dei casi che gli fungono da distrazione. Nella scena della macchina: il programma narrativo di Watson è scoprire chi è Sherlock, ma nell’interagire con lui fa l’errore di dire “la polizia non consulta i dilettanti”, cosa che fa scattare in Sherlock lo stimolo a provare che lui non lo è (programma narrativo specifico di Sherlock in quella scena), Watson è il mandante/destinante, che si sdoppia nel ruolo di manipolatore e sanzionatore. E così si conclude un piccolo ciclo narrativo: scambio di informazioni nella macchina. Sherlock risolve i casi tramite intuizione. In realtà è ipotesi o abduzione. A proposito del nesso tra ipotesi e racconti, tutte le ipotesi di Sherlock sono prodotti tramite il racconto della storia. Le sue ipotesi certe volte sono tirare a indovinare, e tendenzialmente ci becca. Tutti gli elementi che Sherlock ricava da Holmes sono ricavati da inferenze/indizi: abbronzatura solo fino ai polsi (è stato in un posto caldo, non in villeggiatura), ha un’andatura disciplinata (era in guerra), zoppica (incidente) però a intermittenza, a volte se ne dimentica (quindi trauma più psicologico che fisico, quindi presumibilmente va dall’analista/psicologo). Quello che sa del fratello di Holmes arriva dal telefonino: è rovinato, una persona che è stata in guerra è disciplinata e ordinata, quindi non si tiene il telefono in quel modo, quindi è di un proprietario precedente, con lo stesso cognome quindi presumibilmente una sorella, ma in realtà è la moglie del fratello di Watson e se il fratello regala il telefono a Watson significa che il matrimonio è finito. La presa del caricatore è rovinata, quindi chi lo possedeva non aveva gesti coordinati, quindi il fratello aveva problemi (alcolista). Nella seconda sequenza dell’episodio, quella sulla scena del delitto, abbiamo dei nuovi indizi. Holmes riconosce un omicidio: il segno più evidente è il segno “rache” scritto dalla donna (ribaltamento con il libro: anche lì c’è la scritta di rache, ma nel libro gli investigatori pensano sia rache per rachel invece è vendetta, mentre nel film è il contrario), l’unico segno intenzionale. Sherlock vede tutti i gioielli puliti tranne la fede all’esterno, quindi matrimonio infelice. Se la parte dentro è pulita lei se lo sfila spesso quindi è una fedifraga seriale. (le ipotesi non devono per forza essere vere, ma Sherlock dà importanza al quadro generale di indizi, non i singoli, per cercare una spiegazione sotto forma di racconto x spiegarli tutti). Impermeabile bagnato sul bavero, quindi la vittima si è tirata su il cappuccio perché pioveva ma non usava l’ombrello perché c’era tanto vento (quindi individua il luogo di provenienza della vittima). Vede macchioline quasi impercettibili di fango sulle calze, quindi lei si trascinava un trolley dietro, se non c’è il trolley significa che qualcuno l’ha portato via: l’omicida. Anche noi persone normali facciamo sempre delle inferenze sui segni ambientali che, anche se meno creative di Sherlock, hanno la stessa funzione. [Secondo Pierce anche le percezioni più elementari implicano un procedimento di tipo inferenziale] Per tornare al discorso della narratività, oltre ad essere una proprietà dei testi (sono testi narrativi quelli che implicano una fabula) è una proprietà di molti fenomeni comunicativi e della nostra modalità di pensiero: noi leggiamo le cose che capitano come se fossero influenzate da fenomeni narrativi, e se non ci riusciamo non capiamo ciò che sta succedendo. Gli umani rispondono a un pensiero paradigmatico, basato su sillogismi, e un pensiero narrativo, basato su inferenze. [narrativizzare l’esperienza è, per gli umani, dare un senso alle cose]. Abbiamo la tendenza ad imporre legami di causa-effetto ai fenomeni. Sequenza: uomo triste, si spara, morto Chiunque lo guarda, ne impone nessi causali. Se le vignette si invertissero se ne imporrebbero altri. Il principio che rende possibile legare le Post-hoc-ergo-prop-per-hoc Succede questo e dunque succede quest’altro. in realtà non è detto che due cose avvenute in successione, siano legate l’una con l’altra per causa- effetto. Ma noi ragioniamo trasformando sequenze sconnesse di realtà in storie. (stessa cosa che succede quando vediamo due inquadrature in un film, cercando di collegarle). Caratteristiche della narratività: sequenze riguardano individui che si comportano in una maniera per una serie di ragioni. Ritornando al bivio tra modello di Saussure e modello inferenziale. I segni naturali non rispondono a modello di equivalenza di Saussure, ma comunque noi cerchiamo di interpretarli. Mentre con il modello di Saussure è limitato alla spiegazione di un segno linguistico, col modello inferenziale possiamo spiegare sia i segni di Saussure sia quelli naturali. Modello inferenziale si basa su: -sintomi: medici ma anche comportamenti gestuali involontari che possono essere sintomo di uno stadio emotivo. -indizi: quelli di Holmes, quelli che troviamo anche nella vita quotidiana. -tracce: impronte, il più elementare/evidente, i segni fisici di un contatto tra un agente impressore e il luogo dove lo ha lasciato. per ricostruire la possibile relazione di rinvio, bisogna creare un’inferenza. A proposito del nesso tra interpretazione delle tracce e narratività, Carlo Kingsburg fece un collegamento tra Holmes e le scienze congetturali dicendo che forse il primo abbozzo di narratività nella storia umana, si ha quando i primi cacciatori, seguendo le impronte di una preda, ricostruivano che preda era e che direzione prendeva, incominciando a raccontarne delle storie. Ogni volta che si forma un’ipotesi, c’è il rischio di sbagliarsi, c’è sempre un margine d’errore possibile, anche nelle ipotesi più evidenti. Parliamo di segni motivati: c’è qualcosa nell’espressione dei segni che ne rimanda al contenuto ES. impronta. Peirce [peors] (altro padre fondatore), dice che segno innanzitutto è strumento di conoscenza. Non interessa come umani comunicano tra loro con la lingua, ma piuttosto come essi arrivano ad interpretare il mondo attraverso i segni (alcune cose le apprendiamo per osservazione diretta, altre per comunicazione ecc.). Noi formuliamo mappe mentali nell’interpretazione del mondo e il nostro scopo è rendere queste mappe sempre più adatte. La nostra interpretazione del mondo passa attraverso cicli incessanti di ipotesi e confutazioni: se c’è sempre la possibilità di una confutazione dell’ipotesi, significa che fa parte della definizione di inferenza il fatto che questa inferenza possa essere sbagliata (principio fallibilismo). Peirce parla della sua nascita tenendo conto di questo principio. Egli dice anche delle cose di cui è più certo, ovvero il suo nome, non è sicuro al 100%. Non si ricorda di quando è nato. Ciò che gli impedisce di diventare paranoico e di dubitare è che, sino a prova contraria, non ho motivo di credere che le informazioni che mi hanno dato sono sbagliate. La prima conseguenza dell’idea del fallibilismo è che noi non abbiamo conoscenze dirette del mondo, poiché tutte sono mediate da ricerche di inferenze. In questo lui si oppone a tutte le filosofie che credono che le intuizioni (conoscenze non mediate) siano completamente certe, che ci sia un modo di collegamento diretto tra soggetto e oggetto del mondo esterno. Peirce dice: poniamo che fosse possibile l’esistenza delle intuizioni, sarebbe possibile riconoscerle dalle conoscenze mediate? No. Es. quando si interroga un testimone, è praticamente impossibile fargli riconoscere ciò che ha realmente visto e ciò che si immagina ci fosse perché doveva esserci. C’è chi dice che le intuizioni si riconoscono per quella sensazione di assoluta certezza che le accompagnano. Anche le sensazioni più elementari, come le sensazioni e le percezioni, sono mediate. Questo è provato dall’esistenza di figure ambigue. Sono ipotesi che arrivano in maniera automatica, quindi ci sembra che ci sia un rapporto diretto tra di noi e le cose che sentiamo, non ci accorgiamo di star applicando uno schema mentale per il riconoscimento di quella cosa. Se ci accorgiamo che il nostro rapporto con la realtà è ostacolata, allora siamo più consapevoli del fatto che stiamo agendo inferenzialmente (ad esempio quando si sovrappone un’immagine mentale alla nostra percezione). [figure ambigue portano alle estreme conseguenze l’esempio del gatto nella notte: laddove un campo percettivo può essere interpretato in più modi diversi, la ipotesi va verso lo schema che salta a memoria per primo]. Video Heider & Simmel (1944) Figure geometriche che si muovono attorno e dentro ad un contenitore che si apre. Apparentemente la storia non c’è, ma data la nostra tendenza a narrativizzare, cerchiamo di dargli un senso. Narratività prima ancora ad essere una tendenza di interpretazione strutturale dei testi, è una nostra tendenza di interpretazione del mondo che ci circonda. Questa sequenza è il macroargomento. Secondo Peirce questo metodo si spieghino i comportamenti umani. Ma bisogna vedere le fasi dell’indagine o inquiry, ciclo del progresso della conoscenza scientifica intesa da Peirce (qualsiasi esperienza da analizzare). -constatazione di un FATTO SORPRENDENTE (fenomeno inaspettato, non ci si aspetta di constatarlo e ci si aspetta di non constatarlo ES. Pierce: nessuno si sorprende di trovare crescita degli alberi irregolare -perché l’irregolarità è propria dell’esperienza- ma non ci si aspetterà una regolarità, una crescita lineare di essi): provoca l’attenzione dell’interprete (l’interprete decide di mettere a fuoco un dettaglio che si caratterizza rispetto allo sfondo, si stabilisce un rapporto di sfondo-rilievo e la cosa viene messa in rilievo rispetto allo sfondo), messa in modo dell’indagine (dubbio: Pierce lo definisce in contrasto alla credenza: è una condizione di irrequietezza cognitiva: c’è qualcosa che non torna; ha come unica caratteristica di rilievo il fatto che attiva l’attività di pensiero per una futura situazione di riposo del pensiero, passare dal dubbio alla credenza), tensione abduttiva (bisogno di formulare delle ipotesi). Accade quando la spiegazione del fatto non è ovvia. Si cerca di arrivare ad una situazione di pensiero a riposo. -sfocia nella formulazione di un’ipotesi, ABDUZIONE, scelta dell’ipotesi, formalizzazione della scelta di utilizzo di un’ipotesi rispetto ad altre, poiché più esauriente, economica o secondo altri principi guida. (verifica della scommessa abduttiva: macroargomento), fissarsi della credenza. È la fase deduttiva: se l’ipotesi è vera, ipotizzo che ci siano altri fenomeni che la confermino. - si porta alla verifica induttiva/falsificazione dell’ipotesi iniziali, si stabilisce una porzione di pensiero su cui l’interprete è disposto a scommettere sul fatto che sia vera, fino ad arrivare a sfociare in una credenza (l’agognato pensiero all’ipotesi), ABITO/HABIT/ABITUDINE (disposizione all’azione), fa sì che la volta prossima io mi disponga ad interpretare il fenomeno in una data maniera. (l’interprete incomincia ad agire, a regolare i propri comportamenti sul principio che l’ipotesi sia vera). Abito mentale: regola interpretativa che è anche regola d’azione (Secondo Pierce: la tendenza a comportarsi effettivamente in modo simile in circostanze simili in futuro”). ES. se il fuoco brucia, la prossima volta dovrò stargli lontano. È regola anche per l’azione pratica: es. GAVAGAI: acquisisco la parola, acquisisco anche l’abito poiché la volta precedente ha funzionato quindi mi aspetto funzioni ancora. Alcuni abiti vengono acquisiti in maniera diretta, altri in maniera indiretta: comunicati da altri. Quando abito funziona, si consolida, quindi la sua applicazione avviene sempre più in maniera automatica. Se viceversa si realizza un’esperienza che falsifica l’abito, attenendoci al metodo scientifico, ci viene risollecitato il dubbio. -funziona finchè non si verifica un’ESPERIENZA FALSIFICANTE. Non sempre si aderisce a questo metodo scientifico, ma a volte ad altri. Quattro metodi che gli umani impiegano per spiegare un’esperienza. -metodo scientifico: l’unico realistico che va a cercare un confronto potenzialmente conflittuale con l’esperienza. Metodo fondato sulla fiducia nella capacità che una comunità di interpreti ha alla lunga (“in the long run”) di distinguere opinioni valide da quelle non valide: ogni persona si controlla, affiorano così le ipotesi fallaci. -metodo della tenacia: fissare la propria credenza a ciò che si è sempre creduto (non mette in discussione le credenze precedenti: metodo delle tradizioni). Gran parte dei nostri ragionamenti quotidiani si basa su questo metodo. Per evitare di mettere in discussione le nostre credenze, per un principio di continuità, restiamo aggrappati alla tradizione. Funzionale nella convivenza sociale (evita tensione interpretativa derivata dal mettere ogni comportamento in discussione). Spesso capita che finché non viene formulata una teoria valida, si tiene quella fallace. -metodo dell’autorità: affidarsi all’autorità/autorevolezza (fonte gerarchicamente superiore). Tipico dei regimi autoritari, per tarpare le ali a chi vuole mettere in discussione opinioni dei più forti, nonostante le nuove idee siano efficaci. Normalmente i nostri dubbi vengono affidati a persone esperte (esempio: diagnosi del medico). -metodo della ragione a priori: tipico delle grandi ideologie. Mancanza di necessità di spiegazioni. Credenza fondata sulla teoria senza necessità di spiegazioni. Pierce: la massima pragmatica (principio cardine del pragmatismo) Per capire il significato di qualsiasi concetto, dobbiamo capire quali abiti produce. Secondo Pierce non c’entrano le caratteristiche intrinseche del concetto, ma le abitudini (abiti) interpretative che ne conseguono (si definisce una cosa in base a ciò che fa e che ne consegue, in base alle esperienze/effetti concepibili/abiti interpretativi che si è abituati a legare a quel concetto). Inoltre, secondo Pierce, l’identità dell’abito dipende da come ci induce ad agire nelle circostanze che si conoscono ma anche in quegli effetti che in un futuro potrebbero darsi Anche se non ho ancora constatato cosa succede in conseguenza di un fatto, ipotizzo cosa succederebbe e ipotizzo che se in futuro qualcuno cerchi di capirlo, la teoria coinciderebbe con la mia ipotesi. Si spiega anche come il significato di una parola sia cambiato nel tempo in base agli abiti che si sviluppano assieme a quello nel tempo. Es. scapolo, nel tempo ha assunto altri abiti (accezioni negative) che ne hanno fatto cadere il significato originari. Es. significato di litio: si definisce in base sia alla sua posizione nella tavola periodica ma anche in base alle sue caratteristiche apprendibili grazie ad esperienze percettive (il colore lo apprendo grazie alla vista, la fragilità/consistenza le apprendo grazie al tatto ecc.). Quindi tutte le cose possibili da fare con il concetto, rientrano nella sua definizioni, compresi i suoi usi metaforici. Obiezione: quindi, secondo questa teoria, non ci sono limiti di definizione, anche sulla base della propria esperienza. In risposta, gli abiti per definire un concetto devono essere culturalmente registrati (condivisi da più persone). Un abito è più essenziale di altri in base alla quantità di persone lo condividono e che quindi sarebbe più difficile cancellare. A seconda del contesto in cui il concetto appare, alcuni abiti saranno messi in rilievo, altri in disparte (concetto di pertinenza). Per decidere quand’è pertinente o no un abito, ci basiamo su questo esempio. Louis Prieto, “Pertinenza e pratica”, 1966. Immaginate di avere un insieme di oggetti che condividono alcune proprietà e altre no (nell’esempio: posacenere di vetro, bicchiere di carta, martello). Se ci serve un’arma contundente (proprietà resa pertinente: robustezza): non serve il bicchiere. Se ci serve un contenitore (proprietà resa pertinente: concavità): non serve il martello ecc. Il concetto di pertinenza si ritrova nella definizione di segno di Pierce. “Un segno/representamen (parte espressiva del segno) è qualcosa che sta a qualcuno per qualcosa sotto qualche rispetto o capacità.” Il segno sta per il suo oggetto/contenuto/significato, non sotto ogni profilo possibile ma in base ad una certa scelta di pertinenza. Segno mette a fuoco solo alcune proprietà di quell’oggetto. Es. morbillo si esprime in tanti modi. L’aspetto che viene messo in rilievo è il fatto che provochi macchie. Es. disegno del gatto (qualcosa/representamen/segno) che sta a qualcuno (interprete) sotto qualche rispettiva capacità (pertinenza) per qualcosa (oggetto) ovvero <<GATTO>>. Di tutto ciò che possiamo mettere in rilievo del gatto, qui si sottolinea la sua forma/contorno. Il segno in qualche modo media tra tutto ciò che sappiamo del mondo e ciò che mettiamo in rilievo. “Si rivolge a qualcuno (l’interprete), cioè crea nella mente di quella persona un segno equivalente, [o forse un segno più sviluppato]. Questo segno che esso crea lo chiamo interpretante del primo segno.” Unico modo che noi abbiamo per capire il rapporto tra segno e oggetto è di formulare un altro segno. Quando cogliamo il significato di qualcosa, utilizziamo un’altra caratteristica di quel qualcosa per capire in che senso c’è un collegamento tra segno e concetto. Es. quando noi interpretiamo il significato di una parola, cerchiamo di dirlo in un altro modo, un’altra rappresentazione, anche mentale, del concetto. L’altra rappresentazione o interpretazione del concetto, Pierce la definisce “interpretante”. (segno per strutturalisti: a due facce (qualcosa che sta per qualcos’altro, significante e significato), segno per Pierce: qualcosa che sta per qualcos’altro non in assoluto ma per qualcuno –interprete- che riconosca il rapporto tra quel qualcosa e quel qualcos’altro, attraverso qualcosa che media (ad esempio un altro segno). “Un segno è qualsiasi cosa riferita ad una seconda cosa, il suo oggetto, rispetto ad una qualità (pertinenza), in modo tale da portare una terza cosa, il suo interpretante, in rapporto con lo stesso oggetto” La semiosi è un’azione o influenza che è, o implica, una cooperazione di tre soggetti, il segno, il suo oggetto, e il suo interpretante, tale che questa influenza tri-relativa non si possa in nessun modo risolvere in azioni fra coppie” Nessun elemento tra segno, interpretante e oggetto può essere tolto nella rappresentazione di un segno. Dove c’è interpretazione, c’è segno. Es. traduzione automatica: non sono segni: rapporto bivalente. “Un segno è qualcosa che sta a qualcuno per qualcosa sotto qualche rispetto o capacità. Si rivolge a qualcuno cioè crea nella mente di quella persona un segno equivalente, o forse un segno più sviluppato. Questo segno che esso crea lo chiamo interpretante del primo segno.” Problema: quando Pierce parla dell’oggetto, parla della cosa o del significato? Pierce distingue tra oggetto cosa (oggetto dinamico) “realmente efficiente ma non immediatamente presente” (referente), ovvero la cosa che esiste a prescindere che se ne parli, e oggetto immediato, “così come il segno lo rappresenta” (contenuto), ovvero il modo in cui l’oggetto viene focalizzato dal segno, che ne rende pertinenti alcuni attributi a discapito di altri e che ci fa capire che la cosa nel mondo esiste ed è descrivibile. Quindi che differenza c’è tra interpretante e oggetto immediato? Representamen: espressione (la parola), qualcosa che sta al posto di qualcos’altro. Oggetto immediato: contenuto (la riferiamo a Saussure, consapevoli che entrambi non possono esistere da soli). (il concetto) Oggetto: oggetto dinamico (la cosa in sé), che Saussure lasciava fuori dal segno poiché ritenuto extrasemiotico. Interpretante: effetti prodotti su mente di qualcuno. (segno) che per essere capito deve produrre un altro interpretante, che va interpretato anche lui da un altro interpretante (semiosi illimitata: concatenazione di segni), processo che facciamo nel dormiveglia, quando da una cosa arriviamo ad una cosa completamente diversa secondo un processo. Pierce lo chiama play of musement e sottolinea quanto questo processo sia poco proficuo, non abbia scopo particolare, ma sia essenziale nei processi di creatività poiché potrebbe trovare una premessa per un’abduzione creativa. Segno e oggetto non possono essere in relazione tra loro senza l’interpretante, la cosa che fa capire in che senso il segno sta all’oggetto. Per capirlo formuliamo un pensiero, un’altra rappresentazione della relazione tra segno e oggetto. Applichiamo questa triade alla situazione medico-diagnosi. Uno va dal medico poiché coperto di macchie. Abbiamo il representamen: l’espressione della malattia (fatto sorprendente), le macchie, che si supppongono essere provocate da qualcosa, l’oggetto dinamico (la malattia). Il processo semiotico parte quando qualcuno, a partire dal representamen, deve capire cosa succede (oggetto è sia l’evento che ha scatenato il sintomo sia ciò a cui tende l’interpretazione). Da momento in cui si parla di “malattia” si sta già semiotizzando l’evento. Il medico deve ricostruire la causa a partire dall’effetto, cercando tutti gli abiti/interpretanti/conoscenze acquisite che possiede a partire da quella manifestazione. (prima fase dell’interpretazione). Il medico poi procede empiricamente/ sperimentalmente per escludere certe opzioni e favorirne altre, finché si assesta su una possibile diagnosi. Questo è un “punto di non ritorno”, un’interpretante logico finale, poiché le ipotesi INTERPRETANT E OGGETTOSEGNO
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