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Sez.V - Cap.VIII - Del Punta, Sintesi del corso di Diritto del Lavoro

riassunto Sez.V - Cap.VIII - Del Punta 2017

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 18/03/2019

chiaragiuri
chiaragiuri 🇮🇹

4.5

(11)

35 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Sez.V - Cap.VIII - Del Punta e più Sintesi del corso in PDF di Diritto del Lavoro solo su Docsity! Capitolo VIII LA TUTELA DELLA PERSONA SUL LAVORO 1. L’obbligo di sicurezza Al di là della protezione spettante ai lavoratori che si ammalano e si infortunano per fattori esterni, i numerosi fattori di rischio presenti sul posto di lavoro rendono altamente possibile che una malattia o un infortunio trovino causa (o concausa) nell’ambiente di lavoro. Ancor prima della tutela successiva al verificarsi dell’evento lesivo quindi, l'esigenza primaria è quella di prevenire tali eventi. A tale finalità è rivolto l’art.2087 c.c. secondo il quale: “il datore di lavoro è tenuto ad adottare tutte le misure che secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro” Tale articolo dunque stabilisce a carico del datore un “obbligo di sicurezza” inserito nel contesto obbligatorio del contratto di lavoro subordinato ed al quale non può che corrispondere un diritto soggettivo da parte del lavoratore. Ne discende che l’omessa o incompleta adozione delle misure di sicurezza dovute ingenera, in capo al datore, una responsabilità di natura contrattuale. Tuttavia, essendo che il diritto alla salute ha una valenza assoluta che va al di là del contratto di lavoro, la lesione di esso ingenera inoltre una responsabilità extracontrattuale parimenti invocabile dal lavoratore. L'obbligo di sicurezza a sua volta necessita di una forte “specificazione tecnica” al fine di far emergere le concrete misura di prevenzione che, nei diversi lavori e contesti, l’imprenditore deve considerarsi tenuto ad adottare in quanto necessarie a proteggere l’integrità fisica del lavoratore. Tale specificazione tecnica è stata operata da due storici regolamenti del 1955-1956 e da una serie di normative che hanno dato vita ad un ricco corpus di regole tecniche oggi contenute nel Testo Unico della Sicurezza. Ma l’obbligo ex art.2087 c.c. è stato capace di proiettarsi al di là del rispetto scrupoloso delle regole tecniche previste: la giurisprudenza ha infatti interpretato il contenuto di tale obbligo alla luce del criterio della “massima sicurezza tecnologicamente fattibile” in virtù del quale l’imprenditore non può ritenersi adempiente ad esso semplicemente ottemperando alle regole tecniche dettate per una certa attività o lavorazione essendo tenuto ad adottare misure ulteriori rispetto a tali prescrizioni tecniche qualora esse risultino necessarie, secondo gli standard tecnici più aggiornati, per garantire ai lavoratori condizioni di piena sicurezza. Tale carattere ampio ed aperto dell’obbligo di sicurezza rende, nella pratica, molto difficoltoso al datore di lavoro provare la non imputabilità del mancato adempimento nel caso in cui l’obbligo di garantire la massima sicurezza tecnologicamente fattibile finisce con il comportare anche il dovere di prevedere e prevenire tutte le possibili anomalie dell’organizzazione sindacale, anche se dovute ad errori umani. Spesso ad es. la giurisprudenza addossa all’imprenditore la responsabilità di un infortunio sul lavoro per non aver vigilato a sufficienza affinché esso non si producesse (culpa in vigilando), o per non aver scelto collaboratori capaci, all’atto pratico, di impedirlo (culpa in eligendo). L’unico limite alla responsabilità dell’imprenditore finisce così con l’essere ravvisato nell’ipotesi in cui l’infortunio sia verificato come conseguenza di un rischio elettivo cioè a causa di un abnorme ed imprevedibile imprudenza del lavoratore al di fuori di qualsiasi possibilità di controllo del datore (es. volontaria disattivazione dei dispositivi di sicurezza o di rifiuto di usarli). Su queste basi, nonostante la giurisprudenza sia ferma nel negarlo, la responsabilità ex art.2087 c.c. tende a divenire di fatto una responsabilità di natura oggettiva, e quindi imputabile a prescindere da una concreta colpa del datore di lavoro. Ne deriva il corollario di una tendenziale incertezza in merito alle misure di prevenzione da adottare che è molto preoccupante in quanto le violazioni dell’obbligo di sicurezza sono produttive di una responsabilità non solo civile (ex art.2087) ma anche penale. Tuttavia è da dire che vi è una certa indeterminatezza delle ipotesi di responsabilità penale e ciò non è in linea con il principio di legalità (nullum crimen sine legge) che caratterizza il diritto penale. 2. Il sistema della sicurezza sul lavoro Una normativa così congegnata puntava tutto sull’efficacia dissuasiva della sanzione penale ma era carente dal punto di vista dell’organizzazione concreta della prevenzione in azienda. L’esigenza di modernizzazione della disciplina giunse a condensarsi nella direttiva CE n.89/391 del 12 maggio 1989 contenente misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro cui ha fatto seguito una serie di direttive minori e particolari dal cui processo di attuazione in Italia è derivata l’emanazione del d.lgs.626/1994 al quale si deve l’inaugurazione di una nuova era nella gestione della sicurezza in azienda, anche se, in realtà, ad essa non sono seguiti tutti i risultati sperati (il numero di infortuni, anche mortali, è ancora molto alto, e tra l’altro, vi sono molte aree di inosservanza). La ricerca di ulteriori miglioramenti, ha in seguito portato all’emanazione del d.lgs.81/2008 (corretto in varie occasioni) noto come Testo Unico sulla Sicurezza. 2.1. L’ambito di applicazione del TU sicurezza (d.lgs. 81/2008) Il TU sulla sicurezza ha innanzitutto un ambito soggettivo di applicazione molto ampio che travalica i confini tradizionali del diritto del lavoro . - Dal lato del lavoratore si applica non solo al lavoratore subordinato ma a qualunque persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge un' attività lavorativa nell'ambito dell'organizzazione di un datore di lavoro, pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un'arte o una professione, esclusi gli addetti ai servizi domestici e familiari. Vi sono assoggettati inoltre il collaboratore coordinato e continuativo, ove il lavoro si svolga nei luoghi di lavoro del committente; il socio lavoratore di cooperativa di produzione e lavoro o di società, il lavoratore in tirocinio formativo e di orientamento. Ne è escluso invece il lavoratore domestico. - Dal lato del datore di lavoro: il datore come sappiamo è terminale ultimo dei vari obblighi di sicurezza. Ai fini della normativa in esame, datore di lavoro non è soltanto il titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore ma, più ampiamente, “il soggetto che, secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva, in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa” ed ha quindi il potere di incidere sull’assetto della sicurezza. Nelle imprese private a struttura societaria possono essere datori di lavoro tutti i componenti del Consiglio di amministrazione a meno che le competenze in materia si concentrino su un solo amministratore. Nelle P.A. per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, oppure il funzionario non dirigente nei soli casi in cui il funzionario sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale. Il tutto purché tali figure siano dotati di autonomi poteri decisionali e di spesa. E’ previsto tuttavia che il datore di lavoro possa delegare ad altro dipendente le proprie funzioni in materia di sicurezza sul lavoro. La delega è possibile a condizione che: 1. risulti da atto scritto; 2. il delegato possegga tutti i requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla natura delle funzioni delegate e gli siano attribuiti tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo necessari e l’autonomia di spesa; 3. la delega sia accettata per iscritto dal delegato che a seguito di tale accettazione è responsabile penalmente nel caso si renda inadempiente degli obblighi che gli sono stati delegati. Non possono essere delegate: 1. la valutazione dei rischi e l’elaborazione del relativo documento; 2. la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi. 2.2 Gli obblighi di sicurezza Il TU conferma idealmente, al vertice del sistema, l’obbligo di sicurezza dell’art.2087 c.c., letto alla luce dello standard della “massima sicurezza tecnologicamente fattibile”, ma lo fa esplodere in una serie molto dettagliata e diversificata di obblighi imputati ai cari soggetti. Sono dettate: “misure generali di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro”: • la valutazione di tutti i rischi per la salute e sicurezza; • la programmazione della prevenzione; • l’eliminazione o la loro riduzione al minimo in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico • il rispetto dei principi economici nell’organizzazione del lavoro; • la riduzione dei rischi alla fonte; • la sostituzione di ciò che è pericoloso con ciò che non lo è, o che è meno pericoloso; • la limitazione al minimo del numero dei lavoratori esposti al rischio; • l’utilizzo limitato degli agenti chimici, fisici, biologici sui luoghi di lavoro; • il controllo sanitario dei lavoratori; • l’informazione e la formazione dei lavoratori, dirigenti e preposti; • la partecipazione e consultazione dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza Però al contempo il lavoratore può essere sollecitato a farsi parte attiva della gestione della sicurezza, in quanto abbia il patrimonio di conoscenze necessario a tal fine. Da qui la previsione, a favore dei lavoratori, del “diritto a ricevere un informazione (sui rischi dell’attività d’impresa e sulle misure di prevenzione adottate) e una formazione (sui concetti di base del sistema di sicurezza e sui rischi e le misure di prevenzione) adeguate”. Percorsi speciali di formazione sono previsti per i dirigenti e i preposti, per i lavoratori impegnati nel primo soccorso e nella prevenzione di incendi, e per il RLS. Inoltre, sulla premessa che le situazioni di lavoro in nero ingenerano pericoli aggiuntivi per la sicurezza, in caso di gravi e reiterate violazioni delle norme in tema di riposi e di altre norme poste a tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, e in caso di presenza di una percentuali di lavoratori in nero pari o superiore al 20% del totale degli occupati, gli organi di vigilanza possono disporre la sospensione dell’attività di impresa e l’interdizione alla partecipazione ad appalti pubblici. 3. La responsabilità del datore di lavoro e l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali Nonostante le varie misure predisposte dal “TU Sicurezza”, accade fin troppo di frequente che si verifichino eventi lesivi della salute e della sicurezza del lavoratore. L’omessa o incompleta adozione delle misure di sicurezza dovute ingenera, in capo al datore, una responsabilità di natura contrattuale. Tuttavia, poiché il diritto alla salute ha una valenza assoluta che eccede la dimensione del contratto, la lesione di essa dà luogo anche ad una responsabilità extracontrattuale, ex art. 2043 c.c.. Tra le due forme quella contrattuale esprime meglio la necessità di una tutela preventiva e comporta per il lavoratore un regime più favorevole di onere della prova: in quanto creditore di sicurezza il lavoratore deve infatti allegare e provare, ex art.1218, soltanto l’inadempimento posto in essere dal datore di lavoro debitore, il quale può liberarsi da responsabilità solo provando che l’asserito inadempimento è stato determinato da una causa non imputabile che ha reso impossibile la prestazione avente ad oggetto la protezione della sicurezza. L’azione di responsabilità promossa dal lavoratore è volta a rivendicare il risarcimento del danno biologico patito quale conseguenza dell’inadempimento posto in essere dal datore. Tale azione si inserisce però in un sistema che prevede che ciascun lavoratore “a rischio” sia obbligatoriamente assicurato, con premio a carico del datore di lavoro, presso l’INAIL, ente gestore dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. L’INAIL corrisponde al lavoratore, infortunato o colpito da malattia professionale, anzitutto un’indennità per “inabilità temporanea” tale da compensare in buona parte la retribuzione perduta nel periodo in cui egli è impossibilitato a lavorare; se poi l’infortunio o la malattia professionale abbia provocato un’ “inabilità permanente”, che può essere parziale o totale, il lavoratore ha titolo ad una rendita non sottoposta a limiti temporali ed anche essa commisurata al trattamento retributivo goduto. La prestazione economica erogata dall’INAIL compre inoltre il ristoro del danno biologico permanente patito dal lavoratore, purché l’invalidità che ne è derivata sia superiore all’8%. Trattandosi di una forma assicurativa, l’erogazione delle prestazioni da parte dell’INAIL prescinde dall’accertamento di una responsabilità civile del datore nella determinazione dell’evento assicurato. Qualora sia accertata la responsabilità penale del datore, o dei suoi preposti o dipendenti, risorge pure, nonostante l’assicurazione, la responsabilità civile del datore che può essere fatta valere su due piani: • da parte del lavoratore come azione di responsabilità rivolta a rivendicare il risarcimento dei danni non coperti dal meccanismo assicurativo, e cioè i danni cd. complementari (danno morale ed esistenziale) nonché, per quanto riguarda il danno biologico, il cd. danno differenziale, cioè quello eccedente l’importo erogato o erogabile dall’INAIL; • da parte dell’INAIL come azione di regresso finalizzata a richiedere al datore il rimborso delle somme corrispondenti alle prestazioni economiche erogate al lavoratore durante il periodo di inabilità lavorativa. 4. Il Mobbing art. 2087 c.c. “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Tale espressione, reinterpretata dalla giurisprudenza recente, è stata impiegata dagli interpreti per affermare principi di tutela della dignità del lavoratore di fronte a fenomeni come il mobbing e le molestie sessuali sul lavoro. La parola mobbing deriva dall'inglese “to mob” e sta a indicare il comportamento di certi branchi di animali che emarginano un componente mettendolo in una situazione di disagio e sofferenza. Il termine è stato esteso, dalla sociologia del lavoro, al comportamento dell’uomo per designare quegli atti o quelle strategie vessatorie o di persecuzione psicologica che, o il datore di lavoro oppure i colleghi di lavoro, pongono in essere nei confronti di un lavoratore. La vicenda del mobbing è sociologicamente singolare: una parola di derivazione non giuridica, è servita da concetto attrattivo di una serie di comportamenti che potevano già essere qualificati illeciti in quanto lesivi della dignità del lavoratore ai quali però il concetto di mobbing è servito a conferire unità giuridica. In tal modo si è dato voce a situazioni di disagio sino ad allora confinate nel sottosuolo. Tuttavia l’alone di indeterminatezza proprio del termine, ha spinto la giurisprudenza e la dottrina ad interrogarsi sul suo reale significato. Ebbene, la nozione cui la giurisprudenza è sin qui pervenuta, proprio partendo dal concetto di atti lesivi della personalità morale del lavoratore ex art.2087 cc., è quella per cui si ha mobbing quando sono poste in essere a danno di un lavoratore, con sistematicità o con reiterazione per un certo periodo di tempo (orientativamente di almeno 6 mesi), atti vessatori o persecutori tali da dar corpo ad una vera e propria strategia di emarginazione. Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere: 1. comportamenti di carattere persecutorio con intento vessatorio posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo; 2. l’evento lesivo della salute, della personalità o dignità del dipendente; 3. il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima; 4. l’elemento soggettivo, ovvero l’intento persecutorio unificante tutti i comportamenti lesivi. Tali atti vessatori o persecutori , possono essere messi in atto: • dai colleghi di lavoro (mobbing orizzontale) • dai superiori gerarchici del lavoratore o direttamente dal datore di lavoro (mobbing verticale). Concentrandosi su questa seconda ipotesi di mobbing (verticale), esso può consistere: - in atti neutri (es. ritiro del telefono cellulare) che uniti ad altri denuncino una volontà vessatoria nei confronti del dipendente; - in atti di per sé legittimi (es.richieste di più visite mediche fiscali entro il periodo di prognosi certificato dal medico di fiducia del lavoratore) la cui reiterazione sia reputata indizio di una volontà punitiva; - in atti già illegittimi alla luce delle regole della disciplina del contratto di lavoro es.uno o più provvedimenti disciplinari, un trasferimento o un demansionamento non aventi i requisiti di legge. Tali atti già illegittimi oltre a dar luogo ad un autonoma illegittimità possono quindi concorrere a realizzare, ove unificati da una finalizzazione vessatoria, quell’illecito aggravato nel quale si sostanzia il mobbing. Comunque in caso di illecito mobbing accertato il lavoratore ha diritto al risarcimento dei danni da parte del datore, per violazione dell’art.2087 c.c., e quindi per responsabilità contrattuale, diretta nel caso di mobbing verticale, o indiretta (per omessa vigilanza) nel caso di mobbing orizzontale. Tali danni potranno essere di varia natura in quanto il mobbing, come qualsiasi altro illecito, può essere produttivo di una pluralità di danni: biologici, esistenziali o comunque derivanti dalla lesione di un bene costituzionalmente protetto come la dignità della persona. 5. Le Molestie Sessuali Sul Lavoro Esse sono connesse al fenomeno del mobbing. Può trattarsi di molestie favorite dalle relazioni gerarchiche che intercorrono nell’ambiente di lavoro oppure di semplici molestie fra colleghi. Dopo che la giurisprudenza aveva ricondotto tale fenomeno, come il mobbing, all’art. 2087 c.c. esso è stato preso in considerazione dalla legge quantomeno a livello definitorio: infatti l’art.26 co.2 del d.lgs. 198/2006 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna) ha così definito il concetto di molestia sessuale: “sono inoltre considerate discriminazioni, le molestie sessuali oppure quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità del lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”. Tale nozione si incentra sul carattere “indesiderato” dell’atto a sfondo sessuale: è quindi sovrana, almeno sulla carta, la “rappresentazione soggettiva della vittima”. La norma è l’esito finale della tendenza dell’ordinamento di trascinare il concetto di molestia nell’ambito degli atti discriminatori. Questo ha suscitato, in alcuni, perplessità in quanto non pare vi sia bisogno, per qualificare come illecite le molestie, di considerare quest’ultime come discriminazioni essendo sufficiente che esse realizzino (come di fatto fanno) un offesa a beni meritevoli di tutela. Resta fermo che, se alla molestia si accompagnano ulteriori discriminazioni, si verifica un concorso di illeciti, come prefigurato dall’art.26 co.2 bis, ove stabilisce che: “sono, altresì, considerati come discriminazione i trattamenti meno favorevoli subiti da una lavoratrice o da un lavoratore per il fatto di essersi sottratto o sottomesso a molestie sessuali”. Ma oltre a ragioni di tipo culturale al fondo della tendenza in discorso vi è il proposito di estendere alla molestia sessuale il regime di parziale inversione dell’onere della prova apprestato per le discriminazioni dall’art.40 del d.lgs.198/2006 (prova a carico del presunto autore della molestia). La vittima può richiedere al giudice il risarcimento del danno, anche non patrimoniale, collegato alla lesione della dignità e della libertà sessuale. Se dalla condotta molesta sono derivate ripercussioni sullo stato di salute è inoltre risarcibile il danno biologico. L’art.26 co.3 poi stabilisce inoltre che: “gli atti i patti o provvedimenti concernenti il rapporto di lavoro dei molestati sono nulli se adottati in conseguenza del rifiuto o della sottomissione ai comportamenti medesimi”. Il datore di lavoro può essere chiamato, come nel mobbing, a rispondere indirettamente (per omessa vigilanza) delle molestie subite dalla vittima ad opera dei colleghi qualora non abbia fatto ciò che era ragionevolmente necessario e possibile per prevenirle. Tuttavia per misurare il tipo di “vigilanza preventiva” cui il datore di lavoro è tenuto si deve tenere conto che egli non ha il diritto di ingerirsi in modo paternalistico nella sfera delle relazioni private dei dipendenti ma deve intervenire con decisione, per converso, solo nei casi in cui si profilino situazioni moleste. Uno strumento utile è l’istituzione di un “consigliere di fiducia” cui le vittime di moleste possono rivolgersi, anche in modo riservato, per avere sostegni e consigli sul come affrontare al meglio la situazione sgradevole e indesiderata. 

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