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Senza la guerra (Cacciari, Caracciolo, Galli della Loggia, Rasy) - riassunto, Appunti di Sociologia Dei Processi Culturali

Sociologia dei processi culturali - terzo parziale (seminario) - Allodi - SID

Tipologia: Appunti

2022/2023

Caricato il 31/12/2023

filippo700
filippo700 🇮🇹

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Scarica Senza la guerra (Cacciari, Caracciolo, Galli della Loggia, Rasy) - riassunto e più Appunti in PDF di Sociologia Dei Processi Culturali solo su Docsity! SENZA LA GUERRA Cacciari, Caracciolo, Galli della Loggia, Rasy LA COSCIENZA EUROPEA E LE GUERRE DEL NOVECENTO Ernesto Galli della Loggia Pensare il rapporto fra Europa e le guerre del Novecento vuol dire pensare la fine dell’Europa, cioè lo sgretolarsi di quella straordinaria potenza geopolitica estesa a tutta la Terra (lo sgretolarsi un vasto e profondissimo insieme di retaggi storici, di abiti antropologici, di modi culturali, di sensibilità, di valori). La guerra è l’identità europea (la guerra come matrice di tale identità). Il concetto stesso di Europa, contrapposto all’Oriente asiatico “barbarico” nasce con la guerra e della guerra: nello scontro del V sec. a.C. che oppone l’Ellade alle armate persiane di Serse e Dario. Per i greci, i persiani mancano d’istruzione militare, non conoscono la texis, lo schieramento ordinato e compatto dei cittadini; essi sono una turba, sono appunto l’Asia (tutto ciò che non è Europa: la “barbarie”). Le schiere degli opliti ateniesi nelle quali sono chiamati a combattere tutti i maschi liberi sono testimoni della comune appartenenza alla patria cittadina, all’insegna dell’autogoverno e dell’isonomia. Rappresentano l’embrione di questa specifica dimensione della cittadinanza: dimensione non a caso ancora legata fino a pochi decenni fa al diritto/dovere da parte di ogni cittadino di portare armi, centrale per tanta parte dell’ideologia e della realtà dello Stato nazionale europeo otto-novecentesco. Le donne saranno a lungo cittadine di seconda classe precisamente a causa della loro (presunta?) inadeguatezza/estraneità alla dimensione bellica. Ma per questo depositarie e titolari per eccellenza del dolore e del lutto civile. Chi dice guerra dice politica, e viceversa: non a caso l’esperienza delle polis è intimamente legata anche alla guerra all’interno della città, alla guerra civile. Quella guerra senza la quale la storia europea non sarebbe neppure pensabile. La guerra civile riassume molti di quei caratteri della realtà politica che i greci scoprirono “per sempre” e consegnano alla nascente coscienza europea tramandandoli fino a noi: l’ambizione del potere, il legame coesivo ma divorante della fazione, la demagogia, la manipolabilità delle folle. Ma pure la necessità dell’amnistia, dell’oblio dei delitti, sempre in nome della politica. Prima del Novecento di Carl Schmitt, i greci svelavano il nesso tra la politica e il meccanismo primordiale del conflitto, l’essenza della politica fondata sul dualismo amico/nemico, che per l’appunto ha nella guerra il suo prototipo. “Noi crediamo che per legge di natura chi è più forte comandi; [...] che lo facciano gli uomini lo crediamo perché è evidente": sono le parole memorabili che Tucidide mette in bocca agli ambasciatori ateniesi recatisi a chiedere la sottomissione degli abitanti di Melo. La consapevolezza della specificità e della preminenza dell’Europa, l’intrinsichezza della guerra rispetto alla dimensione della politica e la realtà ineluttabile dei rapporti di forza a cui la politica stessa è sottoposta, la centralità della dimensione militare per la definizione della cittadinanza e al tempo stesso della nazione; sono questi i tratti fondativi dell’identità storico culturale dell’Europa. Le guerre del Novecento hanno sconvolto e mutato realtà e immagini dell’Europa che duravano da secoli, a cominciare dalla coscienza che essa aveva di sé (un mutamento di cui solo ora iniziamo a renderci conto). Delle due gigantesche guerre che hanno visto 1 protagonisti nel secolo scorso quasi tutti i paesi europei alcuni di questi sono usciti indubbiamente sconfitti ma nessuno realmente vincitore (sono andati incontro in pochi anni ad una drammatica perdita di rango internazionale). Sia nel ‘18 che nel ‘45 i veri vincitori - gli USA e l’URSS - stavano fuori dall’area europea in senso proprio. Nel caso della Prima guerra mondiale all’accrescimento della potenza dei vincitori si è opposto il principio di autodeterminazione dei popoli adottato dall’Intesa. Nel caso della Seconda il fatto che l’obiettivo dell’accrescimento della potenza (paesi dell’Asse) non poteva essere rigettato altrettanto decisamente dai suoi avversari. La guerra ha segnato la fine dello Stato/nazione potenza. Quello stato (es. Gran Bretagna, Francia e Germania) che si assegna come scopo essenziale la proiezione multiforme di se stesso fuori dai propri confini. A riprova di questo venir meno del Novecento dei tradizionali risultati fino allora propri della guerra sta il fatto che non a caso i due grandi conflitti di quel secolo sono oggi percepiti dal senso comune il primo come “inutile strage” e il secondo essenzialmente come uno scontro di tipo religioso fra il Bene e il Male. Nel senso comune le guerre del Novecento hanno perduto ogni tradizionale significato politico-militare per essere iscritte del tutto entro un ambito etico. Su un piano altamente simbolico esse hanno segnato la fine di quel rapporto con l’impiego della forza sempre ad essa favorevole che aveva assicurati alla stessa Europa una secolare fiducia nel proprio indiscutibile dominio. Già questo fatto è valso a produrre alla fine una drastica delegittimazione della dimensione bellica come tale. Nel XX secolo la guerra, che fino ad allora era stata un'esperienza circoscritta in Europa solo a una limitata percentuale della popolazione, divenne invece una sconvolgente esperienza di massa, per la prima volta condivisa da militari e civili senza alcuna distinzione. E’ molto probabile che a parecchi europei il secondo conflitto mondiale e i suoi esiti siano apparsi come una smentita di molte attese, rivelatesi per l’appunto illusorie. Mai come negli anni ‘20-’30 del Novecento, da Mosca a Madrid, in numerose elite politico-intellettuali del continente dilagò la convinzione che ad aprire le porte del progresso e del futuro non ci fosse altro mezzo che il ricorso alla violenza, allo scontro armato (sotto forma sia di una rivoluzione/sovversione, sia di un classico conflitto tra tra Stati). Nel ‘45, la fine della Seconda guerra mondiale corrisponde ad un congelamento di tutti i rapporti di forza interni e internazionali, e a una vittoria ideologica a tutto campo della democrazia parlamentare, che avvenne in Europa sotto la tutela delle due superpotenze. Il ‘45 corrisponde all’adozione di massa di una vera e propria ideologia della pace, anche se tale ideologia non viene adottata in realtà da nessuno dei due veri vincitori della guerra (USA e URSS), se non a scopi propagandistici. Tuttavia, anche per la paura indotta dalla scoperta dell’arma atomica, quella posizione viene fatta propria dalla vastissima maggioranza delle opinioni pubbliche europee, alle quali si unisce la voce delle Chiese. In realtà, l’affermazione del pacifismo come ideologia maggioritaria ci appare oggi come la conclusione di un itinerario iniziato almeno trent’anni prima quando Wilson tentò di imporre ai rapporti internazionali una prospettiva etico-giuridico prescrittiva e prese il via nei paesi dell’Intesa un processo di criminalizzazione giuridica della guerra in quanto tale. Nei regimi liberali che vanno trasformandosi in democrazie di massa, non basta più il vincolo dell’appartenenza allo Stato nazionale per spingere i cittadini a combattere. La democrazia, il suffragio universale e la conseguente mobilitazione politica di massa richiedono qualcosa di più: una motivazione etica forte che possa, tra l’altro, essere sfruttata in misura adeguata dalla propaganda. Bisogna stare, e soprattutto sentirsi, dalla parte della ragione, ancor meglio della virtù. Fu procedendo su questa via, come si sa, che nel 1919 si giunge alla richiesta da 2 Alla fine la coscienza europea è anche e non può non essere innanzitutto che la coscienza degli europei. Dunque, oltre alle conseguenze sul piano ideologico è anche al deposito culturale ed emotivo che il Novecento delle guerre ha lasciato dentro gli europei, è al loro modo prevalente di pensare e di sentire riferibile anche indirettamente alla guerra, che dobbiamo rivolgere lo sguardo. Nel mezzo tra gli europei e la guerra sta da sett’anni la democrazia. Democrazia ha voluto dire un benessere economico a lungo crescente, il moltiplicarsi delle occasioni di vita di ogni tipo, l’allargamento costante della sfera dei diritti, una secolarizzazione massiccia, la diffusione di una mentalità acquisita all’insegna dell’individualismo. E tutto ciò ha significato una trasformazione profonda della soggettività, del suo modo di sentire. Oggi, ad esempio, i disagi fisici e lo stress cui la guerra obbliga comunque il singolo appaiono qualcosa di insopportabile agli occhi dell’europeo medio (troppo forte è il contrasto con la sua vita in tempo di pace). E’ impensabile che lo si possa obbligare a mettere in pericolo la propria vita, a morire. Nelle società europee la dimensione del sacrificio, e ancor di più del sacrificio della vita, è diventata di fatto un tabù (dal momento che un tabù è divenuta la morte, cioè la cosa più ovvia che possa accadere se c’è una guerra). La democrazia europea ha assistito a una trasformazione radicale della soggettività che l’ha resa di fatto incompatibile con la guerra. E’ una soggettività che ormai tende a non fare più alcuna differenza tra maschile e femminile. Appare tuttavia singolare che proprio in coincidenza con questo enorme restringimento in tutta la società dell’area valoriale ed esperienziale riferibile alla guerra e al significato della guerra stessa per la mascolinità, proprio in coincidenza con ciò l’idolo dell’eguaglianza si sia tuttavia mostrato così forte da esigere che anche alle donne sia concesso di fare la guerra. La guerra non si fa più, non si può più fare: e allora è il momento che pure alle donne venga concesso di andare sotto le armi. Parabola paradossale ma forse rivelatrice di un modo d'intendere l’emancipazione, che fa raggiungere a questa il massimo traguardo quando esso è diventato del tutto insignificante. La democrazia si è identificata in Europa con una situazione definita dal declino apparentemente irreparabile della politica e della statualità, dal prevalere di una mentalità centrata in misura straripante sulla soggettività e sulle pulsioni che ad essa provengono da un contesto poverissimo di valori “alti”, permissivo, opulento, in grado di concepire la dimensione collettiva solo nei limiti della convenienza. L’esperienza europea della democrazia, a differenza per antonomasia di quella degli USA, si è svolta in assenza, e anzi rifiutando, la dimensione della “potenza”. La democracia che è stata imposta all’Europa sconfitta dopo la Seconda guerra mondiale, si è sviluppata sotto la “protezione” della “potenza” degli USA. Per mille motivi questa situazione sembra però ormai volgere alla fine, forse è già finita. Mille motivi, tra cui quello molto reale della comparsa di imprevedibili e feroci nemici ai suoi confini, indicano che forse per la democrazia europea sta giungendo l’ora di un appuntamento fatale con la storia: un appuntamento nel quale mille indizi sembrano indicare che possa riacquistare tutta la sua antica crucialità la categoria tanto a lungo esorcizzata della guerra. Una volta giunti all’appuntamento, sapremo e potremo essere comunque all’altezza dell’ora restando padroni del nostro futuro? 5 L’EREDITA’ GEOPOLITICA DELLA GRANDE GUERRA Lucio Caracciolo “Chiacchiere. Dopo che quattro imperi si sono sfaldati, prima di una solida e duratura ricostruzione nasceranno cento altri conflitti”: è la risposta del re Vittorio Emanuele III ad un giovane ufficiale dell’esercito che gli comunicava la sua intenzione di smettere la divisa e di tornare alla vita civile. Vittorio Emanuele aveva ragione. Il mestiere delle armi non perse mai la sua funzione e non la perse nemmeno dopo la Seconda guerra mondiale. Forse, in prospettiva, anzi dovremmo considerare l’Europa e il mondo della guerra fredda come una lunga sospensione di partite aperte dalla Prima guerra mondiale e tuttora inconcluse. Tutte sedate, quasi nessuna davvero risolta. La manipolazione dei “diritti storici” e il passato che non passa Se studiamo la storiografia contemporanea, in particolare europea, e soprattutto la pedagogia nazionale dei diversi paesi coinvolti, possiamo constatare come ancora oggi persistano narrative perfettamente opposte sulla Prima guerra mondiale. A conferma che le guerre non vengono più combattute solo sul campo di battaglia, ma anche, se non soprattutto, sul fronte della narrazione. I fatti contano meno della loro percezione. Una delle caratteristiche dell’Europa dopo la guerra fredda è il ritorno della narrazione dei “diritti storici" come strumento strategico. I conflitti combattuti in Europa dopo la fine della guerra fredda, pensiamo ad esempio alle guerre jugoslave, si sono alimentati anche di opposte narrazioni storico-geopolitiche, nell’intento di affermare la propria visione della storia a fini strategici. Negli anni ‘90 la Grande Serbia, la Grande Croazia o la Grande Albania venivano rivendicate in base a presunti diritti storici e/o etnici. Così oggi in Ucraina ci si batte per una più grande Russia o una più grande Ucraina, sempre riferendosi a entità o progetti geopolitici del passato. In entrambi i casi, siamo nel cuore di aree attraversate e segate in profondità dalla Prima guerra mondiale. A ben guardare, molte delle guerre e delle partite geopolitiche in corso possono configurarsi come guerre di successione per l’egemonia nei territori evacuati dai quattro imperi europei defunti nella Grande guerra. Le tre principali aree di crisi che ci preoccupano - quella dell’integrazione europea, quella dell’est (ovvero russo-balcanica, che parte dalle guerre post-jugoslave e arriva oggi all’Ucraina, e quindi alla Russia) e le guerre e le crisi sul fronte sud (tra Mediterraneo e nord Africa, fino al Levante e al Golfo Persico) - hanno tutte a che fare con quello che Vittorio Emanuele III chiamava il “collasso dei grandi imperi”. La crisi europea verte sulla questione tedesca, aperta dal collasso del Secondo reich, cioè dalla sconfitta della Germania guglielmina nella Prima guerra mondiale; le crisi russo-balcaniche sulla contemporanea scomparsa dell’impero austro-ungarico, di quello ottomano e di quello russo; infine se apriamo la finestra sul mediterraneo scopriamo che i conflitti attuali sono guerre di successione post-ottomana. In particolare, la Turchia del “sultano” Erdogan vibra di neo-ottomania. Erdogan si ostenta guardiano della Sublime Porta anche nelle condoglianze agli armeni vittime delle deportazioni e dei massacri compie cent’anni fa della truppe del sultano. Le recenti puntate in Siria, più precisamente nell’ex distretto ottomano di Aleppo, sono vissute dalla leadership turca come un ritorno in territori canonici. Quanto alla Russia dello “zar” Punti, reduce dall’aver perso Kiev ma anche dalla riannessione della Crimea, il passato imperiale torna di moda. Il 1° agosto 2013 il Cremlino ha celebrato per la prima volta l’anniversario dello scoppio della Prima guerra mondiale e ha 6 promosso finalmente l’erezione di un monumento ai "quindici milioni di combattenti per la difesa della patria". Quella russia imperiale, guidata dal “saggio e grande” zar Nicola II, avrebbe certamente vinto, se i comunisti non avessero rovesciato l’imperatore. Se Putin rifiuta il rango di sconfitto nella guerra fredda e di “potenza regionale”, cui Obama vorrebbe inchiodarlo, è perché si richiama all’impero dei Romanov, non al regime degli usurpatori bolscevichi. Quanto all'Austria-Ungheria la sua leggenda è inscritta nella sua scomparsa. Nella trasfigurazione da baluardo della reazione veterocontinentale in progressivo modello di convivenza plurietnica. Quando scoppia la Prima guerra mondiale, Francesco Giuseppe regna su sessanta milioni di sudditi riuniti in due Stati, una decina di “nazioni storiche” e una ventina di gruppi etnici minori. A due secoli dalla dissoluzione formale di ciò che restava del Sacro Romano Impero di Nazione Germanica, uno dal crollo del Secondo Impero guglielmino e settant'anni dalla liquidazione del Terzo, lo storico irlandese Simms ha sviluppato la sua reinterpretazione della storia europea dalla caduta di Costantinopoli al presente come lotta per l’egemonia nello spazio tedesco e disputa per l’eredità dell’impero carolingio. Concentrandosi sulla tesi dell’“immediatezza del passato”. Siamo qui nella terra del “passato che non passa” per eccellenza, come conferma l’ondata di germanofobia che sta attraversando l’Europa, specie meridionale. Nel 2010 la crisi dell’euro, monete inventata da francesi e italiani per impedire alla Germania riunificata di dominare il continente, neanche fossimo tornati nel 1913 è stata interpretata a Berlino alla luce del 1923 (l’anno dell’iperinflazione avviata con lo scopo della guerra e incentivata dal Trattato di Versaille) quando i prezzi raddoppiavano ogni quattro giorni. La paura dell'euro di carta straccia, che a noi mediterranei (asserite vittime della deflazione da austerità teutonica) appare paradossale, è figlia di quella memoria tramandata in generazioni, se è vero che ancora oggi i tedeschi temono l’inflazione più del cancro. E la rinuncia al marco, concesse alle germanofobie europee, è descritta da alcuni intellettuali tedeschi come “seconda Versailles”: pedaggio ingiustamente pagato per sanare la riunificazione del 1990, percepita da alcuni vicini europei come prodromo del “Quarto Reich”. Della germanofobia scatenata dalla riunificazione tedesca del 1990, è interessante testimonianza la conversazione che ebbe luogo al Palazzo dell’Eliseo, a Parigi, il 20/01/1990, tra il presidente francese, Mitterand, e il primo ministro britannico, Thatcher. La conversazione verteva su come impedire che la Germania si riunificasse. Caduto il Muro di Berlino il 09/11/1989, il cancelliere tedesco Kohl, soprendendo tutti e non informando gli alleati (né europei, né americani), già alla fine del mese di novembre annunciava un piano piuttosto rapido di riunificazione (gettando nel panico le maggiori cancellerie europee). Francia e Gran Bretagna facevano parte, allora come oggi, dell’Alleanza Atlantica, eppure discutevano di un’alleanza con l’URSS contro un socio atlantico. Questa paura della Germania è tornata di attualità durante le recenti crisi europee, in particolare quella dell’euro. Il modo piuttosto brusco e brado con cui questa polemica sulla cultura monetaria è esplosa negli ultimi anni è significativa di quanto le percezioni reciproche siano fondate sul presunto carattere nazionale dei popoli; in fonda, un razzismo light. L’autore britannico Kundnani, in un suo scritto sostiene che la questione tedesca ritorna oggi quasi nei termini d’inizio Novecento, solo in veste geoeconomica invece che geopolitica. Sostenendo la tesi dello storico tedesco Dehio secondo cui la Germania è troppo grande per accettare di essere integrata in uno spazio europeo, o anche solo di essere considerata una fra pari in Europa, ma allo stesso tempo è troppo piccola per poter essere davvero egemone nel nostro continente. 7 Milano dove rimase per tre mesi (e ha una letterariamente importante storia d’amore con un’infermiera). Nella trama di Addio alle armi molti di questi eventi sono ampiamente riconoscibili. Hemingway non è minimamente mosso dal desiderio di denuncia che anima Remarque, né abitato dall’orrore della guerra. Hemingway non vuole affatto descrivere i disastri della guerra, non li vuole trascrivere. Del resto la scena del libro non corrisponde con la scena di guerra in cui a operat il giovane Hemingway: nel libro siamo prima, durante e dopo Caporetto, cioè un anno prima dell’arrivo del tenente Hemingway, e non sul Piave ma dalle parti di Gorizia e del Carso. Il suo è un intento mitopoietico: vuole creare il mito della guerra mondiale. Per farlo però bisogna tenersi su un difficile crinale: elogiare la guerra non si può, bisogna esaltare lo spirito eroico disprezzando lo spirito bellico. La grande forza di questo libro risiede nella sua ambiguità, nella sua ambivalenza, nel suo essere in bilico tra una tradizione eroica che viene dal passato e una tutta novecentesca posizione critica. Hemingway diceva che Addio alle armi era il Giuletta e Romeo. L’inizio del romanzo è ambientato in bordello. Compare accanto al soldato la prostituta, com’è spesso successo in una lunga tradizione di storie di guerra: ma Giulietta non è lì. L’amata di Frederic, la giovane inglese Catherine, è una delle tante infermiere volontarie della Prima guerra mondiale. In un certo senso la parabola dell’infermiera Catherine corrisponde a quanto accadde alla condizione femminile proprio fra la Prima guerra mondiale e il successivo dopoguerra. Infatti nel ritratto che ne fa l’autore viene fuori che si è arruolata non per spirito di partecipazione ma nella speranza di poter assistere il fidanzato valore esso fosse stato ferito. Nonostante il fidanzato venga ucciso sul fronte nordoccidentale, Catherine resta in guerra e sul fronte italiano incontra Frederic. Lo scrittore la dota di una buona dose libertà: libertà di parola e anche libertà di comportamento. Ma poi c’è come un ritorno all’ordine, a un più tradizionale ordine femminile: Catherine resta incinta e muore di parto. Dopo Caporetto, c’è una specie di inversione di tendenza narrativa: da dramma corale della guerra, con la rocambolesca fuga di Frederic Addio alle armi diventa un romanzo d’avventura individuale. Catherine è, da un certo momento in poi, al suo fianco nel viaggio verso la libertà della guerra, fiera e convinta della sua scelta. Ma nell’ordine simbolico del romanze, questo orgoglio e questa autodeterminazione hanno la stessa vita breve della protagonista femminile, che muore di una morte femminilmente antica. Nel 1963 esce (postumo) Una questione privata di Beppe Fenoglio; un romanzo che davvero funziona come specchio convesso, una rappresentazione anamorfica, dove l’immagine si altera altrettanto le gerarchie stesse messe in campo dal racconto. In Una questione privata un vita personale è subito in primo piano e la guerra partigiana è sullo sfondo. Il partigiano Milton, della seconda divisione badogliana, costringe un compagno di lotta ad una deviazione pericolosa e a un ancor più pericolosa sosta sul ciglio della strada perché lui, Milton, possa andare a rivedere la casa di Fulvia e rientrare in quella che chiama la loro stanza, rievocando così per tutte le prime pagine del romanzo la conoscenza con la ragazza e il suo innamoramento. Siamo nel novembre del ‘43, nelle Langhe c’è la guerra partigiana e Fulvia è tornata a Torino dai suoi e la vecchia governante s’inserisce nelle memorie di Milton insinuando che la ragazza avesse una storia con un comune amico, Giorgio, al momento a sua volta partigiano. Tutto l’inizio del racconto è dominato dal sentimento individuale di Milton, dalla figura della donna di cui è innamorato e dalla devastazione della gelosia che ha la meglio su ogni stimolo delle realtà. Comincia così l’avventura di Milton alla ricerca di Giorgi per sapere la verità, ricerca che diventa ardua e pericolosa quando scopre che il ragazzo è stato catturato dai fascisti. Ecco quindi che lo spazio, anche mentale, bellico è 10 stato eroso dallo spazio privato. Calvino sostiene che questo è il vero romanzo della resistenza nella misura in cui non c’è nulla di meccanicamente militare e di propagandistico. La resistenza diventa un’epopea perché è una lotta contro il male, non per via di eroismo. Fulvia non è una madre piangente, non è neanche un’infermiera, cioè una figura apparentata alla madre, ma una studentessa appassionata di balli, di tennis e di letteratura. Evidentemente una ragazza pronta a un futuro di donna libera. Qui quando la morte scioglie i fili, diversamente che in Addio alle armi, è l’uomo a soccombere, non la donna. La Storia di Elsa Morante viene pubblicata nel 1974, direttamente in edizione tascabile secondo il desiderio dell’autrice, e con un sottotitolo in copertina assai esplicito: “La Storia, uno scandalo che dura da diecimila anni”. La dedica è tratta da una poesia di César Vallejo che significa: per l'analfabeta al quale scrive, ma anche, per il quale scrivo. Morante non vuole raccontare i disastri della guerra combattuta, ma la guerra come scandalo che altera e degrada tutta la realtà, e che deborda non solo nello spazio, evadendo dai luoghi di battaglia a aggredendo i civili inermi, ma anche nel tempo, investendo con le sue conseguenze letali e durature il dopoguerra. Ogni parte del libro è preceduta, per tutti gli anni in cui si svolge la vicenda (1941-47), da una sorta di schema ricapitolativo degli avvenimenti storici secondo la storia tradizionale che viene smentito o contraddetto dal racconto che segue. Per la donna che parla di guerra, cioè l’autrice, la guerra smette di essere bellica, guerresca: è una profonda devastazione morale che incide la viva carne degli uomini anche quando ne sono lontani. E incide soprattutto la carne dei piccoli, cioè di chi non conta, di chi è forzatamente minore: dunque in particolare incide sulla carne femminile. Qui la protagonista è una donna, una donna umile, una timorosa maestra ebrea che viene violentata per sbaglio da un giovane soldato tedesco destinato come tanti a una rapida morte. Ecco che quelle madri sempre marginali nei racconti di guerra, qui occupano il centro nella figura di Ida Ramundo, la timorosa maestra ebrea che morirà a causa della guerra, uccisa però non dal fuoco nemico ma dal dolore. Nel romanzo della Morante, la guerra non è più solo questione dei combattenti, eroici o antieroici, ma invece affare dei non combattenti. Ciò che cambia nel libro di Elsa Morante è chi ha diritto di parola sulla guerra e chi invece non lo ha più perché ha parlato troppo, chi è davvero al centro della scena e chi non è più interessante che ci sia. Ancora una volta uno specchio convesso che non ha il semplice compito di rispecchiare la realtà ma di riflettere su essa, fornendole una diversa e nuova visione. Nella storia della povera maestra ebrea violentata, dalla sua dolorosa maternità, dal mondo umile e ribelle che la circonda, dalla sua pazzia e morte si condensa la lunga delegittimazione che la guerra subisce nel corso del Novecento. 11 IL TRAMONTO DI PADRE POLEMOS Massimo Cacciari La parola originaria della nostra civiltà, ovvero il padre di tutte le cose, è "Polemos", ovvero il conflitto. Esso è un principio a cui tutti obbediscono per necessità, anche se non lo sanno. Il Principio-Polemos genera distinguendo, ovvero accomuna tutti proprio nel costituirli come differenti. Polemos pone, dunque, il principio della contesa: tutti gli essenti, esistendo, di necessità si oppongono. L'Armonia, pertanto, non è soluzione dei differenti in Unum (unificazione dei differenti), ma si manifesta solo nell'opposizione dei termini che la compongono. Oltre a creare gli essenti, Polemos impone loro anche la Legge, ovvero i confini in base ai quali si oppongono. Tuttavia, supporre un "atto" di originaria violenza nel porre i distinti, comporta la conseguenza che il Nomos (il confine) dettato da Polemos non potrà mai costituire una pace che superi la guerra. Tuttavia, se Polemos si manifesta anche nell'ordine della Legge, ciò comporta che immanente al suo principio vi sia anche la possibilità che esso stesso venga contraddetto: i distinti possono opporsi allo stesso Principio che li costituisce. L'hybris può spingere ad intraprendere la via della guerra all'altro per negarne il differire da sé (passione che conduce l'essente alla rovina ogni volta che vuole occupare il "luogo" destinato a qualcun altro). Il che significa che Polemos non può non essere anche guerra, intesa come guerra a chi muove guerra al suo principio: guerra ingiusta della hybris. Al suo opposto c'è la guerra giusta delle Erinni, condotta in nome di Polemos-Dike-Armonia, che vuole ristabilire sul trono Polemos padre, ma non può concludersi in una Pace-negazione del conflitto, bensì in un'armonia degli opposti, che sta al fondamento della possibilità stessa dell'atto di hybris. (Polemos, dunque, produce differenze che sono necessariamente anche hybris e cioè volontà di superarsi, mirano per natura ad opporsi l'un l'altro, I molti non possono relazionarsi tra loro se non attraversa il dissidio). Abbiamo capito che la hybris è naturale, ma perché si manifesti legittimamente essa deve essere espressione della volontà di potenza dello Stato e solo dello Stato. Dunque, è legittima la guerra tra gli Stati in questa determinata situazione, e la guerra non avviene per decidere chi sia il più giusto, ma, come dice Hegel, per capire chi deve cedere e chi affermarsi. La guerra è dunque legittima tra Stati, ma non all'interno dello Stato: nulla deve opporsi alla propria sovranità territorialmente determinata. Un nemico può essere soltanto un altro Stato. LA GUERRA È GIUSTA, MA SOLO SE NON ATTENTA LA SOVRANITÀ INTERNA: non può distruggere l'auctoritas del proprio stesso fondamento. Ma negli altri casi la guerra è giusta. La guerra è inevitabile, ma deve salvaguardare sempre l'idea della forma di Stato moderna europea. L'obiettivo della guerra è far prevalere quale delle modalità specifiche in cui quell'idea si è declinata sia la migliore. Però la guerra giusta è contraddittoria, perché nascendo con l'intenzione di invadere i confini altrui, infrange il principio di individualità statale. Kant si è reso conto del dolore a cui porta la guerra, anche se giusta, e la condanna. Lo spirito europeo impone di considerare la guerra come un crimine ed esprime la volontà di condurla con mezzi diversi e più efficaci Vuole creare una connessione degli opposti che ne salvaguarda l'identità nell'unione, li unisce senza confondersi. Attraverso la costituzione civile possiamo pervenire la Pace tra gli Stati. La prospettiva di pace si basa su una razionalizzazione della dimensione politica. Ogni dissidio può e deve essere superato dialogicamente affinché ogni risorsa possa essere messa a disposizione dello sviluppo tecnico-scientifico e, di conseguenza, al benessere di tutti. Il conflitto deve essere razionalizzabile fino al punto di cessare di essere tale. Si utilizza per fare questo il CONTRATTO per risolvere i dissidi. La LEX MERCANTORIA andrebbe così a 12
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