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Seneca: il contesto storico, la biografia, tutte le opere, Sintesi del corso di Latino

In questo documento su Seneca offro, dopo una digressione storica e biografica, una sintesi mai sommaria di tutte le opere - Dialogi, trattati, Epistulae, tragedie e Apokolokyntosis - non tralasciando anche la descrizione dello stile.

Tipologia: Sintesi del corso

2017/2018

In vendita dal 15/11/2018

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Scarica Seneca: il contesto storico, la biografia, tutte le opere e più Sintesi del corso in PDF di Latino solo su Docsity! Premessa storica Marco Nicosia La morte di Augusto Quando Augusto morì nel 14 d.C. emerse il problema della successione. Augusto aveva dato allo Stato un nuovo assetto istituzionale che rendeva necessaria la figura del princeps come un’autorità allo stesso tempo con funzioni di governo e di mediazione tra le diverse forze sociali; fu promossa per questo da lui la riaffermazione della tradizione familiare, come eredità della virtus, della clientela e del prestigio, senza tuttavia manifestarsi come una successione dinastica (che era rifiutata dal Senato).
 Augusto lasciò soltanto una figlia, Giulia, mentre tutti i più vicini familiari maschi designati come possibili eredi erano morti (il primo marito della figlia Marcello, i nipoti, il figliastro Druso…). Al princeps non rimase che adottare Tiberio come suo successore, facendogli conferire la potestas tribunicia e l’imperium proconsulare magnum et infinitum, e dando così origine alla dinastia della gens Claudia. I principati di Tiberio, Caligola e Claudio L’origine da una famiglia senatoria conservatrice fece sì che Tiberio attuasse una linea politica moderata, nel rispetto della tradizione repubblicana. Nonostante egli avesse un figlio naturale, Druso, le simpatie dell’esercito andavano al nipote Germanico, che morì in circostanze non chiare. Tiberio attirò su di sé molti sospetti, e il timore ossessivo di una congiura lo spinse a ritirarsi a Capri nel 27, lasciando il consolato al suo collaboratore di fiducia Seiano (prefetto del pretorio). Quando però il princeps si accorse che Seiano stava eliminando tutti i possibili concorrenti alla successione, lo condannò a morte.
 Nel frattempo era morto anche Druso, che aveva lasciato un possibile erede, tuttavia le simpatie dell’esercito andavano sul figlio di Germanico, Gaio Cesare, soprannominato “Caligola” da un particolare tipo di calzatura militare che indossava. E quest’ultimo infatti fu nominato nuovo imperatore dal Senato nel 37, alla morte di Tiberio. Caligola regnò nel tentativo di imporre una monarchia assoluta di tipo orientale, pretendendo culto divino per sé e i suoi familiari. Un elemento sfavorevole, giacché i Romani odiavano l’idea di un monarca già dalla cacciata dei Tarquini. Storici come Tacito e Svetonio (filosenatori) ne enfatizzarono il comportamento perverso e stravagante, presentandolo come effetto di pazzia: sperperò denaro in donazioni al popolo e in opere edilizie, instaurò culti orientali, fece uccidere parenti e amici confiscandone i beni… Infine una congiura di pretoriani lo uccise nel 41, dopo soli quattro anni di principato, e senza attendere la decisione del Senato gli stessi pretoriani nominarono imperatore Tiberio Claudio Nerone, fratello di Germanico. Claudio, completamente dedito agli studi eruditi e rimasto fuori da quegli intrighi, attuò una politica di equilibrio tra le diverse forze sociali nel rispetto della tradizione. Sotto di lui furono conquistati la Mauritania e la Britannia sud-orientale, e fu concessa la cittadinanza ai provinciali (permettendogli quindi di poter partecipare alla politica). Il potere dei senatori invece fu ridimensionato dai nuovi burocrati che Claudio aveva nominato, e che erano spesso suoi liberti di origine greca. Tali provvedimenti però suscitarono il malcontento di aristocratici ed equites… La moglie Agrippina convinse Claudio ad adottare il figlio di lei, Nerone, e a dargli in moglie la figlia di lui, Ottavia. E fu sicuramente Agrippina ad avvelenare il marito nel 54, in accordo con il prefetto del pretorio Afranio Burro. Il principato assolutistico di Nerone Nerone seguì una politica moderata, sotto la guida della madre, di Burro e del filosofo stoico Seneca. Fu in seguito che l’impero si configurò come assolutismo dispotico.
 Il princeps pian piano si sbarazzò progressivamente di tutti quelli che finora l’avevano influenzato: prima uccise il fratellastro Britannico, poi Burro, e allontanò la moglie Ottavia. Tacito soprattutto sottolinea il contrasto aperto tra Senato e princeps, il quale mirò alla popolarità, allo sfarzo, al culto divino della propria personalità. Nerone tuttavia apportò anche importanti iniziative: alleggerì ad esempio il peso delle monete, favorendo i piccoli risparmiatori e l’erario pubblico, e consolidò i domini Britannici e in Oriente (in Palestina furono repressi gli Ebrei).
 Nel 64 a Roma scoppiò un grave incendio, e Nerone fu accusato di averlo appiccato in persona per poter costruire la propria sfarzosa residenza (la Domus Aurea): per scagionarsi dai sospetti il princeps accusò i cristiani, per la prima volta atrocemente perseguitati. Nello stesso anno un complotto di senatori cercò di sostituire Nerone con Pisone, e molti congiurati (anche solo sospettati) furono giustiziati o si diedero alla morte (come Seneca e Petronio).
 Il clima di terrore instauratosi portò a delle ribellioni da parte dei governatori delle province: nel 68 l’esercito della Spagna dichiarò Nerone nemico pubblico e nominò imperatore Galba. Nerone fu abbandonato dagli stessi pretoriani e, per non essere preso nel viaggio di fuga, si uccise. Vita culturale nell’età giulio-claudia Il rapporto fra intellettuali e potere Se già nella Repubblica gli intellettuali dipendevano da personaggi influenti, con l’impero tale dipendenza diventa più vincolante e stretta a causa dell’accentramento di potere. E se in età repubblicana molti uomini politici erano anche letterati o promotori di cultura, nell’età imperiale solo il princeps - con la sua autorità onnipresente - può controllare attentamente la vita intellettuale.
 Dopo la morte nell’8 a.C. di Mecenate (collaboratore di Augusto che fece da mediatore tra intellettuali e princeps) si era spezzato definitivamente l’equilibrio tra esigenze politiche e autonomia degli scrittori. Un episodio di intolleranza fu ad esempio quello di Ovidio, che - accusato di aver ostacolato la restaurazione morale promossa dal princeps - fu relegato. Da Tiberio a Claudio Episodi di intolleranza si verificarono anche sotto Tiberio. Furono ad esempio bruciate le opere di due aristocratici, Cordo e Scauro. Il primo aveva scritto un’opera storica filorepubblicana e - accusato per lesa maestà - prevenne la condanna uccidendosi da sé, mentre ne seguì l’esempio il secondo, che nella sua tragedia aveva fatto allusioni antitiranniche. Anche Caligola, secondo quanto tramanda Svetonio, condannò un poeta e lo fece bruciare vivo ob ambigui ioci versiculum.
 Non risulta invece che Claudio perseguitò intellettuali (Seneca fu attaccato per il complotto).
 La censura che i principi attuarono serviva in primo luogo per evitare stimoli di dissenso e opposizione; ciò non significa che i principi non amassero le lettere. Anzi tutti gli imperatori giulio-claudi seguirono la tradizione del politico dedito anche alla cultura: Tiberio fu un raffinato oratore e scrisse anche lettere e un Commentarius de vita sua, così come divenne abile retore Caligola. Claudio invece coltivò particolarmente la storiografia, scrivendo sia in latino che in greco, ed organizzava per i suoi scritti delle pubbliche letture (recitationes); scrisse inoltre un’autobiografia, un’apologia di Cicerone e un manuale sul gioco dei dadi, ma nessuna di queste opere ci è pervenuta. Non risulta tuttavia che Tiberio, Caligola o Claudio siano riusciti ad elaborare una vera e propria politica culturale: nessuno infatti aggregò gruppi di intellettuali che rendessero la corte un centro di cultura e produzione di opere significative, tali da essere tramandate. La letteratura sotto Nerone Sotto Nerone la cultura subisce una rifioritura. È in questo periodo che nascono gran parte degli scritti di Seneca e le opere di Lucano, Persio, Petronio… anche il genere bucolico viene ripreso con Calunnio Siculo e i Carmina Einsidlensia. E nonostante l’influenza di Virgilio, sono individuabili spiccati caratteri di originalità nelle opere di questi grandi autori.
 La fioritura letteraria di questo periodo e l’alto valore artistico di molte opere sono sicuramente da ricollegarsi alla politica culturale di Nerone, che della sua dinastia fu indubbiamente il più interessato alle lettere e l’unico che tentò di seguire l’esempio di Augusto nel raccogliere attorno a sé una cerchia di intellettuali (anche a fini celebrativi e propagandistici). Lo stesso Nerone scriveva carmi e si cimentò in vari generi (lirica, tragedia, epica): si ricordi il poema mitologico Troica (“vicende troiane”) che - secondo Svetonio - in parte cantò durante l’incendio di Roma, osservando dall’alto lo spettacolo.
 È evidente in tale contesto il tentativo di ellenizzazione: furono istituiti addirittura i Neronia, ludi di tipo greco che comprendevano gare sportive, di musica, canto, eloquenza e poesia (scandalizzando i conservatori). E lo stesso Nerone si esibì spesso come musico e cantore, sia a corte che nei teatri. I suoi successi gli permisero di intensificare le attività artistiche specialmente negli ultimi anni, morto Seneca. Di stesso argomento è la Consolatio ad Polybium, in cui Seneca vuole consolare il liberto consolare Polibio per la morte del fratello, ricalcando in parte i luoghi comuni già sviluppati nella Consolatio ad Marciam: l’ineluttabilità del destino e la dimostrazione che la morte non è un male.
 Qui il filosofo aggiunge che è insensato compiangere chi non è più in vita, in quanto aut beatus aut nullus est (“o è felice o non esiste più”) e quindi non prova alcuna sofferenza.
 Lo scopo nascosto dell’opera è in realtà un altro: Seneca rivolge i suoi elogi all’imperatore Claudio, affidando alla sua clemenza la speranza di ottenere la grazia.
 Tale carattere adulatorio ha portato alcuni critici a rifiutare l’attribuzione dell’opera a Seneca, ma non ci sono effettivamente argomenti a favore di questa tesi. Lo stesso critico Traina afferma che si tratta di un’opera sincera: non che Seneca credesse a tutto quello che scriveva, ma in quanto era la confessione di una sconfitta morale. Consolatio ad Helviam matrem La Consolatio ad Helviam matrem risale con ogni probabilità al 42-43, e vede come destinataria la madre di Seneca, sofferente per l’esilio del figlio. Anche in questo caso l’autore vuole dimostrare che l’esilio non è un male, ma (seguendo molti esempi storici) è un semplice mutamento di luogo che non può togliere all’uomo il suo unico vero bene, la virtù. Del resto il saggio è un cosmopolita e ha come patria il mondo intero.
 Elvia inoltre viene invitata a cercar consolazione negli studi e nell’affetto dei familiari, e nel pensare che il figlio vive sereno e dedito alla filosofia.
 L’operetta è tra le migliori in quanto mette in luce un’affettuosa intimità accompagnata a una nobile dignità: nonostante i sentimenti teneri infatti Seneca vuole dare di sé l’immagine di un uomo virile e sereno, nonostante colpito dalla sventura. De ira Poco dopo il 41 è datato il De ira, un’opera di tre libri in cui Seneca afferma che l’ira non è mai accettabile né utile, in quanto offusca la ragione e ha conseguenze simili alla follia: è una posizione tipicamente stoica che vuole opporsi alla dottrina peripatetica, che giustificava l’ira in alcune circostanze. Vengono in seguito indicati i mezzi per prevenirla e placarla, ed alcuni esempi storici, tra i quali spicca quello di Caligola (evidentemente già morto), descritto come una bestia assetata di sangue. De brevitate vitae Probabilmente in seguito al ritorno dall’esilio, nel 49, fu scritto il De brevitate vitae, dedicato all’amico Paolino. Qui il filosofo spiega che la vita non è così breve come lamentato da alcuni, ma è lo stolto a sprecarla dedicandosi a occupazioni frivole e vane: egli non domina le cose, ma ne è dominato e vive in una condizione di perenne alienazione, schiavo delle passioni. “Non exiguum temporis habemus, sed multus perdimus” [1; 2, 3].
 Sono scialacquatori del proprio tempo gli occupati, cioè gli indaffarati che non hanno mai tempo per se stessi, o ancora i collezionisti, gli appassionati di sport, i vanitosi. Tutti commettono l’errore di curarsi di ciò che non ha importanza, trascurando l’unica attività che valga: l’indagine interiore per raggiungere la saggezza. L’otium dunque non è una desidiosa occupatio, o soltanto un tempo vuoto da occupazioni esterne, bensì un tempo svuotato da occupazioni inutili. Solo in questo modo ci si può assicurare l’autàrkeia (autosufficienza), cioè la libertà da ogni condizionamento. Agli occupati è inoltre opposta la figura del saggio, colui che sa vivere intensamente ogni istante.
 Da evidenziare infine la comparazione del tempo al denaro, una delle più famose e comuni in Seneca: la vita è molto ampia per chi la gestisce bene, così come una ricchezza modesta cresce se affidata a un buon custode. De vita beata Il De vita beata appartiene al periodo di potere di Seneca affianco a Nerone.
 La prima parte dell’opera è di carattere teoretico, e in essa viene esposta la dottrina morale stoica: la felicità risiede nel vivere secondo natura e secondo ragione, nel rispetto dell’ordine razionale della realtà, e il sommo bene risiede nella virtù.
 Nella seconda parte Seneca respinge le accuse di incoerenza verso i filosofi che non vivono secondo ciò che professano. Anche se l’autore fa un discorso generale senza parlare esplicitamente di sé, riconosciamo delle risposte implicite a coloro che lo accusavano di possedere enormi e crescenti ricchezze, in contrasto con la vita austera professata dallo stoicismo. Seneca non nega la fondatezza dell’accusa, ma afferma che quando attacca i vizi, prima di tutto attacca i suoi, non essendo riuscito a raggiungere gli obiettivi che tuttavia si propone ancora.
 Il filosofo inoltre se privato delle ricchezze non soffre, anche se preferisce possederle, perché gli offrono più possibilità di esercitare la virtù. Altri dialogi Nel De tranquillitate animi Seneca immagina che l’amico Sereno chieda lui consigli a causa di insicurezze spirituali, e il filosofo risponde - dopo aver descritto sintomi e manifestazioni di un animo inquieto - che l’euthymìa (tranquillità d’animo) può raggiungersi con l’impegno attivo per il bene comune, con l’amicizia dei buoni, la parsimonia e l’accettazione delle avversità e della morte. Nel De otio Seneca si rivolge ancora a Sereno, affrontando il tema dell’impegno e del disimpegno. Egli sostiene la validità dell’otium, in una visione in cui idee epicuree e stoiche coincidono: il saggio non deve impegnarsi a meno che non sia necessario per le circostanze. E’ difficile, continua Seneca, essere coerenti con questi principi in uno Stato. Sempre a Sereno è dedicato il De constantia sapientis, dove si dimostra che il saggio non può essere colpito da alcun oltraggio perché è reso invulnerabile da qualsiasi attacco dalla sua stessa forza e superiorità morale: nessuno potrà mai togliergli l’unico bene, che è la virtù. Dedicato all’amico Lucilio è invece il De providentia: Lucilio chiede come mai, se il cosmo è retto dalla provvidenza divina, i buoni siano colpiti dal male, e Seneca risponde che in realtà i mali non sono tali, ma sono prove che temprano i buoni e li aiutano a perfezionarsi moralmente. I TRATTATI Di impostazione simile ai Dialogi sono i trattati di Seneca: l’argomentazione è energica e impegnata, l’autore parla in prima persona rivolgendosi al dedicatario, e vi sono aneddoti, esempi storici e polemiche con obiettori fittizi. De clementia Nel De clementia Seneca teorizza ed esalta una monarchia illuminata. Rivolge elogi a Nerone perché con il proprio potere illuminato dimostra di avere la virtù più grande per un sovrano, la clemenza: essa è moderazione e indulgenza, capace di dare stabilità al governo suscitando amore e riconoscenza. E questa distingue il re giusto dal tiranno. Seneca è consapevole che il principato è una monarchia assoluta, per questo parla di clemenza e non di giustizia: la clemenza infatti viene esercitata dal superiore nei riguardi degli inferiori, implicando un rapporto di dipendenza. 
 In questo modo viene esplicitata la dottrina stoica della politica, che indicava nella monarchia la miglior forma di governo a condizione che il re fosse un saggio… Gli elogi dello scrittore proiettano in Nerone un modello ideale di sovrano: i suoi comportamenti corrispondono a un programma politico che implicitamente è esortato a realizzare, fingendo di considerare già attuati gli auspici e le speranze di Seneca. Si tratta tuttavia di un carattere ben utopistico, che dipende dalle volontà del sovrano, il quale difficilmente s’identificherà con la figura del saggio stoico nella realtà. Naturales quaestiones Le Naturales quaestiones furono scritte negli anni del ritiro e dedicate all’amico Lucilio. L’opera parla dei fenomeni meteorologici: arcobaleni, meteore, lampi e tuoni, pioggia e neve, terremoti, venti, acque e fiumi… Come ogni argomento di studio che risulti utili moralmente, questo scritto mira - afferma Seneca - a liberare gli uomini dal timore (tipico degli ignoranti) dei fenomeni naturali, per insegnare il giusto uso dei beni messi a disposizione dalla natura. Il filosofo scrive inoltre che spesso ci si dedica più a occupazioni moralmente inutili che allo studio della natura, e biasima chi usa le conoscenze scientifiche per accrescere vizi e corruzione.
 Viene esaltata la ricerca scientifica come mezzo che può elevare l’uomo al di sopra dell’umano. Vi è infine l’augurio, nonché la certezza, che il progresso scientifico un giorno porterà a verità ancora ignote ai contemporanei di Seneca. EPISTULAE MORALES AD LUCILIUM Le Epistole a Lucilio costituiscono l’opera più importante di Seneca: in esse c’è la visione più matura e personale della vita e dell’uomo. Le 124 lettere (raccolte in 20 libri) sono state scritte durante il periodo di ritiro dello scrittore, tra il 62 e il 65, e vedono come destinatario l’amico Lucilio Iuniore, procuratore in Sicilia (lo stesso del De providentia e delle Naturales quaestiones). Nelle epistole Seneca emerge come uomo finalmente padrone del suo tempo, che dopo aver sprecato gran parte della vita in occupazioni politiche può dedicarsi esclusivamente allo studio e al perfezionamento morale. L’autore si fa maestro e consigliere dell’amico più giovane, che viene aiutato a raggiungere la sapienza che lo stesso Seneca ammette di non possedere ancora. Ma lo scopo è anche quello di giovare ai posteri, come scritto nell’ottavo libro (“per poter essere utile a un maggior numero di persone”). Seneca dunque aveva scritto con il preciso obiettivo di pubblicare le lettere, ma ciò non significa che esse siano fittizie. LE TRAGEDIE Di Seneca ci sono pervenute dieci tragedie, di argomento mitologico. Una tuttavia - l’Octavia - è spuria, si tratta molto probabilmente dell’opera di un imitatore: si allude infatti alla morte di Nerone (avvenuta tre anni dopo quella del filosofo). Anche sull’Oetaeus ci sono vari disaccordi tra i critici. Le tragedie senecane riprendono i miti già trattati dai tragici greci del V secolo a.C.: l’Agamennone, l’Edipo, le Fenicie, l’Herclues furens, la Medea, la Fedra, il Tieste e le Troiane. La datazione delle tragedie è incerta, e probabilmente è collocabile nel periodo di potere di Seneca affianco a Nerone. Le caratteristiche LA FIGURA DEL TIRANNO In quasi tutte le tragedie è presente la figura del tiranno, in termini violentemente negativi… secondo il critico Traina due sono le ipotesi: si tratta di un teatro di opposizione o di un teatro di esortazione. Più probabile è la seconda, in quanto lo scrittore non fu mai un contestatore politico, nemmeno al tempo dell’esilio, e le tragedie sembrano rivolte al potere (non contro) da paradigmi di ammonizione, come a voler mostrare al giovane Nerone gli effetti deleteri del potere dispotico e delle passioni sregolate. D’altronde per Seneca la composizione in versi ha sempre un suo scopo pedagogico ed è strumento morale. LE RECITATIONES Possiamo anche dire che molto probabilmente le tragedie furono scritte non per essere rappresentate ma per essere lette come recitationes in case private, in apposite sale o alla corte imperiale. Questa ipotesi si deve presumere sulla base dello stile (Seneca si concentra più sulle parole dei personaggi che sulle loro azioni) e sulle scene fortemente sanguinose. È inoltre difficile pensare che gli imperatori permettessero di rappresentare pubblicamente drammi in cui i sovrani sono scellerati e odiosi tiranni. RAGIONE E FUROR In scena troviamo scatenate passioni rovinose, non dominate dalla ragione: l’intenzione è appunto quella di proporre esempi paradigmatici dello scontro dell’animo umano con impulsi contrastanti, positivi e negativi. Da un lato vi è la ragione, di cui si fanno portavoce personaggi secondari (Clitemnestra, Medea, Fedra…), dall’altra il furor, cioè l’impulso irrazionale, la passione presentata come manifestazione di pazzia (visione stoica). A trovare più spazio è il furor, la malvagità, la colpa, nella dimostrazione di un forte interesse verso la psicologia delle passioni. C’è inoltre un rilevante gusto del macabro e dell’orrido: vengono accentuate le tinte più fosche e cupe, gli aspetti più truci e sinistri, i particolari più macabri e raccapriccianti. Tutto resta comunque funzionale all’obiettivo dell’ammaestramento morale tramite gli esempi negativi che i personaggi rivestono. SCOPO DELLA PAROLA Infine, come già anticipato, Seneca concentra l’interesse sulla parola a scapito dell’azione. La trama è scarsamente organizzata in modo organico: si preferiscono infatti lunghe tirate moralistiche o erudite digressioni mitologiche, elementi insomma privi di funzionalità drammatica. Al poeta non interessano le vicende mitiche in sé, ma le occasioni per sviluppare tòpoi letterari (con allusioni ad altri classici latini come Virgilio e Ovidio) e per dibattere svariati argomenti morali e politici (la colpa, il delitto, il regnum, la fides). Lo stile La retorica, basata sulla tecnica della variazione sul tema, può far risultare i toni magniloquenti e solenni, caratterizzati da ridondanze e ripetitività. L’enfasi, l’esuberanza espressiva danno origine a eccessi “barocchi”; nonostante ciò è ben riuscita l’analisi degli aspetti più tenebrosi dell’animo umano, che appare profonda e potente. Anche qui sono presenti le sententiae tipiche di Seneca, che rendono il linguaggio concettoso e concentrato, adatto alle sticomitie e alle emisticomitie. Le prime sono successioni battute corrispondenti ciascuna a un verso, nelle seconde ogni battuta corrisponde a metà verso.
 Ogni verso può arrivare a contenere addirittura quattro battute: (N. = nutrice; M. = Medea) N. Moriere M. Cupio. N. Profuge M. Paenituit fugge N. Medea. M. Fiam. N. Mater es. M. Cui sim vides. N. Morrai! M. È quello che voglio. N. Fuggi! M. Mi sono pentita della fuga. N. Medea! M. Lo sarà. N. Sei madre. M. Tu vedi per chi lo sono! (Medea, vv. 170 s.) L’APOKOLOKYNTOSIS L’Apokolokýntosis (Ἀποκολοκύντωσις), o anche Ludus de morte Claudii, è l’unica satira - di tipo menippeo - attribuita a Seneca, interessante anche perché è l’unica opera di questo genere che possiamo leggere per intero.
 La satira menippea prende origine da Menippo di Gàdara (attuale Giordania, III sec. a.C.) ed era caratterizzata dalla mescolanza di versi e prosa, dalla commistione di serio e scherzoso. L’opera di Seneca invece è un libello senza alcuna implicazione filosofica, scritto in occasione della morte di Claudio: Seneca aveva steso il suo elogio funebre da far pronunciare a Nerone, per questo dà sfogo al suo odio e al disprezzo in altro spazio. IL TITOLO Il titolo Ἀποκολοκύντωσις implica un riferimento al termine greco κολόκυνθα, “zucca”, e significherebbe secondo alcuni critici “trasformazione in zucca”, in contrapposizione al termine ἀποθέωσις, “trasformazione in dio”. Altri hanno invece interpretato il senso come “divinizzazione di una zucca [Claudio]” o come “inzuccatura”, cioè “fregatura”. IL CONTENUTO Seneca all’inizio afferma di voler raccontare le vicende seguenti la morte di Claudio in modo fedele, e parte dal momento in cui le Parche recidono il filo della vita dell’imperatore e Apollo gioisce per l’inizio del regno di Nerone.
 Sulla terra esultano tutti, mentre Claudio si presenta da Giove, ma non viene riconosciuto in quanto parla in modo incomprensibile; Giove chiede ad Ercole di capire chi sia, e questo spaventato dall’aspetto grottesco di quel personaggio si prepara alla sua “tredicesima” fatica. Dopo una lacuna del testo, troviamo gli dèi a concilio per discutere della proposta di divinizzare Claudio: Augusto si pronuncia contro il nipote, accusandolo di aver assassinato numerosi familiari e chiedendo una severa punizione. Claudio intanto, trascinato agli inferi, passa per la via Sacra, dov’è in corso il suo funerale, Roma è in festa e vengono cantati canti ironici in suo onore: solo allora capisce di essere morto. Agli inferi gli vengono incontro le sue vittime, che lo condannano a giocare eternamente ai dadi con un bussolotto forato. Compare poi Caligola che lo reclama come schiavo e infine viene consegnato al liberto Menandro perché gli faccia da aiutante. LO STILE L’operetta è notevole per la verve vivacemente satirica e anche per la perfetta padronanza con cui l’autore si muove tra livelli linguistici e stilistici diversi: quello colloquiale e “basso” della parodia fino a quello “alto” e solenne dell’epica.
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