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Storia del Teatro: Il Grande Attore tra Ottocento e Primo Novecento - Alonge, Perrelli, Sintesi del corso di Storia del Teatro e dello Spettacolo

Il teatro del Grande Attore tra Ottocento e Primo Novecento, discutendo l'architettura delle compagnie italiane, il ruolo del regista e l'evoluzione del teatro verso una nuova forma di espressione. la transizione dal vecchio teatro erede della Commedia dell'Arte alla nascente drammaturgia illuministica e preromantica, e la nascita della compagnia capocomicale. Vengono discusse le innovazioni tecniche, il rispetto del testo e la formazione di attori come Stanislavskij.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 05/06/2022

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federicoferrara00 🇮🇹

4.6

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Scarica Storia del Teatro: Il Grande Attore tra Ottocento e Primo Novecento - Alonge, Perrelli e più Sintesi del corso in PDF di Storia del Teatro e dello Spettacolo solo su Docsity! Storia del teatro e dello spettacolo – Roberto Alonge, Franco Perrelli 12. Il teatro del Grande Attore tra Ottocento e primo Novecento L’Ottocento è un periodo di svolta e di modificazioni molto complesso, in cui si intrecciano fili diversi: la drammaturgia, gli attori (cioè un modo di fare fondato sugli attori, che ha radici risalenti al fenomeno della Commedia dell’Arte) e la nuova figura del regista. Fatta questa premessa, proseguiamo analizzando l’architettura delle compagnie italiane, che risultano basate su un organico di ruoli, la cui articolazione prevede: il primo attore e la prima attrice, coloro che hanno diritto di scelta prioritaria sulle varie parti (Tommaso Salvini, Eleonora Duse); il brillante, determinante nei testi comici poiché assume la funzione di motore dinamico della vicenda, spesso finendo per assorbire il ruolo del primo attore; il caratterista, legato ai personaggi di carattere della drammaturgia goldoniana e molièriana, solitamente sottolinea gli elementi caricaturali dei personaggi che incarna, per cui necessita un certo tipo di fisico; l’attore giovane e l’attrice giovane; la seconda donna; il promiscuo, capace di consentire il passaggio da personaggi patetici a personaggi comici (Eduardo de Filippo); il generico. Tra fine Settecento e primo Ottocento si attraversa una fase delicatissima di transizione tra il vecchio teatro stancamente erede della Commedia dell’Arte e la nascente drammaturgia illuministica e preromantica. Nel concreto, significa tutto un vasto arco di modelli testuali: dalla commedia lacrimosa al dramma, dal dramma patetico-sentimentale al dramma storico. Il sistema dei ruoli svolge una funzione di mediazione tra il vecchio modo di produzione e la nuova situazione storico-culturale. Si inaugura così, la stagione della compagnia capocomicale, in cui il capocomico assume in fondo funzioni di impresario: è lui, infatti, a stipulare i contratti con gli attori, a sopportare le spese, a farsi carico delle paghe agli scritturati. Il capocomico svolge naturalmente anche funzioni di coordinamento del lavoro di tutti gli attori. Lui tratta con gli autori ma distribuisce le parti e dirige le prove. Ad egli spetta la cura della scenografia, che è fatta essenzialmente di carta dipinta. Soltanto ai primi del Novecento si cominciò a usare la stoffa che aderiva meglio alle strutture metalliche in cemento armato, e non mostrava quindi muri ondulati o traballanti. Per arredare il palcoscenico, ai fini dello spettacolo, la compagnia ricorreva o ai fondi di magazzino dei teatri, oppure a ditte specializzate operanti nelle singole città. In entrambi i casi si trattava di modelli approssimativi, spesso non coordinati in stile. Il compito di predisporre questi arredi spettava al direttore di scena, affiancato al trovarobe, che viaggia sempre con la compagnia, trasportando nel suo baule infinità di oggetti utili per la definizione dell’arredo scenico. Risulta sommaria anche l’illuminazione che si riduceva in pratica alle luci in basso della ribalta e alla fila di lampadine in alto detta bilancia. Un’illuminazione fissa, che si limita a far vedere, ma che non ha una funzione rappresentativa e tanto meno una valenza simbolica, legata ai suoi stati d’animo. Soltanto nell’ultimo quarto dell’Ottocento compariranno i proiettori elettrici e questo permetterà di piazzarli fuori dal palcoscenico per creare un gioco di luci che colga parti diverse dello spazio. Lentamente, si arriva all’idea di usare la luce come un fattore di poesia scenica. Questo ritardo dell’illuminotecnica da una parte esalta il valore mimico del volto dell’attore, dall’altro nasce dalla concezione di un teatro dell’attore, in cui ciò che conta è la presenza viva, demiurgica dell’attore. Si osservi che il grande attore e il suo insieme dei testi che recita, chiamato repertorio, è costituito in grande prevalenza da lavori artisticamente commerciali. Ciò che conta non è il libretto, le parole, ma la musica di Verdi. Allo stesso modo ciò che conta non è il copione, ma la poesia d’attore di attori come Salvini e Zacconi, e attrici come la Duse e la Ristori, perché è l’arte del grande attore che riscatta il testo e rende un capolavoro anche quello che era un copione largamente insufficiente. 15. Primo Novecento: le Avanguardie Storiche e la centralità di Pirandello L’inizio del Novecento è certamente contrassegnato da una grande irrequietudine spirituale, che corrisponde ovviamente al disagio di una società europea che non per nulla si avviterà tragicamente nel Primo conflitto mondiale. In questo contesto storico emergono le così dette Avanguardie Storiche, e in termini cronologici il primo evento è rappresentato dal Manifesto del Futurismo, pubblicato da Filippo Tommaso Marinetti nel 1909. Il movimento futurista italiano ha una certa risonanza internazionale e si batte per adeguare la realtà artistica alla modernità del sistema economico-sociale con parole d’ordine talvolta chiassose, nazionalistiche e guerrafondaie. Del 1911 è il Manifesto dei drammaturghi futuristi, sempre composto da Marinetti che rivela però tutti i limiti della consapevolezza della problematica teatrale. Due anni dopo, uscirà il manifesto Teatro di varietà, dedicato ad una forma di teatro minore, solitamente ignorato dagli intellettuali, che si deve aprire a una pluralità di espressioni spettacolari, ma anche a una interazione con il pubblico che “non vi rimane statico come uno stupido voyeur, ma partecipa rumorosamente all’azione”. In effetti la rottura della barriera palcoscenico/platea è il filo rosso che attraversa il variegato panorama delle Avanguardie Storiche. Il Futurismo Italiano contribuisce a definire lo spettacolo moderno, con l’invenzione delle serate futuriste, capaci di coinvolgere e scatenare il pubblico. Sulla stessa linea, seguiranno le serate dadaiste. L’espressionismo tedesco esalta la visione soggettiva dell’artista, e sul terreno teatrale esprime la denuncia sofferta della disumanità del mondo. A livello europeo, una posizione egemonica l’assume Luigi Pirandello, che si posiziona come il massimo drammaturgo del Novecento, oltrepassando i limiti della sua formazione di letterato siciliano un po’ tradizionale. Nel 1921 pubblica Sei personaggi in cerca d’autore, una pièce in grado di far impazzire il pubblico poiché rompe gli schemi della tradizione in un colpo solo. Il pubblico entrain teatro e trova solo il teatro, il palcoscenico nudo, e degli attori che fanno gli attori, che stanno mettendo in prova uno spettacolo, e poi arrivano sei persone che si credono personaggi, dichiarando di voler recitare un dramma, ma pretendendo che il Capocomico sia il loro autore. La stessa cosa avviene in Ciascuno a suo modo (1924), secondo pezzo della trilogia teatro nel teatro. Il palcoscenico qui rappresenta “quella parte del corridoio del teatro che conduce ai palchi di platea, alle poltrone, alle sedie e, in fondo, al palcoscenico”. La commedia è immaginata come ispirata a un fatto di cronaca, e i protagonisti del fatto di cronaca si riconoscono nell’intreccio teatrale, e saltano su a protestare la loro indignazione. In Pirandello la vita irrompe nel teatro solo per riconoscere la superiorità del teatro, il suo decisivo valore maieutico. Che è tra l’altro la peculiarità del pensiero di Pirandello: l’arte che imita la vita, la vita che imita l’arte. Il teatro che funziona, in definitiva, come una sorta di psicoanalisi. Le cose cominciano a cambiare quando nel 1925, fino al 1928. Pirandello dirige una sua compagnia, il Teatro d’Arte a Roma, dove il letterato impara ad apprezzare la qualità dei suoi testi, grazie all’influenza della giovanissima Marta Abba, di cui è disperatamente innamorato. Ripubblicando i suoi testi, si apre a una più esplicita audacia avanguardistica, proponendo un effettivo superamento della frattura palcoscenico/platea. Nei Sei personaggi riscritti nel 1925, i sei personaggi entrano dalla platea, e il Capocomico si muove continuamente fra palcoscenico e platea. La seconda edizione di Ciascuno a suo modo del 1935 si arricchisce di una preziosa Premessa che spezza la barriera del palcoscenico, chiedendo esplicitamente che lo spettacolo inizi nei pressi del botteghino o, addirittura, per strada. Tuttavia, affiora un profilo umbratile. Nonostante Pirandello si sia posto come obiettivo di costruire un teatro al femminile, al fine di riproporre sistematicamente infinite varianti dell’enigmatica Marta Abba, ella è una figura filiale per lo scrittore siciliano nonostante tutto, e l’amore impossibile si spiega a partire dalla percezione dell’innominabile tabù, che Pirandello vive tragicamente sulla propria pelle (la moglie – pazza – delira intorno ai presunti desideri incestuosi del marito per la figlia Lietta). Pirandello è costretto a chiudere la moglie in manicomio nel 1919, per poi evocare nel 1921 con Sei personaggi la sua angoscia opprimente che ruota intorno all’incesto sfiorato tra i principali dei sei personaggi, il Padre e la Figliastra. 17. Secondo Novecento italiano: l’avvento (tardivo) della regia e tardi epigoni del Grande Attore Il motivo della tarda affermazione della regia in Italia è complesso. L’Italia resta ferma alla tradizione del Grande Attore, e la drammaturgia è gracile, ci sono autori scarsamente autorevoli, che non riescono a influenzare gli attori con cui lavorano. Il vero innovatore della scena italiana è Silvio D’Amico, giornalista teatrale, che fondò nel 1935 l’Accademia Nazionale di Arte Drammatica. Egli ha capito che l’Italia poteva mettersi al passo con l’Europa solo rinunciando al teatro del Grande Attore e promuovendo il teatro di regia. In realtà, egli è un fautore moderato. Nonostante muoia nel 1955, fa in tempo a vedere l’affermazione di registi emergenti, come Luchino Visconti, che seppur lo ricordiamo maggiormente per le sue pellicole cinematografiche, diede un contributo importante alla regia teatrale italiana. Nel 1946 dirige la compagnia di Rina Morelli e Paolo Stoppa, all’interno della quale crescono le leve destinate a costituire, nel 1954, l’affiatata “Compagnia dei Giovani”. Esordisce nel 1949 con Oreste di Alfieri, con protagonista Vittorio Gassman. Provocatoriamente barocco, viene stroncato dalla critica e in particolare da D’Amico, che critica anche la versione de La Locandiera, ma sbaglia, poiché afferma che “L’umanità di Goldoni è sempre atteggiata, aggraziata, in un costante gioco di variopinta fantasia. Goldoni non potrà mai essere rappresentato in chiave di mero realismo”. Qui D’Amico svela un fondo rigido, poiché un autore non è mai interpretato per sempre. Il realismo di Goldoni è la grande conquista degli studi goldoniani a partire dagli anni Sessanta, che però hanno il loro ispiratore proprio nel geniale realizzatore della Locandiera. Visconti cambia tutto, allestendo un interno ancora più minaccioso. La vicenda privata di Mirandolina e di tre lestofanti aristocratici, si, ma in un rapporto dialettico con il sociale, con la comunità, la storia. Goldoni diventa, non per nulla, una bandiera della grande regia italiana. Prendendo in esame Giorgio Strehler, egli inizia nel 1947, quando fonda il Piccolo Teatro di Milano, con uno spettacolo goldoniano: Arlecchino servitor di due padroni. Esalta il gusto della corporeità, del funambolismo attorico della tradizione della Commedia dell’Arte. Solo con la Trilogia della villeggiatura Strehler si allinea rapidamente alla lettura storicistica. Non più personaggi graziosi e delicati, ma una sapiente ricostruzione di un ceto borghese al tramonto, percepito come alle soglie di un grande trauma storico. Strehler rispetta la scena immaginata da Goldoni: spazio all’aperto, con una lunga tavolata che taglia orizzontalmente la scena, cipressi di colline toscane sullo sfondo. Strehler prosciuga un po’ il testo goldoniano, conserva le linee portanti, compreso il monologo iniziale di Giacinta, che dice il suo dolore per l’amore impossibile. 24. Luca Ronconi, “Orlando furioso” da Ariosto/Sanguineti L’epopea ariostesca racconta in quarantasei canti in ottave “gli amori” più che “l’arme”, delle “donne” e dei “cavalier” coinvolti nello scontro. Com’è noto, l’Orlando ha il suo baricentro narrativo non nel conflitto tra cristiani ed infedeli, quanto nel racconto della sfortunata passione di Orlando per Angelica. Da subito appare chiaro a Ronconi come potrebbe realizzare appieno, attraverso lo sviluppo di narrazioni simultanee, quella decostruzione delle più classiche convenzioni del racconto teatrale che prosegue sin dai suoi primi spettacoli. Con il suo Orlando il regista decide infatti di abbandonare il palcoscenico e dissemina la rappresentazione su uno spazio neutro che accoglie indistintamente attori e spettatori ed entro il quale più scene possono dispiegarsi contemporaneamente. Il debutto dello spettacolo ha luogo a Spoleto, all’interno della chiesa di San Nicolò che presenta un vasto locale rettangolare sui cui lati corti lo scenografo Uberto Bertacca costruisce due palcoscenici con tanto di boccascena; al centro un ring ottenuto accostando alcune piattaforme mobili. Manca ogni genere di seduta: entrando da una porta laterale, gli spettatori sono lasciati liberi di deambulare nello spazio. Allo spegnersi delle luci, Astolfo fa la propria irruzione tra il pubblico cavalcando un destriero in lamiera montato su di un carrello manovrato a vista da alcuni colleghi ed intona l’incipit del poema. Il risvegliarsi di Orlando sulla piattaforma centrale sembrerebbe restituire unità al disperso gioco scenico, ma è una breve illusione: mentre il paladino riferisce di un sogno in cui ha scorto il pericolo della sua amata, il ring si trasforma in una nave e Orlando salpa verso Ebuda. Assecondando l’estetica naïve e metateatrale della rappresentazione, i costumi e la stilizzata attrezzeria sono concepiti come citazioni ironiche, tra il pop e il fantasy. Nella prosecuzione dello spettacolo l’azione si irraggia lungo le più direttrici più varie, spingendo ciascuno spettatore a ritagliarsi un suo viaggio all’interno della mappa/rappresentazione. Disponendosi lungo l’asse palcoscenico-piattaforma centrale-palcoscenico gli episodi sovrapposti di “Isabella”, “Angelica e l’Eremita” e “Olimpia abbandonata” tracciano una sorta di cesura longitudinale di San Nicolò. Lo scioglimento in successione delle tre scene avvisate sincronicamente determina la concentrazione dell’attenzione del pubblico su di un solo punto centrale e culmina con l’uccisione dell’orca di Ebuda ad opera d’Orlando. Di lì si prosegue con la battaglia di Parigi con una sequenza a tutto campo. Durante la messa in scena dell’assalto si rinuncia infatti parzialmente ai carrelli, e molti attori si trovano ad agire allo stesso livello del pubblico. Anche l’ultima barriera tra interpreti e spettatori è così abbattuta. Dopo le due scene degli amori di Angelica e Medoro e della pazzia d’Orlando lo spettacolo volge a conclusioni. Astolfo si leva a volo sugli spettatori, verso il cielo della Luna, in cerca del senno di Orlando. Viene troncato quasi a metà, ben prima di trovare una soluzione. A ben vedere dall’analisi del Furioso teatrale è possibile arguire i fondamenti della poetica ronconiana. In primo luogo, la messa in scena documenta la precoce curiosità del regista per le modalità fruitive del pubblico; in particolare, costringendo gli spettatori a scegliere un percorso all’interno della rappresentazione, la pièce mostra come uno spettacolo sia frutto di una ricreazione soggettiva dello spettatore portato a focalizzare lo sguardo e l’ascolto. In secondo luogo, la trasposizione teatrale del poema prospetta una nuova tecnica di recitazione antiaccademica. Questo perché il Furioso propone una recitazione spezzata e antinaturalistica, attenta allo scandaglio della parola, ma anche violentemente fisica. La rappresentazione chiarisce inoltre come per il giovane maestro, in un’ottica decisamente strutturalista, l’articolazione dello spazio rappresentativo sia sempre il correlato oggettivo dell’architettura drammaturgica del copione.
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