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Sintesi Atkinson & Hilgard's, Introduzione alla Psicologia, Sintesi del corso di Psicologia Generale

Riassunto integrato con slide del corso dei capp. 1-4-5-7-8-9-11-12

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

In vendita dal 02/07/2024

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Scarica Sintesi Atkinson & Hilgard's, Introduzione alla Psicologia e più Sintesi del corso in PDF di Psicologia Generale solo su Docsity! Introduzione alla psicologia Capitolo 1 – Natura della psicologia Legge dell’effetto: l’effetto che ha un nostro comportamento influenza il comportamento a seguire. Effetto di ipergiustificazione: giustificare il proprio comportamento in base a fattori estrinseci e cause situazionali anziché in base a motivazioni intrinseche. Errore fondamentale di attribuzione: ritenere che le azioni degli altri siano legate a fattori personali, intimi, intriseci degli individui anziché da cause situazionali. La psicologia ha un impatto sulle leggi e sulla politica sociale (es. la macchina della verità non è più considerata una prova ammissibile dalle corti statunitensi grazie agli studi nel campo della psicologia) e può essere definita come lo studio scientifico del comportamento e dei processi mentali. Si occupa di fenomeni come la localizzazione delle funzioni psicologiche nelle aree cerebrali, i giudizi sociali, la memoria, le cause dell’obesità e della violenza ecc. ORIGINI STORICHE DELLA PSICOLOGIA Socrate, Aristotele e Platone nel campo della filosofia, Ippocrate nel campo della fisiologia, si sono interrogati già migliaia di anni fa sulle stesse questioni che oggi interessano la psicologia. Il dibattito natura-ambiente Prospettiva naturalista: gli esseri umani vengono al mondo con un patrimonio innato di conoscenza e comprensione della realtà. Cartesio, XVII secolo. Prospettiva esperienziale: la conoscenza si acquisisce attraverso le esperienze e le interazioni con il mondo. John Locke, XVII secolo: mente umana come una tabula rasa alla nascita, in cui l’esperienza scrive la conoscenza e la comprensione, lungo la maturazione dell’individuo. -> Prospettiva associazionista: gli psicologi associazionisti negavano l’esistenza di capacità o idee innate e affermavano che la mente si riempie di idee che entrano attraverso i canali sensoriali e quindi si associano tramite principi come la somiglianza e il contrasto. L’attuale ricerca sulla memoria e l’apprendimento è correlata alla prima teoria associazionista. La questione attuale, tuttavia, non è decidere se alla base della psicologia umana ci sia la natura o l’ambiente, ma scoprire come la natura e l’ambiente si combinino, dando forma all’assetto psicologico individuale. Gli inizi della psicologia scientifica Wilhelm Wundt: fondazione del primo laboratorio di psicologia presso l’Università di Lipsia, in Germania, nel 1879, per applicare il metodo scientifico alla mente e al comportamento (in particolar modo alla percezione sensoriale, soprattutto visiva), così come era stato applicato ai pianeti e alle sostanze chimiche e organiche. Introspezione: osservazione e registrazione della natura di percezioni, pensieri e sentimenti propri di un individuo, di fronte alla variazione di stimoli indotti. “Cosa pensi? Cosa vedi?”: verbalizzazione della psiche. La fiducia nel metodo introspettivo si è poi rivelata malriposta. Brentano: antagonista di Wundt, sostiene che lo studio della psicologia non possa essere ridotto alla fisiologia sottostante. Fechner: scrive la legge di Weber-Fechner per le sensazioni basandosi sulla legge proposta da Weber. Alcuni considerano lui il vero padre della psicologia moderna. Donders: introduce la misura dei tempi di reazione (TR) e la cronometria mentale, uno dei primi metodi “oggettivi” per studiare i processi mentali. Hermann Ludwig Ferdinand von Helmholtz: studia in particolar modo udito e vista e propone dei modelli per il funzionamento di entrambi questi sensi percettivi. Galton: studia le differenze individuali ed è tra i primi a credere nell’intelligenza correlata con le capacità percettive e cognitive. È inoltre sostenitore dell’ereditarietà dell’intelligenza. Ebbinghaus: studia la memoria utilizzando sillabe senza senso e scopre la curva dell’oblio. James: ispiratore di molte correnti psicologiche, tra cui funzionalismo e cognitivismo, ha una grossa influenza nella psicologia americana. Strutturalismo e funzionalismo (fine XIX secolo) Psicologia come scienza dell’esperienza conscia. quando si ha un insight si ha una improvvisa ristrutturazione del campo che porta a percepire un evento in modo differente. Psicoanalisi (Sigmund Freud, a cavallo tra XIX e XX secolo) Al centro della teoria freudiana c’è il concetto di inconscio: i pensieri, gli atteggiamenti, gli impulsi, i desideri, le motivazioni e le emozioni di cui siamo inconsapevoli. I desideri infantili inaccettabili vengono espulsi dalla consapevolezza conscia e relegati nell’inconscio, dove continuano a influenzare i pensieri, i sentimenti e le azioni. Terapia -> metodo delle associazioni libere: il paziente è istruito a dire qualsiasi cosa gli venga in mente, come modo per rendere consapevoli i desideri inconsci. L’analisi dei sogni serviva allo stesso scopo. Nella teoria freudiana classica, la motivazione dietro i desideri inconsci implicava quasi sempre il sesso o l’aggressività. Gli psicologi attuali non condividono completamente tale teoria, ma accettano l’idea che i pensieri, gli obiettivi e le motivazioni individuali possano operare al di fuori della consapevolezza conscia. Successivi sviluppi della psicologa del XX secolo Anni ’50 -> teoria dell’elaborazione delle informazioni: l’essere umano è considerato e studiato come un elaboratore di informazioni. Herbert Simon et al.: simulare al computer i fenomeni psicologici. Si può pensare che la memoria funzioni in modo analogo a quello in cui il computer immagazzina e recupera le informazioni (RAM -> hard disk = memoria di lavoro -> memoria a lungo termine). Anni ‘50 -> sviluppo della linguistica moderna - > Noam Chomsky - > sviluppo della psicolinguistica. Le scoperte sul cervello e sul sistema nervoso rivelano le chiare relazioni tra gli eventi neurologici e i processi mentali. Roger Sperry, 1987: premio Nobel per aver dimostrato i collegamenti tra specifiche regioni cerebrali e particolari processi cognitivi e comportamentali -> Neuropsicologia. Rivoluzione cognitiva (1967): enfasi sull’analisi scientifica delle strutture e dei processi mentali. Il cognitivismo si occupa di ciò che è tra stimolo e risposta (percezione, attenzione, memoria, ragionamento, linguaggio e pensiero). Il metodo d’indagine d’elezione sono i tempi di reazione. Nasce come prosecuzione del comportamentismo e spesso fa riferimento a modelli, come l’analogia mente-software, diagrammi di flusso che rappresentano i diversi stadi di elaborazione dell’informazione, modelli a rete neurale (che viene “allenata” attraverso stimoli di input e correzioni di output attraverso feedback), modelli connessionisti ecc. Oggi la mente e il corpo vengono studiati insieme: le funzioni investigate sono le stesse ma i modelli devono essere compatibili con ciò che è nel cervello, mentre prima non ci si curava molto che il modello corrispondesse davvero alla realtà, l’importante era che funzionasse in sé e per sé. Nuova rivoluzione nel campo delle scienze affettive: enfasi sullo studio scientifico delle emozioni. Quindi, dopo il rifiuto dell’esperienza conscia e la scelta di studiare il comportamento osservabile, manifesto, gli psicologi propongono di nuovo teorie sugli aspetti impliciti della mente. ORIENTAMENTI MODERNI DELLA PSICOLOGIA La comprensione di molti argomenti psicologici richiede un approccio eclettico, in grado di spaziare su prospettive multiple. Tuttavia, è possibile individuare cinque orientamenti nella moderna psicologia, anche se questi non si escludono necessariamente a vicenda. Prospettiva biologica: relazione tra comportamento manifesto ed eventi elettrici e chimici nel corpo, dunque i processi neurobiologici che sono alla base del comportamento e dei processi mentali. Prospettiva comportamentale: stimoli e risposte osservabili; considera quasi tutti i comportamenti come risultato di condizionamento o rinforzo. Storicamente, non considera i processi mentali. Prospettiva cognitiva: studio dei processi mentali (percepire, ricordare, ragionare, decidere e risolvere problemi). Non si basa sull’introspezione, ma assume che solo studiando i processi mentali possiamo capire pienamente come agisce l’organismo e che è possibile studiare i processi mentali in modo obiettivo, osservando specifici comportamenti, ma interpretandoli sulla base dei processi mentali ad essi sottesi. Prospettiva psicoanalitica: il comportamento ha le sue radici nei processi inconsci (credenze, paure e desideri di cui una persona è ignara, ma che ugualmente influenzano il comportamento). Molti degli impulsi proibiti o puniti dai genitori o dalla società, durante l’infanzia, derivano da istinti innati ed esercitano un’influenza pervasiva, che deve essere gestita. La loro proibizione serve soltanto a spingerli fuori dalla consapevolezza, e si possono manifestare come problemi emotivi, sintomi di malattia mentale, o anche comportamenti socialmente approvati come arte e letteratura. Prospettiva fenomenologica: il comportamento umano dipende dalla nostra percezione del mondo e non dal mondo così com’è. Per comprendere il comportamento sociale umano bisogna afferrare “la definizione soggettiva individuale della situazione”, che può variare in base a cultura, storia personale e stato motivazionale. Tale prospettiva ammette il realismo ingenuo, cioè la tendenza a considerare le proprie ricostruzioni della realtà come resoconti fedeli del mondo. Lo studio di come le persone attribuiscano significato alle azioni degli altri emerge dall’enfasi soggettiva sul modo personale di definire le situazioni. La pratica attraverso la quale una spiegazione biologica di un fenomeno ingloba e supera la sua spiegazione psicologica è detto riduzionismo. Tuttavia, la psicologia non è utile soltanto fintanto che i biologi non riescono a spiegare le cose, perché è essa stessa che fornisce loro indicazioni su dove indirizzare la loro attenzione e i loro studi. Di fatti, i fenomeni psicologici possono essere capiti ad entrambi i livelli, psicologico e biologico, ed entrambi i livelli di analisi sono necessari. L’indagine biologica ci mostra come le nozioni psicologiche possono avvenire nel cervello. Principali specializzazioni in psicologia Psicobiologia: si occupa delle relazioni tra i processi biologici e il comportamento. Psicologia cognitiva: studia i processi mentali (problem solving, memoria, linguaggio, pensiero). presente anche un terzo gruppo, chiamato gruppo di controllo attivo, al quale viene fatto credere di essere soggetto ad una certa variabile, in realtà assente. Inoltre, è possibile utilizzare un metodo longitudinale, che studia le stesse persone in momenti diversi, oppure un metodo trasversale, che studia persone di età diverse. Le conclusioni non assumono valore di verità, ma di probabilità più o meno alta. Il metodo sperimentale, tuttavia, non deve necessariamente essere applicato all’interno di laboratori. Esso è questione di logica, non di luoghi. Tuttavia, la maggior parte degli esperimenti ha luogo nei laboratori, principalmente perché tale contesto permette misurazioni comportamentali più precise e consente di controllare le variabili in modo più completo. Inoltre, spesso, nella ricerca in psicologia, si approntano esperimenti multivariati, cioè che manipolano contemporaneamente diverse variabili indipendenti. Talvolta le variabili possono essere calcolate con mezzi fisici, altre volte devono essere misurate in modo da ordinarle in una scala predeterminata. Per rendere più precisa la comunicazione, gli esperimenti richiedono una qualche forma di misurazione, cioè un sistema di assegnazione di numeri alle variabili. Per elaborare poi i dati raccolti è necessario l’uso della statistica, il cui più comune dato è la media. Uno psicologo che afferma che la differenza tra il gruppo sperimentale e il gruppo di controllo è statisticamente significativa intende dire che ai dati è stato applicato un test statistico e che è improbabile che la differenza osservata sia casuale o dovuta all’effetto di pochi casi estremi. Metodo correlazionale Possiamo usare il metodo correlazionale per determinare se una certa variabile, che non è sotto il nostro controllo, sia associata o correlata con un’altra variabile che ci interessa. È comune avere molti valori di ciascuna variabile e determinare fino a che grado i valori di una variabile sono correlati con i valori di un’altra. Questa valutazione si fa usando una formula statistica chiamata coefficiente di correlazione (r), che è la stima del grado in cui due variabili sono correlate ed è espresso da un numero compreso tra -1 e +1. La relazione perfetta è indicata da 1. L’assenza di relazione è indicata da una correlazione vicina allo zero. Via via che r va da 0 a 1 (o da 0 a -1), la forza della relazione aumenta. Una correlazione, infatti, può essere sia positiva sia negativa. Il segno della correlazione indica se le due variabili sono correlate positivamente (i valori delle due variabili aumentano o diminuiscono insieme) o correlate negativamente (quando il valore di una aumenta, l’altra diminuisce). Un uso consueto di tale metodo riguarda i test che misurano atteggiamenti, profitti o altri tratti psicologici: si presenta la stessa situazione a un gruppo di persone che differiscono per un tratto particolare, dunque, le variazioni dei risultati possono essere correlate con le variazioni dell’altra variabile. Tuttavia, se tutto ciò che abbiamo è una correlazione, non possiamo stabilire quale è la causa e quale è l’effetto. Infatti, mentre nel metodo sperimentale gli sperimentatori manipolano attivamente una causa che darà un dato effetto, nel metodo correlazionale non c’è manipolazione. Dunque, nonostante la correlazione sia un prerequisito per la causalità, senza ulteriori esperimenti, non si può trarre alcuna conclusione causale dagli studi correlazionali. Metodo osservativo (Studi descrittivi) L’osservazione accurata del comportamento umano e animale è il punto di partenza per una grande quantità di ricerche, in psicologia. Tuttavia, i ricercatori che osservano il comportamento naturale devono essere addestrati all’osservazione e alla registrazione accurata degli eventi, per evitare di proiettare i loro preconcetti in ciò che riferiscono. Alcuni problemi difficili da studiare con l’osservazione diretta possono essere studiati mediante l’osservazione indiretta (uso di questionari/interviste). Anziché osservare i comportamenti, i ricercatori che utilizzano il metodo dell’inchiesta si limitano a chiedere alle persone se mettono in atto o meno il comportamento di interesse. Un problema particolare, però, è rappresentato dagli effetti di desiderabilità sociale, che si verificano quando la gente cerca di presentarsi nel modo migliore possibile. Un’inchiesta corretta richiede la somministrazione di un questionario accuratamente collaudato a un campione di persone, selezionate in modo da garantirne la rappresentatività della popolazione oggetto di studio. Un altro metodo consiste nel metodo idiografico, cioè nella raccolta di una biografia parziale dell’individuo. Il limite principale del metodo idiografico è che si basa sui ricordi delle persone: questo metodo sembrerebbe, infatti, essere più utile a suggerire ipotesi e teorie, piuttosto che a verificarle. Rassegne della letteratura Un ultimo modo in cui si può fare ricerca psicologica è la rassegna della letteratura: un sommario scientifico del corpo di ricerche preesistenti su un determinato argomento. Le rassegne della letteratura possono essere effettuate in due modi: il primo è la rassegna narrativa, in cui gli autori utilizzano parole per descrivere gli studi precedentemente condotti e discutere la tenuta delle evidenze empiriche psicologiche disponibili; un altro tipo è la meta- analisi, in cui gli autori utilizzano tecniche statistiche per confrontare gli studi precedentemente condotti e inferire conclusioni a riguardo. Queste ultime sono potenzialmente più sistematiche e imparziali delle prime. Principi etici della ricerca in psicologia L’American Psychological Association e le sue controparti estere hanno fissato delle linee guida di trattamento sia dei partecipanti umani che dei soggetti animali, delineando tre principi etici (per l’uomo): 1) minimo rischio: nella maggior parte dei casi, i rischi anticipati dalla ricerca non devono essere superiori a quelli che si corrono nella vita quotidiana; 2) consenso informato: i partecipanti devono conoscere in anticipo tutti gli aspetti dello studio che potrebbero influenzare la loro volontà di cooperare e devono avere la possibilità di scegliere se aderire al progetto, avendo la possibilità di ritirarsi in qualsiasi momento senza alcuna conseguenza. Durante il debriefing (la condivisione delle informazioni) bisogna spiegare le ragioni per cui il partecipante è stato tenuto all’oscuro, o ingannato, sulle procedure e bisogna preoccuparsi di ogni residua reazione emotiva; 3) diritto alla riservatezza. La ricerca sugli animali, invece, può offrire conoscenze che sarebbe impossibile o moralmente inaccettabile ottenere direttamente dall’uomo. Restano, tuttavia, preoccupazioni relative al gruppo di studi sugli animali che implicano procedure dolorose o lesive. Le Capitolo 4 – Processi sensoriali Persino nelle circostanze più tranquille, il mondo ci fornisce costantemente un grande intreccio di informazioni. Noi abbiamo bisogno di assimilare e interpretare almeno alcune di queste informazioni, per interagire appropriatamente con l’esterno. Per sopravvivere e funzionare nel mondo, dobbiamo conoscere gli oggetti – cosa sono e dove sono – e pertanto ci siamo evoluti per utilizzare quella parte dello spettro elettromagnetico che ci permette di raggiungere tale scopo: certe forme di radiazioni (ad onde brevi come i raggi X o gamma) passano attraverso gli oggetti non riflettendo l’immagine sui nostri occhi, mentre altre (ad onde lunghe come le onde radio) rifletterebbero l’immagine degli oggetti sui nostri occhi, ma gli oggetti sarebbero così sfocati da essere inutili in senso pratico. Dunque, i nostri sensi rappresentano le nostre vie d’accesso e grazie ad essi acquisiamo informazioni sul mondo che ci circonda, costituendo il mezzo più immediato tramite il quale determiniamo la natura dell’ambiente in cui viviamo e agiamo. A un livello di analisi sia biologico che psicologico, viene spesso fatta distinzione tra sensazione e percezione [livello psicologico: sensazione grezza associata allo stimolo, percezione legata all’integrazione e all’interpretazione dello stimolo; livello biologico: sensazione legata all’organo di senso, percezione legata ai livelli più alti della corteccia]. Gli eventi psicologici e biologici che avvengono nei primi stadi dell’elaborazione di uno stimolo possono influenzare l’interpretazione dello stimolo stesso. Infatti, una delle caratteristiche più importanti del cervello è che, oltre a ricevere informazioni sensoriali, continua a mandare messaggi dai suoi livelli più alti indietro ai primi stadi dell’elaborazione. Queste proiezioni all’indietro, in realtà, modificano proprio il modo in cui l’input sensoriale viene elaborato. Storicamente, il funzionamento degli organi di senso è uno dei primi argomenti studiati in psicologia. CARATTERISTICHE DELLE MODALITA’ SENSORIALI Ogni sistema sensoriale ha il compito di acquisire delle informazioni dall’ambiente o dalla memoria e di trasformarle – attraverso il processo di trasduzione – in una rappresentazione neurale nel cervello. Le dimensioni utili di una data forma di informazione possono essere divise in “intensità” e “tutto il resto”: per quanto riguarda la luce, ad esempio, l’intensità corrisponde al numero dei fotoni per secondo, mentre per il suono corrisponde all’ampiezza delle onde sonore. Più intenso è uno stimolo, maggiore sarà la sua influenza sull’organo di senso pertinente. Gli psicologi che si occupano di sistemi sensoriali hanno da tempo cercato di quantificare la relazione esistente tra l’intensità di uno stimolo fisico e la grandezza della corrispondente sensazione. In psicofisica si ha a che fare con stimolazioni che si verificano su due continua fisici: intensivi (si manipola un’intensità, es. l’intensità sonora o luminosa) e non-intensivi (si manipola altro, es. la frequenza sonora o luminosa). Alcune leggi, come la legge di Weber, valgono per lo più per continua intensivi. I due tipi di manipolazione producono due risultati sensoriali differenti: una manipolazione intensiva corrisponde a un cambiamento dell’intensità suscitata dalla stimolazione; una manipolazione non-intensiva corrisponde ad un cambiamento della qualità della sensazione. Soglia assoluta (detezione): ampiezza minima di uno stimolo tale che possa essere distinto con sicurezza dalla sua assenza totale. Essa si determina attraverso procedure psicometriche, cioè tecniche sperimentali per misurare la relazione tra l’ampiezza fisica di determinati stimoli e la conseguente risposta psicologica. Attraverso diverse prove, in cui si presentano gli stimoli uno alla volta, in sequenza casuale, ripetuti più volte, il testato deve riferire se percepisce lo stimolo oppure no: la soglia assoluta sarà determinata da quello stimolo che sarà percepito il 50% delle volte in cui è presentato. Questo perché 50% è il punto maggiormente distante sia da 0% sia da 100%, quindi il più facile da misurare in quanto il più lontano da un effetto pavimento e un effetto soffitto. La soglia assoluta è l’inizio della sensazione per un certo determinato stimolo fisico; ogni sensazione inizia a partire da una certa soglia assoluta. In realtà, la sensazione non varia da un “non percepisco” ad un “percepisco” bruscamente, ma gradualmente: per questo si presenta uno stesso stimolo ad intensità x più volte in momenti diversi. Il passaggio avviene secondo una funzione sigmoide (che cresce progressivamente). Questa gradualità è data da fluttuazione nella prestazione dell’organo di senso, fluttuazioni dell’attenzione, rumorosità variabile dell’ambiente dove avviene la misurazione, svista nella risposta, motivazione del soggetto ecc. Soglia differenziale o minima differenza percepibile (discriminazione): minima differenza necessaria affinché si possano distinguere due stimoli con un certo grado di accuratezza. Questa identifica i “gradini” entro cui si sviluppa una certa sensazione. Per misurare una soglia differenziale usiamo sempre due stimoli: uno stimolo standard che rimane costante durante le prove ed uno variabile che è quello che viene manipolato per raggiungere la soglia differenziale. Legge di Weber-Fechner (XIX secolo): l’intensità di cui è necessario aumentare lo standard, affinché l’incremento sia distinguibile, è proporzionale all’intensità dello standard stesso: la costante di proporzionalità si definisce frazione di Weber. Secondo il rapporto di Weber la soglia è uguale al rapporto tra l’incremento dello stimolo variabile per raggiungere la soglia differenziale e il valore fisico dello stimolo standard (soglia = ΔS/S): questo esprime la soglia in percentuale, e rappresenta di quanto devo aumentare lo stimolo di partenza per arrivare allo stimolo che coincide con la soglia differenziale. Es. lo stimolo standard della sensazione di pesantezza è 100 gr, la soglia differenziale si raggiunge con uno stimolo variabile di 120 g: il rapporto di Weber è (120-100)/100 = 0,2 (20%). La regolarità della costante di Weber resta tale indipendentemente dal valore dello standard. La funzione psicofisica è quella funzione matematica che descrive come varia la sensazione in funzione della manipolazione di una certa variabile fisica per tutto l’arco della sensazione. Storicamente, sono state proposte due funzioni psicofisiche principali: la funzione Weber-Fechner e la funzione Stevens. Fechner è considerato il padre della psicofisica e per primo volle studiare in modo formale la relazione tra il mondo fisico e il mondo fenomenico: prima di lui c’era solo l’introspezione. La maggior parte del nostro comportamento sensoriale quotidiano ha luogo nel contesto di condizioni soprasoglia, la quale fu indagata a metà XX secolo da S.S. Stevens, uno psicologo di Harvard, il quale effettuò una ricerca intensiva sulla sensazione soprasoglia collegare eventi esterni ad esperienze consce. Numerosi aspetti delle nostre percezioni consce derivano da specifici eventi neurali che avvengono nei recettori. I recettori, però, e le loro vie nervose verso il cervello, devono codificare sia l’intensità sia la qualità dello stimolo. Come questo avvenga è stato studiato attraverso l’esperimento di registrazione a singola cellula: si registra l’attività elettrica di singole cellule presenti nei recettori e nelle vie nervose dirette al cervello, mentre al soggetto si presentano vari input o stimoli. Per ciascuno stimolo, così, si può stabilire qual è il neurone che risponde osservando quale microelettrodo produce i segnali più consistenti. Il mezzo principale per codificare l’intensità di uno stimolo consiste nel quantificare il numero delle scariche per unità di tempo, cioè il ritmo degli impulsi nervosi. Un’alternativa di codifica dell’intensità dello stimolo è il modello temporale o gli impulsi elettrici: a basse intensità, gli impulsi nervosi sono relativamente distanziati nel tempo e l’esatto intervallo tra impulsi successivi è variabile. Ad alte intensità, invece, l’intervallo tra gli impulsi può essere alquanto costante. Un’altra alternativa è rappresentata dal numero complessivo dei neuroni attivati, che è tanto maggiore quanto più intenso è lo stimolo. Codificare la qualità di uno stimolo è invece più complesso. Partendo da una suggestione di Johannes Muller del 1825, studi successivi hanno dimostrato che le vie nervose che originano in differenti recettori terminano in differenti aree della corteccia. Attualmente, si ritiene che il cervello codifichi le differenze qualitative tra i vari sensi per mezzo delle specifiche vie nervose interessate. Ma che dire delle qualità distintive all’interno di un singolo senso? Come distinguere il verde dal rosso, o il dolce dall’acido? È probabile che la codifica si basi su una specificità dei neuroni interessati, tuttavia, un sistema sensoriale può servirsi anche del modello di scarica nervosa per codificare la qualità di una sensazione. Pressoché tutti i nostri sensi, quando sono stimolati per un periodo prolungano vanno incontro ad adattamento: la sensazione diminuisce man mano che il tempo passa. VISTA Dei nostri sensi, soltanto la vista, l’udito e l’olfatto sono in grado di raccogliere informazioni su ciò che è distante da noi; tra questi, la vista è la modalità più raffinata, nella specie umana. Lo stimolo fisico a cui la vista risponde è la luce, cioè una radiazione elettromagnetica, un tipo di energia emanata dal sole e dal resto dell’universo che investe il nostro pianeta. L’energia elettromagnetica è un’energia che viaggia in onde con lunghezza variabile (dai raggi cosmici più corti alle onde radio lunghe molti chilometri). I nostri occhi sono sensibili soltanto alle lunghezze d’onda comprese tra i 400 e i 700 nanometri. L’energia visibile, dunque, rappresenta solo una piccolissima parte dell’energia elettromagnetica. Il sistema visivo umano è composto da occhi, numerose parti del cervello e dalle vie che li connettono. Il primo stadio della visione è l’occhio, che contiene due sistemi: - uno per formare l’immagine (cornea, pupilla e cristallino); - l’altro per trasformare l’immagine in impulsi elettrici (retina, recettori). Cornea: superficie anteriore trasparente dell’occhio, dove entra la luce e i raggi vengono indirizzati verso l’interno; Cristallino: parte cangiante dell’occhio che si appiattisce (più piatto) per mettere a fuoco oggetti a distanza e diventa più sferico (più curvo) per mettere a fuoco oggetti più vicini; Pupilla: apertura circolare tra la cornea e il cristallino il cui diametro varia in risposta all’intensità della luce, più ampia con luce fioca, più piccola con luce viva. Queste tre strutture convogliano l’immagine sulla retina, dove ha inizio il sistema di trasduzione. Sulla retina – oltre a una rete di neuroni, cellule di sostegno e vasi sanguigni – sono disposti due tipi di recettori, specializzati per differenti scopi e che derivano i nomi dalle loro forme caratteristiche. I bastoncelli sono strutturati per la visione notturna; operano a basse intensità di luce e producono immagini a scarsa risoluzione, prive di colore. I coni permettono la visione ottimale durante il giorno; rispondono alle alte intensità e producono immagini colorate e ad alta risoluzione. La distribuzione dei recettori non è omogenea sulla retina, infatti c’è una maggior concentrazione di coni sulla fovea, una piccola regione posta nel centro della retina, mentre una maggior concentrazione di bastoncelli nella periferia dell’occhio: è per questo motivo che quando vogliamo vedere nel dettaglio un oggetto muoviamo gli occhi per fare in modo che questo sia proiettato nel centro della nostra retina, mentre per osservare un oggetto in condizioni di scarsa illuminazione (come una stella) occorre dirigere lo sguardo leggermente di lato. In che modo, poi, il recettore trasduce la luce in impulsi elettrici? La retina è detta fotorecettiva, infatti, coni e bastoncelli contengono sostanze chimiche, dette fotopigmenti, che assorbono la luce, dando inizio al processo che genera l’impulso nervoso. Una volta completata la trasduzione, allora gli impulsi elettrici devono farsi strada verso il cervello tramite i neuroni di connessione. Dunque, le risposte dei recettori vengono trasmesse prima alle cellule bipolari, le quali le trasmettono alle cellule gangliari (altri neuroni), i cui lunghi assoni si estendono fuori dall’occhio, verso il cervello, dando origine al nervo ottico. Nel punto in cui il nervo ottico lascia l’occhio non ci sono recettori, infatti viene chiamato “macchia cieca”, ed è un buco che noi non notiamo nel nostro campo visivo, in quanto il cervello lo riempie automaticamente. Tra il nervo ottico e la corteccia visiva si trova una struttura chiamata nucleo genicolato laterale (NGL), dove le informazioni visive principali vengono organizzate grazie alla codifica neurale. Il NGL è stratificato in una mappa retinotopica che è riprodotta nella corteccia visiva. Vedere la luce La nostra sensibilità all’intensità della luce è determinata dai recettori, i quali differiscono principalmente su tre piani: - sono attivati da differenti livelli di luce (alto livello per i coni, basso livello per i bastoncelli); - sono specializzati in compiti diversi (ogni cono è legato ad una cellula gangliare, la quale è connessa alle altre cellule gangliari, mentre più bastoncelli possono legarsi ad un’unica cellula gangliare, la quale non comunica con le altre: le connessioni tra le cellule gangliari associate ai coni favoriscono la percezione dettagliata della forma, in condizioni di buona illuminazione; mentre la Anche la riproduzione fotografica o televisiva dei colori si basa sul fatto che è possibile creare un’ampia varietà di colori miscelando solo i tre colori primari: le immagini sugli schermi derivano dalla sovrapposizione sulla nostra retina di punti di tre colori molto vicini tra loro. Sebbene la maggior parte delle persone sia in grado di riconoscere un’ampia varietà di colori con la miscela dei tre primari, altri possono fare affidamento sulla miscela di solo due di questi. Questi soggetti, detti bicromatici o daltonici, hanno una visione difettosa, poiché confondono alcuni colori che le persone con visione normale (tricromatiche) possono distinguere. I monocromatici, invece, sono ciechi al colore e percepiscono solo divere sfumature di grigio. La maggior parte dei difetti di vista del colore è di origine genetica. Teoria di Young-Helmholtz o Teoria Tricromatica: anche se possiamo distinguere molti colori, esistono solo tre tipi di recettori per il colore. Infatti, i coni corti sono più sensibili alle lunghezze d’onda corte, i coni medi a quelle medie, e i coni lunghi a quelle lunghe. L’azione congiunta di questi tre recettori determina la sensazione del colore. La teoria tricromatica, dunque, sostiene che la qualità del colore è definita dal modello di attività dei tre recettori, piuttosto che da recettori specifici per ciascuno dei molti colori. Con una miscela di tre lunghezze d’onda molto distanziate possiamo riprodurre ogni colore, perché le tre lunghezze d’onda in questione attivano i tre differenti recettori e l’attività di questi recettori sta alla base della percezione del colore campione. Secondo tale teoria nei dicromatici mancherebbe un tipo di recettore, mente nei monocromatici ne mancherebbero due. Teoria di opponenza cromatica di Ewald Hering o Teoria quadricromatica (1878): il sistema visivo contiene due tipi di unità sensibili al colore, una rispondente al rosso o al verde, l’altra al blu o al giallo. Ogni unità risponde in modi opposti ai suoi due colori antagonisti: l’unità rosso-verde, per esempio, aumenta il ritmo di risposta quando si presenta un rosso e lo riduce quando si presenta un verde. Poiché un’unità non può rispondere in due modi diversi nello stesso tempo, se si presentano due colori antagonisti si percepisce il bianco. Questa teoria è in grado di spiegare anche perché vediamo determinate tinte: percepiamo una singola tinta – rosso o verde oppure giallo o blu – ogni volta che un solo tipo di unità antagonista è fuori equilibrio. Nulla viene percepito come rosso-verde o giallo-blu, perché un’unità non può rispondere contemporaneamente in due modi. Inoltre, la teoria spiega perché i soggetti che prima hanno visto una luce colorata e poi fissano una superficie neutra riescono a vedere i colori complementari. Teoria a due stadi (1974): i tre tipi di recettori identificati grazie alla teoria tricromatica si inseriscono nelle unità di opponenza cromatica ad un livello più alto, nel sistema visivo. Questa teoria suggerisce l’esistenza, nel sistema visivo, di neuroni che funzionano come unità antagoniste del colore e operano sull’informazione visiva che ha già superato la retina. Questi neuroni antagonisti del colore sono stati scoperti nel talamo, una stazione nervosa tra la retina e la corteccia visiva. Si tratta di cellule spontaneamente attive, che aumentano il loro ritmo di attività in risposta a un certo intervallo di lunghezza d’onda e lo diminuiscono in risposta a un altro. La teoria tricromatica agirebbe a livello periferico dell’occhio, quella quadricromatica a livello centrale. In questi casi di studi, un lavoro a livello psicologico ha segnato la strada per scoperte biologiche. La teoria tricromatica, infatti, suggeriva l’esistenza di tre tipi di recettori del colore, poi confermata dalla scoperta dei tre tipi di coni nella retina. La teoria di opponenza cromatica affermava l’esistenza di altri tipi di unità nel sistema visivo, e la ricerca biologica ha individuato le cellule antagoniste del colore (talamo). Sensazione e percezione: un’anteprima I meccanismi del sistema visivo fanno sì che la rappresentazione di un’immagine sia sfocata. Più lontano da voi è un oggetto più piccola è l’immagine sulla retina, e quanto più l’immagine è sfocata tanto più ne vengono degradati i dettagli. Osservare un oggetto da una certa distanza è equivalente, quindi, a sfocare di un certo grado quell’oggetto. Questi studi possono essere utili a dimostrare in modo chiaro e intuitivo l’effetto di una certa variabile – in questo caso la distanza – sulla percezione che ne deriva. UDITO Il suono origina dal movimento/vibrazione di un oggetto, il quale trasmette un’onda di cambiamenti di pressione (onda sonora) attraverso un medium (es. aria). Il suono si propaga in tutte le dimensioni ad una velocità non molto alta: è per questo che ai grandi concerti all’aperto le ultime file cantano in ritardo. Il diagramma di un’onda sonora presenta un’onda sinusoidale: i suoni che corrispondono ad onde sinusoidali sono chiamati toni puri. I parametri dei toni puri sono: - frequenza, cioè il numero di cicli al secondo (o hertz), che corrisponde al ritmo al quale le molecole si muovono avanti e indietro. Determina la sensazione acuto/grave e si distinguono toni ad alta frequenza (onde sinusoidali ad alta frequenza) e toni a bassa frequenza (onde sinusoidali a bassa frequenza); - intensità (espressa in decibel), la differenza di pressione tra il picco più elevato e quello più basso, nell’unità di tempo: la prolungata esposizione a livelli di suono uguali o superiori a 100 decibel si può associare a perdita permanente dell’udito; - timbro, che si riferisce alla nostra esperienza di complessità del suono (es. ciò che rende diversa la stessa nota prodotta da un violino o da un trombone). Il timbro è determinato dallo spettro, cioè dalla forma specifica dell’onda sonora. Quasi nessuno dei suoni che ascoltiamo ogni giorno è semplice come i toni puri di cui abbiamo parlato. Come l’occhio, anche l’orecchio contiene due sistemi. Uno amplifica e trasmette il suono ai recettori (orecchio esterno: padiglione, canale uditivo oppure pinna e meato acustico; orecchio medio: timpano e martello, incudine e staffa), dopo di che l’altro sistema raccoglie e trasforma il suono in impulsi nervosi (coclea e nervo uditivo). L’orecchio esterno aiuta a raccogliere i suoni e li convoglia tramite il canale uditivo a una membrana tesa, il timpano, la parte più esterna dell’orecchio medio. Il compito dell’orecchio medio è di trasmettere le vibrazioni del timpano attraverso una cavità piena d’aria ad un’altra membrana, la finestra ovale, che rappresenta la via d’accesso all’orecchio interno e ai recettori. La coclea è un tubo osseo a spirale, divisa in due compartimenti liquidi da membrane: tra queste, la membrana basilare serve da supporto ai recettori dell’udito (cellule ciliate, con strutture a forma di ciglia che si 50 hertz, quando in realtà siamo in grado di discernere suoni anche di 20 hertz), mentre quella temporale ha un problema analogo con i suoni ad alta frequenza. Ciò ha portato a pensare che la teoria temporale spieghi la percezione delle basse frequenze, e quella posizionale quella delle alte frequenze, anche se non è chiaro il punto esatto in cui un modello cede all’altro. ALTRI SENSI Olfatto I recettori olfattivi, contenuti all’interno della cavità nasale, si connettono al cervello senza sinapsi e sono esposti direttamente all’ambiente, senza alcuna protezione. Il sistema olfattivo è costituito dai recettori nella parte alta delle cavità nasale, da particolari regioni del cervello e dalle vie nervose di interconnessione. Quando le ciglia dei recettori vengono in contatto con le molecole volatili (liposolubili, perché i recettori per gli odori sono coperti da una sostanza simile al grasso, e sprigionate dalle sostanze come stimolo per l’olfatto), si scatena un impulso elettrico, che viaggia lungo le fibre nervose verso il bulbo olfattivo, una regione del cervello situata proprio sotto i lobi frontali, a sua volta connessa alla corteccia olfattiva, all’interno dei lobi temporali. L’olfatto agevola la sopravvivenza della nostra specie, nonostante occupi soltanto il 5% della nostra area corticale. Nei pesci, la corteccia olfattiva occupa quasi tutti gli emisferi cerebrali, mentre nei cani circa il 33%. Poiché l’olfatto è così ben sviluppato in altre specie, esso è spesso usato come uno dei maggiori mezzi di comunicazione. Gli insetti e altri animali, ad esempio, secernono ferormoni, sostanze chimiche che si diffondono nell’aria per essere fiutate da altri membri della specie. Gli insetti, inoltre, usano l’olfatto per comunicare sia la morte sia l’”amore”. Per quanto riguarda, invece, l’essere umano, gli esperimenti dimostrano che siamo in grado di utilizzare l’olfatto almeno per distinguerci dagli altri e per distinguere i maschi dalle femmine. Altri studi suggeriscono che possiamo trasmetterci con l’odore messaggi indefinibili. Tuttavia, si tratta di effetti sul funzionamento psicologico e non sul comportamento. Molti ricercatori, in realtà, ritengono che gli effetti comportamentali dei ferormoni, sull’uomo, siano indiretti, perché i fattori sociali e di apprendimento influenzano il nostro comportamento più di quanto accada negli altri mammiferi. La sensibilità umana all’intensità di un odore dipende soprattutto dalla sostanza coinvolta. Tuttavia, siamo sicuramente meno sensibili di altre specie e questa relativa mancanza di sensibilità non è dovuta a una minore sensibilità dei recettori, ma al loro numero: circa 10 milioni di recettori per l’uomo, in confronto a 1 miliardo di recettori per il cane. Comunque, una persona sana sembra essere capace di distinguere da 10’000 a 40’000 odori differenti, con prestazioni migliori per le donne. I profumieri professionali e i miscelatori di whisky possono probabilmente fare anche di più. Nell’olfatto sembrano essere coinvolti molti differenti tipi di recettori: una stima di 1'000 tipi di recettori olfattivi sembra ragionevole. Ogni tipo di recettore può rispondere a molti odori differenti. Gusto La sostanza che viene assaporata non è il solo fattore che ne determina il gusto. Anche il nostro assetto genetico e l’esperienza passata influenzano il gusto. Inoltre, diciamo che un pasto ha un “buon sapore”, ma quando l’olfatto è eliminato da un forte raffreddore, il cibo perde sapore. Ciò che riusciamo a distinguere anche con un forte raffreddore è, per esempio, se un cibo è salato o insipido. Lo stimolo per il gusto è una sostanza solubile nella saliva. Il sistema gustativo comprende i recettori gustativi, situati sulla lingua, nonché sulla gola e il palato, così come parti del cervello e vie nervose di interconnessione. I recettori sono in gruppi chiamati papille gustative sulle protuberanze della lingua e attorno alla bocca. All’estremità delle papille gustative, vi sono corte strutture simili a capelli, che si estendono all’esterno e prendono contatto con le soluzioni nella bocca. Questo contatto si trasforma in un impulso elettrico: è questo il processo di trasduzione. L’impulso elettrico, quindi, viaggia verso il cervello. La sensibilità ai diversi stimoli gustativi varia da punto a punto, sulla lingua. La sensibilità alle sostanze dolci e salate è migliore verso la punta della lingua; l’acido si sente meglio lungo i bordi; l’amaro sul palato molle. Mente la soglia assoluta per il gusto è generalmente molto bassa, le minime differenze percepibili (jnd) per l’intensità sono relativamente alte. Quindi, se stiamo salando un piatto, per percepirne la differenza dobbiamo aggiungere più del 20% di sale. Ogni sapore può essere descritto, appunto, come uno o una combinazione di quattro gusti base: dolce, acido, salato e amaro. Questi quattro gusti sono meglio rappresentati da saccarosio (dolce), acido cloridrico (acido), cloruro di sodio (salato) e chinino (amaro). Sembra che ci siano quattro differenti tipi di fibre nervose, corrispondenti ai quattro sapori base. Sebbene ogni fibra risponda debolmente a tutti e quattro i gusti base, è più sensibile ad uno di essi in particolare. Tuttavia, le nostre esperienze gustative possono essere influenzate non solo dall’attivazione dei recettori, ma anche dalle aspettative che le persone hanno riguardo al cibo. Dunque, nonostante l’attivazione dei recettori possa consentire la maggior parte dell’informazione relativa all’esperienza sensoriale, anche i fattori cognitivi possono contribuire. Pressione e temperatura Tradizionalmente, si riteneva che il tatto fosse un unico senso. Oggi, è considerato composto da tre distinti sensi cutanei, uno rispondente alla pressione, un altro alla temperatura e il terzo al dolore. Lo stimolo per sentire la pressione è la pressione fisica sulla pelle. Alcune parti del corpo sono più sensibili di altre all’intensità della pressione; le labbra, il naso e le guance sono più sensibili, mentre l’alluce lo è meno. Queste differenze sono strettamente correlate al numero di recettori che rispondono allo stimolo, in ciascuna di queste zone corporee. Tuttavia, anche il sistema della pressione mostra profondi effetti di adattamento. Lo stimolo per la temperatura è la temperatura cutanea. I recettori sono neuroni con terminazioni nervose libere proprio sotto la pelle. Nella fase di trasduzione, i recettori per il freddo generano un impulso nervoso quando c’è una diminuzione della temperatura cutanea, mentre i recettori per il caldo generano un impulso quando c’è un aumento della stessa. Tuttavia, stimoli molto alti, sia caldi che freddi, attivano entrambi i tipi di recettori. Poiché il mantenimento della temperatura corporea è essenziale per la Capitolo 5 – Percezione La percezione è l’elaborazione della sensazione. È il passaggio tra esperire sensazioni semplici e vedere un mondo dotato di senso. Credere che ci sia coincidenza tra gli stimoli fisici che ci colpiscono, le sensazioni e le percezioni è realismo ingenuo: infatti, esistono stimolazioni perfettamente percepibili che non percepiamo e, a parità di stimolazione, è possibile percepire cose diverse. Il mondo come lo percepiamo è il risultato di un lavoro del cervello che seleziona ed elabora lo stimolo sensoriale per offrire alla mente un oggetto dotato di senso. A CHE SERVE LA PERCEZIONE? L’uomo è un organismo mobile, manipola gli oggetti, prende decisioni sulla base di simboli e costruisce ed esegue piani complessi, per affrontare eventi improvvisi e inattesi. Teoria della visione ecologica (J.J. Gibson): la vasta ricchezza dell’informazione visiva offerta dal mondo è sufficiente, nella vita quotidiana, a risolvere tutti i problemi associati alla visione che il mondo ci pone. La maggior parte degli studiosi, tuttavia, rifiuta tale teoria, in quanto ritiene che l’uomo necessiti di un’immagine continuamente aggiornata – un modello dell’ambiente – cioè una rappresentazione del mondo nel nostro cervello, che utilizziamo per percepire, prendere decisioni e comportarci consciamente. Per formulare e mantenere un modello del genere, sono necessari due ingredienti: mezzi per acquisire le informazioni ambientali grezze (organi di senso); mezzi per organizzare le informazioni grezze in qualche tipo di struttura coerente. Fare inferenze a partire dai dati sensoriali e poi di nuovo risalire all’ambiente circostante che ha dato origine a quegli stessi dati, richiede delle assunzioni su come è assemblato il mondo (es. gli uccelli di solito si trovano più in alto dei cavalli, i frigoriferi vicino ai fornelli). La percezione consiste nell’uso di queste assunzioni per integrare le informazioni sensoriali in entrata in un modello del mondo, sulla cui base prendiamo decisioni e agiamo. In generale, ciascuna modalità sensoriale è costituita sia da un organo di senso, che acquisisce le informazioni grezze dall’ambiente, sia da un sistema più centrale, nel cervello, che trasforma queste informazioni in percetti organizzati. Cinque funzioni della percezione 1) attenzione, si decide quale informazione in entrata è da elaborare ulteriormente e quale va scartata; 2) determinare dove sono gli oggetti di interesse (localizzazione); 3) riconoscere quali oggetti ci sono (riconoscimento); 4) astrarre le caratteristiche salienti dell’oggetto riconosciuto (astrazione); 5) mantenere invariate certe caratteristiche degli oggetti (costanze percettive). 1) ATTENZIONE Nonostante il bombardamento di stimoli costante, l’uomo è generalmente impegnato ad eseguire un qualche compito: qualunque esso sia, solo una piccola porzione del flusso di informazioni in entrata è rilevante ai fini del compito. Dunque, i sistemi sensoriali e il cervello devono disporre di mezzi per selezionare le informazioni in entrata, in modo da permettere l’ingresso solo di quelle rilevanti al compito da eseguire e scartare tutte le altre. L’abilità del selezionare implica tre processi separati: mantenerci in allerta; orientare le nostre risorse elaborative verso informazioni rilevanti per il compito; decidere se dobbiamo continuare a prestare attenzione ad una data informazione o se dobbiamo spostare l’attenzione ad altre fonti. Il punto cruciale è quello di considerare l’attenzione non come un singolo processo ma come un insieme di processi che interagiscono. L’attenzione è multimodale, nel senso che può muoversi all’interno di una modalità, come da uno stimolo visivo a un altro, o tra modalità diverse, come passare dal prestare attenzione visiva alla strada al prestare attenzione uditiva a qualcuno che ci sta parlando. Attenzione selettiva L’esplorazione visiva prende la forma di fissazioni, cioè brevi periodi in cui gli occhi sono relativamente immobili e acquisiscono informazioni, separati da saccadi, cioè repentini spostamenti dell’occhio in cui la visione è essenzialmente soppressa. In generale, i punti su cui si fissano gli occhi non sono casuali, ma piuttosto corrispondono alle aree della scena che veicolano il numero maggiore di informazioni. Queste aree sono quelle che, con maggiore probabilità, permettono di distinguere la scena da qualsiasi altra possa somigliargli. Nel caso di un volto, queste saranno occhi, naso e bocca: cioè, le caratteristiche più salienti per distinguere un volto da un altro. Effetto weapon: le vittime di crimini armati sono spesso in grado di descrivere molto accuratamente l’aspetto dell’arma, ma sembrano ricordare molto poco gli altri dettagli della scena. Anche in esperimenti in laboratorio, infatti, le persone hanno presentato una maggiore quantità di fissazioni oculari su un oggetto critico/minaccioso rispetto ad oggetti benigni o al resto della scena in generale. Siamo in grado di prestare selettivamente attenzione ad uno stimolo visivo anche senza spostare gli occhi, soprattutto se questo è anticipato da un indicatore. Attenzione uditiva Siamo capaci di utilizzare mezzi unicamente mentali per prestare attenzione selettiva al messaggio desiderato. Alcuni indicatori che usiamo a questo fine sono la direzione del suono, il labiale e le caratteristiche particolari della voce di chi parla (timbro e intonazione). Anche in assenza di queste indicazioni possiamo selezionare un messaggio su due contemporanei, sulla base del significato. Attenzione, percezione e memoria Attualmente esistono considerevoli prove empiriche a sostegno dell’idea che il nostro sistema percettivo elabora parzialmente gli stimoli sfuggiti all’attenzione, anche se gli stimoli in questione raggiungono di rado la coscienza. Dunque, la mancanza di attenzione non blocca interamente i messaggi; piuttosto li attenua, in modo molto simile ad un modulatore di volume che venga abbassato ma non spento. Cecità da inattenzione: se presto attenzione ad una cosa probabilmente sarò cieco alle altre. rumore quando l’intensità del rumore è alta e quella del tono è bassa. Percezione della distanza La retina è una superficie bidimensionale, su cui si proietta un mondo tridimensionale. La retina, quindi, riflette direttamente l’altezza e l’ampiezza, ma l’informazione sulla profondità si perde e deve essere ricostruita sulla base degli indici di profondità, che sono classificati come binoculari e monoculari. - Indici binoculari : la capacità dei due occhi umani di inferire congiuntamente la profondità è dovuta al fatto che gli occhi sono separati, nella testa, e ciascun occhio riceve un’immagine leggermente differente della stessa scena. Il termine disparità binoculare si riferisce alla differenza tra le immagini retiniche, nei due occhi. Questa disparità è maggiore per gli oggetti più vicini e diminuisce con l’aumentare della distanza. Per molti compiti quotidiani, come afferrare gli oggetti, questa differenza rappresenta un indice di profondità estremamente rilevante. Questa disparità binoculare può anche ingannare gli occhi, facendo percepire una profondità in realtà assente (es. stereoscopio, occhiali 3d). - Indici monoculari : 1) grandezza relativa: se sono presenti una serie di oggetti simili di dimensioni diverse, i più piccoli sono interpretati come più distanti; 2) sovrapposizione: se un oggetto è posizionato in modo da coprirne un altro sarà percepito come più vicino; 3) altezza relativa o vicinanza all’orizzonte: tra oggetti simili, quelli più vicini alla linea dell’orizzonte sono percepiti come più lontani; 4) prospettiva: quando le linee parallele di una scena appaiono convergenti, allora si percepiscono come se continuassero a distanza; 5) ombra: l’ombra connessa (ombreggiatura) suggerisce che l’oggetto sta bloccando la luce, l’ombra proiettata è quella che cade su un altro oggetto rispetto a quello che la crea; 6) parallasse di movimento: se si è in movimento, gli oggetti più vicini sembrano muoversi più rapidamente, in direzione opposta alla nostra, rispetto a quelli più distanti. Anche l’udito riesce a offrire delle informazioni spaziali. Infatti, riesce a fornire informazioni di collocazione lungo il piano orizzontale (azimuth) e lungo il piano verticale (zenith). La prima deriva dalla disparità del segnale alle due orecchie; la seconda deriva dalla forma asimmetrica dell’orecchio e dalla riflessione del suono su di esso. La percezione della distanza dipende solo dall’intensità sonora: più la sorgente è vicina più il suono è intenso. Percezione del movimento Per muoverci adeguatamente nel mondo circostante, dobbiamo conoscere non solo la posizione degli oggetti fermi, ma anche le traiettorie di quelli in movimento. La percezione del movimento risulta dalla interazione di tre fattori: il movimento dell’occhio, il movimento della testa e del corpo, il movimento dell’oggetto che si sta osservando. Movimento apparente o stroboscopico: esso si produce proiettando una luce nell’oscurità e poi, pochi millisecondi più tardi, proiettando un’altra luce vicino alla posizione della prima. La luce sembrerà muoversi da una posizione all’altra, in modo indistinguibile dal movimento reale. Il movimento che percepiamo nei film è stroboscopico (serie di fotogrammi immobili, ciascuno lievemente diverso dalla precedente). Movimento reale: riusciamo molto meglio a rilevare il movimento quando possiamo osservare un oggetto contro uno sfondo strutturato (movimento relativo), rispetto a quando lo sfondo è di colore uniforme oppure si può vedere solo l’oggetto in movimento (movimento assoluto). Un altro fenomeno importante nello studio del moto reale è chiamato adattamento selettivo, cioè la perdita di sensibilità al movimento che avviene quando lo osserviamo; l’adattamento è selettivo nel senso che perdiamo sensibilità per il movimento osservato e movimenti simili, ma non per un movimento che differisca in modo significativo per direzione o velocità. Soggetti all’adattamento, dopo un po’ lo stesso movimento apparirà meno veloce. Alcuni aspetti del movimento reale sono codificati da cellule specifiche, nella corteccia visiva: le cellule specializzate nel movimento offrono una possibile spiegazione dell’adattamento selettivo e dell’effetto postumo da movimento. Una conseguenza dell’adattamento, infatti, è il motion after effect: i neuroni che rispondono alla direzione del movimento si adattano e via via rispondono sempre meno. 3) RICONOSCIMENTO Il sistema percettivo ha bisogno di determinare non solo dove sono gli oggetti rilevanti nella scena, ma anche che cosa sono. In primo luogo, dobbiamo acquisire dall’ambiente le informazioni parziali fondamentali o primarie, e assemblarle in modo adeguato. Poi, dobbiamo capire cosa sono effettivamente gli oggetti in questione. Il sistema visivo tende ad acquisire inizialmente informazioni globali, seguite poi da quelle locali, secondo il processo di elaborazione globale-locale: l’elaborazione globale di una scena nel suo complesso favorisce una elaborazione locale, utilizzando le conoscenze sul contesto per individuare i singoli oggetti che lo compongono. Inoltre, durante il processo di riconoscimento ci si può imbattere nel problema delle associazioni (binding): si possono combinare in modo errato due attributi separati di un oggetto, attribuendo una connessione illusoria, come quando, durante la lettura di un libro, capita di combinare l’inizio e la fine di due parole diverse, creando un’altra parola, in realtà assente. Teoria di integrazione degli attributi: nel primo stadio, pre-attentivo, si percepiscono gli attributi primari, qualità come la forma e il colore, mentre nel secondo stadio, attentivo, si utilizza l’attenzione selettiva per assemblare adeguatamente i diversi attributi in un insieme integrato. Dunque, le connessioni illusorie avvengono quando la durata dello stimolo è sufficiente a percepire gli attributi primari ma non basta per il più lungo stadio attentivo di integrazione. Teoria di controllo dinamico: esiste un sistema malleabile le cui componenti possono essere velocemente riconfigurate, per eseguire compiti diversi in tempi diversi, come il modello interno delle connessioni di un computer si riconfigura dinamicamente. Il sistema, dunque, si riconfigura a seconda dei compiti. Riconoscimento di un oggetto riconoscere quando sono presentate capovolte. Infatti, sembra che il riconoscimento di oggetti e quello dei volti abbiano due distinte traiettorie di sviluppo. Una teoria popolare che spiega queste differenze volti-oggetti è che mentre gli oggetti vengono riconosciuti sulla base delle loro componenti, i volti sono riconosciuti sulla base della configurazione generale che le singole parti compongono. Fallimenti nel riconoscimento Il riconoscimento può sistematicamente fallire in individui con certi tipi di lesione cerebrale. Il termine generale per questa incapacità o disturbo del riconoscimento è agnosia. Di particolare interesse è l’agnosia associativa: i pazienti con una lesione delle regioni corticali del lobo temporale hanno difficoltà a riconoscere gli oggetti, ma solo se la loro presentazione è visiva. È probabile che il deficit riguardi gli stadi successivi del riconoscimento in cui l’oggetto stimolo deve essere confrontato con le descrizioni oggettuali immagazzinate in memoria. Una possibilità è che tali descrizioni siano andate perse o risultino inaccessibili in qualche modo. Il deficit specifico più frequente è la già citata prosopagnosia. Un secondo tipo di deficit specifico per una categoria è la perdita della capacità di riconoscere le parole, un disturbo chiamato alessia pura. Altri tipi di deficit specifici per una categoria coinvolgono la capacità di riconoscere oggetti organici, come animale, piante e cibi. Un’ipotesi è che il sistema di riconoscimento normale è organizzato in base a differenti classi di oggetti – un sottosistema per le facce, uno per le parole ecc. – e questi sottosistemi sono localizzati in differenti regioni cerebrali. 4) ASTRAZIONE L’astrazione è il processo di conversione delle informazioni sensoriali grezze, in categorie astratte già immagazzinate nella memoria: degli oggetti che percepiamo ne rappresentiamo solo le caratteristiche salienti, anziché una copia identica. L’informazione astratta richiede meno spazio ed è perciò più veloce da maneggiare, rispetto all’informazione grezza, molto più dettagliata e complessa (si pensi a un volto umano). Infatti, se pensiamo a un oggetto a noi familiare sappiamo perfettamente rievocare la sua immagine nella nostra mente, ma questa sarà formata dalla nostra capacità di astrazione e dunque non sarà una rappresentazione esatta dell’oggetto, ricca di tutti gli infiniti dettagli che la caratterizzano nella realtà. 5) COSTANZE PERCETTIVE La costanza è quel fenomeno per cui un oggetto percepito ci appare sempre uguale a sé stesso nonostante cambiamenti, anche considerevoli, nelle caratteristiche fisiche dello stimolo (stimolo distale) e nella immagine retinica (stimolo prossimale) dello stimolo stesso. Costanza di colore e luminosità L’oggetto è illuminato da quelle che chiamiamo lunghezze d’onda di fonte, e riflette alcune lunghezze d’onda più di altre (in particolar modo, quelle che corrispondono al suo colore): chiamiamo questa proprietà caratteristica di rifrazione. Infine, le lunghezze d’onda disponibili che raggiungono i nostri occhi sono il prodotto delle lunghezze d’onda di fonte per la caratteristica di rifrazione. Dunque, la costanza di colore è la capacità del sistema visivo di percepire la caratteristica di rifrazione – una proprietà intrinseca dell’oggetto – indipendentemente dalle lunghezze d’onda di fonte. La costanza di luminosità è simile a quella di colore. La luminosità percepita di un particolare oggetto cambia molto poco o affatto, anche quando l’intensità della fonte luminosa si modifica notevolmente. In generale, utilizzando la nostra conoscenza pregressa dei colori degli oggetti, il nostro sistema visivo è in grado di correggere l’effetto della fonte di illuminazione e arrivare alla luminosità e al colore degli oggetti che vediamo. Infatti, secondo alcuni ricercatori, i nostri giudizi sui colori sono “relativi”: es. diventa bianco ciò che è più bianco in un certo determinato ambiente. Il fatto, invece, che la forma percepita sia costante mentre l’immagine retinica cambia è un esempio di costanza di forma. Costanza di grandezza Essa consiste nel fatto che la dimensione di un oggetto percepito rimanga relativamente costante, indipendentemente dalla sua distanza. Infatti, quando percepiamo la grandezza di un oggetto, teniamo conto di qualcosa in più rispetto alla sola dimensione dell’immagine retinica, cioè la distanza percepita dell’oggetto. Emmert propose il principio dell’invarianza grandezza-distanza: cioè, la grandezza percepita di un oggetto aumenta sia in base alla grandezza retinica dell’oggetto sia in base alla distanza percepita dell’oggetto. Dunque, quando la distanza da un oggetto aumenta, la dimensione retinica diminuisce; ma, se ci sono indicatori di distanza, la distanza percepita aumenta. Quindi, la grandezza percepita rimane approssimativamente costante. Ad esempio, se una persona si allontana da noi, la dimensione della sua immagine sulla nostra retina diventa più piccola, ma la distanza percepita diventa maggiore. Questi due cambiamenti si annullano a vicenda e la nostra percezione della grandezza della persona rimane costante. Le illusioni visive di luoghi come le case stregate o la camera di Ames si producono proprio perché il sistema visivo cerca di mantenere la costanza. DIVISIONE DEL LAVORO NEL CERVELLO Udito e vista hanno una parte dedicata nella neocorteccia. In generale, le cortecce sensoriali si dividono in primarie, secondarie, terziarie… e più basso è il numero più semplice è il tipo di elaborazione fatto dalla corteccia. A livello della corteccia occipitale è possibile trovare cellule che rispondono preferenzialmente a certe caratteristiche degli oggetti visivi, e non a altre, dunque, si tratta di cellule specializzate per vari micro-compiti visivi. Nella corteccia del gatto e della scimmia, per esempio, sono state trovate cellule semplici (selettive per l’orientamento dello stimolo), complesse (rispondono alla direzione di movimento dello stimolo) e iperconnesse (selezionano anche le dimensioni dello stimolo). Tre sistemi cerebrali attenzionali responsabili di: 1) Tenerci in allerta: attivazione nelle regioni parietali e frontali dell’emisfero cerebrale destro; 2) Orientamento dell’attenzione: detto anche sistema posteriore, si trova nella corteccia parietale e temporale e in alcune strutture Capitolo 7 – Apprendimento e condizionamento La ricerca ha dimostrato che la forma più efficace di trattamento per i disturbi di panico è la terapia cognitivo-comportamentale. Questo è un metodo di trattamento che consiste in procedure atte a cambiare pensieri e credenze disadattivi, e deriva dalla terapia comportamentale, un termine generico che si riferisce a metodi di trattamento basati sui principi dell’apprendimento e del condizionamento. L’efficacia di queste forme di terapia suggerisce che alcuni comportamenti implicati nei disturbi possano essere risposte apprese, che possono, quindi, essere disimparate. L’apprendimento è definito come un cambiamento nel comportamento relativamente permanente che avviene come risultato dell’esperienza, e ne esistono due principali tipi: non associativo e associativo. L’apprendimento non associativo è quello relativo a un singolo stimolo e include abituazione e sensibilizzazione. L’abituazione è un tipo di apprendimento non associativo caratterizzato dalla riduzione di una risposta comportamentale a uno stimolo innocuo: ciò che cambia è il rilascio dei neurotrasmettitori responsabili della risposta, che diminuisce. Al contrario, la sensibilizzazione è un tipo di apprendimento non associativo caratterizzato dall’aumento della risposta comportamentale a uno stimolo intenso. Entrambe queste forme sono relativamente di breve durata e permangono da qualche minuto a poche ore. L’apprendimento associativo implica, invece, l’apprendimento delle relazioni tra gli eventi ed include il condizionamento classico e il condizionamento operante, i quali implicano entrambi la formazione di associazioni, cioè l’apprendimento che certi eventi si verificano insieme. TEORIE SULL’APPRENDIMENTO La maggior parte dei primi lavori sull’apprendimento adottava una prospettiva comportamentista e il più importante portavoce di tale corrente fu l’americano John Watson, che scrisse nel 1913 il cosiddetto “manifesto comportamentista”. Egli credeva che la materia principale della ricerca psicologica non avrebbe dovuto essere la coscienza, ma il comportamento, e si lasciò ispirare dagli studi di Ivan Pavlov. Per i primi comportamentisti, l’attenzione era rivolta a stimoli e risposte esterni, e le associazioni di tipo classico o operante erano le fondamenta di tutti i processi di apprendimento. Tuttavia, l’apprendimento non può essere spiegato solo nei termini stimolo-risposta. Infatti, ciò che già conosciamo influenza l’apprendimento (ad esempio, se sappiamo suonare la chitarra, imparare il pianoforte sarà più veloce). La comprensione del condizionamento (e dell’apprendimento complesso che considera molti più stimoli), infatti, ci impone di considerare ciò che l’organismo sa sulle relazioni tra stimolo e risposta (la prospettiva cognitiva). Sembra, poi, che differenti specie adottino differenti meccanismi di apprendimento e che, dunque ci siano dei vincoli biologici in grado di determinare l’apprendimento (prospettiva biologica). CONDIZIONAMENTO CLASSICO Per le sue ricerche, Pavlov, misurava la salivazione dei cani in risposta al cibo, e notò che i cani iniziavano a salivare semplicemente alla vista del piatto di cibo. Gli parve che avessero, quindi, probabilmente imparato ad associare la vista del piatto al gusto del cibo, e decise di vedere se fosse possibile insegnare ad un cane ad associare il cibo ad altri stimoli, come una luce o un suono. Il condizionamento classico, dunque, è un processo appreso in cui uno stimolo precedentemente neutro si associa con un altro stimolo, a seguito di ripetute presentazioni abbinate. Gli esperimenti di Pavlov Salivazione del cane di fronte al cibo: risposta incondizionata (RI) Cibo da solo: stimolo incondizionato (SI) Luce accesa: stimolo neutro (SN) Il cibo viene presentato accendendo la luce: condizionamento. Dopo una serie di presentazioni appaiate di stimolo incondizionato e stimolo neutro, il cane saliverà in risposta alla luce anche se non gli viene fornito alcun cibo. Questo ci insegna che il cane ha imparato che i due eventi sono associati – la luce è diventata uno stimolo condizionato (SC), che causa, dunque, una risposta condizionata (RC). Negli esperimenti di Pavlov, la forma della RC spesso corrisponde a quella della RI (es. salivazione); tuttavia, nella maggior parte dei casi è più complicato di così. Nel nostro esempio, la salivazione in risposta alla luce appare come una risposta anticipatoria, in quanto precede il cibo: questo può aiutare a spiegare il comportamento umano in relazione alla ripetuta assunzione di droghe. Tolleranza alla droga: diminuito effetto di una droga quando viene assunta ripetutamente (sono necessarie dosi sempre maggiori per produrre gli effetti delle prime assunzioni). Sembra che questa sia maggiore quando la droga è assunta in circostanze abituali: questo effetto è chiamato “specificità situazionale della tolleranza alla droga”. L’assunzione di una droga attiva una risposta compensatoria dell’organismo, al fine di ripristinare l’omeostasi, e tale risposta viene così associata a elementi legati all’abituale assunzione (es. odore, compagnia, luogo), che sono in grado di elicitare la risposta compensatoria stessa. L’organismo impara a rispondere agli indizi situazionali (SC) associati all’assunzione, semplicemente perché questi vengono ripetutamente accoppiati all’assunzione (SI). Dunque, quando una persona che fa abituale uso di droga prende quest’ultima in circostanze diverse dal solito, la tolleranza alla droga è ridotta poiché non viene scatenata la risposta compensatoria condizionata. Infatti, è stato riportato che nella maggior parte dei casi di overdose, il tossicodipendente non ha preso una quantità maggiore di droga rispetto al solito – ma piuttosto l’assunzione della stessa quantità di droga è avvenuta in circostanze diverse e inusuali e tali circostanze atipiche hanno deprivato il tossicodipendente della risposta compensatoria che “salva la vita”. Tornando agli esperimenti originali di Pavlov, ogni presentazione abbinata di SC e SI, quindi luce e cibo, è chiamata prova di rinforzo. Ripetuti abbinamenti di SC e SI rafforzano l’associazione tra i due e definiscono lo stadio di acquisizione del condizionamento, che assume la figura di una curva dell’apprendimento. Il cambiamento maggiore si ha nelle prime prove, mentre dopo è scarso. Se lo SI (cibo) è ripetutamente omesso, la RC diminuirà gradualmente fino all’estinzione, la quale corrisponde all’apprendimento che lo SC non è più predittivo dello SI, dunque che la luce non è più predittiva del al bere (luce, suono). Normalmente il malessere (interno) si associa a qualcosa che abbiamo mangiato o bevuto, mentre una paura si associa ad uno stimolo visivo o uditivo, ma in altre specie le cose funzionano diversamente. Gli uccelli, ad esempio, selezionano il cibo sulla base dell’aspetto, e non del sapore, ed imparano ad associare la luce con il malessere. Quindi gli SC appropriati per certe risposte sono specie-specifici. Il condizionamento non è automatico con la sola presenza degli stimoli, ma è determinato. CONDIZIONAMENTO OPERANTE Nel condizionamento operante, certi comportamenti sono appresi perché operano sull’ambiente. Esso prevede l’apprendimento che un particolare comportamento conduce ad un particolare risultato. Fu E. L. Thorndike, prima di Skinner, a concludere che gli animali, diversamente dall’uomo, non apprendessero grazie all’insight (cioè, ad una improvvisa comprensione della situazione che conduce alla soluzione di un problema), ma piuttosto apprendessero attraverso prove ed errori. Nei suoi esperimenti con un gatto affamato in una gabbia con un’apertura a scatto al cui esterno vi era posto un pezzo di pesce, infatti, il gatto, prova dopo prova, sembrava impegnato in un comportamento di tipo prova-ed-errore, e allorché una ricompensa seguiva immediatamente uno di questi comportamenti, l’apprendimento dell’azione in questione era rinforzato. Thorndike chiamò questo rafforzamento la legge dell’effetto (1898). Gli esperimenti di Skinner Skinner ripropone una versione semplificata della puzzle box di Thorndike, con la sua Skinner box, misurando la frequenza di risposta, anziché la latenza. Messo dentro la gabbia, l’animale esplorerà e produrrà comportamenti casuali. Lo sperimentatore può decidere di selezionare un particolare comportamento e fare in modo che sia ripetuto o eliminato facendo in modo che l’emissione del comportamento sia associata ad una conseguenza: cibo o scossa, rinforzo o punizione. Per rinforzo si intende il processo tramite il quale l’offerta di uno stimolo aumenta la probabilità di un comportamento. Questo può essere dato da uno stimolo appetitivo (rinforzo positivo) o dall’eliminazione di uno stimolo avversivo (rinforzo negativo). La punizione è il contrario: diminuisce la probabilità di un comportamento e consiste nella presentazione di uno stimolo avversivo (punizione positiva) o nell’eliminazione di uno stimolo appetitivo (punizione negativa). Modellaggio: tecnica di rinforzare solo le variazioni di risposta che vanno nella direzione desiderata dallo sperimentatore, attraverso un condizionamento che procede gradualmente. Il lavoro dei Breland ha indicato che non tutti i comportamenti possono essere modellati. Anche il condizionamento operante, come quello classico, opera in base a specifici vincoli biologici. Nei paradigmi classici, il rinforzo soddisfa sempre un bisogno primario (es. cibo), ma il comportamento si può osservare e mantenere anche grazie ai rinforzi condizionati (o secondari). Se il cibo (rinforzo primario) viene associato ad uno stimolo (es. una luce) dopo un po’ il soggetto agisce anche se rinforzato con la sola luce. Nel comportamento umano, le lodi (es. “bravo”) e i soldi sono un rinforzo secondario. Gli organismi generalizzano ciò che hanno appreso e tale generalizzazione può essere frenata dall’addestramento alla discriminazione. In generale, uno stimolo discriminante è utile nella misura in cui la sua presenza fa prevedere che la risposta sarà seguita dal rinforzo, mentre la sua assenza indica che la risposta non sarà seguita dal rinforzo (o viceversa). Una volta che un comportamento è stato acquisito, può essere mantenuto anche rinforzandolo di tanto in tanto: questo fenomeno è detto rinforzo parziale. In alcuni casi, piccioni ricompensati con il cibo in media una volta ogni 5 minuti (12 volte in un’ora), beccavano la leva anche 6000 volte l’ora: 500 beccate per una pallina di cibo. Inoltre, l’estinzione di una risposta mantenuta con rinforzo parziale si verifica molto più lentamente dell’estinzione di una risposta mantenuta con rinforzo continuo. Esistono quattro programmi di rinforzo di base: - programmi a rapporto fisso: il numero di risposte che deve essere dato è fissato ad un valore particolare; - programmi a rapporto variabile: si riceve il rinforzo solo dopo aver dato un certo numero di risposte, ma quel numero varia in modo imprevedibile; - programmi ad intervallo fisso: l’organismo è rinforzato per la prima risposta effettuata dopo che è trascorso un certo periodo di tempo dall’ultimo rinforzo; - programmi ad intervallo variabile: il rinforzo dipende dal fatto che sia trascorso un certo intervallo di tempo, ma la durata dell’intervallo varia in modo imprevedibile. Gli eventi negativi o avversivi, come una scarica elettrica o un rumore troppo forte, vengono spesso utilizzati nel condizionamento operante. Il condizionamento avversivo è, appunto, la riduzione dell’emissione di un comportamento tramite una punizione. Questa non ha sempre ottenuto risultati positivi per correggere il comportamento umano. Sebbene la punizione possa cancellare una risposta indesiderabile, essa ha numerosi e significativi svantaggi. Spesso, attraverso delle associazioni, la punizione porta a detestare o temere la persona che l’ha somministrata e il luogo in cui è stata ricevuta. Inoltre, essa da sola non offre alternative comportamentali, dunque sarebbe opportuno associarla a rinforzi positivi diretti verso un comportamento desiderato. Risposta di fuga: risposta che si verifica quando evito una situazione spiacevole che si sta verificando. Risposta di evitamento: metto in atto un comportamento per evitare preventivamente una situazione spiacevole. Questa è interessante, in quanto ci impedisce di valutare se l’evento che volevamo evitare si sia verificato o meno ed è particolarmente difficile da disimparare. Fattori cognitivi Come nel condizionamento classico, anche nell’operante, affinché il condizionamento si verifichi è necessario che il soggetto esperisca la relazione causa-effetto tra la propria azione e le conseguenze che ne derivano (es. rinforzo), altrimenti il comportamento non si apprende. Il condizionamento operante si realizza solo quando l’organismo percepisce di essere in grado di controllare il rinforzo. L’esperimento di Maier e Seligman (1976) investiga quanto sia necessario percepire una relazione “causa-effetto” per apprendere un comportamento e generalizzarlo in altri contesti: due ratti in una gabbia elettrificata con un interruttore-leva che interrompe la neurone A aumenta ripetutamente la scarica di un neurone B, allora la connessione tra i neuroni A e B diventa più forte. Ovvero, la ripetizione della stessa risposta comporta cambiamenti permanenti a livello delle sinapsi tra i neuroni. Questa idea è conosciuta come la regola dell’apprendimento di Hebb. Le idee fondamentali riguardati l’apprendimento sono: 1) che un qualche cambiamento strutturale a livello sinaptico sia la base neurale dell’apprendimento e 2) che l’effetto di tale cambiamento strutturale sia di rendere la sinapsi più (o meno) efficiente. Abituazione e sensibilizzazione Per studiare a livello neurale i processi di apprendimento, un gruppo di ricerca diretto dal premio Nobel Eric Kandel ha scelto di lavorare con un organismo dotato di un sistema nervoso molto semplice: la lumaca Alypsia californica. La lieve stimolazione con un getto d’acqua induce la ritrazione della branchia; tuttavia, la stimolazione ripetuta si associa a risposte sempre più deboli. Questo apprendimento di abituazione è accompagnato dalla riduzione della quantità di neurotrasmettitore secreta dai neuroni sensoriali della branchia, per attivare un motoneurone che controlla ritrazione della struttura. Come l’abituazione, l’apprendimento di sensibilizzazione implica un cambiamento della trasmissione sinaptica tra i neuroni sensoriali e i motoneuroni che controllano la branchia. L’apprendimento elementare è, dunque, mediato da modificazioni sinaptiche, a livello neuronale. Condizionamento classico Con una lesione al cervelletto è stato dimostrato che non è possibile avere una risposta condizionata, ma solo incondizionata. Depressione a lungo termine: riduzione a lungo termine della trasmissione sinaptica, a livello della corteccia cerebellare. Un’area cerebrale specifica, invece, è essenziale all’apprendimento e al ricordo delle esperienze che inducono timore. Si tratta dell’amigdala, una struttura del sistema limbico situata nella profondità dei lobi temporali. L’apprendimento, a livello dell’amigdala, è mediato dal potenziamento a lungo termine, che consiste nel persistente incremento della trasmissione sinaptica. Dunque, le modificazioni della trasmissione sinaptica in aree cerebrali definite sono responsabili dei cambiamenti comportamentali che accompagnano l’apprendimento associativo. Basi cellulari dell’apprendimento Plasticità sinaptica: cambiamenti della morfologia e/o della fisiologia delle sinapsi. L’ippocampo negli adulti sani può cambiare strutturalmente quando vengono acquisite nuove conoscenze di tipo spaziale (es. i tassisti londinesi, famosi per la loro vasta memoria spaziale, hanno un maggior volume di sostanza grigia nella parte posteriore dell’ippocampo ed un volume minore nella parte anteriore dell’ippocampo). APPRENDIMENTO E MOTIVAZIONE L’arousal ha sia una dimensione fisiologica che psicologica. Fisiologicamente, il termine si riferisce al livello di allerta di un organismo. Psicologicamente, il termine fa riferimento alla tensione che può accompagnare diversi livelli di arousal, che vanno dalla calma all’ansia. Secondo Hebb, l’arousal è un importante concetto motivazionale. Ovvero, un organismo sarebbe motivato a mantenere il livello di arousal che è più appropriato per il comportamento che sta attuando. Quest’idea trae spunto dalla legge di Yerkes-Dodson, che spiega che la maggior parte dei compiti è meglio eseguita a livelli intermedi di arousal fisiologico. I primi studiosi si focalizzavano sugli incentivi: un comportamento è motivato dall’attesa di una ricompensa. Hebb (1966), Tolman (1951) e altri studiosi hanno sottolineato il fatto che molti comportamenti umani non possono essere motivati dall’attesa di una ricompensa immediata. Alcuni dei comportamenti umani più complessi, infatti, nascono da bisogni psicologici, ed hanno a che fare con aspetti intellettivi ed emotivi – il nostro bisogno, ad esempio, di appartenenza sociale e di autostima. Secondo un approccio cognitivo allo studio della motivazione, l’enfasi viene posta sulla comprensione e sull’interpretazione di un individuo circa le sue stesse azioni. La motivazione può essere intrinseca o estrinseca. La ricerca ha dimostrato che le persone spinte da una motivazione intrinseca sono più persistenti nel compito da svolgere e sono in grado di gestire del materiale complesso in modi cognitivamente più creativi; inoltre, la loro memoria di nozioni complesse è migliore. Vi sono, anzi, evidenze sperimentali a favore del fatto che le ricompense esterne possono inficiare la motivazione intrinseca. Nel momento in cui vengono introdotte delle ricompense, sembra che il “gioco diventi lavoro”. Questo effetto viene detto effetto di ipergiustificazione: la ricompensa esterna diventa la giustificazione per svolgere quel determinato compito. Gli studiosi della motivazione sottolineano, invece, l’importanza dell’autodeterminazione e dell’autoefficacia. Per codificare le informazioni nella memoria di lavoro, dobbiamo prestarvi attenzione. Dal momento che l’attenzione è selettiva, la memoria di lavoro conterà soltanto ciò che è stato selezionato. Quando l’informazione è codificata in memoria, viene immessa secondo un certo codice e rappresentazione, che può essere visiva o fonologica. La ricerca ci dice che favoriamo la codifica fonologica quando cerchiamo di mantenere attiva l’informazione con la ripetizione, una strategia particolarmente diffusa, quando le informazioni consistono in elementi verbali come cifre, lettere o parole. Quando è necessario, però, possiamo mantenere le informazioni verbali anche in forma visiva. Se è necessario immagazzinare del materiale non verbale, il codice visivo diventa predominante. Le persone, tuttavia, differiscono molto nell’abilità di crearsi immagini mentali e la cosiddetta memoria fotografica (o eidetica) è piuttosto rara. Considerazioni attuali della memoria di lavoro L’esistenza di codici sia fonologici sia visivi ha portato i ricercatori a concludere che la memoria di lavoro possiede diversi sottosistemi o “buffer”. Un sistema, chiamato loop articolatorio, immagazzina ed elabora informazioni in un codice acustico. Un secondo sistema, chiamato taccuino visuo-spaziale, mantiene ed elabora informazioni visive o spaziali. Come vedremo, il contenuto della memoria di lavoro costituisce la maggior parte delle informazioni di cui siamo coscienti nel presente. Ci sono molte prove a favore del fatto che il loop articolatorio e il taccuino visuo-spaziale siano mediati da diverse strutture cerebrali. Gli esperimenti di neuro-immagine supportano l’esistenza di componenti distinte della memoria di lavoro. Nelle prove in cui i partecipanti dovevano immagazzinare informazioni verbali (loop articolatorio), la maggior parte dell’attività cerebrale si svolgeva nell’emisfero sinistro; nelle prove in cui i partecipanti dovevano immagazzinare informazioni spaziali (taccuino visuo-spaziale), la maggior parte dell’attività cerebrale si svolgeva nell’emisfero destro. Come fanno questi due sistemi ad interagire? Baddeley e Hitch (1974) hanno proposto che entrambi siano sotto il controllo di un sistema “padrone”, chiamato esecutivo, il quale decide quale informazione sarà codificata nei due sottosistemi, dirigendo l’attenzione, e quali operazioni mentali verranno eseguite su tale informazione. Baddeley ha, inoltre, recentemente riconosciuto la necessità di chiamare in causa un ulteriore componente della memoria di lavoro, chiamato buffer episodico, con il compito di legare o associare i diversi aspetti di un ricordo. Immagazzinamento Probabilmente la caratteristica davvero peculiare della memoria di lavoro è la sua capacità molto limitata. Per il loop articolatorio, il limite è di sette elementi, con una variazione di più o meno due. Gli psicologi hanno determinato questo numero mostrando alle persone varie sequenze di item non correlati (cifre, lettere o parole) e chiedendo di ricordarli nell’ordine di presentazione. Gli elementi sono presentati rapidamente e la persona non ha tempo di metterli in relazione ad informazioni immagazzinate nella memoria a lungo termine; di conseguenza, il numero degli elementi ricordati riflette soltanto la capacità di immagazzinamento della memoria di lavoro. Lo sperimentatore determina lo span di memoria del partecipante, cioè il massimo numero di item che riesce a ricordare nell’ordine esatto. L’esito dell’esperimento cambia nel momento in cui i collegamenti tra gli item sono invece possibili. Infatti, si può usare la memoria di lavoro raggruppando sequenze di lettere e cifre in unità che si possono ritrovare nella memoria a lungo termine. Cioè, si può usare la memoria a lungo termine per ricodificare materiale nuovo in unità più ampie e significative, per poi immagazzinare queste unità nella memoria di lavoro. Tale processo è denominato chunking, in quanto le singole unità sono dette chunk (pezzi). Possiamo mantenere sette elementi per breve tempo ma, nella maggior parte dei casi, li dimenticheremo presto. L’oblio è dovuto al “decadimento” degli item nel tempo o alla loro sostituzione da parte di item nuovi. Recupero La ricerca ha dimostrato che quanti più elementi si trovano nella memoria di lavoro, tanto più lento diventa il recupero. Questo potrebbe richiedere una ricerca seriale da parte della memoria di lavoro: cioè, una ricerca durante la quale gli elementi sono esaminati uno alla volta. Altrimenti, il recupero di un elemento nella memoria di lavoro più dipendere dall’attivazione di quell’elemento, che deve raggiungere un livello critico. In altri termini, si decide che la memoria di lavoro contiene una sonda se la sua rappresentazione è al di sopra del livello critico di attivazione, e quanti più elementi ci sono nella memoria di lavoro, tanto meno attivazione c’è per ciascuno di loro. È stato dimostrato che simili modelli di attivazione prevedono con precisione molti aspetti del recupero della memoria di lavoro. Memoria di lavoro e pensiero Quando cerchiamo coscientemente di risolvere un problema, spesso usiamo la memoria di lavoro per immagazzinare parti del problema, come pure informazioni ricavate dalla memoria a lungo termine che sono importanti per il problema stesso. La memoria di lavoro gioca un ruolo determinante anche nei processi linguistici come seguire una conversazione o leggere un testo. Quando leggiamo per capire, spesso dobbiamo consciamente collegare nuove frasi a materiale precedente nel testo. Questo collegare il nuovo al vecchio sembra aver luogo nella memoria di lavoro perché le persone che hanno una maggiore capacità di memoria di lavoro ottengono punteggi maggiori nei test di comprensione del testo. Trasferimento dalla memoria di lavoro alla memoria a lungo termine Fra i molteplici modi diversi per attuare il trasferimento, uno di quelli più comunemente studiati è la ripetizione. Ripetere un elemento non solo lo conserva nella memoria di lavoro, ma determina anche il suo trasferimento nella memoria a lungo termine. Il termine “ripetizione di mantenimento” si usa in riferimento agli sforzi attivi per mantenere l’informazione nella memoria di lavoro. Secondo alcuni esperimenti sulla rievocazione libera, il ricordo delle ultimissime parole presentate è buono perché gli elementi nella memoria di lavoro possono essere ancora facilmente recuperati (effetto recency); ma anche il ricordo delle primissime parole è piuttosto buono (effetto primacy). Questo perché, dopo la loro presentazione, le prime parole della lista entrano nella memoria di lavoro e sono ripetute. Siccome in seguito sono stati presentati altri elementi, la memoria di lavoro si è possono pregiudicare il recupero, il più importante è l’interferenza. Se associamo diversi elementi con lo stesso suggerimento, quando cerchiamo di usarlo per recuperare uno degli elementi, gli altri possono attivarsi e interferire con il processo di recupero. Più elementi sono associati a un suggerimento, tanto più il suggerimento è sovraccaricato e tanto meno efficacemente può favorire il recupero. Cercando di spiegare gli effetti dell’interferenza, i ricercatori hanno sviluppato una grande varietà di modelli di recupero, che si basano su un processo di ricerca oppure su un processo di attivazione. Oblio come perdita di informazioni immagazzinate Il fatto che alcune dimenticanze siano dovute a mancati recuperi non implica che tutte le dimenticanze lo siano. Alcune informazioni sono quasi certamente dimenticate, perdute dal magazzino della memoria. Le fondamentali strutture cerebrali coinvolte sembrano essere l’ippocampo e la corteccia che lo circonda. Il ruolo dell’ippocampo nel consolidamento sembra essere quello di un sistema di riferimenti crociati, che unisce aspetti di un ricordo particolare immagazzinati in parti diverse del cervello. Mentre la perdita globale di memoria, negli uomini, si verifica solo quando sia la corteccia circostante sia l’ippocampo sono danneggiati, un danno al solo ippocampo può provocare gravi disturbi mnestici. Le ricerche sembrano dimostrare che i ricordi devono essere rielaborati dall’ippocampo per un periodo di alcune settimane, dal momento che è soltanto durante questo lasso di tempo che la memoria risulta danneggiata dalla rimozione dell’ippocampo. Il magazzino permanente della memoria a lungo termine è quasi certamente localizzato nella corteccia, in particolare nelle regioni deputate all’interpretazione delle informazioni sensoriali. Interazioni fra codifica e recupero Quanto più organizziamo il materiale che codifichiamo, tanto più facile è recuperarlo. Una lista di nomi o di parole è molto facile da ricordare, se codifichiamo le informazioni in categorie e poi le recuperiamo, categoria per categoria. È più facile, inoltre, recuperare un fatto o un episodio se vi trovate nello stesso contesto in cui lo avete codificato. Questo spiega perché talvolta siamo sopraffatti da un torrente di ricordi, quando visitiamo un luogo in cui abbiamo vissuto. Il contesto nel quale un evento è stato codificato è uno dei più potenti suggerimenti per il recupero. Il contesto non è sempre esterno a chi deve memorizzare. Può includere anche il nostro stato interiore, quando codifichiamo un’informazione. Fattori emotivi dell’oblio L’emozione può influenzare la memoria a lungo termine in cinque modi differenti: 1) ripetizione: l’idea più semplice è che tendiamo a pensare alle situazioni cariche emotivamente, sia positive che negative, più che a quelle neutre; ripetiamo e organizziamo, quindi, i ricordi emozionanti più di quanto facciamo con gli altri, meno coinvolgenti; 2) ricordi flashbulb: registrazioni vivide e relativamente stabili delle circostanze in cui si ha notizia di un evento significativo e a forte carica emotiva; suscettibili a decadimento e interferenza; 3) ansia interferente con il recupero: ci sono casi in cui emozioni negative ostacolano il recupero; l’ansia, ad esempio, induce pensieri estranei che interferiscono con il processo di recupero; 4) effetti del contesto: dal momento che il nostro stato emotivo al momento dell’apprendimento è parte del contesto, se il materiale che stiamo apprendendo ci fa sentire tristi, è probabile che il suo recupero sia migliore in un momento in cui ci sentiamo tristi; 5) rimozione: Freud sosteneva che alcune esperienze emotive infantili sono così traumatiche che l’individuo potrebbe essere completamente travolto dall’ansia, se consentisse loro di entrare nella coscienza anche molti anni più tardi. Tali esperienze sono considerate rimosse o relegate all’inconscio e possono essere recuperate solo quando l’emozione associata viene in parte ridotta. MEMORIA IMPLICITA Esiste un tipo di memoria che spesso si esprime in abilità e si rivela come il miglioramento di un compito percettivo, motorio o cognitivo, senza il ricordo conscio delle esperienze che hanno portato a questo miglioramento. In questi casi, la memoria si esprime in modo implicito. Memoria nell’amnesia La maggior parte di ciò che conosciamo sulla memoria implicita lo abbiamo imparato da persone che soffrono di amnesia, o perdita parziale della memoria. L’amnesia può essere anterograda (incapacità di formare nuovi ricordi) o retrograda (incapacità di ricordare eventi antecedenti al danno). A parte le perdite di memoria, l’amnesico tipico appare relativamente normale. Il paziente N.A. soffriva di amnesia anterograda e di un’amnesia retrograda parziale, che copriva un periodo di due anni prima dell’incidente (perforazione del cervello attraverso il naso da un fioretto durante scherma), ma altre abilità cognitive erano rimaste intatte. Il paziente H.M., invece, continuava a leggere la stessa rivista e doveva continuamente essere presentato ai medici che lo avevano in cura da decenni. H.M. soffriva di epilessia e a 27 anni era stato sottoposto a neurochirurgia per rimuovere porzioni del lobo temporale e del sistema limbico, su entrambi i lati del cervello. L’intervento lo rese incapace di formare nuove memorie, sebbene potesse ricordare gli eventi che si erano verificati prima dell’intervento. Egli era in grado di trattenere le nuove informazioni finché si focalizzava su di esse ma, appena si distraeva, le dimenticava ed era incapace di rievocarle. Un aspetto sorprendente dell’amnesia è che non tutti i tipi di memoria sono danneggiati. Le abilità non coinvolte dall’amnesia includono le abilità motorie e le abilità percettive. Infatti, in un compito di lettura di parole capovolte allo specchio, gli amnesici migliorano di volta in volta come i soggetti normali, pur non ricordando di aver già partecipato al compito. Essi dimostrano una memoria normale per le abilità, ma praticamente nessuna memoria per gli episodi di apprendimento che l’hanno sviluppata (fatti). Uno dei più sorprendenti aspetti della memoria umana è che tutti soffriamo di un particolare tipo di amnesia: praticamente nessuno è in grado di ricordare gli eventi dei primi anni di vita, nonostante si tratti di un periodo di massima ricchezza dell’esperienza. Freud scoprì il fenomeno osservando che i suoi pazienti, in genere, non erano in grado di ricordare gli eventi relativi ai loro 3-5 anni di vita: a lui si deve il termine amnesia infantile. Una spiegazione generalmente accettata è che questa sia dovuta ad una profonda differenza tra il modo in cui i bambini piccoli codificano le permette di elaborare in modo rapido ed economico grandi quantità di informazioni. Il prezzo che paghiamo per una simile “economia cognitiva”, però, è che l’oggetto o l’evento possono essere distorti, se lo schema che utilizziamo per codificarlo non si adatta bene. Barlett (1932) è stato forse il primo psicologo a studiare in modo sistematico gli effetti degli schemi sulla memoria. Egli suggerì che, quando tentiamo di far corrispondere i racconti agli schemi, possono verificarsi distorsioni della memoria molto simili a quelle che avvengono quando facciamo corrispondere le persone agli stereotipi. La ricerca ha confermato l’idea di Barlett. Le ricostruzioni post-fattuali possono anche essere il risultato di informazioni fornite dagli altri. Infatti, la scelta di utilizzare un termine specifico, e non un altro, per parlare di uno stesso evento può provocare la costruzione di un ricordo totalmente diverso nell’ascoltatore: i termini utilizzati costituiscono informazioni post-fattuali. Memoria costruttiva e sistema legale La memoria costruttiva è particolarmente importante nel sistema legale, in cui le cause frequentemente sono vinte o perse, e gli imputati evitano o meno sentenze che variano dalla detenzione alla pena capitale, sulla base della memoria di un testimone. Nel mondo reale, in particolare se la memoria del testimone è cruciale per l’esito di una causa legale, nessuno può giudicare obiettivamente se il teste è attendibile o no, poiché non si dispone di alcuna registrazione oggettiva dell’evento reale. Perciò, il principale indicatore dell’attendibilità di un testimone è la sua sicurezza che il ricordo sia accurato. Sebbene nel laboratorio scientifico come nella vita un’elevata sicurezza sia spesso predittiva di un’accuratezza altrettanto elevata, gli psicologi hanno anche delineato circostanze in cui – contrariamente al buon senso comune – questo normale potere predittivo svanisce. Tali circostanze includono: 1) qualche evento originale che causa una cattiva codifica iniziale (es. poco tempo, scarsa illuminazione); 2) qualche forma di ricostruzione post- fattuale; 3) la motivazione e l’opportunità di ripetere le informazioni alla base del ricordo ricostruito. Quando un testimone riporta un qualche ricordo con sicurezza, dunque, la giuria farebbe bene a chiedere degli eventi alla base di questa memoria così certa. Se le circostanze in cui si è formato il ricordo originale sono buone e ci sono poche ragioni di ricostruzione mnestica post-fattuale, la giuria può ragionevolmente accettare l’elevata sicurezza come prova di accuratezza della memoria. I bambini piccoli sembrano essere particolarmente suscettibili alle suggestioni esterne, specie quando sono interrogati. Il problema è particolarmente serio perché i bambini sono spesso interrogati sui crimini da intervistatori che, volenti o nolenti, forniscono parecchie suggestioni esterne nel corso dell’inchiesta, che svolgono la funzione di inferenze che finiscono per creare nei bambini anche nei potenziali falsi ricordi. Inoltre, una crescente mole di lavori dimostra che le tecniche di interrogatorio utilizzate dalla polizia e altri investigatori sono in grado di produrre ricordi (e confessioni) genuinamente falsi di crimini che i sospettati possono obiettivamente provare di non aver commesso. Alcuni studiosi, infatti, hanno dimostrato la possibilità di creare falsi ricordi nella mente di individui innocenti grazie a tecniche che includono: 1) affermare che esistono prove inconfutabili di colpevolezza, 2) sostenere che il presunto colpevole fosse ubriaco o comunque in uno stato tale da non poter rammentare il crimine commesso, 3) sostenere che i misfatti più terribili sono rimossi e che, con uno sforzo intenso, il presunto colpevole può riuscire a recuperarli, e 4) accusare il soggetto di soffrire di un disturbo di personalità multipla e di aver commesso il crimine sotto l’influsso di una personalità diversa da quella dominante. Errori di memoria e memoria normale Recentemente, psicologi e neuroscienziati hanno iniziato a delineare i diversi meccanismi responsabili delle illusioni di memoria. Sono state identificate molte illusioni mnestiche. Alcune sono già state descritte in questo testo, come l’integrazione delle informazioni post-fattuali con i ricordi veri e propri o l’inclusione errata, nei propri ricordi, di inferenze riferite ad eventi vissuti come direttamente esperiti ma invece solo “pensati”. Un importante processo mnestico è il responsabile della corretta attribuzione delle informazioni in memoria alla loro fonte, cioè il processo di monitoraggio della fonte. Dal momento che questo processo si basa su delle inferenze, a volte può fallire, portando ad avere ricordi inaccurati della fonte in questione. Queste illusioni indicano che la memoria per le informazioni è distinta dalla memoria per la fonte e mostra l’importanza del processo di monitoraggio della fonte per l’accuratezza del ricordo. La memoria per la fonte declina con il normale invecchiamento cognitivo. MIGLIORAMENTO DELLA MEMORIA Chunking e span di memoria Per la maggior parte di noi, la capacità della memoria di lavoro non può essere aumentata oltre 7 chunk con variazione di 2. Possiamo, però, allargare la grandezza di un chunk e quindi aumentare il numero degli item contenuti nel nostro span di memoria. Esiste uno studio su un particolare individuo, chiamato S.F., che aveva una capacità di memoria e un’intelligenza normali, per uno studente universitario. Per un anno e mezzo, si impegnò in un lavoro di ampliamento della memoria in media da tre a cinque ore a settimana. Buon corridore fondista, sviluppò la strategia di ricodificare gruppi di quattro cifre nei tempi delle corse. Dal momento che conosceva molti dei tempi delle corse, poteva velocemente unificare la maggior parte dei gruppi di quattro cifre. Nei casi in cui non ci riusciva, S.F. cercava di ricodificare le quattro cifre in una data familiare o nell’età di una persona o in un oggetto. Arrivò ad aumentare lo span della sua memoria da 7 a 28 cifre, poi a quasi 80 cifre, organizzando in modo gerarchico i tempi delle corse. Immaginazione e codifica Abbiamo in precedenza ricordato che possiamo migliorare il recupero di elementi non collegati fra loro arricchendoli di interconnessioni significative, al momento della codifica, in quanto tali connessioni faciliteranno più avanti il recupero. L’immaginazione è il principale ingrediente di molti sistemi mnemonici. Un famoso sistema mnemonico è chiamato metodo dei loci: il primo passo è di affidare alla memoria una sequenza ordinata di luoghi, diciamo i punti da cui passereste in una lenta passeggiata per la vostra casa; una volta in grado di fare facilmente questa tra loro. La semantica è lo studio del significato delle parole e delle frasi. Nei linguaggi non tonali, l’intonazione data ai suoni vocalici non influisce sul significato della parola; nei linguaggi tonali (es. mandarino, coreano) il significato viene espresso non solo dal morfema, ma anche dalla specifica intonazione data ai fonemi che compongono il morfema. Unità sintattiche: comprendono sia le frasi sia i sintagmi. La sintassi di una lingua stabilisce come unire le parole in espressioni e frasi. Qualunque proposizione può essere divisa in soggetto (sintagma nominale) e predicato (sintagma verbale). Effetti del contesto su comprensione e produzione Apparentemente produrre un discorso è l’opposto di capirlo. Per capire una frase, ascoltiamo i fonemi, li usiamo per costruire morfemi e sintagmi di una frase e ricaviamo il pensiero dalla sintassi. Per produrre una frase, invece, procediamo nella direzione opposta. Tuttavia, anche il contesto è importante per comprendere ciò che si sta dicendo, che può renderlo prevedibile o semplicemente comprensibile. Un’altra parte saliente del contesto è la persona con cui si sta comunicando: bisogna afferrare l’intenzione dell’interlocutore mentre esprime quella frase specifica. Infatti, la gente stabilisce l’intenzione di chi parla come parte del processo di comprensione. Basi neurali del linguaggio Varie aree del cervello (principalmente nella corteccia dell’emisfero sinistro) controllano le funzioni linguistiche e lesioni in queste aree provocano deficit di linguaggio, chiamati afasie. Di norma, le persone afasiche non hanno difficoltà di pensiero o ragionamento. Afasia di Broca/non fluente (parte posteriore del lobo frontale sinistro): alterazione della produzione del linguaggio, il discorso appare non fluente e stentato; Afasia di Wernicke/fluente (regione temporale sinistra): alterazione della comprensione del linguaggio; discorso fluente ma poco coerente. Secondo il modello di Geschwind l’area di Broca sarebbe l’area adibita alla programmazione del linguaggio, mentre l’area di Wernicke sarebbe adibita alla fonologia. Dunque, il significato non si troverebbe in nessuna delle due aree. L’afasia di conduzione sembra sostenere questo modello: l’afasico appare normale in test di sintassi e concetto, ma ha gravi problemi nel ripetere una frase ascoltata. Le strutture cerebrali che si fanno carico di aspetti basilari della comprensione e della produzione del linguaggio sono intatte, mentre le connessioni neurali tra queste strutture sono danneggiate. Afasia di conduzione: difficoltà nel ripetere le parole; Afasia globale: disturbate tutte le funzioni del linguaggio. LO SVILUPPO DEL LINGUAGGIO Tappe fondamentali Incredibilmente, i bambini vengono al mondo in grado di distinguere i diversi suoni che corrispondono ai differenti fonemi di qualsiasi idioma. Ciò che cambia, nel primo anno di vita, è che i bambini imparano quali fonemi sono validi nella loro lingua e perdono la capacità di discriminare i suoni che corrispondono allo stesso fonema. In sostanza, perdono la capacità di operare distinzioni inutili per la comprensione e la produzione del loro linguaggio. Dopo un anno di vita, un bambino giapponese non saprà più distinguere tra i fonemi /r/ e /l/. Ad ogni stadio di sviluppo possiamo notare che i bambini riescono a comprendere il linguaggio meglio di quanto non riescano a produrlo. 0-6 mesi: lallazione, produzione di suoni simili a fonemi; 6-12 mesi: i bambini iniziano ad usare le parole per riferirsi a dei concetti; 12-30 mesi: i bambini iperestendono il loro vocabolario, applicando la stessa parola per concetti vicini; 18-24 mesi: esplosione del vocabolario e fast mapping (una parola viene associata al concetto corrispondente soltanto dopo una singola esposizione; quando il bambino sente una parola che non conosce, assume che essa si associ ad uno dei concetti non ancora etichettati); 18-30 mesi: acquisizione dei sintagmi e della sintassi, tralasciando le parole grammaticali, come gli articoli, e gli altri morfemi grammaticali (come -ndo, -to); 30-36 mesi: iper-regolarizzazione, applicazione generale delle regole grammaticali appena scoperte anche ai casi irregolari (es. ho romputo la tazza). Molte tappe fondamentali nell’apprendimento del linguaggio vengono raggiunte entro i primi 5 anni di vita. All’incirca nello stesso momento, la maggior parte dei bambini sviluppa consapevolezza metalinguistica (es. tra i sei e gli otto anni, i bambini iniziano a capire l’ironia). L’acquisizione del linguaggio Secondo i teorici comportamentisti, il linguaggio si apprende per condizionamento operante e /o imitativo, tuttavia, entrambi quei tipi di apprendimento si focalizzano sull’acquisizione di elementi singoli del linguaggio (es. una parola, un’espressione), mentre sembra che i bambini imparino regole piuttosto che una somma di singole abilità. Infatti, essi formulano un’ipotesi su una regola linguistica, la verificano e, se funziona, la conservano. Esistono alcuni principi operativi seguiti da tutti i bambini per formulare le ipotesi. Uno è quello di fare attenzione al finale delle parole. Un altro è di cercare i prefissi e i suffissi che indicano un cambiamento di significato. Un terzo principio operativo è di evitare le eccezioni. Secondo Chomsky, l’essere umano possiede caratteristiche innate favorevoli allo sviluppo del linguaggio. Ad esempio, il linguaggio si sviluppa anche in casi in cui (secondo Skinner) non si dovrebbe sviluppare, come nei figli dei bambini sordomuti. Inoltre, il linguaggio si sviluppa in modo simile indipendentemente da cultura e lingua. E tutte le lingue condividono gli stessi periodi critici per l’acquisizione di particolari competenze. Dunque, il linguaggio si sviluppa seguendo certe tappe e nella misura in cui si è esposti a un ambiente che ne permette lo sviluppo. Caso di Genie: caso famoso di isolamento sociale durante l’infanzia, Genie dalla sua nascita fino all’età di undici anni aveva vissuto legata a un WC per bambini in una stanza isolata dalla casa dei suoi genitori (padre psicotico e madre non vedente e completamente dipendente). Prima essere liberata, Genie non aveva avuto pressoché alcun contatto con altre persone, e non possedeva virtualmente alcuna abilità linguistica. Nonostante gli sforzi e la sua strategia degli esemplari. Fino ai dieci anni i bambini tendono ad assegnare l’esemplare in funzione della somiglianza col prototipo invece di verificare se l’esemplare abbia in sé il nucleo. I concetti si acquisiscono “statisticamente” e in modo “induttivo”, accumulando evidenze ed esemplari. Successivamente, in età più adulta, si inizia ad utilizzare un’altra strategia, la verifica di ipotesi che controlla se l’esemplare possiede le caratteristiche tipiche della categoria. Basi neurali dei concetti e delle categorizzazioni Regioni neurali differenti possono mediare diversi tipi di concetti. Ad esempio, le aree percettive del cervello sono coinvolte maggiormente nella rappresentazione degli animali rispetto a quella degli oggetti. Le regioni funzionali e motorie, invece, hanno un ruolo maggiore nella rappresentazione degli oggetti piuttosto che in quella degli animali. RAGIONAMENTO E DECISIONI Lo studio psicologico del ragionamento spesso si studia confrontando la differenza che sussiste tra il ragionamento (e le conclusioni) che si possono mettere in atto applicando le leggi della logica e della probabilità con quelle che si producono nel ragionamento quotidiano e che mettiamo in atto nella vita di tutti i giorni. Il ragionamento psicologico differisce spesso, nei processi e nelle conclusioni, dal ragionamento strettamente logico e/o probabilistico. Ragionamento deduttivo: dal generale al particolare; conclusivo (le conclusioni sono vere se le premesse sono vere). Es. “tutti gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo: Socrate è mortale” è una deduzione corretta; “Tutti gli uomini sono mortali, Thor è un uomo: Thor è mortale” è una deduzione sbagliata. Tendenzialmente, ragionamento logico e quello umano coincidono se i problemi sono semplici. Tuttavia, se le premesse sono molte è possibile che il ragionamento diventi più complesso: se piove prendo l’ombrello, se prendo l’ombrello lo dimenticherò, sta piovendo, quindi, prendo l’ombrello o non lo prendo perché sennò lo perdo? Spesso ci concentriamo sulla conclusione che valutiamo rispetto alle nostre credenze e conoscenze: se questo accade potremmo cadere vittima del belief bias, per cui giudichiamo vero un ragionamento deduttivo perché valutiamo la plausibilità delle conclusioni, perdendo di vista se la deduzione può essere logicamente derivata oppure no. Quando ragioniamo, spesso il nostro ragionamento non segue la logica. Alcuni problemi logici ci risultano di più facile soluzione di altri. Inoltre, la nostra capacità di risolvere un medesimo problema logico può non essere diversa in funzione di come il problema viene presentato, se in forma simbolica oppure utilizzando esempi concreti. Il compito di selezione di Watson funziona in questo modo. Secondo Johnson-Laird, quando il contenuto è espresso in forma di un problema quotidiano, la soluzione può essere trovata in forma rappresentazionale/immaginativa. Invece, se il problema è proposto in forma simbolica, non riusciamo a generare una rappresentazione visivo/mentale del problema. Johnson-Laird parla di modelli mentali, cioè una rappresentazione concreta della situazione. Ragionamento induttivo: dal particolare al generale; non può mai portare ad una conclusione vera, ma solo probabile. Es. “cigno bianco, cigno bianco, cigno bianco: tutti i cigni sono bianchi” non è vera, ma probabile. Spesso il ragionamento umano si sviluppa in modo induttivo, ma a dispetto di quanto scritto sopra traiamo conclusioni definitive e nette, e non semplicemente probabili. L’esito del ragionamento dipende da quanto sono probabili gli eventi in questione, dalla loro probabilità di base. Quando abbiamo a che fare con probabilità, è bene ricordare alcune delle proprietà della probabilità, come la congiunzione di probabilità: dato un evento E a cui si associa una probabilità p ed un evento derivato Ed a cui si associa una certa probabilità pd la probabilità che avvenga l’unione dei due eventi è più bassa di quella che avvenga il primo da solo. Nonostante il ragionamento induttivo sia guidato dalle regole della probabilità, spesso quando ragioniamo trascuriamo le leggi della probabilità e invece di basarci su di esse, ci basiamo su euristiche, cioè ragionamenti brevi e semplici che portano ad un risultato che riteniamo soddisfacente, ma che non è necessariamente affidabile o verosimile. Euristica della somiglianza: nel risolvere un problema spesso giudichiamo solo la somiglianza tra gli elementi del problema e la loro somiglianza con le nostre conoscenze pregresse; Euristica della disponibilità/reperibilità: per noi è più semplice risolvere un problema basandoci sulle informazioni che sono facilmente reperibili per noi (es. fare una stima delle persone divorziate al mondo sulla base delle persone da noi conosciute); Euristica della rappresentatività: assunzione che ogni caso sia paradigmatico della categoria a cui appartiene. Pregiudizio della conferma: se siamo convinti di una cosa, tendiamo a sottolineare ciò che la supporta anziché ciò che è contrario ad essa. Hindsight bias: tendenza, a fatti avvenuti, a sopravvalutare la loro predicibilità. Effetto framing: a parità di condizioni “di fatto”, la nostra propensione per un certo insieme di fatti può dipendere da come i fatti vengono presentati. Basi neurali del ragionamento Ricerche sulle basi neurali del ragionamento sostengono la distinzione tra ragionamento deduttivo e induttivo. Quando si presentano alle persone gli stessi ragionamenti, si attivano parti differenti del cervello, a seconda del fatto che si stia valutando la validità deduttiva rispetto a quella induttiva. PENSIERO IN AZIONE: PROBLEM SOLVING Il problem solving è il processo per mezzo del quale arriviamo alla soluzione di un problema. Per problemi strutturati, spesso si scompone il problema in tanti sotto-problemi. Tuttavia, ci sono diversi modi di risoluzione di un problema: 1) Metodo della riduzione della differenza: ho un obiettivo e passo passo riduco la differenza tra l’obiettivo finale e il mio stato corrente; 2) Analisi mezzi-fini: in questo caso possiamo effettuare passi anche in direzione diversa dalla meta perché un apparente allontanamento dalla meta ci permette di ottenere il risultato; 3) Ragionamento all’indietro: parto dalla meta per capire il percorso che mi porta al risultato. I problemi possono essere rappresentati anche in forma di immagini mentali, e non solo problemi di natura spaziale ma anche logico- sistemi complessi può aiutare a distinguerle dagli stati strettamente correlati, come gli umori. In primis, le emozioni hanno tipicamente una causa chiara, sono relative a qualcosa o qualcuno e durano pochi secondi o minuti; gli umori, invece, sono spesso stati affettivi diffusi e fluttuanti che possono durare anche giorni. Inoltre, le emozioni tipicamente implicano il sistema a componenti multiple descritto in precedenza e sono spesso concepite all’interno di una categoria discreta (es. paura, rabbia). Molti teorici hanno assunto una prospettiva sistemica sull’emozione, in cui si ritiene che le diverse componenti abbiano effetti reciproci le une sulle altre. In particolare, però, possiamo dire che un’emozione si distingue per: vissuto soggettivo, componente comportamentale (faccia, corpo), e attivazione o risposta fisiologica. VALUTAZIONE COGNITIVA ED EMOZIONE L’elemento da cui parte la catena dell’emozione è la relazione individuo-ambiente, la quale dovrà essere interpretata dall’individuo come rilevante affinché possa tradursi in un’emozione. Questo processo interpretativo è la valutazione cognitiva, attraverso la quale decidiamo se l’attuale relazione individuo-ambiente mette in pericolo gli obiettivi o il benessere personali. In caso affermativo, il processo di valutazione traduce le circostanze oggettive in una situazione personalmente significativa. Il significato personale, a sua volta, determina il tipo di emozione che sperimentiamo così come la sua intensità. Scoperta della valutazione cognitiva L’importanza della componente cognitiva delle emozioni è stata messa in risalto per la prima volta da uno studio famoso effettuato all’inizio degli anni ’60 da Schachter e Singer, che ha prodotto la cosiddetta teoria bifattoriale delle emozioni: le emozioni sono in risultato della combinazione di due fattori, uno stato iniziale di arousal inspiegabile e una spiegazione/valutazione cognitiva dell’arousal in questione. Tuttavia, tale teoria ha fornito scarse spiegazioni sul modo in cui si dispiegano le emozioni, al di fuori del laboratorio, in quanto l’arousal fisiologico inspiegabile è difficilmente verificabile nella realtà quotidiana. La teoria bifattoriale è stata definita un approccio psicologico costruzionista alle emozioni, perché descrive come le emozioni sorgano da un insieme di ingredienti psicologici di base. Un approccio contemporaneo di costruzionismo psicologico è il modello di atto concettuale di Barrett, il quale suggerisce che gli stati corporei e i processi cognitivi si uniscono per produrre degli stati emotivi. Gli ingredienti di base sono tre: sensazioni esterne dal mondo al di fuori del corpo, sensazioni interne al corpo, e proprie esperienze precedenti. Temi e dimensioni della valutazione cognitiva Varie teorie ipotizzano che le valutazioni individuali delle situazioni portino all’esperienza soggettiva di emozione, all’arousal associativo e alle altre componenti della risposta emotiva. Queste teorie possono essere divise in: teorie minimaliste della valutazione cognitiva, che riducono il numero delle dimensioni di valutazione al minimo, spesso in base a temi fondamentali, e teorie dimensionali della valutazione cognitiva, che identificano una varietà di dimensioni di valutazione ritenuta sufficiente a spiegare le differenze tra le emozioni. In base alle teorie minimaliste, esistono determinate transazioni umane fondamentali che producono emozioni specifiche. Richard Lazarus identifica queste transazioni come temi relazionali centrali. I quali rappresentano il significato personale conseguente a un modello particolare di valutazioni di una specifica relazione individuo-ambiente. Ad esempio, se il tema relazionale centrale è un’offesa svalutante contro me e ciò che è mio, l’emozione ad esso legata potrebbe essere la rabbia. Tuttavia, i tipi di circostanze che elicitano i diversi modelli di valutazione possono differire tra le culture. Le teorie dimensionali, invece, si preoccupano di specificare le varie dimensioni di valutazione e le conseguenze emotive di tali dimensioni. Una dimensione è la desiderabilità dell’evento anticipato e l’altra è se questo evento accade o no. Se combiniamo queste due dimensioni, abbiamo quattro situazioni possibili, ognuna delle quali sembra produrre una distinta emozione. Valutazioni consce e inconsce Alcuni affermano che le emozioni si possono produrre senza alcun pensiero conscio precedente. Infatti, alcuni studi confermerebbero che le valutazioni cognitive di minaccia possono avere luogo a livelli inconsci, inducendo le persone a esperire emozioni per ragioni a loro sconosciute. La maggior parte delle attuali teorie della valutazione cognitiva riconosce che tali valutazioni possono verificarsi in modo automatico, al di fuori della consapevolezza. È ancora fonte di dibattito, comunque, quanto del processo di valutazione possa avvenire in modo inconscio. Secondo un’ipotesi recente, solo le valutazioni cognitive più rudimentali di valenza e urgenza si effettuano al di fuori della consapevolezza. Valutazioni cognitive nel cervello Una struttura cerebrale che gioca un ruolo chiaro nei circuiti emozionali è l’amigdala, una piccola massa a forma di mandorla collocata alla base del cervello, che registra le reazioni emotive. Alcuni studi hanno dimostrato la presenza di connessioni fra i canali sensoriali e l’amigdala che non passano attraverso la corteccia; queste connessioni dirette potrebbero essere la base biologica delle valutazioni cognitive inconsce. L’amigdala, quindi, è capace di rispondere a una situazione di allarme prima ancora della corteccia, il che suggerisce che talvolta possiamo sperimentare un’emozione prima di sapere perché. ESPERIENZA SOGGETTIVA ED EMOZIONE Sebbene il processo iniziale di valutazione cognitiva possa verificarsi al di fuori della consapevolezza, l’esperienza soggettiva dell’emozione – la componente sentimentale – è per definizione consapevole. Un effetto del processo di valutazione consiste nella modificazione dell’esperienza soggettiva. I ricercatori hanno affermato che le emozioni possono manifestarsi anche senza sentimenti consapevoli. Ciononostante, quando presente, l’esperienza soggettiva conscia è molto importante, in quanto da un punto di vista autorevole i sentimenti funzionano da feedback della rilevanza personale delle circostanze attuali. Più in generale, si ritiene che la componente sentimentale dell’emozione guidi il comportamento, le decisioni e l’elaborazione delle informazioni. Sentimenti che modificano l’attenzione e l’apprendimento percezione che si ha della propria attivazione, e quelle che non l’hanno. Se la percezione viscerale contribuisce all’intensità delle emozioni, allora le persone brave a rilevare il proprio battito cardiaco dovrebbero riportare esperienze soggettive più intense delle emozioni e mostrare espressioni facciali anch’esse più intense. Questo è esattamente ciò che è stato dimostrato. Differenziazione delle emozioni L’attivazione del sistema nervoso autonomo, dunque, contribuisce all’intensità dell’esperienza emotiva, ma consente di differenziare le emozioni tra loro? William James, nel 1890, propose che la percezione dei cambiamenti corporei fosse l’esperienza soggettiva dell’emozione e non si potesse avere l’una senza l’altra. Secondo James, è il corpo che guida la mente e non viceversa, dunque sono triste perché sto piangendo, non piango perché sono triste. Nello stesso periodo, il fisiologo danese Carl Lange si interrogava sulle stesse questioni, dunque la prospettiva nata dalle loro ricerche è nota come teoria di James-Lange. Secondo tale teoria, poiché la percezione dell’attivazione del sistema nervoso autonomo costituisce l’esperienza di un’emozione, e poiché differenti emozioni si provano in modi differenti, deve esistere uno schema distinto di attivazione del sistema nervoso autonomo per ciascuna emozione. Questa teoria fu duramente attaccata negli anni ’20, e l’attacco fu guidato dal fisiologo Walter Cannon (1927), il quale formulò tre critiche principali: 1) dal momento che gli organi interni sono strutture relativamente poco sensibili, i cambiamenti interni avvengono troppo lentamente per costituire la fonte primaria di un’emozione: come possono essere le modificazioni viscerali l’origine di un’emozione se spesso le emozioni sono istantanee?; 2) l’induzione artificiale dei cambiamenti corporei associati con un’emozione non causa l’esperienza di una emozione vera; 3) lo schema di attivazione del sistema nervoso autonomo non sembra differire molto fra uno stato emotivo e l’altro (es. il battito si accelera sia per rabbia sia per innamoramento). Fino agli anni ’90 la maggior parte degli studi sull’argomento ha trovato scarse prove dell’esistenza di schemi di attivazione diversi associati a emozioni differenti. Uno studio condotto da Levenson et al., però, offre una prova sicura di schemi di attivazione del sistema nervoso autonomo distinti per emozioni diverse. Altre ricerche suggeriscono che questi distinti schemi di attivazione possono essere universali. Questi risultati sono importanti, ma non offrono una prospettiva inequivocabile per la teoria di James-Lange o per la pretesa che l’arousal autonomo sia la sola componente che differenzia le emozioni. Gli studi descritti dimostrano l’esistenza di alcune differenze fisiologiche fra le emozioni, ma non che queste differenze siano percepite e sperimentate come le differenze qualitative fra le emozioni. Molti teorici dell’emozione credono tuttora che qualcosa di diverso dall’attivazione autonoma differenzi le emozioni. MOVIMENTO MUSCOLARI FACCIALI ED EMOZIONE Dalla pubblicazione del classico lavoro di Charles Darwin nel 1872, L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, gli psicologi hanno considerato la comunicazione dell’emozione come una funzione importante, con valore di sopravvivenza per la specie. Altre ricerche suggeriscono che, oltre la funzione comunicativa, le espressioni emotive – nel viso, nel corpo e nella voce – contribuiscono all’esperienza soggettiva dell’emozione, proprio come la valutazione e le modificazioni corporee. Comunicazione delle emozioni tramite movimenti muscolari facciali Certi movimenti muscolari facciali sembrano avere un significato universale, indipendentemente dalla cultura nella quale un individuo viene educato. Anche se la muscolatura facciale cambia da persona a persona, i muscoli necessari per produrre queste emozioni universalmente riconosciute sembrano essere basilari e costanti tra tutte le persone, suggerendo che il volto umano si è evoluto per trasmettere segnali emotivi e il cervello umano si è evoluto per codificare tali segnali. Secondo Darwin, molto dei modi in cui esprimiamo un’emozione sono modelli ereditati che in origine avevano un qualche valore per la sopravvivenza. Il fatto che i movimenti muscolari facciali delle emozioni comunichino informazioni importanti è dimostrato anche più potentemente quando la sola espressione facciale di una persona modifica di per sé il comportamento di un’altra. Inoltre, sebbene questi movimenti sembrino associati in modo innato a emozioni particolari, certi aspetti sono appresi dalla cultura. Le regole di esibizione delle emozioni, per esempio, variano nelle diverse culture e specificano il tipo di emozione che le persone dovrebbero esprimere in certe situazioni, così come i comportamenti appropriati per particolari emozioni. Ipotesi del feedback facciale L’idea che i movimenti muscolari facciali, oltre alla loro funzione comunicativa, contribuiscano anche all’esperienza delle emozioni è chiamata ipotesi del feedback facciale. Quest’ipotesi è parallela alla teoria di James-Lange: proprio come riceviamo un feedback dell’attivazione del sistema nervoso autonomo, così riceviamo un feedback dai nostri muscoli facciali, e questa retroazione causa o intensifica l’esperienza emotiva. Numerosi studi, infatti, dimostrano l’esistenza di una connessione diretta fra movimenti muscolari facciali ed emozione provata, e altri esperimenti indicano che movimenti muscolari facciali possono esercitare un effetto indiretto sull’emozione, poiché aumentano l’attivazione del sistema nervoso autonomo. Anche i movimenti muscolari facciali, dunque, possono innescare le emozioni. RISPOSTA ALL’EMOZIONE: REGOLAZIONE EMOZIONALE La regolazione emozionale, ossia la risposta individuale alle proprie emozioni, può essere considerata una componente del processo emozionale perché le persone, almeno a partire dall’età scolare, reagiscono quasi sempre alle loro emozioni e si prefiggono di regolare cosa sentire o esprimere e quando. Quindi, le emozioni e gli sforzi per regolarle vanno a braccetto, così tanto che raramente abbiamo una cosa senza l’altra. In realtà, una considerevole parte del processo di socializzazione è finalizzata a insegnare ai bambini come e quando regolare le loro emozioni. Inoltre, la gente controlla o regola le proprie emozioni in molti modi diversi. Anche la tempistica con cui le persone cercano di regolare le proprie emozioni è importante. È stato dimostrato che la tattica di repressione delle espressioni facciali incrementa sia l’attivazione del
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