Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Sintesi Catalogazione dei Beni Culturali, Sintesi del corso di Storia Dell'arte

Sintesi Esame di Catalogazione dei Beni Culturali

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 03/03/2020

a.faccini
a.faccini 🇮🇹

4.5

(23)

23 documenti

1 / 9

Toggle sidebar

Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Sintesi Catalogazione dei Beni Culturali e più Sintesi del corso in PDF di Storia Dell'arte solo su Docsity! Materiali per una storia della catalogazione dei beni culturali in Italia Per il periodo compreso tra 1861 e 1922 la ricerca si è concentrata sullo spoglio degli atti parlamentari al fine di rintracciare la documentazione necessaria per avere un quadro esaustivo. Nel periodo fascista non sono stati individuati atti ma furono attuati molti interventi importanti in merito alla discussione sul catalogo. Nel terzo periodo si è stati più attenti all’analisi dei decreti e delle circolari ministeriali in materia di catalogazione che hanno contribuito a sancire differenze marcate tra i concetti di catalogo e inventario. Periodo postunitario 1861 - 1902 La prima cosa che cercò di fare lo stato italiano fu riorganizzarsi da 1 pdv amministrativo e burocratico. Un grande problema era tutelare le opere d’arte presenti sul territorio. Quale normativa si usava? Quella preunitaria naturalmente, fino ad arrivare alla paleostoria del diritto, citando imperatori romani… Come veniva considerato il corpus legislativo dei secoli precedenti? Troppo coercitivo, inconciliabile con i principi liberistici del nuovo stato. S’impiegarono 50 anni per dirimere la controversia tra le prerogative dello stato e la salvaguardia dei diritti della proprietà privata. 30 anni di battaglie parlamentari. Nello stato preunitario si conosceva il catalogo? Sì, ne abbiamo esempi a Venezia nel 1773 e nello stato pontificio. A partire da questi precedenti il catalogo è diventato un mezzo per la coscienza di tutela al fine della conoscenza del patrimonio artistico e soprattutto alla sua conservazione. Cosa fecero le Commissioni consultive delle Belle Arti? Fu il primo organo che fece cenno al catalogo. Furono create nel 1866. Il fine era di dare pareri e informazioni al governo per la conservazione dei monumenti. Queste commissioni dovevano compilare un catalogo o inventario degli oggetti d’arte conservati in edifici pubblici o comunque esposti al pubblico in edifici privati. Di questi beni doveva essere fornita una serie d’informazioni con l’obiettivo di una conoscenza quanto mai precisa dello stesso oggetto d’arte: descrizione esatta, misure metriche, presenza d’iscrizioni, cifre, stemmi, emblemi, autore o epoca, proprietà e stato di conservazione, località d’esposizione. Cosa portò tutto questo? A favorire il decentramento. Si crearono autorità locali a cui l’attività ministeriale potesse appoggiarsi per avviare ogni operazione sul territorio. I criteri di catalogazione ricalcavano quelli di Giovan Battista Cavalcaselle e Giovanni Morelli. Dopo l’incoronazione del re d’Italia, furono incaricati dal ministro della pubblica istruzione di redigere un catalogo delle opere di Umbria e Marche. Cercarono di offrire una testimonianza storica e documentaria di ogni singolo pezzo prescelto. Il metodo scelto per catalogare? Fu molto selettivo per questi studiosi. Si limitarono ai dipinti contenuti nelle chiese. Si limitarono a un periodo storico che arrivava a Federico Zuccari e i giudizi attribuiti dagli studiosi erano spesso soggettivi e di gusto. Cosa propose Cavalcaselle? In una memoria indirizzata al ministro dell’istruzione Carlo Matteucci espresse la necessità di una legge per la tutela. Suggerì anche la predisposizione di cataloghi di musei e del patrimonio pubblico esistente anche in altre sedi. In ogni caso, in data 1871, restarono in vigore le vecchie normative. Quanto si dovette aspettare per un ordinamento? Un ordinamento generale vedrà luce solo dopo 30 anni. Durante questi anni si avvicendarono governi e ministri e non si riuscì ad elaborare un intervento legislativo sulla tutela che fosse definitivo. L’unica cosa che si fece furono disegni di legge sulla conservazione del patrimonio culturale. Qual era il grande problema? Risolvere il conflitto d’interesse tra pubblico e privato. Un primo passo quando? Nel 1872 con Cesare Correnti che propose la creazione delle Commissioni provinciali conservatrici consultive → dovevano ragguagliare il governo sullo stato dei monumenti e proporgli “le necessarie provvidenze”. Le commissioni dovevano compilare un inventario artistico e archeologico completo dei monumenti, delle collezioni e oggetti d’arte e archeologia esistenti nella provincia e appartenenti allo stato, ai corpi morali e ai privati → dopo i privati vennero esclusi. Si realizzarono subito le commissioni o no? No, ma l’idea delle commissioni venne ripresa dal ministro Cantelli che istituì con decreto regio le Commissioni provinciali conservatrici dei monumenti e delle opere d’arte e il Consiglio centrale di archeologia e belle arti → volontà di risolvere i problemi imponendo soluzioni dall’alto. Di grande importanza era formulare anche un catalogo del patrimonio. Le commissioni dovevano compilare e trasmettere al ministero un inventario di tutti i monumenti e oggetti d’arte presenti nelle provincie. Cambiarono le cose? L’obiettivo era quello di compilare un modello di catalogo da poter usare a livello nazionale→ non si riuscì comunque a dare il via a un’attività di catalogazione. Tutti gli sforzi erano concentrati sul tentativo di elaborare un progetto di legge sulla conservazione del patrimonio. La pubblicazione era di 9 pagine ed era un elenco diviso per provenienza geografica, per ogni città c’erano i proprietari dei beni e le loro opere con descrizione e bibliografia di riferimento. Si semplificarono le cose? L’atto che completò la legge Nasi fu il Regolamento sulla conservazione dei monumenti e degli oggetti di antichità e d’arte e sull’esportazione degli oggetti d’antichità e d’arte. Qui si divise ulteriormente il catalogo in due parti: monumenti immobili e oggetti di antichità e d’arte. A sua volta si fece un’ulteriore divisione tra enti morali e privati. Il catalogo fu fatto stendere da una commissione scelta apposta. Si usarono schede descrittive mobili → il ministero aveva così appreso la lezione di Venturi. Restava comunque il problema della tutela del patrimonio? Certamente sì. Dobbiamo infatti arrivare al ministro della pubblica istruzione Luigi Rava, facente parte del governo Giolitti. Lui riconfermò la commissione Codronchi che elaborò la relazione Rosadi su cui il ministro impostò la proposta di legge del dicembre 1906. Qual era la priorità? La tutela del patrimonio non era più un qualcosa dipendente dalla relazione di un catalogo. Fu Rosadi a eliminare il catalogo. Furono fatti dei passi in avanti nella redazione del catalogo? Nell’agosto del 1907 fu pubblicato un regio decreto per disciplinare la compilazione del catalogo come previsto dalla legge Nasi in vigore. Per la redazione dell’inventario di monumenti e degli oggetti di antichità e d’arte assegnò fondi atti a redigere un inventario preciso e metodico giudicato come un qualcosa di molto urgente. Addirittura furono calcolate le spese per l’acquisto del materiale scientifico e la stampa del catalogo. La verità qual era? Si aspettava anche una legge che in qualche misura sostituisse la Nasi, giudicata insufficiente ai fini della tutela del patrimonio artistico → si arrivò al disegno di legge del gennaio 1909 e la relazione dell’Ufficio centrale fu presentata all’on Sacchetti in aula → si dette vita alla legge del 20 giugno 1909 per le antichità e belle arti. Nel regolamento della legge del 1909 l’art. 27 stabiliva che solo le cose mobili e immobili degli enti morali fossero descritte in appositi elenchi con apposite revisioni. Dopo la guerra si ricominciò. Sul catalogo quali altri interventi vennero fatti? Il catalogo era divenuto un’attività scientifica autonoma. Un altro regio decreto fu quello del 14 giugno 1423: Norme per la compilazione del catalogo dei monumenti e delle opere di interesse storico, archeologico e artistico. Venne ancora definito una necessità per la conservazione del patrimonio artistico e storico nazionale. Era definito inoltre come ausilio per la conoscenza del patrimonio. Ci si avvaleva di funzionari statali e di collaboratori scientifici esterni. Cosa dovevano fare i catalogatori? Redigere le schede in 3 copie: una per il proprietario dell’oggetto, una per la soprintendenza, una per l’Ufficio del catalogo della direzione delle antichità e belle arti. Qui s’intuì quanto fossero importanti le immagini. Il passo in avanti in cosa si ebbe? Porre l’attenzione all’opera di catalogazione come ausilio per gli studi e supporto conoscitivo per l’attività di tutela. Durante il regime fascista si riordinarono anche le soprintendenze nel 1923. Con Bottai? Grande passo in avanti si ebbe con Bottai, dal 1936 al 43 dette un grande impulso all’attività di tutela. Nel 1937 nominò una commissione con il compito di elaborare un progetto di legge per sistemare i provvedimenti di tutela→ approvazione del disegno di legge fu rapida. Cosa prevedeva la legge Bottai? Del 1/6/1939 imponeva ai privati di annotare in registri le opere di loro proprietà o responsabilità soggette a notifica. Vi era anche il dovere da parte di province, comuni, enti ed istituti di presentare l’elenco descrittivo delle cose da loro amministrate con i debiti aggiornamenti . In caso di mancato adempimento si prevedevano delle sanzioni. Furono date anche precise indicazioni per la redazione degli elenchi. Perché fu interessante il convegno dei soprintendenti del 1938? Lì ci fu un discorso tenuto da Longhi. Ritenne fondamentale l’attività di catalogazione sia per la conoscenza del patrimonio artistico che sotto un p.d.v. amministrativo. Questa attività era il compito principale della Direzione generale delle antichità e delle arti. Redazione di un catalogo non voleva dire fare un lavoro inventariale perché includere o escludere delle cose significava attribuire una valutazione qualificativa. Quindi non solo dati identificativi ma dovevano specificare un giudizio esprimendo un valor intrinseco dell’opera. La scheda doveva assumere un carattere scientifico. Solo una guida critica poteva essere utile. Le campagne di catalogazione erano condotte con criteri selettivi e interventi sporadici. Catalogo come strumento necessario per la verifica dell’interesse culturale Con la guerra l’attività di catalogazione fu interrotta. La guerra portò furti e alienazioni abusive. Danni furono provocati sia dalla guerra che dalle ricostruzioni fatte in seguito. La commissione Franceschini Papaldo? Si formò a seguito della denuncia dell’associazione Italia Nostra, si richiese la revisione della legislazione in materia di Belle Arti e il riordino dell’Amministrazione delegata. Alla fine si volle istituire una commissione d’indagine → doveva studiare le condizioni del patrimonio artistico e del paesaggio, elaborare proposte per instaurare una legislazione di tutela e riformare l’amministrazione delle antichità. Il risultato che ne venne fuori furono 3 volumi pubblicati nel 1967: Per la salvezza dei beni culturali in Italia. La commissione modificò il nome antichità e belle arti con il più organico beni culturali → nuova dicitura che implicava anche una certa esigenza di valorizzazione oltre che conservazione. Che cosa si affermò? L’esigenza dell’attività di catalogo, assolutamente necessaria per evitare la sottrazione e il danneggiamento del patrimonio. La catalogazione doveva essere regolata da norme specifiche e svolta con criteri scientifici. Qual era l’obiettivo? Giungere a un catalogo completo degli oggetti d’arte. Si accarezzò l’idea di rendere autonoma l’amministrazione del patrimonio storico artistico sempre però sotto il Ministero della pubblica istruzione. Fu anche nominata una commissione di studio per elaborare nuovi criteri per la ricerca di catalogo. Un congresso importante? 1966: Italia Nostra, c’era Argan nella commissione, voleva che venisse steso un Catalogo Generale → un lavoro sistematico era necessario e imprescindibile. Le due fasi erano: censire gli oggetti suscettibili a tutela, corredati da foto, inventario delle cose sottoposte a norma di legge. Si stavano creando le basi per un ufficio specifico dedito alla catalogazione. Nel 68 il lavoro di catalogazione fu affidato alle commissioni Papaldo. Cosa fece la commissione Papaldo? Un provvedimento di rilievo riguardava l’istituzione di un ministero apposito per i beni culturali. Ancora rimaneva invariata la dicitura beni culturali. Il disegno di legge Papaldo prevedeva che l’amministrazione predisposta alla tutela fosse insignita di un potere unitario e varasse un piano nazionale d’interventi. Compiti specifici li avevano i musei, archivi e biblioteche ed era demandata alle soprintendenze l’esecuzione dei poteri locali. La catalogazione normata dall’articolo 34 si imponeva all’amministrazione l’obbligo della ricognizione e della catalogazione scientifica dei beni culturali a chiunque appartenenti. Erano disposte prescrizioni perché i criteri metodologici di catalogazione fossero unificati sul piano nazionale.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved