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SINTESI COMPLETA di Alle Fonti del Teatro (Allegri, Cotticelli)., Sintesi del corso di Storia del Teatro e dello Spettacolo

Sintesi COMPLETA e Dettagliata del testo "Alle fonti del teatro. Documenti per la storia dello spettacolo in Occidente". Completo di spiegazione di TUTTE LE FONTI.

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

In vendita dal 24/07/2023

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Scarica SINTESI COMPLETA di Alle Fonti del Teatro (Allegri, Cotticelli). e più Sintesi del corso in PDF di Storia del Teatro e dello Spettacolo solo su Docsity! 1 ALLE FONTI DEL TEATRO DOCUMENTI PER LA STORIA DELLO SPETTACOLO OCCIDENTALE - CAPITOLO 1: LA GRECIA E ROMA 1.1. LE ORIGINI DEL TEATRO GRECO a) Aristotele, Poetica, 1449a, 9-28 b) Archiloco, fr.120 West c) Erodoto, Storie, I, 23 d) Giovanni Diacono, Commento a Ermogene, 850 d.C e) Erodoto, Storie, I, 23; V, 67 f) Marmor Parium, n.43 g) Suda h) Temistio, Orazioni, 26, 316d i) Zenobio, Epitome della raccolta di proverbi di Lucillio e Didimo, 40 Su una questione cruciale come le origini del teatro, i documenti storici a nostra disposizione sono piuttosto problematici: non solo sono dispersi, frammentari, e quasi sempre molto distanti nel tempo dagli eventi cui si riferiscono, ma sono disparati per la forma e per l’affidabilità. Non di rado essi pongono problemi di interpretazione che non si possono risolvere con il riscontro di ulteriori dati e non di rado finiscono anzi per avallare versioni contraddittorie. Tuttavia, essi ci permettono considerazioni di grande interesse, nonostante sia inevitabile il carattere incoerente, frammentario e spesso inaffidabile. I documenti a nostra disposizione sulle origini del teatro greco sono di tre tipi: 1. Fonti da riferimenti indiretti occasionali che si trovano in testi su altri temi (1b-1e-1h) 2. Ricostruzioni elaborate in testi che già in antico erano stati concepiti come sistematizzazioni delle conoscenze disponibili, in ambito teatrale o generale (1a-1g-1i) 3. Precisi riferimenti cronologici derivati in modo più o meno diretto da fonti documentarie antiche (1f). Già le prime ricostruzioni sistematiche, come quella contenuta nel capitolo IV della Poetica di Aristotele (1a), riportano diverse teorie: segno che a distanza di circa due secoli dall’inizio di una pratica storica del teatro, le fonti disponibili non erano già in grado di fornire una versione univoca e priva di problemi sulle origini del dramma. È possibile però operare una ricostruzione di massima. Aristotele (1a), vede nella tragedia un’evoluzione del ditirambo. Questo termine (di probabile origine pregreca) indicava un canto corale in onore di Dioniso, che i Greci veneravano come dio del vino e dell’ebbrezza (1b). Dall’esecuzione corale sarebbe emersa quella individuale, e con essa l’alternanza coro-personaggio. È incerto se il solista fosse il coreuta incaricato di avviare il 2 canto (intonavano, 1a) o piuttosto un esecutore che introduceva il singolo coro, in un contesto in cui molti cori si susseguivano (1h, 3a). Un documento epigrafico ci informa che il poeta Tespi fu il primo poeta tragico a recitare sulla scena tragica nella LXI Olimpiade, cioè intorno al 535 a.C. (1f). Questo significa che, durante il dominio del tiranno Pisistrato, una forma ormai piuttosto lontana da più antiche pratiche rituali era stata istituzionalizzata in una rassegna agonale di messe in scena, e costituiva il fulcro di una festa pubblica in onore del dio. Il termine usato da Aristotele (intonavano) si ritrova anche in un frammento del poeta arcaico Archiloco (1b): in esso si può vedere appunto una traccia di un’alternanza/opposizione tra un coro, che cantava e danzava, e un solista, che si esprimeva in metri recitati (1h). Una difficoltà deriva dal riferimento all’elemento satiresco: secondo una tradizione già alessandrina, il dramma satiresco (caratterizzato cioè dalla presenza di satiri, creature teriomorfe del seguito di Dioniso) era una creazione posteriore alla tragedia, dovuta a Pratina di Fliunte (1g) e introdotta solo in un secondo momento negli agoni tragici (1i). Ma è ragionevole pensare che Pratina sia responsabile solo di una ridefinizione formale del genere, e che un elemento informalmente “satiresco” preesistesse alla tragedia. A questo problema si lega quello el nome della tragedia (tragoidia), che significherebbe 2canto del coro di capri” (in greco tragos=capro, oidè=canto), mentre nell’altro caso “tragedia” significherebbe “canto per il capro messo in palio come premio nella competizione drammatica” (si osservi come anche la registrazione della vittoria di Tespi nel Marmor Parium menzioni l’istituzione del “capro” come premo, 1f). Altre difficoltà derivano dal fatto che componimenti ditirambici o “tragici” (tragikoi) sono attestati anche in aree diverse da Atene (la Corinto arcaica 1c, la Sicione arcaica 1e), e che un detto già antico (1i) mette in questione la pertinenza dei miti tragici al culto dionisiaco. Il fatto che continuassero a coesistere col teatro le pratiche rituali da cui esso sarebbe scaturito (come i phallikà citati da Aristotele per la commedia, 1a) mostra che la nascita delle forme drammatiche non è un’evoluzione organica e continua di strutture anteriori, ma una cristallizzazione storicamente specifica, legata presumibilmente a momenti di innovazione marcata. L’iniziativa personale di individui al potere o di singoli artisti è determinante: il ruolo dell’iniziativa personale spiega due fenomeni che sarebbero altrimenti incongrui, ovvero come mai tanti “inventori” di forme come Tespi o Eschilo siano stati sempre preceduti da una fase più antica in cui sono attestate le stesse pratiche di cui viene loro attribuita l’invenzione. La dimensione dialettica delle fonti premette di associare all’origine del teatro attico alcuni tratti: il teatro corrisponde a una pratica a base rituale ampiamente diffusa in tutto il mondo greco, a metà del VI secolo a.C. si cristallizza in Atene in una forma fortemente voluta dallo Stato, che la promuove in senso istituzionale e ne determina la progressiva laicizzazione. Il contenuto, mitico e largamente svincolato dal rituale dionisiaco (1i) riscontra la dialettica tra il parlato e il cantato (1h). Il teatro nasce col solista che su contrappone al coro, la storia del teatro nasce con l’azione dei singoli individui (Tespi, Eschilo) i cui contributi determinano momenti di discontinuità rispetto a una prassi tradizionale. Il poeta emerge come degno di vittoria (e di memoria) nella misura in cui è in grado di organizzare il codice delle pratiche tradizionali in una forma originale, ma in continuo dialogo, rispetto alla tradizione precedente. Non sarebbe azzardato quindi, sostenere che 5 polis ateniese, viene esibito in forma monumentale. Quasi a compensare il declino politico della città. 1.4 LA TRADIZIONE DEL TESTO a) Aristofane, Rane b) PS. PLUTARCO, vite dei dieci oratori c) Galeno, Commento al III libro delle Epidemie di Ippocrate Il dramma attico di età classica era un evento della massima rilevanza nel quadro civico e istituzionale della polis, ma su circa mille tragedie messe in scena in epoca classica ce ne sono giunte poco più di trenta (più un dramma satiresco di Euripide), e su circa seicento commedie solo gli undici drammi di Aristofane. Numerose scoperte papiracee, hanno permesso di recuperare, dalla fine del XIX sec ad oggi, molti frammenti di rilievo tragici e comici (tra cui drammi di Menandro). Ma anche i testi conservati non sono che un documento parziale dell’opera nel suo complesso: il dramma di età classica era GESAMTKUNSTWERK fatto di parola e di canto, di musica e di danza, costume e scenografia ed era concepito come un evento irripetibile. Solo in casi eccezionali, e poi regolarmente a partire dal IV secolo a.C., tragedie o commedie del repertorio antico venivano riprese per nuove messe in scena, che però chiaramente non potevano riprodurre in toto un’esperienza originariamente concepita come evento effimero. Della tragedia attica classica noi abbiamo testi che rappresentano, quindi, solo una parte dello spettacolo, e che hanno influenzato la cultura dei millenni successivi in una forma che era di fatto assai lontana da quella con cui erano stati concepiti. Dei materiali usati per gli allestimenti non sappiamo nulla e nulla si è conservato; in compenso, un accenno nelle Rane di Aristofane, commedia messa in scena nel 405 a.C. (4a), mostra che i testi drammatici circolavano in copie destinate alla lettura, già a pochi anni di distanza dalla loro messa in scena (la perduta Andromeda di Euripide è del 412 a.C.). La notevole diffusione dei testi e la precoce canonizzazione della triade di poeti tragici composta da Eschilo, Sofocle ed Euripide, fa sì che nelle numerose repliche di tragedie “antiche” gli attori adattassero il testo, pratica rimasta consueta anche in epoca moderna. La rilevanza istituzionale del patrimonio drammatico motiva un’iniziativa come quella di Licurgo (4b) che, pur con alcune incertezze, conferma l’esistenza di un testo normativo di cui lo Stato era depositario e responsabile, e che aveva la funzione di determinare una versione canonica cui attenersi. L’aneddoto riportato da Galeno (4c) illustra il successivo passaggio della tradizione: è molto verosimile che Tolomeo avesse chiesto e ottenuto in prestito e la copia istituzionale delle opere dei tre grandi tragici, e che la straordinaria attività esegetica fiorita intorno al museo di Alessandria fosse legata per tradizione diretta al testo “ufficiale” di quei drammi. In epoca ellenistica, soprattutto ad Alessandria, i testi drammatici vengono fatti oggetto di studio sistematico: vengono curate edizioni di testi in cui le parti cantate sono per la prima volta divise in versi, vengono messi insieme commenti e opere specifiche. Da questa enorme attività derivano le edizioni successive, su cui si basano anche versioni progressivamente ridotte a scopo didattico. Tra i vari fattori che determinano la selezione dei testi e la loro trasmissione c’è la scuola: i testi drammatici fanno parte 1 ALLE FONTI DEL TEATRO DOCUMENTI PER LA STORIA DELLO SPETTACOLO OCCIDENTALE - CAPITOLO 1: LA GRECIA E ROMA 1.1. LE ORIGINI DEL TEATRO GRECO a) Aristotele, Poetica, 1449a, 9-28 b) Archiloco, fr.120 West c) Erodoto, Storie, I, 23 d) Giovanni Diacono, Commento a Ermogene, 850 d.C e) Erodoto, Storie, I, 23; V, 67 f) Marmor Parium, n.43 g) Suda h) Temistio, Orazioni, 26, 316d i) Zenobio, Epitome della raccolta di proverbi di Lucillio e Didimo, 40 Su una questione cruciale come le origini del teatro, i documenti storici a nostra disposizione sono piuttosto problematici: non solo sono dispersi, frammentari, e quasi sempre molto distanti nel tempo dagli eventi cui si riferiscono, ma sono disparati per la forma e per l’affidabilità. Non di rado essi pongono problemi di interpretazione che non si possono risolvere con il riscontro di ulteriori dati e non di rado finiscono anzi per avallare versioni contraddittorie. Tuttavia, essi ci permettono considerazioni di grande interesse, nonostante sia inevitabile il carattere incoerente, frammentario e spesso inaffidabile. I documenti a nostra disposizione sulle origini del teatro greco sono di tre tipi: 1. Fonti da riferimenti indiretti occasionali che si trovano in testi su altri temi (1b-1e-1h) 2. Ricostruzioni elaborate in testi che già in antico erano stati concepiti come sistematizzazioni delle conoscenze disponibili, in ambito teatrale o generale (1a-1g-1i) 3. Precisi riferimenti cronologici derivati in modo più o meno diretto da fonti documentarie antiche (1f). Già le prime ricostruzioni sistematiche, come quella contenuta nel capitolo IV della Poetica di Aristotele (1a), riportano diverse teorie: segno che a distanza di circa due secoli dall’inizio di una pratica storica del teatro, le fonti disponibili non erano già in grado di fornire una versione univoca e priva di problemi sulle origini del dramma. È possibile però operare una ricostruzione di massima. Aristotele (1a), vede nella tragedia un’evoluzione del ditirambo. Questo termine (di probabile origine pregreca) indicava un canto corale in onore di Dioniso, che i Greci veneravano come dio del vino e dell’ebbrezza (1b). Dall’esecuzione corale sarebbe emersa quella individuale, e con essa l’alternanza coro-personaggio. È incerto se il solista fosse il coreuta incaricato di avviare il 2 canto (intonavano, 1a) o piuttosto un esecutore che introduceva il singolo coro, in un contesto in cui molti cori si susseguivano (1h, 3a). Un documento epigrafico ci informa che il poeta Tespi fu il primo poeta tragico a recitare sulla scena tragica nella LXI Olimpiade, cioè intorno al 535 a.C. (1f). Questo significa che, durante il dominio del tiranno Pisistrato, una forma ormai piuttosto lontana da più antiche pratiche rituali era stata istituzionalizzata in una rassegna agonale di messe in scena, e costituiva il fulcro di una festa pubblica in onore del dio. Il termine usato da Aristotele (intonavano) si ritrova anche in un frammento del poeta arcaico Archiloco (1b): in esso si può vedere appunto una traccia di un’alternanza/opposizione tra un coro, che cantava e danzava, e un solista, che si esprimeva in metri recitati (1h). Una difficoltà deriva dal riferimento all’elemento satiresco: secondo una tradizione già alessandrina, il dramma satiresco (caratterizzato cioè dalla presenza di satiri, creature teriomorfe del seguito di Dioniso) era una creazione posteriore alla tragedia, dovuta a Pratina di Fliunte (1g) e introdotta solo in un secondo momento negli agoni tragici (1i). Ma è ragionevole pensare che Pratina sia responsabile solo di una ridefinizione formale del genere, e che un elemento informalmente “satiresco” preesistesse alla tragedia. A questo problema si lega quello el nome della tragedia (tragoidia), che significherebbe 2canto del coro di capri” (in greco tragos=capro, oidè=canto), mentre nell’altro caso “tragedia” significherebbe “canto per il capro messo in palio come premio nella competizione drammatica” (si osservi come anche la registrazione della vittoria di Tespi nel Marmor Parium menzioni l’istituzione del “capro” come premo, 1f). Altre difficoltà derivano dal fatto che componimenti ditirambici o “tragici” (tragikoi) sono attestati anche in aree diverse da Atene (la Corinto arcaica 1c, la Sicione arcaica 1e), e che un detto già antico (1i) mette in questione la pertinenza dei miti tragici al culto dionisiaco. Il fatto che continuassero a coesistere col teatro le pratiche rituali da cui esso sarebbe scaturito (come i phallikà citati da Aristotele per la commedia, 1a) mostra che la nascita delle forme drammatiche non è un’evoluzione organica e continua di strutture anteriori, ma una cristallizzazione storicamente specifica, legata presumibilmente a momenti di innovazione marcata. L’iniziativa personale di individui al potere o di singoli artisti è determinante: il ruolo dell’iniziativa personale spiega due fenomeni che sarebbero altrimenti incongrui, ovvero come mai tanti “inventori” di forme come Tespi o Eschilo siano stati sempre preceduti da una fase più antica in cui sono attestate le stesse pratiche di cui viene loro attribuita l’invenzione. La dimensione dialettica delle fonti premette di associare all’origine del teatro attico alcuni tratti: il teatro corrisponde a una pratica a base rituale ampiamente diffusa in tutto il mondo greco, a metà del VI secolo a.C. si cristallizza in Atene in una forma fortemente voluta dallo Stato, che la promuove in senso istituzionale e ne determina la progressiva laicizzazione. Il contenuto, mitico e largamente svincolato dal rituale dionisiaco (1i) riscontra la dialettica tra il parlato e il cantato (1h). Il teatro nasce col solista che su contrappone al coro, la storia del teatro nasce con l’azione dei singoli individui (Tespi, Eschilo) i cui contributi determinano momenti di discontinuità rispetto a una prassi tradizionale. Il poeta emerge come degno di vittoria (e di memoria) nella misura in cui è in grado di organizzare il codice delle pratiche tradizionali in una forma originale, ma in continuo dialogo, rispetto alla tradizione precedente. Non sarebbe azzardato quindi, sostenere che 5 polis ateniese, viene esibito in forma monumentale. Quasi a compensare il declino politico della città. 1.4 LA TRADIZIONE DEL TESTO a) Aristofane, Rane b) PS. PLUTARCO, vite dei dieci oratori c) Galeno, Commento al III libro delle Epidemie di Ippocrate Il dramma attico di età classica era un evento della massima rilevanza nel quadro civico e istituzionale della polis, ma su circa mille tragedie messe in scena in epoca classica ce ne sono giunte poco più di trenta (più un dramma satiresco di Euripide), e su circa seicento commedie solo gli undici drammi di Aristofane. Numerose scoperte papiracee, hanno permesso di recuperare, dalla fine del XIX sec ad oggi, molti frammenti di rilievo tragici e comici (tra cui drammi di Menandro). Ma anche i testi conservati non sono che un documento parziale dell’opera nel suo complesso: il dramma di età classica era GESAMTKUNSTWERK fatto di parola e di canto, di musica e di danza, costume e scenografia ed era concepito come un evento irripetibile. Solo in casi eccezionali, e poi regolarmente a partire dal IV secolo a.C., tragedie o commedie del repertorio antico venivano riprese per nuove messe in scena, che però chiaramente non potevano riprodurre in toto un’esperienza originariamente concepita come evento effimero. Della tragedia attica classica noi abbiamo testi che rappresentano, quindi, solo una parte dello spettacolo, e che hanno influenzato la cultura dei millenni successivi in una forma che era di fatto assai lontana da quella con cui erano stati concepiti. Dei materiali usati per gli allestimenti non sappiamo nulla e nulla si è conservato; in compenso, un accenno nelle Rane di Aristofane, commedia messa in scena nel 405 a.C. (4a), mostra che i testi drammatici circolavano in copie destinate alla lettura, già a pochi anni di distanza dalla loro messa in scena (la perduta Andromeda di Euripide è del 412 a.C.). La notevole diffusione dei testi e la precoce canonizzazione della triade di poeti tragici composta da Eschilo, Sofocle ed Euripide, fa sì che nelle numerose repliche di tragedie “antiche” gli attori adattassero il testo, pratica rimasta consueta anche in epoca moderna. La rilevanza istituzionale del patrimonio drammatico motiva un’iniziativa come quella di Licurgo (4b) che, pur con alcune incertezze, conferma l’esistenza di un testo normativo di cui lo Stato era depositario e responsabile, e che aveva la funzione di determinare una versione canonica cui attenersi. L’aneddoto riportato da Galeno (4c) illustra il successivo passaggio della tradizione: è molto verosimile che Tolomeo avesse chiesto e ottenuto in prestito e la copia istituzionale delle opere dei tre grandi tragici, e che la straordinaria attività esegetica fiorita intorno al museo di Alessandria fosse legata per tradizione diretta al testo “ufficiale” di quei drammi. In epoca ellenistica, soprattutto ad Alessandria, i testi drammatici vengono fatti oggetto di studio sistematico: vengono curate edizioni di testi in cui le parti cantate sono per la prima volta divise in versi, vengono messi insieme commenti e opere specifiche. Da questa enorme attività derivano le edizioni successive, su cui si basano anche versioni progressivamente ridotte a scopo didattico. Tra i vari fattori che determinano la selezione dei testi e la loro trasmissione c’è la scuola: i testi drammatici fanno parte 6 dei programmi di studio. Dapprima corpora di molte decine di drammi vengono ridotti a poche unità, poi a tra soli drammi per autore. I testi che il caso ha destinato alla trasmissione fino all’epoca della stampa sono quindi selezioni di età imperiale. La diffusione umanistica dei testi greci in Occidente e le prime edizioni a stampa permettono così al Rinascimento europeo di orientare le proprie prassi drammatiche e teatrali a partire da una conoscenza di prima mano del patrimonio greco, in precedenza noto solo indirettamente tramite la tradizione latina. Nella forma assunta da questa tradizione, dunque, il ruolo determinante spetta a fattori come il prestigio culturale dei testi, gli intenti di conservazione da parte delle istituzioni, e l’inserimento nei canoni scolastici: è solo alla sinergia di queste forze che dobbiamo il privilegio di leggere testi concepiti come parti di performance irripetibili. 1.5 DAL MITO ALLA SCENA a) Aristotele, Poetica, 1449b, 21-36 b) Aristotele, Poetica, 1450b, 21-34 c) Antifane, fr. 189 K.-A. Nella sua celebre definizione di tragedia (5a), Aristotele ne esplicita la natura composita e le finalità estetiche. Molto dibattuto il preciso significato della purificazione operata dallo spettacolo tragico. Il senso medico di “purgazione”, corroborato dal confronto con l’uso di “katharsis” in contesto fisiologico, può essere inteso: 1. Come morale= autocontrollo sulle emozioni del destinatario 2. Come strutturale= in quanto lo sviluppo dei fatti della trama permette di superarne la contaminazione morale e di esperire le emozioni di paura e pietà 3. Come intellettuale= chiarificazione delle emozioni tramite la loro rappresentazione artistica. La nozione di catarsi come “purgazione” ha contestualizzato una teoria estetica degli affetti nella cultura greca un cui la catarsi rimanda a situazioni di incontro “estatico” con il mondo dell’esperienza. Qualunque accezione si decida di privilegiare, resta indubbia la rilevanza della dimensione collettiva delle emozioni, che aiuta a discernere negli effetti dello spettacolo teatrale i germi di una vera e propria disciplina culturale delle passioni. Aristotele pone risolutamente l’azione al vertice delle componenti del dramma (5a). Non è un dettaglio da poco: da questo orientamento discende poi non solo l’apprezzamento (e poi la regola) dell'unità d’azione, ma in generale una visione di teatro come sequela di eventi. Aristotele vede l’essenza della tragedia nella concatenazione di azioni, cioè nella trama. La definizione di “azione compiuta e intera” (5b) mette in evidenza la proprietà fondamentale dell’azione tragica: la focalizzazione del singolo dramma su un evento saliente e self-contained racchiuso tra due momenti di relativa stabilità. Queste azioni tragiche erano di norma sviluppi di segmenti dell’immenso repertorio mitico ellenico. L’intervento del poeta tragico consisteva in approfondimenti delle motivazioni o di 7 vicende già note dall’epica, ma poteva anche introdurre nel mito importanti variazioni, che in alcuni casi modificavano stabilmente il repertorio (tra gli esempi più famosi l’infanticidio di Medea, nella Medea di Euripide). A differenza delle trame tragiche, le commedie erano in larga parte basate su trame di invenzioni e, Il frammento di Antifane (5c), tra i massimi esponenti della commedia di mezzo, fornisce una sintetica contrapposizione dei due generi. Si tratta di una contrapposizione fondata, ma tendenziosa: anche la commedia, già nel V secolo, può adottare trame mitologiche, basate su distorsioni periodiche di miti o di specifici testi tragici, ma con la tendenza alla stereotipia e nella progressiva stilizzazione caratteriale dei personaggi. 1.6 RIPRESE E TRADIZIONI ORIGINALI NELLA COMMEDIA ROMANA a) Tito Livio, Annali dalla fondazione di Roma b) Tito Livio, Periochae c) Tito Maccio Plauto, Captivi d) Tito Maccio Plauto, Il soldato fanfarone e) Publio Terenzio Afro, La donna di Andro f) Publio Terenzio Afro, L’eunuco g) Publio Terenzio Afro, La suocera I documenti sulle origini del teatro a Roma non sono comparabili, per quantità e qualità, ai loro corrispettivi greci, ma permettono comunque di cogliere alcuni tratti specifici dell’esperienza teatrale. La versione dello storico Tito Livio (6a), oltre che compressa, appare confusa nel rendere conto della successione e dei rapporti tra le varie forme di teatro. L’elemento di maggior interesse è la dimensione ideologica: il discorso di Livio è inserito in una visione tendenzialmente negativa del teatro, visto come contrario all’indole delle virtù civiche (lo conferma 6b). Ne consegue l’enfasi sulle origini “straniere” del teatro, che presuppone un contrasto fra ludus (lo spettacolo come espressione popolare) e ars, lo spettacolo come tecnica di professionisti. Questa opposizione è alla base di tratti che distinguono il teatro romano sa quello greco: gli spettacoli sono limitati come in Grecia, al contesto di specifici eventi festivi (i ludi) e lo stato ne regola lo svolgimento; tuttavia, non c’è traccia della rilevanza istituzionale assunta dalla messa in scena di tragedie e commedie (gli attori, ad esempio, sembrano esclusi dal copro civico, a differenza che in Grecia 6a). Non è un caso quindi che la messa in scena di drammi debba competere per l’attenzione con le altre forme di spettacolo popolare (6g), a riprova della finalità diversiva e non istituzionale dell’evento. Ma anche i cenni confusi e incompleti dello storico non riescono ad occultare la ricchezza delle forme di spettacolo della Roma arcaica, dove si incontrano e si fondono le tradizioni di varie popolazioni laziali e italiche. I drammi con trama unitaria sono comunque un fenomeno tardivo e di importazione: Livio Andronico (ca. 280-200 a.C.), autore bilingue di origine magnogreca, è il primo a mettere in scena, nel 240 a. C., una tragedia derivata da modelli attici. Della tragedia romana più antica abbiamo solo frammenti. 10 Nel X secolo, si comincia quindi a drammatizzare gli episodi della Resurrezione, della Passione, fino ai grandi spettacoli europei della fine del Medioevo, che durano più giornate e coinvolgono l’intera comunità. La funzione di questi eventi è eminentemente comunicativa. L’Ordo representacionis Ade, conosciuto in epoca moderna come Jeu d’Adam, è il copione per uno spettacolo di cui nulla sappiamo, ma è significativo che le battute che gli attori devono pronunciare sono scritte in antico francese, perché sia gli interpreti che gli spettatori non comprendono più il latino, mentre le didascalie sono in latino, che servono solo agli ecclesiastici organizzatori dell’evento, che devono governare tutto il processo. Qui illuminanti sono le indicazioni per gli autori, a partire dal “Adamo sia bene istruito”, che denunciano con evidenza la funzione comunicativa dell’intera operazione. Gli interpreti devono citare le battute, senza mettere in atto il meccanismo di assunzione del personaggio, perché non sarebbe consentito che un soggetto finito e contingente come un uomo, si immedesimasse con Cristo, la Madonna o addirittura Dio. La caratteristica più interessante è però la struttura dello spazio scenico. Diversamente dal teatro classico e da quello rinascimentale, l’azione non si svolge in un luogo unitario, ma in uno spazio disperso, con vari luoghi destinati ad ospitare ciascuno una scena specifica. Sono espressamente previsti, in questo caso, il paradiso terrestre, l’inferno, il pezzo di terra che Adamo ed Eva coltivano dopo l’espulsione, e i diavoli che scorrazzano nella piazza tormentando gli spettatori, creando una struttura multipla e assolutamente simbolica. 2.2. I GIULLARI - Flamenca Negli ultimi secoli dell’Impero Romano, quando non c’è più produzione drammaturgica, non ci sono più rappresentazioni teatrali e gli stessi teatri vanno in rovina, ciò che resta è l’elemento minimo di ogni forma di teatralità, cioè l’attore, o meglio il performer che esibisce le proprie abilità in favore degli spettatori. Performer perché non c’è qui alcuna rappresentazione, non ci sono personaggi da interpretare, e il performer si presenta in prima persona davanti al pubblico. Convenzionalmente si usa il termine giullare (dal latino ioculator), per designare questa tipologia di operatore. Non esistendo più luoghi specifici per lo spettacolo, i giullari si esibiscono nelle strade e nelle piazze, ma anche durante le feste e i banchetti dei nobili, o al seguito degli eserciti, o persino durante le fruizioni religiose. Almeno fino a quando , tra XII e XIII sec., non si definisce la figura del giullare di corte, che si stabilizza con funzioni di musico, l’attività dei giullari è sostanzialmente nomade. Gli spettacoli, a seconda delle diverse abilità, possono basarsi sulle acrobazie, sull’addestramento di animali, sull’uso delle marionette, sui giochi di magia, su musica, sul canto, sulla danza, sul racconto di storie di qualche lacerto della cultura classica, sulla descrizione di vicende cavalleresche o sulla vita dei santi. È questa l’immagine che si ricava dal brano del romano provenzale anonimo Flamenca, nella metà del XIII sec., che illustra una folla di giullari durante un banchetto. È un documento affascinante, che anche parzialmente amputato, rivela la tipica narrazione per enumerazione e accumulo del medioevo. 11 - TOMMASO THOMAS de Chobham, Summa Confessorum Questo documento ci apre alla questione teorica della considerazione dell’attività dei giullari da parte della cultura cristiana. Nei primi secoli e buona parte del medioevo, la chiusura nei confronti di questa attività è totale, dato che i giullari basano i propri spettacoli sull’esposizione di sé e della propria corporeità, utilizzando maschere e travestimenti, nonché parole scurrili (da scurra, appunto) e spesso oscene. Intorno al XIII secolo, però, l’atteggiamento cristiano cambia e la cultura dominante comincia ad accettare una parte di queste attività, distinguendo in base alle tipologie di spettacolo. Una ragione è che anche molti predicatori cominciano a utilizzare le tecniche di racconto e di seduzione del pubblico e dei fedeli che provengono dal mondo giullaresco: San Francesco si fa simbolicamente giullare di Dio e contribuisce con questo a legittimare queste tecniche di spettacolo. Interviene poi la voce autorevolissima di Tommaso d’Aquino, che nella Summa Theologiae, stabilisce che “il mestiere degli istrioni, non è di per sé illecito, purchè si servano dello spettacolo in maniera moderata”. Questo mutato atteggiamento teorico permette dunque a Tommaso di Chobham di dedicare nel suo manuale per i confessori, alla fine del XIII sec., un paragrafo specifico alla classificazione dell’attività dei giullari, salvando almeno i giullari che cantano le chansons de geste e le vite dei santi. - Valeria Bertolucci Pizzorusso, La supplica di Guiraut R. e la risposta di Alfonso X L’accettazione almeno parziale da parte dell’istituzione ecclesiastica della loro attività, porta naturalmente a una maggiore integrazione dei giullari nel contesto della società. La conseguenza è una precisa consapevolezza del proprio ruolo culturale da parte dei giullari, soprattutto di quelli che rivendicano un’attività meno estemporanea e meno volgare, basata sulla musica e sull’uso della parola poetica. È il senso del documento, datato XIII secolo, intitolato la “supplica” di Guiraut Riquier al re di Spagna affinché riconosca una distinzione tra le varie tipologie dei giullari. Guiraut non è un giullare ma un trovatore, che insiste sulle competenze professionali e sulla decenza del comportamento, condannando con parole non meno dure di quelle degli ecclesiastici i giullari girovaghi, privi di professionalità, pur di salvare le uniche due figure che gli interessano, il giullare di corte e il trovatore. Uno è l'esecutore indispensabile delle composizioni di un trovatore che non vuole più essere anche uomo di spettacolo, e l’altro assume le prerogative di autore, sfociando in quel dottore in poesia che lo trasforma definitivamente in intellettuale quasi accademico. Anche per questa via passa dunque quella distinzione tra un esecutore (attore in senso lato) e un autore che delega ad altri la funzione spettacolare, ritenuta meno nobile di quella di chi inventa un testo che sta a monte dello spettacolo. 12 2.3 LA MEMORIA, O IL FANTASMA, DEL TEATRO - Nicola Trevet, Expositio Herculis Furentis In età medievale solo raramente gli scrittori hanno una visione corretta delle modalità di esecuzione del teatro antico. Tra questi, Giovanni Salisbury, che nel Policraticus, riconosce che all’epoca c’erano “attori che con le movenze del corpo e con la modulazione della voce rappresentavano pubblicamente storie vere e inventate”. Ma la concezione prevalente è quella descritta da Nicola Trevet, nel suo commento all’Ercules furens di Seneca. La fonte di tale concezione è nelle Ethimolgiae di Isidoro di Siviglia, per secoli enciclopedia della cultura medievale. In quest’ultimo, c’era già il fraintendimento che resterà nella cultura medievale che prevedeva il pulpito come spazio della parola e soprattutto la scissione tra parola e gesto. In questa interpretazione, l’autore legge il proprio testo dal pulpito e gli istrioni mascherati all’intorno gesticolano interpretando senza parola le diverse situazioni. Gli intellettuali proto-umanisti che si trovano a dover ricostruire un fenomeno come il teatro non possono che utilizzare gli strumenti concettuali che sono a loro disposizione. Conoscono i testi teatrali, e conoscono come unica pratica di teatralità quella dei giullari, ma quello che manca alla cultura del tempo è la nozione di rappresentazione, che avrebbe consentito di intendere gli attori come interpreti dei personaggi del testo, col gesto e con la parola, come scrive Giovanni di Salisbury. - Ugo di San Vittore, Didascalicon (Eruditionis didascalicae) Il fantasma o il rimpianto della teatralità come forma in qualche modo antropologicamente necessaria alla società continua, comunque, ad aleggiare in un tardo Medioevo ormai pronto a nuove esperienze. È quanto rivela la theatrica di Ugo di San Vittore nel Didascalicon, una sorta di manuale didattico del XIII sec. Ugo inserisce la theatrica, intesa come l’insieme di tutte le attività di spettacolo e di divertimento, tra le arti meccaniche, assieme ad altre attività che sono fondamentali alla vita sociale come la navigazione, l’agricoltura, la caccia e la medicina. Dunque, ne riconosce non solo l’utilità ma quasi la necessità. Solo che, mentre quando descrive tutte le altre arti, i verbi sono al presente, quando parla di theatrica, Ugo coniuga i verbi al passato, proiettando questa attività quasi esclusivamente nel tempo della civiltà greca e romana e dunque non riconoscendone la presenza nella sua contemporaneità. Quel che conta però, è che alla theatrica è riconosciuta una valenza antropologica e sociale anche positiva, perché la gioia che spettacoli producono servono per il corpo e lo spirito e gli spettacoli pubblici vengono ritenuti necessari. Si tratta di un riconoscimento inusuale e per questo importante, che, per quanto proiettato nel passato, reinserisce l’attività spettacolare nel sistema codificato delle attività sociali, da un lato aprendo indirettamente all’accettazione da parte della cultura cristiana della spettacolarità giullaresca di cui s’è vista traccia in San Tommaso o in Tommaso di Chobham, e dall’altro individuando anche la prospettica del teatro in senso pieno. - Goffredo di Vinsauf, Poetria nova Il XIII secolo è un momento cruciale nel percorso di accettazione e di riscoperta del valore antropologico della teatralità, che produce anche un’apertura nuova alla nozione di interpretazione e alle tecniche di recitazione. Le individuiamo nel brano della Poetria nova, di Goffredo di Vinsauf, agli inizi del XIII secolo. Si tratta di un manuale di stilistica e retorica, e dunque rivolto non 15 principe e si recita la Calandra di Bibbiena, che intreccia i Menaechmi di Plauto con il Decameron di Boccaccio, fissando una formula drammaturgica destinata a straordinaria fortuna. 3.3 LO SPETTACOLO - Sebastiano Serlio, il secondo libro di Perspettiva - Leone De’ Sommi, Quattro dialoghi in materia di rappresentazione scenica - Bastiano De’ Rossi, Descrizione del magnificentissimo apparato e de’ meravigliosi intermedi fatti per la commedia rappresentata a Firenze (…) - Giacomo Dolfin, lettera a Filippo Pigafetta, 4 marzo 1585 La cultura medievale immaginava l’esperienza del pubblico teatrale antico separando artificialmente la vista delle azioni dei mimi dall’ascolto delle rime dei “comedi”. Il teatro cinquecentesco ricompone questa dicotomia in nome del verosimile aristotelico e reinventa tutti i linguaggi della rappresentazione. Il primo problema è quello di separare lo spazio del pubblico, a cui bisogna assicurare le migliori condizioni possibili per vedere e ascoltare, da quello della finzione, e dunque di allestire il palcoscenico e lo sfondo. Nella prima metà del secolo, le rappresentazioni si tengono in ambienti interni, riallestiti nei palazzi e nelle corti come sale teatrali; gli artisti e gli architetti-scenografi, sfruttano le recenti acquisizioni iconografiche della prospettiva per elaborare le forme della scenografia, che raffigurano, in prospettiva monofocale, per le commedie visioni simboliche di città, per le tragedie sfondi monumentali di regge e per le pastorali immagini naturalistiche che richiamano il mondo bucolico. Nel 1545, l’architetto Sebastiano Serlio, nel secondo libro di Perspettiva, fissa i tre bozzetti scenografici corrispondenti ad altrettanti generi drammaturgici: il palcoscenico è collegato da una scaletta di accesso e non ci sono ancora elementi formali che separino lo spazio della realtà da quello della finzione. Nel frattempo si moltiplicano, soprattutto a Firenze, sperimentazioni rappresentative sempre più complesse: il palcoscenico acquista profondità, e una serie di dispositivi scenotecnici, come i periatti (prismi girevoli messi su un perno e con le varie facce dipinte) già in uso nell’antico teatro greco, consentono di realizzare le mutazioni a vista; macchine versatili sempre più ingegnose, ospitate nel retropalco e nel sottopalco, realizzano le meraviglie e gli effetti speciali degli intermezzi; l’uso del sipario diventa sistematico, separando nettamente lo spazio della messinscena da quello del pubblico. La forza visuale della rappresentazione è potenziata dai costumi variopinti, che aiutano il pubblico a distinguere i vari personaggi, e a decifrare i passaggi, sempre più intricati, della drammaturgia; Leone de’ Sommi ne descrive le caratteristiche raccomandabili nei suoi Quattro dialoghi in materia di rappresentazioni sceniche, un documento di lavoro. Sono i principi di casa Medici a realizzare gli allestimenti più innovativi e sontuosi, attraverso una serie di tappe che trasformano in “sala per le commedie” l’antico spazio civico del Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio sotto la direzione di Giorgio Vasari; nel 1586 il suo allievo e assistente Bernardo Buontalenti inaugura ufficialmente, il primo teatro mediceo, dotato di una modernissima attrezzeria tecnica, per festeggiare le nozze di Virginia de’ Medici e Cesare d’Este 16 con la recita della commedia L’amico fido di Giovanni de’ Bardi. Il teatro sarà riallestito in forma definitiva nel 1589, con un nuovo apparato decorativo, per le nozze del granduca Ferdinando con Cristina di Lorena, in cui La Pellegrina di Girolamo Bargagli è incorniciata da sontuosi intermezzi allegorici e musicali. Ma in questa vicenda c’è un altro percorso,estraneo al pragmatismo sperimentale del secolo, che corona il sogno umanistico di restituire lo spettacolo antico aristotelicamente testato: cioè l’allestimento dell’Edipo re di Sofocle in un teatro che si rifà al modello greco del V secolo. Lo realizza l’Accademia Olimpica di Vicenza, che commissiona al più grande architetto dell’epoca, Andrea Palladio, una sala teatrale inserita all’interno del palazzo accademico. Il sontuoso manufatto provvisorio, in legno, mattoni e stucco (e miracolosamente sopravvissuto fino ai giorni nostri), comprende una cavea semiellittica a gradoni, decorata da un colonnato con statue, l’orchestra semicircolare, destinata al coro tragico e uno stretto palcoscenico delimitato da una monumentale scaenae frons con le tre porte e le versurae laterali da cui entrano ed escono i personaggi. Entro queste tre porte, l’architetto Vincenzo Scamozzi (che completò i lavori nel 1580), inserì visioni dipinte di strade in prospettiva, contaminando in modo suggestivo due diverse convenzioni sceniche. Nel 1585, davanti a 3.000 spettatori l’Olimpico fu inaugurato da questa recita sontuosa, in cui si profuse un gigantesco sforzo coreografico, musicale, costumistico e illuminotecnico. Il teatro ormai esisteva in altre forme e per altri consumi. 3.4 UOMINI DI SCENA - Pietro Arentino, Sei giornate - Vincenzo Borghini, Spogli manoscritti - Benedetto Varchi, La suocera - Lamento di quel tribulato di Strascino Campana Senese - Erasmo Da Rotterdam, Responsio ad Petri Cursi defensionem, Basilea 1535 - Giovan Battista Giraldi Cinzio, Discorso intorno al comporre All’invenzione cinquecentesca del teatro contribuiscono coloro che lo recitano: a fare la differenza, è la capacità di divertire e di avvincere propria degli intrattenitori. Neanche il monumentale splendore degli apparati principeschi offusca il loro protagonismo all’interno delle feste, che fa coincidere l’autorialità con l’esecuzione performativa, e in cui la forza espressiva e comunicativa del corpo e della voce è molto apprezzata. Il fascino degli uomini scherzosi non ha ancora etichette né regole e sulla recita corale prevale l’esibizione dell’attore solista. Uno dei più intraprendenti, fu il senese Niccolò Campani detto lo Strascino, celebre canterino, improvvisatore e attore, si misura un certo punto con la stampa, pur dichiarandosi perfettamente consapevole che nel passaggio al libro si rischia di perdere per buona parte la magia della recita. Un suo più illustre e colto collega, Angelo Beolco (detto Ruzante dal nome del villano protagonista del suo teatro), lascia invece manoscritti i propri componimenti in lingua pavana, che recita con straordinario successo prima nella cerchia padovana di Alvise Cornaro e poi anche a Venezia e a Ferrara. 17 Il possesso di questi talenti garantisce un sicuro ascensore sociale a personaggi il cui status può variare di molto: ci sono i buffoni come il veneziano Zuan Paolo, capace di impersonare più personaggi, sottraendosi agli occhi del pubblico dietro una porta chiusa: ma anche a Firenze, gli araldi della Signoria, “cavalieri di plagio”, e cantori di mensa a cui è attribuita la dignità sociale di messeri, come Domenico Barlacchia, che recita le commedie di Machiavelli a Firenze, Roma e Venezia. In ambito scolastico, accademico e cortigiano si apprezza tuttavia anche un tipo di recitazione completamente diversa, legata alla qualità della dizione eloquente e modulata, in cui eccellevano ad esempio l’umanista attore Tommaso Inghirami, detto Fedra per le sue interpretazioni di Seneca nella cerchia romana o Francesco de’ Nobili, detto Cherea (un personaggio di Terenzio), o ancora il gentiluomo Sebastiano Calvignano da Montefalco, star della letteratissima scena estense di metà secolo. Il “ritorno all’ordine” degli anni Trenta, quando si è ormai affermata la drammaturgia classicistica e la recita teatrale si è separata dall’anarchismo orale della festa romanza, tenderà a stemperare e ingentilire le tracce della corporeità e le asprezze della derisione in nome di purismi e classicismi letterari e antropologici che finiranno per trasformare uomini e libri sotto il segno della sprezzatura aristocratica. Le emozioni forti e sguaiate dei buffoni e l’irriverenza degli uomini faceti di inizio secolo, non trovano più accoglienza in certi ambienti: si afferma una svolta di gusto che fissa tenaci dicotomie fra alto e basso, lecito e illecito, e assegna alla parola la superiorità del suo gesto. Mentre accademici e letterati si votano a questo teatro dell’eloquenza, gli attori di mestiere, eredi degli antichi performer di inizio secolo, iniziano a rubare loro la scena utilizzando l’espressività totale del corpo. 3.5 LA DRAMMATURGIA - Giovan Battista Giraldi Cinzio, Orbecche - Giovan Battista Guarini, Il Verrato, ovvero difesa di quanto ha scritto - Alessandro Piccolomini, Annotationi nel libro della Poetica d’Aristotele - Ludovico Castelvetro, Poetica d’Aristotele vulgarizzata et sposta - Bernardino Pino da Cagli, Intorno al componimento de la comedia - Anton Francesco Grazzini Il Lasca, La strega - Angelo Ingegneri, Dalla poesia rappresentativa e del modo di rappresentare le favole sceniche - Lope De Vega, Nuova arte di far commedie in questi tempi La drammaturgia cinquecentesca, si struttura intorno alla triade vitruviana tragico-comico-satirico. Se per la commedia risultano accessibili e replicabili i modelli di Plauto e Terenzio (favola unitaria di ambientazione cittadina, in cinque atti con prologo), le profonde differenze tra Seneca e i classici greci, pongono maggiori problemi per modellizzare la tragedia, mentre il terzo genere (amoroso, rusticale e tragicomico), è tutto da inventare sulla scorta di Virgilio e Ovidio (che non sono 20 sua morte, uno scarno necrologio pare dimenticare totalmente i suoi trionfi scenici, concentrandosi sul facile estinguersi di una gloria effimera e discussa. - Tomaso Garzoni, De’ Comici e tragedi, Venezia 1585 - Giovanni Domenico Ottonelli, De la christiana moderatione del teatro Tommaso Garzoni in La piazza universale di tutte le professioni del mondo, pur prendendo atto del valore di attori e attrici, sistematizza e rilancia il pregiudizio contro professionisti ignobili. “Vendere” teatro è cosa turpe, e la presenza femminile ha una sua valenza simbolica, in senso negativo. È il pensiero che anima il gesuita Giovanni Domenico Ottonelli, quando in De la christiana moderatione del theatro, alla metà del ‘600, lamenta l’improprietà delle situazioni canoniche di tante rappresentazioni: le scene dell’arte sono irrealistiche perché lascive e prospettano modelli di comportamento che dal teatro potrebbero trascorrere nella vita ordinaria. La minaccia permanente del palcoscenico. - Andrea Perrucci, Dell’arte rappresentativa, premeditata (…) Napoli 1966 Ne Dell’arte rappresentativa premeditata, et all’improvviso di Andrea Perrucci (1699), il proemio è, nonostante la vita e le esperienze dell’autore, scrittore prolifico di drammi e poeta strutturato al San Bartolomeo di Napoli, un tributo eloquente a una cultura ufficiale che, fatica ancora a riconoscere prestigio e rilievo a un’arte e una professione che hanno acquisito spazi ovunque in Europa, e si rifugia nel vagheggiamento di un esercizio aristocratico dilettevole e senza lucro. Quello della commedia dell’arte fu un trionfo pieno di ombre, segnata dal buio e dal biasimo che ne minacciarono l’esistenza. 4.2 LE SCRITTURE DEI COMICI. L’APOLOGIA DEL MESTIERE. - Francesco Andreini, Le bravure del Capitano Spavento - Pier Maria Cecchini, Frutti delle moderne commedie, 1628 Francesco Andreini, illustra ai lettori il progetto delle Bravure del Capitano Spavento, in questo modo: prolungare la memoria di un esercizio virtuoso che lo ha visto primeggiare accanto all’indimenticabile Isabella. Ma scrivere e pubblicare i propri brani intessuti di una vis teatrale, costituisce anche una delle soluzioni autoapologetiche che i comici elaborano di fronte alle reazioni al loro mestiere: accreditarsi come autori e lasciare un segno tangibile della preparazione retorica su cui si è fondata la professione e che ora può offrirsi alla lettura. Un salto di qualità o una fuga, forse. V’è chi invece affronta l'ostilità della società e dei poteri ufficiali elogiando la natura dilettevole e educativa del recitare, come Piermaria Cecchini, detto Frittellino, nei suoi Frutti delle moderne comedie, et avisi a chi le recita. Egli riflette sulla cultura sui generis che la scena richiede: studio, eclettismo, tecniche mnemoniche, invenzioni e rielaborazioni che possono fare la differenza fra la “disonestà” e l’“onestà”, tra il "virtuoso" e l’“improprio”. - La supplica, Discorso famigliare di Nicolò Barbieri detto Beltrame 21 Sulla linea tracciata da Cecchini, si muove Niccolò Barbieri nella sua Supplica (1634): un negoziato critico e intellettuale fiducioso nel dialogo e nel confronto di una controparte variamente sospettosa e avversa. Ma le biografie dei comici rivelano esiti assai dissimili: solitaria e sorniona è la scelta dell’Arlecchino Tristano Martinelli che esibisce con studiata irriverenza l'eccezionale ascesa sociale di cui è stato protagonista nelle Compositions de rhétorique dedicate a Maria de’ Medici. 4.3 GLI STRUMENTI DEI COMICI, FRA PREMEDITAZIONE E IMPROVVISAZIONE. - Andrea Perrucci, Dell’arte rappresentativa, premeditata (…) Napoli 1699 Nel proemio alla seconda parte del trattato Dell’arte rappresentativa del 1699 Perrucci, conferma implicitamente che gli attori dovrebbero padroneggiare sia la capacità di memorizzare un testo preventivo (premeditazione), sia quella di riprodurre all’impronto, destando l’impressione di una improvvisazione. Il “teatro dei professionisti organizzati in compagnie” (Siro Ferrone), ha ormai da tempo elaborato una serie di espedienti strategici per consentire da un lato, un’accelerazione nell’allestimento di nuove rappresentazioni, dall’altro, l’approfondimento tecnico-espressivo delle dramatis personae da parte dei comici: i ruoli, sintesi di tratti fisici, morali, intellettuali e sociali che possono riflettere l’età, l’aspetto, le caratteristiche e lo stile recitativo di un interprete, e le parti, specifiche declinazioni all’interno di una determinata opera in cui si concretizza il ruolo. Vecchi, innamorate, innamorati, servi astuti o sciocchi, cui corrispondono “maschere”, Pantalone, Florinda, Pulcinella, costituiscono una griglia sistematica entro la quale gli attori costruiscono la loro carriera accumulando parti all’interno dei ruoli che meglio si addicono loro nel corso degli anni. In questo risiede il tratto più segreto della loro professionalità. Dalle considerazioni di Perrucci affiorano la persistenza del sistema di parti e ruoli e la sua incidenza drammaturgica (odierne fictions); il rilievo che assumono monologhi e dialoghi (i pezzi chiusi) nell’andamento del gioco teatrale, dal momento che è da essi che si sprigiona il potenziale drammatico di ogni singola commedia. - Andrea Perrucci, Dell’arte rappresentativa (…) - Beinecke Library at Yale University, Italian Castle Archive, 1648 È l’improvvisazione il fiore all’occhiello del professionismo, la tecnica che, come “commedia all’italiana”, si impone in tutta Europa e diventa “Commedia dell’Arte” tout court. Tra le composizioni generali (generi, appunto), i “concetti” sono brevi sequenze che, sfruttando una serie di figure retoriche (iperboli e metafore soprattutto), esprimono una condizione affettiva slegata dal plot e, in quanto tali, adatte a essere impiegate in trame diverse, ogni qualvolta la situazione del racconto lo consenta. Altrettanto “universali”, la struttura dei monologhi da inserire nelle storie più rappresentative della lunga stagione culturale cinque-settecentesca, come accade nel lamento sulla fortuna, pronunciato da Belisario nel frammento della Beinecke Library. - Domenico Bruni, Miserie de’ comici. Prologo de fantesca Quello della fantesca nel prologo di Domenico Bruni è un vero e proprio guizzo di metateatro. Ciascun ruolo ha una bibliografia di riferimento da cui attingere materiali per i propri generici: si tratta di opere di consultazione che organizzano per temi aforismi, proverbi, citazioni classiche e 22 bibliche. Ma qui la servetta sembra aprire uno squarcio su due fattori imprescindibili per orientarsi in questo mondo del teatro di professione; uno è il perenne studio cui deve applicarsi ogni interprete se vuole che la sua performance mantenga un elevato livello di qualità; l’altro è il singolare piacere che questo “ ricamo di concertate pezzette”, offre allo spettatore, chiamato a verificare la capacità di variazione e di innovazione che gli attori hanno saputo introdurre in schemi e impianti collaudati. - Andrea Perrucci, Convitato di pietra, opera tragica tradotta in miglior forma e abbellita dal dottor Enrico Predaurca [...] per Gio. Francesco Paci, in Napoli, 1690 Questa è una persuasiva, una delle innumerevoli versioni del Convitato di pietra fra XVII e XVIII sec., redatta da Andrea Perrucci, a dimostrazione di come materiali apparentemente “premeditati”, riorganizzano e incorporano in un impianto tradizionale generici di matrice diversa. Il sistema contempla la funzionalizzazione teatrale di brani e storie originariamente concepiti per altri contesti. - Tristano Martinelli, lettera ad Andrea Cioli, 6 novembre 1624, Archivio di Firenze Un vero e proprio virtuosismo si verifica laddove l’immaginario teatrale trapassa nella scrittura biografica, segno di una professione che si sovrappone e si confonde con la vita privata: una strategia di autopromozione, e una condanna, cui gli attori si prestano con sagacia e rassegnazione. “Tristano Martinelli detto Arlecchino”, abile diplomatico che stringe relazioni attraverso la scelta di madrine e padrini aristocratici per i suoi figli, non smette mai i panni dell’“affecionatissimo servitore”, sul confine fra uomo e maschera, fra realtà e immagine scenica. - Flaminio Scala, Il teatro delle favole rappresentative (…), Venezia 1611 - Gibaldone de soggetti da recitarsi all’Impronto, Napoli biblioteca nazionale Unico vincolo che si dà alla creazione della parte è il rispetto dei tempi e delle coordinate tecniche registrate nel “soggetto”, una “tessitura delle scene sopra un argomento formato”. Flaminio Scala, nella fase pioneristica del mestiere (sua è la piccola sequenza della famosa Pazzia di Isabella, destinata a creare un topos drammaturgico di enorme successo nei secoli), decide di conferire dignità di stampa agli appunti scarni che fissano le entrate e le uscite così come il ritmo e i contenuti di ciascuna sequenza. La regola è che questi strumenti di lavoro restino manoscritti e passino di mano in mano, di generazione in generazione, modificandosi secondo la numerosità delle compagnie e le circostanze degli allestimenti. In un naufragio epocale, quel che si è salvato è il risultato di qualche paziente opera di collezionismo; a leggerli bene, questi relitti raccontano dell’uso intensivo di alcuni plots, ma la sua trasmissione risulta interamente affidata a questi scorci sintetici che ne attestano la flessibilità e l’adattabilità a qualsiasi tipo di pubblico. 4.4 LA “COMMEDIA ALL’ITALIANA” IN EUROPA. - Traduction du Scènario, Arlecchino a Prigi - Due versioni del Basilico 25 modalità di edificazione dei veri teatri in muratura: in luogo delle finestre dei pigionanti che si aprono sullo spazio comune, gli affittuari di rango guarderanno la recita dai palchetti, separati dal “popolo della platea”. 5.2 TEATRO DEL MONDO - Giovan Battista Marino, L’Adone (1623), canto V La sintesi più ampia e ardita, del divenire reale e simbolico dello spazio teatrale, si trova in “L’Adone” di Giovan Battista Marino, terminato a Parigi e pubblicato nel 1623. Nel che suo quinto canto intende celebrare il teatro come macchina e immagine del mondo. Se teatro è parola di massima estensione nel lessico del tempo (il teatro del sonno delle trame oniriche e notturne), altre parole come “scena” e “spettacolo”, vengono qui a definire una più specifica e caratterizzante dimensione. L’invenzione di Marino riguarda l’edificio teatrale come macchina universale: la dimensione simbolica è qui ristretta al solo sguardo dello spettacolo privilegiato. Alle tre ottave di apertura, segue un’ampia descrizione della rappresentazione. La vicenda di Atteone dovrebbe non solo incantare ma ammonire Adone, rivelandogli l’esito degli amori che mescolano déi e umani, ma il giovanetto cede al sonno prima del finale, sopraffatto dall’intensità dell’esperienza della visione e dell’ascolto e ne farà a suo tempo le spese, ucciso da un cinghiale e metamorfosato. L’episodio mette dunque in scena un dispiegamento di effetto spettacolare senza paragone né catarsi. Al privilegiato occhio spettator, nel senso di “sguardo sovrano”, si intreccia la descrizione di quanto a esso non è dato cogliere, che riguarda il funzionamento nascosto della macchina, in un compendio che unisce le descrizioni dei teatri antichi a quelle delle sperimentazioni più aggiornate della scena contemporanea. Contro i luoghi comuni che hanno fatto di un’affermazione quale “è del poeta il fin la meraviglia”, la presunta chiave per definire la poetica marinara e del “barocco” in genere, la stessa “macchina” del grande poema, funziona tra lo stupore che deve produrre nel lettore e la rivelazione del suo stesso funzionamento che essa gli offre. Dalla tradizione dei commenti a Vitruvio proviene anche la nozione di versatilità, nel senso esatto del prodursi di “vari teatri” in un teatro, come moltiplicazione della dimensione duale o del rapporto organico fondativo. Versatili sono infatti definite “le macchine trigone” poste ai lati della scena antica, dette periatti, che un denso passo del De re aedificatoria, accosta alla descrizione dei tre generi rappresentativi (tragedia, commedia e favola satiresca), producendo nella ricezione moderna un’identificazione di fatto non certo intenzionale in partenza, tra le due dimensioni, e una sorta di idea della “messa in volta” dei generi. Il funzionamento di una scaena versatilis, si distingue da quello di una scaena ductilis, la più tradizionale e diffusa: quella della prospettica dipinta, in cui una tela che funge da fondale rivela dietro a sé un’altra tela che essa cela, ovvero la dimensione del teatro commerciale e dei grandi “generi-spettacolo”. 26 5.3 IL SOLE E LA MORTE - Massimiliano Montecuccoli, lettera al duca d’Este, Roma 20 febbraio (il Bernini) - Pierre Corneille, l’illusion comique 1635 Gli esempi più elevati dello spettacolo barocco, per esempio le creazioni di uomo senza confini di pratica come Bernini (architetto, scultore, pittore, inventore di macchine) sopravvivono solo in descrizioni e in lacerti. Di tutti ci è giunto solo un ampio frammento di una commedia senza titolo, al cui centro il personaggio del Dottore si trova alle prese con la costruzione di un’ingegnosa macchina per simulare il movimento delle nuvole, circondato da persone intente a carpirgli i segreti del brevetto. Tra le descrizioni di “spettacoli”, di particolare rilievo risulta quella relativa a una commedia intitolata Li due Covielli (1637), cui testimone descrive con dettagliato stupore, in cui il pubblico reale assiste all’uscita di un pubblico simbolico, con il fingere una tela divisoria sul palco, dietro a cui un secondo Coviello dirige una rappresentazione parallela, a quella cui assiste il pubblico in sala. Alla fine della recita, questo sipario interno, si solleva facendo per un breve momento apparire la Morte personificata, sopra un magrissimo cavallo, che taglia con la sua falce “il filo” della vita e di ogni divertimento. Il sole e la morte, l’apparizione e il rapido dileguarsi della figura, offrono uno dei punti più alti di suggestione e profondità dell’intera storia del teatro occidentale, e in particolare dell’età che si definisce barocca. Si usa presentare la cosiddetta “rottura della quarta parete”, come un brevetto novecentesco. In realtà, essa è dichiarata in rapporto a questa pratica dei grandi barocchi. Corneille la infrange meravigliosamente, proprio nel segno del “comico”, ovvero del lieto fine. Comique, come recita il tiolo, va intesa precisamente nella dimensione dei comédiens (uomini e donne di teatro), del loro ritorno alla vita alla fine della recita. Pridamant crede, nell’ultimo atto, che uno dei “fantasmi” del mago Alcandre, abbia evocato la terribile fine di suo figlio Clindor, vestito di abiti ricchissimi, ma crudelmente assassinato davanti ai suoi occhi. Il Mago fa dunque tirare un sipario interno, per nascondere la vista agli occhi del padre affranto, solo che sono in realtà degli attori che rappresentano dei personaggi. Infatti, il sipario interno, mostra al suo riaprirsi, Clindor insieme ai compagni e alle compagne, intento a contare i soldi dalla cassetta. 5.4 IMMAGINAZIONE TEATRALE. - William Shakespeare, The life of Henry V (1598-99) - Jean Chapelain, Lettre sur le vint-quatre heures - Anonimo, Discours a Cliton (1637) Il prologo a “The Life of Henry V” (1598-99), di Shakespeare, risulta indubbiamente uno dei testi più memorabili dedicati alla libertà di fingere a teatro lo spazio e il tempo, confidando nel potere senza limiti dell’immaginazione teatrale, che unisce in un patto, attori e spettatori. Sul tempo riflette il Coro, posto tra il quarto e il quinto atto di The Winter's Tale (“il racconto d’inverno), composto nel 1611 circa, pronunciato dallo stesso nume personificato. Il tempo richiama qui la 27 funzione delle sue ali, non solo per il suo rapido trascorrere, ma per il diritto di saltare ampie durate cronologiche, giustificando addirittura l’intervallo di sedici anni nella vita dei personaggi, chiedendo agli spettatori di non imputargli questo come crimine, e immaginando, come nelle fiabe, un lungo e inconsapevole sonno. Si usa contrapporre culture teatrali europee, nel siglo de oro o nell’age classique, libere o soggette al sistema delle regole: la Spagna e l’inghilterra elisabettiana e giacomiana, contro l’Italia e la Francia dominate dalle cosiddette “unità” aristoteliche dei commentatori della Poetica del secondo Cinquecento. In realtà, un inquadramento su scala europea può ridefinire complessivamente il campo, come mostrano le stesse richieste di “licenza” per l’infrazione di un ordine che troviamo nelle applicazioni più ardite, in Shakespeare o in Lope de Vega. L’Inghilterra offre le pagine di stretta pretesa e osservanza regolistica di Philip Sidney (The defense of poesy, 1578), che si richiamano a un sistema non solo definito aristotelico, ma razionale, che rifiuta e bandisce le libere escursioni nello spazio e nel tempo, ma anche le azioni prive di corrispondenza fisica o corporale, come per esempio fingere di raccogliere sul palcoscenico fiori che non si vedono. Ma allo stesso modo, la Francia del “tempo delle regole”, ci offre nell’edificare un regime del verosimile un impiego della stessa strumentalizzazione analitica al servizio del potere della facoltà immaginativa dello spettatore. Si veda, per esempio, l’anonimo Discours à Cliton sur les observations au Cid (1637), che circonda la tragicommedia di Pierre Corneille, accusata per l’eccesso di azioni racchiuse nello spazio di 24 ore. Partiti accesamente opposti, mostrano un intreccio che risponde a un’istanza condivisa. I partigiani delle regole introducono, infatti, i sostenitori della tesi opposta, implicando i loro dubbi nel ribadire il sistema che essi difendono. 5.5 “COMMEDIE” / “COMEDIAS”. - Miguel De Cervantes, El ingenioso hidalgo (1605) - William Shakespeare, Hamlet (1599-1601) - Niccolò Barbieri, La supplica (1636) Miguel de Cervantes, è probabilmente colui che ha descritto più efficacemente il rapporto tra scrittura drammatica e pubblico, definendola mercaderia vendibile, e la parallela complicazione dello spettacolo. Ciò anche a partire dal paragone col fecondo e ampiamente remunerato Lope de Vega, sia nella prima parte del Don Quijote, sia nella breve prefazione alla raccolta dei propri testi teatrali. Tra questi due testi si colloca El Arte nuevo de hacer comedias di Lope de Vega, che indica nel gusto del pubblico pagante il referente essenziale per la scrittura teatrale. Osservando la distanza dal tempo di un altro Lope (de Rueda), Cervantes contrappone il teatro presente a quello in cui gli oggetti di cui disponeva un capo di compagnia si riducevano a qualche barba e parrucca e poche altre cose; quando le commedie erano semplici dialoghi, con pochi personaggi o pastori, intervallate da brevi intermezzi; quando non esistevano macchine ad effetti speciali. Una direzione, da cui promana la nostalgia per un teatro “povero” nei mezzi e dalle “forme semplici”. 30 dentro al quadro e un pittore in proprio, capace di far lievitare questo elemento, ri-attraversando temi e soggetti del catalogo e della bottega di famiglia. Il Mondo Novo è diventato un’immagine simbolica proprio perché ritrae una folla che si accalca intorno a una scatola da fiera, dentro cui guardare, per il prezzo di qualche soldo, vedute mirabolanti di mondi lontani, o forse della stessa Venezia. Ma noi vediamo solo la folla che si accalca; così anche Goldoni, in una poesia di occasione (intitolata appunto “Mondo Novo”), aveva osservato “E in specie il carnoval corre la gente/ ad essi intorno, e per vederli impazza/ e con un solo si trastulla e guazza”. - CAPITOLO 6: L’OTTOCENTO 6.1 TEATRO E DRAMMATURGIA - Gotthold Ephraim Lessing, Drammaturgia d’Amburgo (1767-1769) Si può far risalire a Lessing una delle formulazioni più celebri della nozione di “dramma borghese”. in sintonia con l’opera di Denis Diderot in Francia, e con Carlo Goldoni in Italia, Lessing precisa nella “Drammaturgia d’Amburgo”, l’idea di una forma drammatica (l’idea più complessiva del teatro), accordata al gusto della nuova classe egemone, quella borghese. Alla base di questa proposta vi è il tentativo di realizzare in scena una forma capace di una maggiore aderenza ai domestica facta (noialtri moderni lasciamo il più delle volte i nostri personaggi fra le quattro mura di casa), a differenza della tradizione classica e neoclassica. Lessing ribadisce con forza che ciò che conta in scena è l’affermazione del “semplice” e del “familiare”, fino al punto da considerarsi preferibile il ricorso alla “banalità”, piuttosto che alla “retorica”. Le regine della realtà possono essere affettate e artificiali quanto vogliono, ma sul palcoscenico, chiarisce lo scrittore, “devono parlar in maniera naturale”. - August W. Schlegel, corso di letteratura drammatica (1809) Le riflessioni di Schlegel contenute nel Corso di Letteratura drammatica (1808-09), rappresentano l’elaborazione più compiuta dell’idea romantica di Teatro. Il Romanticismo si diffonde rapidamente in Europa ed in Schlegel, come in Lessing, il punto di partenza è la sottolineatura della differenza tra la sensibilità moderna e quella classica. Ma Schlegel si allontana decisamente dall’approdo lessinghiano (che si avvicina al dramma borgese) in nome di una ripresa del genere tragico e di un continuo avvicinamento delle “cose più disparate”, anche quando l’esito di un tale accostamento risulti a tutta prima inverosimile. La scena teatrale deve infatti poter esprimere quella “forza misteriosa” che emerge “come un mondo meraviglioso dal seno del caos” e che costituisce lo sforzo ultimo della tragedia. In questo senso il mancato rispetto delle unità di tempo e di luogo, il contrasto fra serio e giocoso, il mescolarsi dei generi, non rappresentano dei limiti per il dramma romantico, ma ne costituiscono le caratteristiche peculiari. - Alessandro Manzoni, prefazione a Il conte di Carmagnola (1820) Nella prefazione al Conte di Carmagnola (1822), Manzoni difende le ragioni della tragedia romantica in nome di alcuni principi essenziali. Egli in primis rifiuta le rigide costrizioni determinate dal rispetto delle unità di tempo e luogo. Si tratta di “principj arbitrari”, basati su un’ “autorità non 31 bene intesa” (Aristotele), che portano a giudicare “ogni lavoro”, sulla scorta di regole delle quali “è controversa l’universalità e la certezza”. Secondo Manzoni, ciò che conta nell’esaminare un componimento drammatico dovrebbe essere lo sforzo di comprendere gli intenti di ordine artistico e morale che hanno mosso l’autore, se questi intenti siano ragionevoli e infine se vengano conseguiti nell’opera. Inoltre, la tragedia romantica porta in scena fatti veri, che l’artista si incarica di trasformare in poesia. Quanto sia importante per Manzoni il primo aspetto, lo testimoniano anche le lunghe e dettagliate Notizie Storiche che l’autore premette al Conte di Carmagnola. Ma Manzoni rivendica allo scrittore la prerogativa di rendere artisticamente interessanti le ragioni delle azioni rappresentate. In questo passaggio troviamo il senso profondo della poesia drammatica, che nella sua capacità di conseguire uno “scopo morale”, realizza la propria autentica necessità espressiva. - Victor Hugo, Prefazione a Cromwell (1827) Fra i massimi protagonisti del Romanticismo francese, Victor Hugo, mette a punto una particolare declinazione del grottesco in teatro. Come si legge nella Prefazione al Cromwell (1872), egli ritiene il dramma, e non la tragedia, il genere più adatto alla “musa moderna”: “il dramma è il carattere proprio della letteratura attuale”. Hugo però, non pensa al dramma domestico ma a quello storico, a cui aggiunge una forte venatura grottesca. La “poesia del nostro tempo”, argomenta il drammaturgo, ha bisogno di mescolare fra loro gli opposti (tragico/comico, terribile/buffonesco) dando vita all’armonia dei contrari, a quegli avvenimenti che sono allo stesso tempo “ridicoli” e “formidabili”, in grado cioè di far compiere al teatro “il passo decisivo verso la poesia vera”. 6.2 LA SCENA, GLI ATTORI. - Denis Diderot, Paradosso dell’attore Nel suo celebre Paradosso, Diderot distingue fra due tipologie principali di attori. 1. quelli che vivono essi stessi in scena le emozioni del personaggio che devono recitare 2. quelli che se ne mantengono distaccati, facendosi spettatori “freddi e tranquilli” della propria esibizione. I primi sono gli attori sensibili, che puntano all’empatia e che tendono fatalmente alla mediocrità. I secondi sono gli attori consapevoli, critici, che lavorano sul controllo di ciò che fanno in scena, i soli a cui è consentito accedere alla genialità. Gli attori che non si lasciano sopraffare dalle emozioni e che si mostrano capaci di controllare l’esibizione non solo sono migliori nella resa del personaggio di fronte agli spettatori, ma si avvicinano anche meglio al carattere costitutivamente finto della rappresentazione teatrale. Il “vero” a teatro non coincide infatti con la banale riproposizione della realtà così com’è, ma con la capacità dell’attore di imitare un modello ideale che egli trae dall’opera drammatica e che spesso esagera in scena per conferirgli più rilievo e forza artistica. - Antonio Morrocchesi, Lezioni di declamazione teatrale (1832) Attore italiano fra i massimi esponenti della cosiddetta “generazione alfieriana”, Morrocchesi si dedica all’insegnamento dell’arte recitativa una volta abbandonate le scene del 1811, componendo 32 un importante manuale per i dilettanti, intitolato “Lezioni di declamazione e d’arte teatrale” (1832). In questo volume, troviamo un’eco dell’ambivalenza di un certo tipo di recitazione del periodo, fra compostezza neoclassica e influssi romantici. Morrocchesi è infatti per un verso l’interprete per antonomasia di uno stile esteriore e manierato, ma anche fautore di una recitazione calda ed empatica allo stesso tempo (antididerottiana). Rifacendosi agli studi di fisiognomica, egli elabora una sorta di catalogo dei gesti e delle posture utili all’attore. Ma questo approccio convive con una tecnica che prevede l’empatia dell’interprete con le passioni da recitare, fino ad auspicare la “reale commozione” in scena dell’attore. - Francois-Joseph Talma, Reflexions sur Lekain et sur l’art theatral (1825) Talma viene ricordato come uno dei più grandi attori francesi dell’età della rivoluzione e poi napoleonica. Talma individua nell’arte la capacità di perfezionare la natura. Legato ancora in parte ad alcuni schemi neoclassici, ma anticipatore per più motivi di una sensibilità romantica, Talma appare ai nostri occhi parzialmente contraddittorio, riassumendo nella stessa figura, elementi stilistici che vengono spesso considerati opposti tra di loro. Non a caso Madame De Stael, infatti, scriverà che la recitazione di Talma riusciva a combinare artisticamente Shakespeare e Racine. Troviamo qui, per un verso la sottolineatura della compenetrazione necessaria alla recitazione di sensibilità e intelligenza, per un altro verso, la presa di distanza dalle tesi diderottiane circa la superiorità dell’attore freddo e razionale rispetto a quello caldo ed emotivo. Di fronte all’alternativa secca fra sensibilità e intelligenza, Talma sostiene che sia meglio il prevalere della prima, pur auspicando un equilibrio complessivo tra le due facoltà. - Gustavo Modena, Il teatro educatore (1836) e Condizioni dell’arte drammatica in Italia (1858) Gustavo Modena, fra i massimi attori italiani, coltiva l’idea di un’arte “educatrice”, in grado di “aprire gli occhi ai ciechi estirpando pregiudizi e superstizioni”. Ciò che conta in teatro, secondo Modena, è la possibilità di stimolare il pubblico a “pensare” più che a “sentire”, di condurlo alla riflessione critica piuttosto che a provare emozioni “passeggere”. Il suo stile teatrale, si prefigge a dettagli realistici. Modena reagisce per questa via alla mediocrità della scena a lui contemporanea e ai crescenti processi di industrializzazione dello spettacolo che rendono il teatro una “bottega” e gli interpreti una “merce”. La soluzione, dovrebbe essere radicale tanto quanto profondo gli appare il problema: bruciare i teatri, cambiare alla radice il modo di organizzare lo spettacolo, puntare sulla qualità piuttosto che sulla quantità. Secondo Modena bisognerebbe privilegiare la formazione e la crescita degli attori, la cui ignoranza non è la causa, ma la conseguenza dell’ “abiezione” dell’arte. - Adelaide Ristori, Ricordi biografici e studi artistici Adelaide Ristori inaugura a metà ‘800, insieme a Ernesto Rossi e Tommaso Salvini, la stagione del Grande attore e dei suoi trionfi. Attrice di grande vigore espressivo, la Ristori raggiunge nel corso della sua carriera un notevole riscontro di pubblico. La sua recitazione si basa sulla messa a punto di un rapporto empatico con il personaggio, nelle cui attrice si immedesima grazie a un lungo e 35 volte nel tempo, e avrebbero trovato nella lettera a Tommaso Salvini (28 dicembre 1899) una più libera formulazione. E nell’affrontare il repertorio della Duse, la Ristori avanza qualche riserva, sino alla stoccata finale. A testimonianza dell’ammirazione incondizionata che la grande attrice suscitò presso i suoi contemporanei, valga il giudizio di uno degli ultimi testimoni della sua arte, Charlie Chaplin. Nel 1909 la Duse si era ritirata dalle scene, ma spinta da una necessità economica, vi fece ritorno nel 1921. Chaplin la vide proprio in una delle sue ultime esibizioni, durante la tournée negli USA, dove ella morì, stroncata da una polmonite fulminante, il 21 aprile 1924, a Pittsburgh. Chaplin scrisse un dettagliato resoconto delle sue impressioni, apparso sul “Los Angeles Daily Times” il 20 febbraio 1924. È l’ulteriore riprova del fatto che nessuno, meglio di un attore, è in grado di cogliere le sfumature della recitazione di un collega e di darne precisa testimonianza. 7.2 AUTORI - Sergio Tofano, Il teatro all’antica italiana e altri scritti di teatro, 1985 Il teatro all’antica italiana di Sergio Tofano, attore, autore, e disegnatore, creatore del personaggio di Bonaventura, traslato in palcoscenico dalle pagine del Corriere dei Piccoli, ci restituisce il ritratto più vivido della scena italiana di inizio Novecento per riferire come l’atteggiamento dei mattatori non risparmiasse neppure drammaturghi del calibro di Shakespeare. Ancora Tofano ci aiuta a capire la realtà delle scenografie precarie, consunte all’uso. Votate al nomadismo, le compagnie teatrali italiane si accontentavano di una scenografia abborracciata e facile da trasportare, nella convinzione che il pubblico accorresse ad ammirare la maestria degli interpreti, poco curandosi delle approssimazioni delle scene. All’approssimazione delle scenografie corrispondeva un’altrettanta sciatteria nelle traduzioni delle pochades d’oltralpe, che continuavano a imperversare sui palcoscenici nostrani, voltate in un italiano improbabile, sui cui Tofano ironizza. Stanco dei soprusi perpetrati ai danni dei testi teatrali antichi o contemporanei, Marco Praga, dal 1896 si dedicò con energia alla riorganizzazione della Società italiana autori (SIA), che nel 1921, il ministro delle Finanze concesse a quella che nel frattempo era divenuta la SIAE con l’ingresso degli editori, “la gestione del servizio di accertamento e riscossione dei diritti erariali sugli spettacoli, remunerata secondo la prassi comune con aggio esattoriale”. La progressiva affermazione di una drammaturgia nazionale consentì agli autori italiani di imporsi, dettando nuove e più vantaggiose condizioni a tutela della propria opera. Sino allora sostanzialmente privo di un reale potere contrattuale, l’autore italiano, sottoposto com’era alla volontà e al capriccio dell’attore, stentava a vivere del proprio lavoro. E non solo la tutela economica, ma anche il rispetto del testo era esposti all’arbitrio del capocomico. Oltre al piano economico, la riscossa degli autori si accompagnò anche sul piano artistico. All’autore, spettava la prima lettura del copione alla compagnia e non fu un caso che in Italia, furono sempre più numerosi gli autori alla guida dei teatri o delle compagnie, tra cui Dario Niccodemi, capocomico di una raffinata compagnia, cui si deve la prima rappresentazione dei Sei personaggi in cerca d’autore di quello stesso Luigi Pirandello che per tre anni, dal 1925 al 1928, diresse la compagnia del Teatro d’Arte. 36 La storiografia recente è incline a riconoscere che l’anomalia della scena italiana fece da argine alla comparsa del regista, tardandone la definitiva affermazione, sino al maggio 1932, data in cui, sulle pagine della rivista “Scenario”, dietro invito di Silvio d’Amico, il linguista Bruno Migliorini coniò due neologismi: “regìa” e “regista”. - Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore Gli spettatori che si recarono al Teatro Valle di Roma la sera del maggio 1921 per assistere alla prima rappresentazione assoluta dei Sei Personaggi in cerca d’autore di Pirandello, al loro ingresso in sala, si trovarono di fronte a una situazione sconcertante. Era il punto di arrivo di un sostanziale rinnovamento: inneggiato alla rivoluzione contro le convenzioni della scena borghese, Luigi Pirandello sovverte la scena non solo italiana. Il debutto teatrale del drammaturgo siciliano aveva avuto luogo il 9 dicembre 1910 al Teatro Minimo di Roma, del conterraneo Martoglio con due atti unici, La Morsa e Lumie di Sicilia. Una volta fatta irruzione sulla scena, il cammino di Pirandello procedette inarrestabile, i suoi lavori si susseguirono a ritmo serrato. Antonio Gramsci, all’epoca critico teatrale dell’“Avanti!”, definì lo scrittore un “ardito” del teatro “Le sue commedie sono tante bombe a mano che scoppiano nei cervelli degli spettatori”. Vennero altri titoli importanti, sino al capolavoro, la “commedia da fare”, Sei personaggi in cerca d’autore. Le battute fra Suggeritore, Direttore e Primo attore delineano un quadro da teatro all'antica italiana. Pirandello faceva parte di quella nutrita pattuglia di autori che non nascondevano il proprio scontento circa la situazione arretrata della scena italiana, e si diverte a ironizzare su questo tema. La sua ironia si spinge sino a citare il proprio repertorio, qui rappresentato da Il Giuoco delle parti, e contrapposto alle commedie di importazione francese. - Eduardo De Filippo, Uomo e galantuomo Lingua e dialetto si sono spesso contrapposti sui palcoscenici e più di una volta i frutti migliori li ha dati il secondo. È una delle peculiarità del teatro italiano, che nei casi migliori ha prodotto singolari esempi di attore-autore. Da Angelo Beolco detto il Ruzante a Eduardo de Filippo, l’intera nostra storia teatrale corre su questi due binari paralleli e, malgrado il disegno di unificazione linguistica perseguito dal fascismo, la scena dialettale sopravvisse grazie al favore popolare e alla bravura dei suoi interpreti. E proprio alla penna di Eduardo De Filippo, nel 1922, si deve Uomo e Galantuomo, intriso di pirandellismo ai Sei personaggi in cerca d’autore, le cui scene iniziali costituiscono una rispettosa parodia. Al primo atto di Uomo e Galantuomo, vediamo sulla scena una scalcinata compagnia di guitti, che sta provando. Lo scambio di battute tra Gennaro, il capocomico, e Attilio, il suggeritore, costituisce il più classico dei tormentoni, così come accentuatamente comici sono i toni dell’intera scena. L’assonanza con la matrice pirandelliana è evidente. 37 - CAPITOLO 8: IL PRIMO NOVECENTO Far iniziare il Novecento teatrale nel 1896, il 10 dicembre, con la contrastata messinscena di Ubu re di Alfred Jarry, è una convenzione che può essere utile accettare. La messinscena, infatti, anticipò uno degli scandali clamorosi che le avanguardie dei primi trent’anni del secolo, avrebbero costruito e coltivato. Jarry parlava ormai di personaggi-marionette, di un’azione da svolgersi in “nessun posto”, di allestimento deliberatamente approssimativo Il Novecento si inaugura con la crisi dell’unica e più logica delle unità aristoteliche, mai in precedenza messa in discussione: l’unità di azione, disarticolando la logica drammatica. Insomma, si tende a vedere il mondo in modo nuovo, “con un’immediatezza altrimenti propria soltanto ai bambini e ai primitivi, o al sogno. L’espressione del mondo diviene perciò quella tipica del bambino, del primitivo o di chi sta sognando.”. Del tutto conseguente, anche la deformazione dello spazio e del tempo scenici, dichiarata nella nota per un grande dramma mistico e onirico dello svedese August Strindberg, “Un sogno”, 1901. - August Strindberg, Nota per un sogno (1901) Le dissoluzioni spazio-temporale dei drammi Strindberghiani che si avviano da “Verso damasco” (1898) in poi, furono accolte dagli espressionisti tedeschi con tale entusiasmo che si parlò di “estasi” e di “peste strindberghiana”. Il primo dramma propriamente espressionistico, può essere indicato nel “Mendicante” (1911), di Reinhard J Sorge e la caratteristica fondamentale del teatro di questo movimento nel processo di Ausstrahlungen des Ichs, ovvero l’irradiazione esteriore dell’io (coscienza del sognatore), che implica un’oggettivazione dell’esperienza interiore, con una riduzione della componente dialogica fino al monologo evidente o mascherato, con una implicita radicale crisi del modello occidentale di drammaturgia, intesa come azione e dialogo intersoggettivi. - Lothar Schreyer, Poetica espressionista (1918) Come sottolinea il drammaturgo Lothar Schreyer, l’Espressionismo apre il teatro alla composizione ritmica e a una forma di scrittura scenica astratta orientata sul principio di rivelazione emozionale. - Filippo Tommaso Marinetti, il teatro di Varietà (1913) Il 20 febbraio 1909, “Le Figaro” dava risonanza europea al Manifesto del Futurismo, lanciato da Filippo Tommaso Marinetti. Si trattava di una delle più chiare espressioni di una modernità industrializzata, di massa, intenzionata a sovvertire anche tutte le categorie estetiche. Marinetti, inaugurerà una lunga serie di proclami particolari che riguarderanno pure il teatro, ambito che poteva avere in assoluto “una portata futurista più immediata” per la concomitante “voluttà d’esser fischiati” sulla scena da un pubblico indignato. Nel Manifesto del Teatro di Varietà (1913), oltre all’esplosione delle nozioni tempo e spazio, la partecipazione del pubblico; la contaminazione con i generi popolari; la sorpresa e l’Assurdo; la condensazione sintetica, aspireranno addirittura a vincere la concorrenza del cinematografo. - Guillaume Apollinaire, Prefazione a Le mammelle di Tiresia (1918) Con la messinscena parigina delle Mammelle di Tiresia di Apollinaire (24 giugno 1917), in Prima guerra mondiale, riscontriamo una delle più significative dissociazioni nella struttura tradizionale 40 dell’allestimento, che non a caso privilegerà un’asciutta scena architettonica, se non addirittura un “palcoscenico nudo”. La vicenda teatrale di Copeau fu varia e fra il 1920 e il 1924, nella costituzione di una scuola per attori e poeti, che rivela quella vocazione pedagogica, che è un’altra caratteristica della scena del ‘900. Una svolta, si registra tra il 1925 e il 1929, periodo nel quale, chiuso il Vieux-Colombier, Copeau si mette a capo di un gruppo di discepoli, i Copiaus, convinto che “per salvare il teatro, bisogna uscire dal teatro”. L’esperimento mirava a creare, da un lato forme di teatro di strada e di partecipazione popolare, dall’altro una compagnia di giovani, toccati dalla vocazione e dall’entusiasmo per l’arte. - Konstantin Stanislavskij, il duro mestiere dell’attore (1924) Konstantin Stanislavskij, fonda nel 1897-98 il Teatro d’Arte di Mosca, che si proponeva di dichiarare “guerra a qualsiasi convenzionalismo nel teatro, dovunque si presentasse: nella recitazione, nella messinscena, negli scenari. I presupposti erano che “non esistono piccole parti, esistono invece piccoli artisti” e che “il poeta, l’attore, il pittore, il sarto, l’operaio, devono servire all’unico fine, posto dal poeta alla base della sua opera”. Al di là di questa lezione di rigore concettuale e pratica del lavoro teatrale, il lascito forse più rilevante del maestro russo, resta la sua riflessione sulla recitazione, ovvero l’elaborazione, di un metodo che fu un cantiere aperto sul problema di come un impegno seriale, quello dell’attore, scandito in successive repliche, e che possa restare vivo senza diventare meccanico. Oltre a portare attenzione alle tecniche di rilassamento, di concentrazione ai fini di un proficuo isolamento rispetto alle distrazioni della sala, nonché di dominio del corpo per Stanislavskij, deve partire dal “magico sé”. Deve chiedersi cioè, che cosa farebbe se si trovasse nelle “circostanze date” dal copione, reagendo con azioni reali e situazioni immaginarie, con lo scopo di creare la cosiddetta “linea del personaggio”. Se e circostanze, devono incontrarsi, per l’attore, nell’individuazione di un “tema principale”. Anche per Stanislavskij è fondamentale il “tempo- ritmo, che ogni interprete deve individuare nel suo personaggio, costruito nel serrato confronto con il testo, nella sua reviviscenza e nella personificazione. - Vsevolod Mejerchol’d, Corso di biomeccanica (1921-1922) La conciliazione organica di ogni azione e sentimento è il problema sul quale si arrovella Stanislavskij il quale, afferma che “non possiamo fissare i sentimenti. Possiamo fissare e ricordare solo le azioni fisiche”: nell’agire dell’attore quindi, sorgerà spontanea la necessità della giustificazione delle sue azioni. Vsevolod Mejerchol’d, fra il 1898, 1902, aveva fatto parte della compagnia del Teatro d’Arte e, già in questa fase, Mejerchol’d si orienta verso una stilizzazione simbolista che lo porterà sempre ad aderire ai termini della teatralità più pura e dichiarata, con la pratica dell’improvvisazione e della Commedia dell’Arte. Mejerchol’d aderì con entusiasmo alla Rivoluzione d’Ottobre sviluppando, anche in collaborazione con Vladimir Majakovskij, forme di spettacolo che coniugavano gli stili del Cubo-Futurismo e del Costruttivismo con l’agitazione politica. Il nuovo regime mal tollerava però l’impulso avanguardistico di Mejerchol’d che, perì infine nel corso di una purga staliniana. Nei primi anni Venti, Mejerchol’d aveva coniato il termine “biomeccanica”, per una tecnica con la quale si tende a favorire il flusso delle reazioni emotive che 41 strutturano la realizzazione plastica e fisica di un compito scenico, che andrà a fissarsi quindi, in una partitura costruita sulla memoria fisica. - Erwin Piscator, il dramma documentario (1929) Di fronte agli orrori del primo conflitto mondiale, Erwin Piscator, nella Berlino inquieta del dopoguerra, si impegnò nell’esperienza del Teatro Proletario, dando forma a un teatro di tendenza o agit-prop (agitazione e propaganda) di sinistra. Vennero a maturare così le condizioni di un “teatro analitico-dialettico” con un “cambiamento del palcoscenico, che portò all’eliminazione del sipario e al contatto con il pubblico", rendendo “necessario l’attore, oratore, commentatore e missionario di una idea. Egli non doveva rimanere soltanto attore ma farsi anche portatore di idee. Così nacque il metodo del teatro epico”. Piscator darà le prime prove di spettacoli impegnati e complessi, caratterizzati da tentativi di emulazione filmica, che metteranno capo, “Ad onta di tutto!”, incentrata, sulle figure rivoluzionarie. Il teatro qui non solo si presenta come documento, ma sfrutta l’integrazione della cinematografia e delle tecniche filmiche di montaggio. - Bertolt Brecht, il teatro moderno è il teatro epico (1931) Brecht, il teorico di un teatro epico, con maggior rigore dialettico di Piscator, attacca “l’espediente artistico dell'immedesimazione scenica. Questa viene ricondotta da Brecht alla pietà e alla paura di aristotelica memoria, che spingerebbero lo spettatore ad “adagiarsi nell’atteggiamento consueto di sognante, passiva rassegnazione al destino”. Per rendere critico il pubblico, bisogna imporre sulle scene uno stile epico e per l’appunto antiaristotelico, che ponga davanti agli spettatori il mondo affinché ad esso si possa metter mano. Anche la recitazione dovrà adeguarsi in termini di straniamento: gli attori non tenteranno più di presentarsi completamente trasformati, manterranno semmai recitando in terza persona, “un distacco rispetto al personaggio da loro interpretato”. Se lo straniamento è ormai uno degli strumenti correnti nel bagaglio tecnico degli attori contemporanei, forse meni breccia ha fatto in teatro l’esigenza di un “atteggiamento critico”. Brecht riesce a sintetizzare con efficacia in uno schema proprio la contrapposizione tra le forme convenzionali del teatro e la dirompente novità di quelle epiche che tale “atteggiamento critico”, strutturano. - Antonin Artaud, L’eternelle trahison des blancs (l’eterno tradimento dei bianchi) 1936 Antonin Artaud è stato relativamente poco attivo nel teatro pratico e rappresentato e si può affermare che il suo vero spettacolo sia un libro: “il teatro e il suo doppio” del 1938. Questo testo fonda l’idea di un “teatro della crudeltà”. All’insegna di tale concetto, per Artaud, bisogna presentare (non rappresentare), con la necessità di rifondare un rapporto con la vita, strappando l’arte e la cultura alle sue ossificazioni museali. Nonostante l’applicazione delle avanguardie della seconda metà del secolo e del Living Theatre, l’idea di un teatro della crudeltà resta, non più che una potente, feconda suggestione. Di contro, conserva una cospicua acutezza la critica artaudiana della civilizzazione occidentale che va a colpire con forza le forme del pensiero bianco, traditrici, in nome del razionalismo, della natura e della vita stessa. “Tutti i fondatori di tradizione del XX secolo” - “hanno seguito la via del 42 rifiuto, si sono opposti al loro tempo e hanno forgiato l’idea di oltrepassare lo spettacolo come manifestazione fisica ed effimera e raggiungere una dimensione metafisica, politica, sociale, didattica, terapeutica, etica e spirituale”. - CAPITOLO 9: IL SECONDO NOVECENTO 9.1 La condizione del dopoguerra: scrivere per il teatro - Eugène Ionesco, Note e contronote. Scritti sul teatro, 1965 Lo sgomento nel quale la tragedia della Seconda guerra mondiale fa piombare l’Europa incide in profondità sulla società e la cultura degli anni immediatamente successivi al conflitto. Anche per il teatro, il dopoguerra significa una cesura e un nuovo inizio. Chiuso ormai la stagione di avanguardie primo novecentesche, è nuovamente la scrittura a farsi carico di un radicale confronto con la condizione dell’uomo nella contemporaneità occidentale. Due emblematiche esperienze di scrittura che seppero influenzare profondamente anche la scena per la potenza e la radicalità del loro pensiero teatrale furono quella dell’autore franco-rumeno Eugene Ionesco e quella dell’irlandese Samuel Beckett. In entrambi i casi, umorismo tragico e parodia si palesano come vie formali per esprimere la crisi della società contemporanea attraverso la crisi delle sue strutture linguistiche. Il teatro dell’assurdo, la parodia o l’umorismo con i mezzi del burlesco sono le vie attraverso le quali può essere espresso il collasso di senso del linguaggio nel mondo contemporaneo. Le riflessioni di Ionesco sulla Cantatrice calva (1950), la sua prima commedia, si possono estendere a buona parte della produzione teatrale dell’autore: disarticolazione del linguaggio, impossibilità di qualsiasi forma di comunicazione, decomposizione dei personaggi e della loro psicologia, comparsa dietro l’atroce banalità della conversazione di una realtà assurda e mostruosa. - Samuel Beckett, Finale di partita (1957) - Theodor W. Adorno, Tentativo di capire “Finale di partita” (1961) L’incessante necessità di parlare (pur in assenza di un linguaggio comune), il persistere della domanda sulla verità (pur nell’impossibilità di ottenere una risposta) costituiscono il cuore della proposta teatrale di Beckett elaborata all’inizio degli anni ‘50. Svuotate dall’interno, le convenzioni del dramma moderno sono passate attraverso la parodia che ne rivela l’inesattezza: la trama sprofondata in mozziconi scissi gli uni dagli altri, i dialoghi ridotti a un vuoto conversare frammentato, i personaggi prosciugati da ogni umore sentimentale e tratto psicologico. Anche lo spavento che provano Hamm e Clov, protagonisti di finale di partita, uno dei capolavori di Beckett, di poter significare ancora qualcosa è solo fintamente comico, la comicità (nella forma di gag) mostra il suo lato doloroso e tragico, nella quale l’autore dà forma alla scissione tra spazio scenico e spazio mentale e mette in scena e alla prova le condizioni e i limiti della teatralità. 45 costante. Proprio in quegli anni, Grotowski porta maturazione anche una riflessione sull’essenza del teatro: spogliato di ogni elemento “non necessario” come allestimento scenico, costumi e luci, il teatro è “ciò che accade fra spettatore e attore”: non lo spettacolo, dunque, ma la relazione. In tal senso il teatro si fa povero, volto a realizzare la sincerità scenica e ciò che viene definito l’atto totale. L’allenamento, ovvero il training, a cui si deve sottoporre l’attore, è mirato a rimuovere gli ostacoli e le resistenze che gli impediscono di manifestare i suoi impulsi più vitali. L’utopia di un attore santo che, all’interno di un teatro povero ed essenziale, infranga le barriere che lo separano dallo spettatore, per stabilire una sorta di nuova sacralità laica. Il personaggio viene inteso come un trampolino che permette all’attore di indagare quello che è il nucleo più profondo di sé. Il corpo non è dunque più lo strumento, è il luogo della presenza. - Carlo Cecchi, Contro la rappresentazione, 1995 Uno dei più grandi attori del 900 italiano, Carlo Bene, esordisce nel 1959 con il caligola di camus e da cui si avviò a un percorso solitario, che influenzerà profondamente la cultura teatrale. A partire dal singolare modo in cui Bene lavora con il suo corpo d’attore e dal modo in cui ricostruisce il linguaggio della scena, mette in discussione il teatro naturalistico e più in generale di rappresentazione: la centralità del testo come principio attorno al quale far ruotare la creazione scenica. La decostruzione linguistica si fa allora di-scrittura, secondo le parole dello stesso Bene, e trova nel corpo attoriale dell’artista il suo luogo espressivo per eccellenza e nella parodia tragico grottesca la sua cifra stilistica. Bene si afferma come artifex della scena e contemporaneamente, come negazione della stessa. 9.6 Il lungo Sessantotto. Teatro, vita, collettività e politica - Ed Bullins, Il Black Theatre per la strada: programma-manifesto Il 1968- 69 e certamente un biennio di cesura per il mondo occidentale dal punto di vista politico, sociale, culturale: sono gli anni della contestazione giovanile, gli anni dell’assassinio di Martin Luther King e di Robert Kennedy. Ciò che nel teatro di ricerca era maturato negli anni precedenti raggiunge ora il suo momento di esplosione, per poi trovare vie diverse di sviluppo. Il movimento di ripensamento del teatro si allarga, investe altre realtà, altri paesi, altre culture e si afferma come strumento di lotta politica, di scambio interculturale e di formazione pedagogica. Il Black Theater, dopo l’assassinio di Martin Luther King e l’esplosione della rabbia della comunità afroamericana, intensifica la propria attività: si tratta di un teatro di chiarimento politico, caratterizzato da un forte tratto identitario, che si afferma tanto nella drammaturgia quanto nella proposta di nuove forme di azione teatrale. - Augusto Boal, Un’esperienza di teatro popolare in Perù, 1971 Si inserisce in un contesto di teatro politico della seconda metà del ‘900 il teatro dell’oppresso di Augusto Boal. Nato gli anni ‘60 in Brasile, in un clima di lotte operaie e contadine, il teatro dell’oppresso si ispira e si propone come strumento di comprensione e presa di coscienza della conflittualità sociale, in un processo di attivazione collettiva alla cittadinanza dello spett/attore. Dopo il colpo di Stato in Brasile del 1964 dopo essere stato arrestato e torturato, Boal lascerà il suo paese: da quel momento il TDO si diffonderà nel resto dell’America Latina. 46 - Richard Schechner, 6 Axioms for Environmental Theatre, 1968 Abbandonare il teatro, per alcuni, non significa solo rifiutare il teatro di tradizione borghese: significa più radicalmente la ricerca di una forma che contempli anche il contatto con la realtà fuori dal teatro, con altri interlocutori. Richard Schachter, regista e teorico teatrale statunitense, fondatore del performance Group, direttore di the trama review, teorizza nel 1968 l’Environmental Theater, un teatro in cui l’ambiente diviene materia prima della creazione artistica. Il primo spettacolo del gruppo era stato rappresentato in un garage: la recitazione antillusionistica, la fusione degli attori con il pubblico, avevano contribuito già allora ad eliminare il più possibile l’elemento metaforico dell’atto teatrale. - Peter Book, Il punto in movimento, 1946-1988 Alcuni artisti, che avevano esordito nel decennio precedente e avevano posto le basi della ricerca teatrale, detta del nuovo teatro, negli anni ‘70 virano drasticamente il loro percorso e alcuni arrivano ad abbandonare il teatro: Carmelo Bene lascia per esempio temporaneamente la scena per dedicarsi al cinema, l’open theatre chiude. Questo il contesto nel quale anche Peter Brook, fonda a Parigi il Centre International de rechereches theatrales (CIRT). Sincretismo culturale e nomadismo si intrecciano a costruire l’asse principale. In tale quadro si colloca la costruzione di una compagnia internazionale e multietnica che raccolga attori con formazioni teatrali diverse. Animato da grande fiducia nel superare le differenze e i conflitti ideologici, Brook realizza viaggi in Medio Oriente, in Africa e nelle Americhe, volto all’incontro con altre culture e altre lingue del teatro - Eugenio Barba, Terzo teatro (1976) - Eugenio Barba, La corsa dei contrari (1981) Eugenio Barba fonda nel 1964 l’Odin Teatret e avvia una via assolutamente autonoma e originale. Si apre una nuova una nuova fase, quella del teatro di strada. Allora il “baratto” diviene lo strumento per lo scambio interculturale, mentre lo spettacolo, inteso come prodotto, perde la sua centralità, rivelandosi piuttosto come pretesto per l’attivazione di una dinamica di scambio, per incontrare le persone e le culture. L’essenza del teatro, da allora e sempre più, consisterà nell’avviare una cellula sociale che incarna un ethos. La proposta di un Terzo teatro, teso alla ricerca dei principi originali della creazione artistica e di occasioni di esperienza sociale e comunitaria è accolta con straordinario entusiasmo, che presuppone l’esistenza di principi espressi originari comuni a tutte le forme teatrali. 9.7 Anni Settanta e Ottanta: nuove vie per la scrittura scenica - Tadeusk Kantor, La classe morta. Partitura scenica (1974) Negli anni ‘80 si assiste all’articolarsi di una scrittura scenica che chiede, in questi anni, il coinvolgimento dell’elemento visivo e una formalizzazione decisamente più marcata, ma anche la ridiscussione del ruolo e delle funzioni del regista, sempre più inserito in una dialettica collettiva. Nel 1975 Tadeusz Kantor, pittore e regista polacco, porta in scena la classe morta, in cui si coniugano la dimensione tragica grottesca e anti-rappresentativa dell’insieme e della recitazione degli attori-manichini. Il testo è un punto di partenza, le azioni non compongono tutta una trama, ma restano isolate, valide in sé. Solo la morte garantisce la possibilità della vita artistica: fuori dalla 47 vitalità biologica organica, l’arte trova la sua condizione di oggettività. Di questo, i personaggi manichini nella classe morta sono la paradossale figurazione, proponendo una originale articolazione del concetto e della funzione della regia contemporanea - 1789. Naissance d’un spectacle, 1972 1789, una contro-storia della Rivoluzione francese narrata dal basso, dalla prospettiva del popolo, sancì la fortuna europea della giovane compagnia francese del Teatre du Soleil. La troupe a statuto cooperativistico ha tuttora sede a Parigi e continua a proporre grandi spettacoli dal respiro epico. Con 1789 la compagnia consolidò una prassi creativa, alla base è una lente e organica crescita dei progetti spettacolari secondo una co-autorità coinvolge tutti i gruppi di lavoro del teatro, dai tecnici agli attori. La pratica della creatività collettiva, si basa sul mettere in comune il proprio sapere, per realizzare l’utopia di un teatro corale. - Bob Wilson, in Il teatro di Robert Wilson (1976) Nel 1976 debutta al Festival di Avignone Einstein on the Beach di Bob Wilson, che ne firma la regia, e di Philips Glass, che ne compone le musiche. La transdisciplinarietà si concretizza qui in un’opera che è frutto di un progetto unitario, co-autoriale, che tende a proporsi come una moderna opera totale. La Modern dance e la musica minimalistica, i pezzi recitati dagli attori in Slow motion e senza alcuna tensione interpretativa, la luce in continua trasformazione. Lo spettatore fa così esperienza contemporaneamente di forme diverse e di temporalità e di elementi diversi, che convergono ulteriormente alla costruzione di un’opera che si presenta come un oggetto scenico in sé, senza rimandi ad altro. - Il teatro della Zattera di Babele, Vienna 1986 Carlo quartucci, dopo essere stato uno dei protagonisti del nuovo teatro, avvia nel 1980 una nuova tappa del suo percorso artistico, la compagnia la zattera di babele, con la programmatica intenzione di provocare un cortocircuito fra linguaggi artistici coinvolti, nella tensione a costruire in un unico territorio articolato in numerosi spazi, dove gli artisti agiscono in autonomia o in collaborazione. Il progetto della zattera di babele è la creazione di un’opera che sia una sorta di una jam session fatta di solisti che non rinunciano alla propria individualità ma portano armonia. Le varie arti, tutte insieme ma ciascuna con la sua peculiarità. 9.8 Le vie dell’attore - Etienne Decroux, Manifesto dottrinale (1948) - Etienne Decroux, Postille su “Petits soldats”, 1962 La progettazione di un nuovo attore, si afferma nel secondo ‘900 come un elemento centrale permanente delle riflessioni sul linguaggio teatrale. La riflessione sull’attore, la sua funzione, la sua identità. A Decroux si deve la ricerca più radicale sul mimo corporeo, che tende a una trasposizione plastica e antinaturalistica dei soggetti, eleggendo il tronco del corpo a principale mezzo espressivo e sottraendo centralità al volto punto la creazione del mimo corporeo sarà allora simile a una scultura virgola in cui il dato reale fa stratto. - Vera Soloviova, The reality of Doing, 1964
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