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sindrome di angelman e famiglia, Appunti di Psicopatologia

la famiglia affronta la disabilità di un figlio

Tipologia: Appunti

2020/2021

Caricato il 07/02/2021

psicke
psicke 🇮🇹

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Scarica sindrome di angelman e famiglia e più Appunti in PDF di Psicopatologia solo su Docsity! L’ IMPATTO DELLA DISABILITÀ SULLA FAMIGLIA Barbara Celani Abstract: Che cosa accade nell’esistenza reale di una famiglia quando nasce un bambino con disabilità? La famiglia deve essere considerata come protagonista del processo di adattamento, come fonte di risorse attivabili, come soggetto a pieno titolo del procedimento terapeutico. [fine abstract] Premessa Qualsiasi nucleo familiare, nel corso della sua evoluzione, si trova ad affrontare eventi e compiti che richiedono un più o meno vasto processo di riorganizzazione. Le famiglie differiscono tra loro per le modalità con cui fronteggiano tali compiti evolutivi e anche il singolo nucleo, in questo percorso, non rimane uguale a se stesso (Zanobini, 1998). La nascita di un bambino non vedente, o con altro tipo di disabilità, rappresenta un evento potenzialmente disadattivo per la maggior parte delle famiglie. Avere un figlio con problemi che ne possano influenzare lo sviluppo rappresenta una delle esperienze più complesse da affrontare per i genitori. Le modalità con cui la famiglia affronta questo evento, che provoca sicuramente stress, influiranno notevolmente sullo sviluppo futuro del bambino e della famiglia stessa. La famiglia deve quindi essere considerata come protagonista di un processo di adattamento oltre che come vittima di una situazione stressante e ciò è fondamentale per immetterla a pieno titolo nel processo terapeutico, per considerare l’aspetto delle risorse attivabili anziché quello dell’handicap (Dall’Aglio, 1994; Zanobini, 1998). L’arrivo di un bambino non vedente Che cosa accade nell’esistenza reale di una famiglia quando nasce un bambino con disabilità? Le modalità con cui la diagnosi viene comunicata ha un peso notevole sull’impatto che questa avrà sui genitori. A questo proposito, risultano di primaria importanza la chiarezza e la gradualità (Harris, 1987; Pain, 1999), le quali probabilmente non impediranno la sofferenza, 1 ma possono coadiuvare una reazione di tipo costruttivo, attivo, anziché di rassegnazione (Zanobini, Manetti, Usai, 2002). È importante anche l’informazione fornita durante la comunicazione della diagnosi. Hasnat e Graves (2000), hanno riscontrato in un loro studio, che i genitori che ritenevano di aver ricevuto, al momento della diagnosi, una grande quantità di informazioni, erano più soddisfatti di coloro che trovavano le informazione fornite semplicemente sufficienti. Da una ricerca svolta da Zanobini, Manetti e Usai (2002), su un campione di 91 famiglie con almeno un figlio disabile (certificato ai sensi della legge 104/92) del comune di Genova, è emerso che circa il 25% delle persone intervistate riporta elementi di insoddisfazione rispetto al momento della diagnosi, spesso perché le spiegazioni sono state insufficienti o addirittura assenti. Non mancano anche denunce di incompetenza e di durezza dei medici o degli operatori. Questi fattori, indicativi di modalità di comunicare la diagnosi vissute come poco partecipative, potrebbero aggravare anziché mediare l’intensità negativa dell’impatto. Tale impatto, naturalmente, varia a seconda della gravità e della tipologia della menomazione (Myers, 1990), oltre che in relazione alla situazione personale, familiare e sociale dei genitori. Il momento in cui viene data la diagnosi ed il successivo periodo di adattamento della famiglia restano determinanti per avviare una relazione con il bambino e con gli operatori che forniranno un sostegno terapeutico. È necessario che i genitori abbiano gli elementi che permettano loro di capire il bambino, di rendersi conto dei suoi bisogni e di immaginarsi il futuro senza troppe ansie e incertezze. Ferri (1996) ha condotto una ricerca su 160 casi di persone con Sindrome di Down e le rispettive famiglie di Roma e provincia, nel periodo dal settembre 1989 - ottobre 1990. Anche se relativa ad tipo di disabilità diverso dalla cecità, tale ricerca risulta interessante ai fini di una disamina di alcuni aspetti che riguardano l’impatto della disabilità in una famiglia. In questo lavoro si definisce adeguata la notizia comunicata ad entrambi i genitori entro i primi tre giorni, concedendo un tempo sufficiente per poter parlare e sottolineando gli aspetti positivi del bambino, piuttosto che limitazioni (come verrà detto successivamente, nel caso specifico della cecità, è molto difficile che la diagnosi possa avvenire entro i primi tre giorni). 2 minorazione, risulta poco espressivo, non la guarda, non mostra euforia al sua avvicinarsi (Mazzeo, 1998). È anche possibile che i genitori rifiutino il bambino, lo trascurino, o non si preoccupino del deficit. Altra possibile reazione è l’iperprotezione: la madre vive e fa vivere il figlio in un’atmosfera di continuo timore che sfocia in isolamento, poiché vengono evitati i contatti con i coetanei nel timore che gli facciano male, non viene data al bambino l’opportunità di esplorare oggetti, di provare nuove esperienze, di sviluppare l’autonomia in aree quali il nutrimento, l’igiene personale, la scoperta dell’ambiente. Tale atteggiamento deve essere necessariamente ridimensionato per evitare che il bambino cieco col crescere dell’età, provi un senso di rigetto, di rifiuto, che lo porterebbe a rinchiudersi sempre più in sé stesso, accentuando maggiormente le sue limitazioni (Monti Civelli, 1983). Viceversa, potrebbe instaurarsi una tacita complicità tra genitori e figlio: il figlio potrebbe facilmente “adagiarsi” alla situazione di iperprotezione e ciò potrebbe creare una eccessiva dipendenza e una riluttanza da parte del bambino ad abbandonare la posizione di passività. Infine, spesso il genitore lotta con la paura o la certezza che il bambino non cresca come dovrebbe. Ciò lo può portare a spingere e sollecitare il bambino prima che sia pronto, ad esagerare il confronto con gli altri, a non tener conto delle caratteristiche e dei ritmi personali, a sottolineare troppo le mancanze, i ritardi, anziché le conquiste, le acquisizioni, le capacità (Chiarelli, 2002). Sembra che i sentimenti e le reazioni dei genitori alla nascita di un bambino diverso dall’attesa siano simili in tutti i contesti sociali e culturali (Polletta, 1986) e siano in qualche modo indipendenti dai caratteri fisiognomici della disabilità, come se il trauma fosse così forte, improvviso, da superare ed annullare le differenze individuali e transculturali (Ferri, 1996). Riferimenti bibliografici Celani, B. (2004). Il bambino non vedente: la famiglia, lo sviluppo, l’integrazione scolastica. Tesi di Laurea, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. Chiarelli, R. (2002). Il bambino disabile visivo con minorazioni aggiuntive e il suo contesto familiare. Tiflologia per l’Integrazione, 12 (4), 6-11. 5 Coppa, M. M. (1997). Le minorazioni visive. Aspetti psicologici e processi di intervento con il bambino minorato della vista. Roma: Editrice Tecnoscuola. Dall’Aglio, E. (1994). Handicap e famiglia. In Handicap e Collasso Familiare. Quaderni di Psicoterapia Infantile, 29. Roma: Borla. Dawin, J., et al. (1991). Una vita possibile. Torino: Sei. Dell’Osbel, G., Veglia, F. (2001). Handicap e attaccamento. Tiflologia per l’Integrazione, 11 (4), 32-38. Di Cagno, L., Gandione, M., Massaglia, P. (1992). Il contenimento delle angosce come momento terapeutico. In: Fava Vizziello G., Stern, D.N., (a cura di). Dalle cure materne all’interpretazione. Milano: Raffaello Cortina. Ferri, R. (1996). Il bambino con sindrome Down. Tecniche di intervento nei primi anni. Roma: Il Pensiero Scientifico. Harris, S. L., Boyle, Th. D., Fong, P., Gill, M.J., Stanger, C. (1987). Family of developmentally disabled children. In: Wolraich M., Routh D.K. (a cura di). Advances in Developmental and Behavioral Pediatrics. London: JAI Press. Hasnat, M. J., Graves, P. (2000). Disclosure of developmental disabilitiy: a study of parent satisfaction and the determinants of satisfaction. Journal of Pedriatic Child Health, 36. Mazzeo, M. (1998). Significato e funzione del profilo dinamico-funzionale e del piano educativo individualizzato nel processo di integrazione scolastica degli alunni disabili visivi. Tiflologia per l’Integrazione, 9 (1), 8-12. Monti Civelli, E. (1983). La socializzazione del bambino non vedente. Milano: Franco Angeli. Myers, B. A. (1990). Coping with developmental disabilities. In: Developmental Disabilities in Infancy and Childhood. Baltimore. Pain, H. (1999). Coping with a child with disabilities from the parents’ perspective: the function of information. Child: Care, Health and Development, 25 (4). Perez-Pereira, M, Conti-Ramsden, G. (2002). Sviluppo del linguaggio e dell’interazione sociale nei bambini ciechi. Azzano S. Paolo (BG): Edizioni Junior. Polletta, G. (1986). L’Apocalisse del mondo per i genitori del bambino “anormale”. Relazione non pubblicata. Zanobini, M., Usai M. (1998). Psicologia dell’ handicap e della riabilitazione. Milano: Franco Angeli. Zanobini, M., Manetti, M., Usai, M. (2002). La famiglia di fronte alla disabilità. Trento: Erickson. 6 Barbara Celani dott.ssa in Psicologia Clinica e di Comunità 7
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