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Sintesi del libro Manuale del Film, Sintesi del corso di Storia E Critica Del Cinema

Riassunto del libro Manuale del Film per il corso "Storia e critica del cinema" del professor Faccioli

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

Caricato il 27/11/2023

anna-farina-9
anna-farina-9 🇮🇹

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Scarica Sintesi del libro Manuale del Film e più Sintesi del corso in PDF di Storia E Critica Del Cinema solo su Docsity! 1 CAPITOLO 1 – SCENEGGIATURA E RACCONTO CHE COS’È UNA SCENEGGIATURA Il film nasce da un’idea, che nel caso di un film narrativo è l’idea di una storia, limitata ad una situazione, ad un evento o a dei personaggi. Questa idea si deve articolare e deve prendere forma, così nasce poi una sceneggiatura, ovvero una descrizione più o meno precisa, coerente, sistematica di una serie di eventi, personaggi e dialoghi connessi in qualche modo tra loro. Sceneggiatura → processo di elaborazione del racconto cinematografico che passa attraverso diversi stadi, che vanno dall’idea di partenza alla sceneggiatura vera e propria. Gli stadi sono: 1. Soggetto → è la prima manifestazione concreta di un’idea. È uno spunto narrativo, la storia di un film a venire, che può avere un’esistenza legale (si possono rivendicare i diritti di proprietà). Il soggetto solitamente di poche righe, ma può essere anche più lungo – è il caso degli adattamenti, ovvero i film che sono tratti da racconti e romanzi, che quindi si rifanno ad un’opera preesistente. Perciò il soggetto originale dovrà essere ampliato, mentre un soggetto letterario dovrà essere sottoposto ad un lavoro di contenimento e di tagli. 2. Trattamento → gli spunti narrativi del soggetto vengono sviluppati e approfonditi. L’intrigo è già articolato. 3. Scaletta → segna la fase del passaggio dal momento letterario della storia a quello della costruzione del film. Il trattamento è selezionato, scandito, suddiviso in scene (di solito due paginette), serve a tenere sott’occhio la storia del film. 4. Sceneggiatura → trattamento e scaletta interagiscono e danno origine alla sceneggiatura, in cui le scene sono messe in ordine, vengono descritti gli ambienti, i personaggi, gli eventi e vengono indicati i dialoghi. 5. Découpage tecnico → le scene vengono divise in singole immagini (= inquadrature), di cui si indica il contenuto, il punto di vista della cinepresa, la presenza di eventuali movimenti di macchina… C’è anche la possibilità di accompagnare al testo scritto della sceneggiatura delle immagini, che prefigurano quali saranno poi le inquadrature del film: questo è chiamato story broad. Questo processo di illustrazione della sceneggiatura a volte è accompagnato anche a forme di previsualizzazione elettronica che consentono di arrivare alla fase di ripresa avendo già verificato i fattori che determinano il risultato finale. Pudovkin sosteneva che “la sceneggiatura non è che la definitiva precisazione di ogni particolare, con la descrizione di tutti i mezzi tecnici necessari alla ripresa”. Cinema americano classico → il compito del regista consisteva soprattutto nel rispettare le indicazioni che venivano fornite dal découpage tecnico. Nouvelle Vague → disponibilità all’improvvisazione, sceneggiatura come strumento da mettere continuamente in discussione. Hitchcock → un film ben sceneggiato è un film già fatto, le riprese devono solamente seguire le indicazioni elaborate nel découpage tecnico. Bergala → distingue tra: • Sceneggiatura-programma: struttura pronta per essere girata – sceneggiatura legata al cinema classico, più chiusa in sé stessa 2 • Sceneggiatura-dispositivo: aperta alla causalità delle riprese – sceneggiatura legata al cinema moderno, più aperta e disponibile a modificarsi (esempio: Nel corso del tempo, scritto giorno per giorno) Funzioni della sceneggiatura: • Carattere fluttuante e instabile – dal momento che la sua elaborazione avviene per fasi, perché assume forme miste intermedie, perché è suscettibile a continue variazioni. Infatti, una sceneggiatura si può considerare ultimata solamente quando il film per cui era stata pensata è giunto alla fine della sua lavorazione • Darsi in funzione di un film che è essenzialmente fatto di immagini – la sceneggiatura è un oggetto effimero: non è concepito per durare ma per diventare altro, lo sceneggiatore non cerca solo delle parole o degli eventi, ma anche delle immagini, le inquadrature, i suoni, i movimenti della macchina… È necessario che il testo della sceneggiatura non sia letto dal punto di vista del valore letterario, ma in rapporto alle immagini e ai suoni che vanno a costituire il film. Inoltre, la sceneggiatura ha anche una funzionalità pratica: indica i materiali di produzione necessari, i luoghi, il numero di attori, gli effetti speciali, i tempi, il denaro necessario. Scrivere una sceneggiatura significa articolare quello che sarà il racconto del film che prenderà vita. CHE COS’È UN RACCONTO Il racconto raccoglie in sé due significati diversi: quello di storia e quello di discorso. • Storia → Chatman: il contenuto o il concatenarsi di eventi, più quelli che possono essere chiamati gli esistenti (personaggi, elementi dell’ambiente) – CHE COSA viene narrato • Discorso → l’espressione, i mezzi per il cui tramite viene comunicato il contenuto – COME viene narrato Il racconto inteso come storia è una catena di eventi legati fra loro da una relazione di causa ed effetto che accadono nel tempo e nello spazio – casualità, tempo e spazio sono gli elementi centrali di ogni racconto. Narratività → un insieme di codici, procedure e operazioni, indipendenti dal medium nel quale esse si possono realizzare, ma la cui presenza in un testo ci permette di riconoscere questo ultimo come racconto. La narratività ha una natura virtuale – non può esistere concretamente che nel momento in cui è diventata racconto. Un mondo virtuale è inizialmente caratterizzato a una situazione di equilibrio, a seguito di uno o più eventi questo equilibrio salta e dà vita ad una situazione che genera altri eventi, che porteranno ad un nuovo stato di equilibrio, uguale o diverso da quello iniziale: equilibrio – evento o serie di eventi – squilibrio – evento o serie di eventi – riequilibrio L’operazione minimale della narratività è il passaggio da una situazione ad un’altra, il darsi di un evento in qualità di operatore di una certa trasformazione. Funzioni → azioni-tipo necessarie allo sviluppo del racconto. Sotto ad ogni racconto si nascondono delle strutture che sono le stesse per ogni storia, e questa le attualizza rivestendole di un aspetto (personaggi, luoghi, motivazioni) di volta in volta diverso. 5 Il film quindi testimonia la presenza di un’istanza che organizza e struttura in un certo modo la storia e i suoi materiali facendo sì che alla semplice rappresentazione si sovrapponga la narrazione – quest’istanza prende il nome di narratore invisibile, o enunciatore, o narratore implicito… L’importante però è capire come si riesca a definire la presenza nel testo filmico di un’istanza che è rapportabile al narratore letterario, che produce il racconto, la cui presenza è essenziale e il cui lavoro si articola su tre livelli: mostrare, far sentire, narrare. Questa istanza può anche farsi più concreta e manifestarsi attraverso una voce ma una voce di nessuno dei personaggi che fanno parte della diegesi: il narratore extradiegetico – manifestazione verbale dell’istanza narrante. Altre volte invece può essere un personaggio della storia ad assumere il ruolo di narratore, e in questo modo si può rivolgere direttamente allo spettatore o ad uno dei personaggi della storia – il narratore intradiegetico. Lo spazio del racconto Il racconto cinematografico trova nello spazio un elemento a sé costitutivo proprio quanto lo sono il tempo e la causalità. Quando si parla dello spazio del racconto cinematografico possiamo intenderlo come • Spazio della storia → spazio diegetico rappresentato dal film (una stanza) • Spazio del racconto → spazio che viene a formarsi sullo schermo attraverso il modo in cui il discorso articola lo spazio della storia (come la stanza viene mostrata sullo schermo) Gaudreault e Jost: esistono diversi tipi di rapporti spaziali che vengono ad instaurarsi in un film nel passaggio da un’immagine all’altra. Si possono articolare quattro tipi di rapporti spaziali: 1. Articola due segmenti dello spazio diegetico in sovrapposizione parziale tra un’immagine e l’altra (es: scena 1 – intera parete con i quadri appesi; scena 2 – una parte della parete con solo uno dei quadri) – identità spaziale → RELAZIONE DI IDENTITÀ (stesso qui) Gli altri tre rapporti sono basati sull’alterità spaziale: 2. Contiguità – spazi adiacenti, congiunti tra loro e legati da un rapporto di comunicazione visiva immediata. Ad esempio, la conversazione fra due personaggi in cui si alternano le immagini dell’uno e dell’altro – si tratta di una relazione di congiunzione → RELAZIONE DI CONTIGUITÀ (qui) Gli altri due rapporti, invece, si basano su una relazione di disgiunzione: 3. Disgiunzione di prossimità – quando tra due spazi non adiacenti è possibile una comunicazione visiva o sonora non amplificata. Per esempio la relazione tre due celle separate da un muro in cui i detenuti possono comunicare → RELAZIONE DI PROSSIMITÀ (là) 4. Disgiunzione di distanza – quando due spazi sono privi della possibilità di comunicazione visiva o sonora diretta. Per esempio, la donna in casa e l’uomo in città → RELAZIONE DI DISTANZA (laggiù) 6 Quindi, riassumendo: Articolazione spaziale fra due inquadrature • Identità (stesso qui) • Alterità o Contiguità (qui) o Disgiunzione ▪ Di prossimità (là) ▪ Di distanza (laggiù) Lo spazio della storia è definibile anche come spazio diegetico, che in un film è rappresentato attraverso una serie di immagini che invitano lo spettatore a dare un significato complessivo all’ambiente rappresentato. Esempio: Vite vendute – Clouzot → rappresentazione di un insieme di elementi diegetici interpretabili sulla base di un significato globale ben preciso, quello di “spazio latino-americano”. C’è un insieme di elementi che vengono raggruppati in pacchetti e che sono ricondotti ad un significato generale, che lo spettatore conosce in base alle sue personali conoscenze. Gardies sostiene che: • La rappresentazione di uno spazio dà vita a significati • Questi nascono grazie alla collaborazione dello spettatore che deve riconoscerli • Lo spazio ha come referente primo uno spazio immaginario che altri media hanno contribuito a diffondere creando degli stereotipi Lo spazio diventa quindi un agente narrativo, e ha delle funzioni narrative: • Funzione attanziale → può essere destinatario, destinatore, oggetto, adiuvante e opponente • Funzione narrativamente attiva → l’ambiente in cui vive un personaggio può farsi portatore per lui di alcune sue caratteristiche (uccelli rapaci in Psycho che evidenziano la natura del personaggio) I rapporti fra spazio e personaggio possono costruire delle matrici narrative, Gardies parla di relazioni di giunzione e disgiunzione e articola quattro modelli: 1. Soggetto disgiunto dallo spazio → soggetto congiunto allo spazio 2. Soggetto congiunto allo spazio → soggetto disgiunto dallo spazio 3. Soggetto disgiunto dallo spazio → soggetto congiunto allo spazio → disgiunzione di partenza 4. Soggetto congiunto allo spazio → soggetto disgiunto dallo spazio → congiunzione di partenza Esempio: Sentieri selvaggi – John Ford → viene presentato un conflitto che costituisce uno degli archetipi chiave della cultura americana: quello tra casa e deserto. Ethan ritorna a casa dopo molti anni e Martha gli apre la porta – il conflitto tra casa e deserto sembra ricomporsi. Alla fine dell’esordio del film Ethan esce sulla veranda ma guarda indietro verso la casa, mentre Aaron chiude la porta → i rapporti spaziali tra il dentro e il fuori disegnano le relazioni tra i personaggi; Ethan si muove dal fuori al dentro per poi tornare fuori alla fine dell’esordio. Il dentro e il fuori non sono luoghi fisici ma degli spazi che definiscono il dramma di una condizione esistenziale. 7 Il tempo del racconto Il tempo è un elemento essenziale della narrativa. Il cinema sembra mostrarci qualcosa che sta accadendo, infatti il tempo del film è il presente. Il presente del cinema ci mostra una determinata azione nel corso del suo stesso svolgersi. In un racconto possiamo distinguere due diversi tempi: quello della storia (tempo diegetico) e quello del discorso, che dà vita al tempo del racconto. Per farci conoscere un evento, l’istanza narrante non è obbligata a rispettare la temporalità diegetica. Può raccontarcelo prima o dopo, a lungo o brevemente, una volta sola anche se accade più volte o più volte anche se accade una volta sola. Gerard Genette individua tre livelli di rapporti tra tempo della storia e tempo del racconto: ordine, durata e frequenza. 1. Ordine È normale trovare un film in cui l’ordine degli eventi sia diverso dall’ordine della storia. Ci si può infatti trovare di fronte a dei flashback (= parte di storia che il racconto presenta in un momento successivo a quello occupato sul piano cronologico – è un salto indietro), che porta lo spettatore nell’ordine del discorso, non quello della storia; o di un flashforward (= rappresentazione di un evento futuro – salto in avanti). Però, i omenti passati di una storia possono essere evocato anche solo sul piano sonoro attraverso il racconto di un narratore diegetico – le immagini rappresentano una situazione presente mentre le parole evocano un episodio passato. Si introducono due nuovi termini, dal momento che flashback e flashforward sono legati alla presenza delle immagini: si parla di analessi (= evocazione a posteriori di un evento passato) e prolessi (= racconto in anticipo di un evento futuro). Entrambe possono essere esterne, interne e miste. Prendiamo in considerazione un racconto che inizia nel 1980 e finisce nel 1990. • Analessi esterna → l’episodio evocato inizia e finisce prima del momento in cui ha preso avvio il racconto – es: episodio avvenuto nel 1979. • Analessi interna → l’episodio è avvenuto dopo l’inizio della storia – es: episodio avvenuto nel 1981. • Analessi mista → l’episodio ha inizio prima dell’inizio della storia però termina dopo lo stesso inizio – es: episodio che avviene tra il 1979 e il 1981. Stessa cosa riguarda la prolessi: • Prolessi esterna → episodio avvenuto nel 1991 • Prolessi interna → episodio avvenuto nel 1981 • Prolessi mista → episodio avvenuto tra il 1989 e il 1991 Solitamente l’analessi serve per completare una mancanza o un’omissione, mentre la prolessi serve soprattutto per anticipare un evento futuro. Fabula → ordine cronologico degli eventi proprio della storia Intreccio → ordine degli eventi così come si danno nel racconto La differenza tra fabula e intreccio ha il merito di mettere in evidenza l’esistenza di una serie di strategie narrative che permettono di rompere i limiti del rispetto cronologico e di fondare un vero e proprio tempo del racconto. Un esempio di questo è Rapina a mano armata, in cui l’ordine cronologico degli eventi della fabula viene scardinato da quello dell’intreccio (p. 27). 10 Genette articola il rapporto che viene a costituirsi tra istanza narrante, personaggio e spettatore nel seguente modo: • Racconto non focalizzato o a focalizzazione zero → narrazione onnisciente – il narratore dice di più di quello che sanno i personaggi (narratore > personaggio) • Racconto a focalizzazione interna → il narratore assume il punto di vista del personaggio (narratore = personaggio) • Racconto a focalizzazione esterna → il narratore non fa conoscere i pensieri e i sentimenti del personaggio (narratore < personaggio) Ci sono però tre varianti a questo schema: 1. Il fatto che la focalizzazione possa cambiare all’interno di uno stesso racconto (una parte di racconto può essere a focalizzazione zero e un’altra a focalizzazione esterna) 2. Un narratore non si rapporta solo ad un personaggio, ma a più personaggi, quindi rispetto ad un personaggio si può avere la focalizzazione interna e rispetto ad un altro quella esterna 3. Anche nel rapporto con un solo personaggio, il narratore può farci sapere di più su alcune cose e meno rispetto ad altre L’immagine è fondamentale, dal momento che un film racconta mostrandoci delle cose – dunque, il discorso della focalizzazione va affrontato sul piano della visione. Jost ha introdotto il termine di ocularizzazione, ovvero la relazione che si instaura tra ciò che la macchina da presa mostra e ciò che si presume il personaggio veda. L’ocularizzazione è suddivisibile in tre categorie. Ocularizzazione: • Zero → vedo qualcosa direttamente, senza la mediazione di un personaggio a vederlo – sguardo esterno alla diegesi (nobody shot) o Enunciazione mascherata → immagini ordinarie che ci fanno vedere gli elementi diegetici più importanti nel modo più chiaro, facendo dimenticare la presenza della macchina da presa o Enunciazione marcata → autonomia dell’istanza narrante in rapporto al personaggio (es: quando in un giallo l’istanza narrante non vuole farci vedere il volto dell’assassino) • Interna → ciò che vedo io è quello che è visto dal personaggio o Primaria → singole immagini che recano in sé le tracce di qualcuno che guarda; le immagini in questione presentano tratti di deformazione come lo sguardo di un personaggio ubriaco, miope…, oppure immagini in movimento, oppure quando l’immagine mostra un personaggio di spalle che guarda qualcosa che anche io spettatore posso vedere o Secondaria → alternanza di due immagini che mi mostrano l’una il personaggio che guarda, l’altra ciò che è guardato Rapporto tra ocularizzazione e focalizzazione → rapporto tra vedere e sapere Vedere è sapere, ma solo parzialmente, dal momento che le informazioni sul mondo diegetico del film non passano solo attraverso le immagini, ma anche attraverso gli altri quattro materiali dell’espressione cinematografica: parole, rumori, musiche e menzioni scritte. 11 Perciò, nel caso dell’ocularizzazione, io mi riferisco al vedere implicando il sapere che questo vedere può comportare, mentre nel caso della focalizzazione io mi riferisco al sapere, implicando il vedere che può essere fra le cause di questo sapere. Il sapere a cui si fa riferimento parlando di focalizzazione è il sapere che concerne il mondo diegetico: che cosa apprendo, come e quando sulla situazione spazio temporale, sui personaggi, sui loro caratteri… Affinità che non coincidono: • Focalizzazione interna (io so quello che il personaggio sa) e ocularizzazione interna (io so quello che il personaggio sa e vedo quello che lui vede). In realtà quando la mia conoscenza coincide con quella del personaggio, nella maggior parte dei casi si ricorre ad un’ocularizzazione interna primaria e secondaria. • Ocularizzazione interna primaria (io vedo solo quello che il personaggio vede) sembra coincidere con il racconto a focalizzazione interna (vedo e so quello che il personaggio vede e sa). Esempio: personaggio testimone di un assassinio – ma magari in una scena precedente i personaggi e sa qualcosa in più del personaggio, tipo che sono attori → vedo quello che vede il personaggio (ocularizzazione interna), ma ne so molto di più (focalizzazione zero). Nel cinema, l’esteriorità della macchina da presa non implica una negazione dell’interiorità del personaggio. Si parla di focalizzazione esterna non quando un personaggio è semplicemente visto dall’esterno, ma quando c’è una restrizione del nostro sapere in rapporto a quello del personaggio. Focalizzazione spettatoriale → conferisce allo spettatore un sapere maggiore di quello del personaggio. Attraverso il modo in cui costruisce lo spazio di un’immagine e il punto di vista che la macchina da presa mi offre di esso, il film dà vita ad un regime a focalizzazione zero o spettatoriale, ovvero quando lo spettatore ha una condizione di privilegio. Il racconto nel cinema contemporaneo e postmoderno Il cinema contemporaneo è un cinema che manifesta un ritorno della narrazione a tutto campo. Garcia prende in considerazione Il signore degli anelli – La compagnia dell’anello e vede il segno di una riduzione dell’intelligibile al sensibile, dove il racconto e la materia audiovisiva non sono più come nel regime classico, il supporto di un’interpretazione razionale di fatti diegetici, ma il segno di una realtà inaccessibile alla comprensione. Da una parte il cinema continua ad essere il luogo privilegiato del bisogno di affabulazione, dall’altra le logiche del racconto si subordinano a quelle di uno spettacolo di cui sensazione e vertigine sono l’aspetto più qualificante. Cinema postmoderno → emergere di nuove strutture narrative, che si complicano ampliando la gamma di possibilità del racconto anziché tracciare un percorso lineare con un inizio, un centro e una fine. Jullier → molto cinema postmoderno si affida alla presenza di un oggetto valore esplicito che agisce come pretesto e che è comunicato il prima possibile. Lo spettatore è reso consapevole del fine ultimo della storia, e poi il film può concedersi ad una narrazione più complessa. L’intertestualità narrativa del cinema postmoderno è attestata dal gioco delle citazioni e dei riferimenti ad altri film. L’ironia fa da padrona quando vengono ripresi stereotipi del passato e vengono collocate in cornici nuove e disincantante. 12 Un altro aspetto importante è il lavoro sul tempo, quello delle singole inquadrature o piccoli gruppi. Un’importante tecnica è quella del ralenti: si tratta di momenti in cui il protagonismo della cinepresa non serve a garantire un’osservazione più analitica o più completa, ma solo a colpire lo spettatore con il pezzo di bravura: a catturarlo con un surplus di spettacolarità. Esempio: i film di azione dove l’eroe corre, urla, spara o si tuffa nel vuoto mentre dietro esplode una bomba. Esempio: Matrix, dove Neo riesce ad evitare i proiettili sparati dal nemico – il piano chiave di questa scena consiste in un ralenti durante il quale la cinepresa gira a 360° intorno a Neo nel momento in cui è sfiorato dai proiettili. Altre forme di rallentamento ancora più estremo è il frame stop (fermofotogramma). Gli effetti di dilatazione narrativa del tempo non sono limitati alla logica dell’attrazione spettacolare, ma possono anche farsi attrazione drammatica, come per esempio negli improvvisi rallentamenti all’interno di una stessa inquadratura. Il rallentamento temporale accentua e valorizza la centralità del personaggio e del suo essere. Esempio attrazione drammatica: Hong Kong Express – il cineasta ricorre alla tecnica del passo differenziato, che consiste nel segnare una stessa inquadratura di due velocità diverse, in modo da far muovere il personaggio principale a velocità normale e coloro che lo circondano in modo accelerato. IL RACCONTO SERIALE La dimensione seriale riesce a garantire il dispiegarsi di storie lungo molteplici episodi e stagioni, crea mondi e genera un’attenzione costante e ripetuta e un legame anche affettivo con i personaggi che si vedono crescere, cambiare, sbagliare e riprendersi. Questo genera delle forme di rispecchiamento tra lo spettatore e i personaggi, di connessione e di mescolamento tra realtà e finzione, di connessione tra la narrazione e il mondo sociale. Una serie televisiva crea un mondo narrativo duraturo, popolato da un certo gruppo coerente di personaggi che vivono una catena di eventi lungo un certo arco di tempo. Quattro sono gli elementi dello storytelling: personaggi, eventi, spazio, tempo. I personaggi e lo spazio Anni Cinquanta → personaggi che rimangono di puntata in puntata uguali a loro stessi, caratteristica rassicurante e a cui affezionarsi facilmente. La fidelizzazione del pubblico era garantita dal ritrovamento di comportamenti ricorrenti e caratteri dai tratti essenziali – spesso nelle comedy riesce il gioco del rispecchiamento della propria normalità (esempio: Happy Days – personaggi di Fonzie, latin lover dal cuore d’oro, e Richie, bravo ragazzo timido ed impacciato). Anni Sessanta → genere sci-fi – ottimismo derivante dal costante progresso della scienza unito al desiderio di avventura e conoscenza. Esempio: The Twilight Zone che mette in scena alieni, viaggi temporali, guerre atomiche… luoghi in cui gli spettatori potevano dar forma alle proprie angosce e incubi. In particolare il Sessantotto è stato caratterizzato da incertezza politica e identitaria, che generò il bisogno di eroi (The Prisoner, Columbo, Batman, Doctor Who…), in cui si osserva una certa attenzione per la psicologia e per la costruzione della storia: il personaggio acquista un passato, che viene indagato attraverso i flashback. Anni Settanta → rivendicazioni femministe – eroine femminili come Wonder Woman, simbolo dell’emancipazione e della parità tra i sessi. Anni Ottanta → detective Cagney and Lacey, eroine del quotidiano. 15 Anche il concetto di scrittura si è allargato, comprendendo ideazione, sviluppo, strategie narrative, costellazioni seriali nonché sostenibilità economica, modularità industriale, potenzialità di consumo. Lo showrunner è attivo anche nel campo delle web series, concepite per la rete e con una durata inferiore rispetto alle serie tv, che sono di solito opera di autori indipendenti. Altre volte, lo showrunner delle web serie realizza anche spin off di film, telefilm e videogiochi. Lo sceneggiatore Lo sceneggiatore cinematografico è colui che scrive il film su carta o alcune sue parti, da solo o in collaborazione; è l’autore di una storia raccontata per parole che devono diventare immagini. Egli realizza il primo momento di un processo costituito dalla successione di fasi, materiali e immateriali, in cui le immagini prendono forma. La specificità di scrivere per il cinema risiede nel suo rapportarsi ed essere funzionale alla scrittura per immagini. Lo sceneggiatore dee essere condizionato dal linguaggio cinematografico, e deve confrontarsi con: 1. L’invenzione della storia 2. Le possibilità e le modalità cinematografiche della narrazione. Il film può presentare articolazioni che vanno dalla prima idea al trattamento o pre-sceneggiatura (= sceneggiatura scritta in discorso indiretto), dalla scaletta (= trattamento diviso scena per scena) alla sceneggiatura. Il momento conclusivo è la sceneggiatura tecnica, che scompone gli episodi narrativi in inquadrature diverse, preparando il lavoro di ripresa e anticipando la scansione del montaggio. Un altri passaggio è quello dello storyboard, in cui ogni inquadratura, oltre che ad essere descritta in termini tecnici, può essere studiata, pianificata e disegnata. Il termine sceneggiatore include tutti quelli che contribuiscono alla stesura della sceneggiatura, come per esempio il soggettista, colui che scrive il soggetto del film, ovvero la storia da cui si sviluppa la sceneggiatura. Altre specializzazioni sono lo scrittore di didascalie, il dialoghista, il battutista… Nel cinema statunitense lo sceneggiatore viene scelto dal produttore; in quello europeo dal regista. Nel 1910 nacquero i primi Story Departments, uffici in cui venivano stese le sceneggiature, selezionati i materiali di cui si erano acquistati i diritti e dai quali veniva realizzato un testo da affidare al regista. In questi anni nascono anche i primi manuali di sceneggiatura. Le storie erano scritte dagli autori sotto contratto, ma anche da altri dipendenti della compagnia o persino dagli attori. Piano piano, il lavoro dello sceneggiatore americano andò a sovrapporsi ad alcune fasi produttive: scriveva storie, preparava lo script dettagliato per il regista contenente indicazioni su posizione e angolazioni della macchina da presa, a volte si recava sul set per suggerire le battute oppure improvvisare alternative sul piano narrativo, partecipava alla fase del montaggio… Nello Studio System, gli sceneggiatori lavoravano ad uno o più copioni, e quelli indipendenti erano pochi, la maggior parte erano sceneggiatori a contratto. Nel cinema europeo, lo sceneggiatore è stato un collaboratore del regista piuttosto che una figura autonoma. Nel cinema sovietico era il tema a ricoprire un ruolo rilevante, la sceneggiatura nasceva da un afflato ideologico, per trasformarsi in un racconto sceneggiato in cui venivano descritti personaggi e azioni. Pudovkin sostiene che il lavoro di sceneggiatura non si esauriva nell’intreccio e nella sua visualizzazione, ma comportava anche la ricerca di volti, gesti, oggetti e spazi in grado di raccontare con una potenza quasi simbolica quella determinata storia. il cinema sovietico attribuiva un posto di rilievo sia alla sceneggiatura che al montaggio. 16 Nello studio system, con il sonoro, il mestiere dello sceneggiatore andò sempre più specializzandosi, e i principali erano sotto contratto. Per contrastare le difficoltà del lavoro di sceneggiatore, in piena Depressione, nacque la Screen Writers Guils, per rappresentare legalmente gli sceneggiatori adottando il sistema di arbitrato per i credits e ottenendo dei contratti con un salario minimo garantito. Negli anni Trenta, con l’introduzione del sonoro, nel cinema italiano vennero interpellati letterati come Pirandello, Moravia e Longanesi. In questi anni il racconto acquisì maggiore centralità. Negli anni Cinquanta, lo studio system americano dovette modificarsi per vincere la concorrenza determinata dall’avvento della televisione e rinascere poi negli anni Settanta. Il Neorealismo era caratterizzato da un cinema di volti e cose, ma non improvvisato. Il lavoro di scrittura nel cinema neorealista risultava quasi disorganizzato: gli sceneggiatori neorealisti lavoravano in gruppo, anche in rappresentanza dei diversi schieramenti politici in cui militavano – il risultato era rappresentato da sceneggiature non tradizionali, che prediligevano il frammento, l’episodio e la struttura corale. Dal Neorealismo i promotori della politica degli autori derivarono l’uso di sceneggiature aperte, redatte da loro stessi, le sceneggiature venivano usate come semplici canovacci, testi disponibili alla contaminazione con tutto ciò che accade all’interno e all’esterno del set. In Europa, negli anni Sessanta, si attestò il cinema d’autore e sperimentazione. Gli esponenti della Nouvelle Vague erano convinti che il regista dovesse esprimere una sua personale visione del mondo non solo nella sceneggiatura del film ma anche nello stile. Negli anni Settanta, le nouvelles vagues e il cinema d’autore italiano influenzarono il cinema hollywoodiano, che si orientò così verso una produzione di qualità diretta dai registi. Il cinema americano di fine XX e inizio XXI secolo ha visto prevalere i sequel e saghe, conseguenza di un ritrovato amore per i comic movies e il cinema fantastico (esempio: Il signore degli anelli). Negli anni Novanta si cominciano ad elaborare originali strutture narrative, diverse tipologie di personaggi e ambientazioni socio-geografiche meno battute. 17 CAPITOLO 2 – L’INQUADRATURA Un film è fatto di immagini in movimento che prendono il nome di inquadrature. Inquadratura → unità di base del discorso filmico, può essere definita come una rappresentazione in continuità di un certo spazio per un certo tempo. Spazialmente l’inquadratura è costituita dalla porzione di realtà rappresentata da un certo punto di vista e delimitata da una cornice ideale costituita dai quattro bordi dell’inquadratura stessa, temporalmente dalla durata compresa tra il suo inizio e la sua fine. Ci sono tre peculiarità fondamentali dell’inquadratura: 1. È una rappresentazione 2. Che ha una dimensione spaziale 3. E una temporale La dimensione spazio-temporale dell’inquadratura ci fa capire come questa può diversificarsi al suo interno lungo un asse spaziale (immagini molto vicine o molto lontane) e lungo un asse temporale (immagini che hanno durata molto breve o molto lunga). A volte il termine inquadratura è sostituito con quello di piano, ma bisogna fare attenzione: • Inquadratura → immagine cinematografica racchiusa da una cornice che inquadra una porzione di spazio • Piano → porzione di spazio inquadrata Una caratteristica importante dell’immagine filmica è la sua bidimensionalità. Ogni spettatore reagisce davanti al film come se lo spazio rappresentato fosse tridimensionale, effetto che nasce dal ricorso a diverse tecniche che vanno dall’angolazione, al movimento, alla profondità di campo – noi recepiamo l’immagine cinematografica in termini di superficie e profondità. Un altro problema è quello della prospettiva, ovvero l’arte di rappresentare gli oggetti su una superficie piana in modo che questa rappresentazione sia simile alla percezione visiva che si può avere, nella realtà, degli stessi oggetti. Ogni inquadratura è sempre il risultato di scelte relative a due livelli: 1. Livello profilmico → tutto ciò che sta davanti alla macchina da presa, che è lì per essere filmato. La nozione di profilmico è legata a quella di messa in scena, che indica il lavoro di organizzazione, da parte del regista, dei materiali di ogni inquadratura. Parlare di messa in scena significa di parlare di quei codici che il cinema ha in comune con il teatro: scenografia e personaggi, luci e colori, recitazione e costumi. 2. Livello filmico → concerne il piano discorsivo propriamente detto, i modi in cui vengono rappresentati gli elementi profilmici. Per esempio l’angolazione e la distanza, la dialettica di campo e fuoricampo, quella di piani oggettivi e piani soggettivi, l’uso o meno della cinepresa… La ripresa, quindi, non è una semplice operazione di registrazione tecnica. Il modo in cui si inquadra qualcosa è determinato da un progetto e da una soggettività, da un modo di vedere. Inquadrare non è semplicemente riprodurre, inquadrare è scegliere, è mettere in evidenza gli elementi significanti, quelli che lo spettatore deve individuare. Anche la parola piano non ha sempre lo stesso significato: • Piano fisso → assenza di ogni movimento filmico • Primo piano → distanza fra la macchina da presa e il soggetto • Piano sequenza → criterio di ordine narrativo e di implicito rifiuto del montaggio 20 vuole simulare la realtà, ma anzi si denuncia apertamente come tale. L’artificialità scenografica si fa quindi tutt’uno con l’artificialità della politica così come essa è incarnata da Kane. Esempio: Marnie di Alfred Hitchcock, 1964 Il film è la storia di una donna, Marnie, che ha avuto un’esperienza traumatica nell’infanzia, ovvero ha ucciso involontariamente un marinaio che molestava la madre. Questo ha inciso molto sulla sua vita, determinandone un comportamento anomalo e trasgressivo. Di lei si innamora Mark, un uomo che vuole guarirla. Capisce che il trauma di Marnie è nella sua infanzia, così vuole portarla a far visita alla madre. Ci sono due inquadrature importanti. La prima è quando Marnie e Mark arrivano dalla madre, le linee dei marciapiedi e dei tetti delle case convergono verso i quattro angoli di un ideale quadrato in mezzo al quale vediamo una nave → quadro nel quadro. Il cielo è coperto di nuvole. Dopo qualche secondo, la macchina da presa fa un movimento a scendere e vediamo la seconda inquadratura, quella in cui Mark cerca di far scendere Marnie dalla macchina, ma la donna non vuole tornare sul luogo del delitto. Il ruolo della nave è fondamentale, perché ha due valenze simboliche: da una parte rimanda al passato della donna e al suo trauma, dall’altra è metafora dell’ostacolo che la donna deve affrontare per porre fine alla nevrosi. I toni cupi dell’ambiente rimandano ad un senso di oppressione. Il movimento della macchina ha il compito di rapportare la nave a Marnie, e di esplicitare così il loro legame. Il movimento a scendere accentua il carattere oppressivo giocato dalla nave, stabilendo un rapporto spaziale tra qualcosa che sta sopra (la nave) e qualcosa che sta sotto (Marnie). Anche l’ultima immagine del film è importante: Marnie rivede la madre e rievoca la tragica esperienza. Nell’ultima immagine Mark e Marnie sono in strada, salgono in macchina e quando si avvia, la cinecamera inquadra di nuovo la nave. L’oggetto è lo stesso, ma i modi di rappresentazione sono diversi: ora la nave è ripresa dall’alto e da una posizione molto più distanziata, inoltre c’è anche l’affacciarsi del sole, che ci fa capire che l’esperienza traumatica di Marnie non è più un ostacolo minaccioso, ma una prova parzialmente superata. Adesso si può vedere con maggiore distacco (distanziamento della camera), con serenità (sole) e superiorità (angolazione dall’alto). Esempio: Lanterne rosse di Zhang Yimou, 1991 Il film è girato nel palazzo dove la protagonista va a vivere come concubina di un ricco signore feudale. L’uso dei campi lunghi, delle angolazioni dall’alto e della posizione frontale della macchina da presa evidenziano le rigide simmetrie dell’ambiente che si viene a configurare come un ambiente simbolico, espressione di un potere assoluto che perpetua sé stesso attraverso il rigido rispetto della tradizione e delle sue regole. I gesti rituali della protagonista sono un tutt’uno con l’ambiente oppressivo e claustrofobico. La prima scena è un piano fisso del volto della protagonista. La donna sta parlando con la matrigna, di cui sentiamo solamente la voce. Il dialogo è drammatico: la protagonista è costretta a diventare la concubina di un ricco signore. In questo dialogo emerge l’impotenza della protagonista, il cui destino trova espressione visiva negli elementi scenografici: le linee orizzontali e verticali disegnate sulla parete di fondo che si dispongono in perfetta simmetria che contribuiscono a figurare uno spazio claustrofobico e oppressivo, troppo ordinato per poter essere vivibile e umano. Un’altra scena significativa è quella in cui la donna impazzisce dopo aver assistito all’omicidio di un’altra concubina a causa di un tradimento. La protagonista si aggira in un cortile del castello, e attraverso un gioco di allargamenti di campo si passa da un primo piano ad un campo lungo, e mano a mano che ci si allontana dalla donna, l’ambiente diventa sempre più oppressivo. La simmetria è ribadita nell’ultima inquadratura, che, dall’alto, schiaccia lo spazio del cortile nel quale si muove la protagonista, richiamando lo spazio di una prigione. Il momento più esplicito nella costruzione di questo spazio simbolico si ha nell’inquadratura della scena del primo incontro tra il signore e la giovane protagonista. La macchina da presa è sulla donna e la voce dell’uomo proviene dal fuori campo. Lui la invita a prendere in mano una lanterna per vederle meglio il volto, e la donna obbedisce. Alle sue spalle c’è un’altra lanterna, che si aggiunge a quella che la donna tiene in mano sulla destra. Si trova esattamente al centro della diagonale disegnata dalla posizione delle due 21 lanterne, ma questa simmetria è parziale, perché la lanterna alle spalle è più in alto di quella che tiene i n mano. In questo momento si sente di nuovo la voce dell’uomo che dice alla donna di alzare la lanterna, la donna ubbidisce e troviamo le lanterne alla stessa altezza → la simmetria è ricostruita. Eseguendo l’ordine dell’uomo, la protagonista si ritrova come prigioniera di un ambiente rigorosamente delimitato, ella stessa parte di una generale simmetria, di uno spazio claustrofobico e oppressivo la cui origine è fatta risalire dalla voce dell’uomo, la voce del potere. Scenografie virtuali Le scenografie virtuali sono quegli ambienti generati direttamente dal computer che non rappresentano più il calco di una determinata realtà oggettiva, ma sono un puro costrutto di sintesi digitale. Gli ambienti virtuali sono dei simulacri che potrebbero portare ad una tendenziale scomparsa del profilmico. Anche gli ambienti digitali possono interagire con gli ambienti ripresi dal vero, perciò bisogna distinguere tra ambienti digitali puri (= interamente realizzati con il computer) e ambienti digitali parziali (= usano immagini dal vero che vengono poi sottoposte ad un trattamento di sintesi che ne modifica delle caratteristiche). Gli ambienti vanno poi distinti ulteriormente in: • Ambienti virtuali realistici → simulano un mondo possibile • Ambienti virtuali fantastici → danno vita a mondi impossibili, quelli della fantascienza e del fantasy E in: • Ambienti virtuali illusori → l’effetto digitale è celato e l’immagine apparirà come fotorealistica ad un livello tale che lo spettatore non è in grado di dire se si tratta di ripresa dal vivo o calcolo (immagine di sintesi) • Ambienti virtuali espliciti → lo spettatore è consapevole dell’artificialità dell’ambiente Il set virtuale genera delle rappresentazioni di ciò che in realtà non esiste. Il lavoro dello scenografo si trasforma: non deve più fare i conti con la materialità del set, ma con dei concetti fino a poco tempo fa a lui sconosciuti, come il peso di un modello tridimensionale, ovvero l’insieme delle informazioni necessarie a calcolare le superfici, il rendering e i vari effetti visivi. Risolti questi problemi, il set virtuale può essere montato inserendo in un computer un supporto di memorizzazione che ne contenga il modello. Come fanno gli attori a recitare in un set virtuale? Il cinema digitale fa ricorso alla tecnica del chroma-key, che consente di far interagire i personaggi dal vero con ambienti realizzati a computer. Il chroma-key è quella tecnica che permette, una volta ripreso un soggetto con uno sfondo di colore neutro come il blu o il verde, di sostituire lo sfondo con un’immagine fissa o in movimento. Ci sono diversi esempi di film che si muovono in una logica di credibile riproduzione della realtà, occultando gli effetti del digitale in una logica illusionistica. Esempio: Munich di Steven Spielberg, 2005 Film ambientato nel 1972, inserisce digitalmente l’immagine del World Trade Center nell’ambiente della città di New York. Esempio: Collateral di Michael Mann, 2004 Il regista usa una camera ad alta definizione per rendere gli effetti luminosi di una Los Angeles notturna, con un grado di nitidezza che non sarebbe stato raggiunto da una camera tradizionale. Nel finale del film, che si svolge su un treno della metropolitana, Mann usa in due circostanze il green screen, per modificare il paesaggio che scorre oltre i finestrini della carrozza. Una prima volta per mostrare i rettangoli luminosi di un garage multipiano, dando vita ad una sorta di trappola geometrica entro la quale i personaggi sono bloccati. Una seconda volta alla morte del killer Vincent, in quanto l’immagine sullo sfondo 22 doveva essere priva di luci provenienti dalla strada e limitata alla silhouette di un albero, in modo che l’attenzione fosse concentrata sul volto dell’attore. Entrambi i film sono realistici, quindi mettono in scena mondi possibili, in cui l’ambientazione digitale assume una dimensione illusionistica e lo spettatore non la percepisce come tale. Altri esempi: Esempio: Inception di Christopher Nolan, 2010 Il film in partenza ha carattere onirico e fantastico. Siamo all’interno di un sogno quando Ariadne inizia a modificare il paesaggio architettonico della Parigi che la circonda. Una fila di case si solleva verso il cielo, per poi ripiegarsi e dar vita ad un paesaggio metropolitano cubico e chiuso su se stesso. Si tratta chiaramente di un effetto digitale, e lo spettatore non può non rendersene conto. Ma siamo dentro ad un sogno, quindi l’effetto è realizzato in modo credibile, come se davvero accadesse; perciò, assume le caratteristiche di un effetto illusorio. Esempio: La nobildonna e il duca di Eric Rohmer, 2001 Il film ricostruisce gli ambienti della Francia di fine Settecento, il digitale è usato per incastrare gli attori nei dipinti di Morot, ispirati alla pittura francese dell’epoca. La voluto differenza di tessitura lascia percepire l’eterogeneità dei materiali usati, gli ambienti dipinti e digitalizzati da una parte e gli attori dal vero dall’altra, denunciando il carattere artificiale di tali immagini. Perciò, Rohmer privilegia la differenziazione fra spazio virtuale e corpo reale, mentre Spielberg, Mann e Nolan privilegiano l’indifferenziazione. Esempio: Un sogno lungo un giorno di Coppola, 1982 I due protagonisti viaggiano in auto, le immagini usano uno sfondo che è chiaramente un modellino e non un paesaggio reale, quindi c’è un’evidenziazione della finzione, il livello di artificialità dello spazio filmico filtrato dal video è dichiarato. Coppola usa il chroma-key non per dare maggior senso di realismo, ma per esplicitare la diversità delle fonti visive coinvolte. Esempio: Moulin Rouge di Baz Luhrmann, 2001 Il regista ricostruisce la Parigi di fine Ottocento sia attraverso puri effetti digitali, sia ricorrendo a immagini dipinte, che denunciano la loro dimensione pittorica. Nella sequenza iniziale del film c’è l’arrivo del protagonista nella città, e si passa da una stazione digitale a due scenari di strada dipinti, con il personaggio che vi transita mantenendo sempre la stessa posizione → quello che accade attraverso l’uso del chroma- key è che sono gli scenari a cambiare da un momento all’altro. Esempio: Kyashan – La rinascita di Kazuaki Kiriya, 2004 Uso di effetti a vista che non si preoccupano della coerenza delle diverse fonti messe in campo. La situazione visiva è ancora più artificiale, perché le immagini degli attori spesso diventano della masse monocromatiche al servizio degli sfondi, le regole della prospettiva non vengono rispettate, vengono simulate profondità di campo irreali, gli sfondi presentano disegni statici… Esempio: Dogville di Lars von Trier, 2003 Girato in digitale con una camera ad alta definizione, ma usa scenografie reali ma in modo piuttosto originale, puntando sulla costruzione di un ambiente esplicitamente fittizio, le cui case mancano ancora di pareti, porte, finestre e anche gli interni appaiono en plein air. L’uso della scenografia a vista sembra aderire bene alla logica del film, il cui intento è mettere a vista le contraddizioni degli abitanti di Dogville, dei loro invisibili mondo interiori e farne metafora dell’ipocrisia delle debolezze del genere umano. 25 Sono gli effetti della luce extradiegetica ad entrare nella diegesi del film, e spesso la luce intradiegetica deve giustificare tali effetti (un personaggio è illuminato in un ambiente oscuro perché si possa vedere l’espressione → luce creata a livello extradiegetico giustificata da un elemento diegetico come una candela nelle mani del personaggio). Bordwell e Thompson individuano quattro caratteristiche fondamentali della luce: qualità, direzione, sorgente e colore. 1. Qualità Un’opposizione in termini di qualità è quella tra illuminazione contrastata e illuminazione diffusa. • Illuminazione contrastata → illuminazione diretta, che crea netti contrasti all’interno dello spazio rappresentato tra zone in luce e zione in ombra. Viene usata in situazioni narrative intense. Serve per drammatizzare lo spazio, che si trasforma in una sorta di scacchiera visiva in cui i conflitti della storia vengono visualizzati in conflitti di luci e ombre e per dar vita a spazi privilegiati, quelli più illuminati, che catturano l’attenzione dello spettatore. La luce dinamica è creata attraverso fonti di luci in movimento che determinano una rappresentazione dello spazio caratterizzata da un continuo cambiamento fra le zone in ombra e quelle in luce. • Illuminazione diffusa → rappresentazione più omogenea dello spazio, tipica di situazioni narrative meno forti. 2. Direzione La direzione pone invece il problema del percorso che la luce compie fra la sua fonte e il suo oggetto. Ci possono essere diverse forme di traiettorie: • Luce frontale → elimina le ombre e appiattisce l’immagine • Luce laterale → tende a scolpire i tratti del volto e ad accentuare il gioco di luce ed ombre • Controluce → stacca la figura dallo sfondo e ne evidenzia i contorni • Luce dal basso → distorce i tratti del volto creando effetti drammatici • Luce dall’alto → suggerisce la presenza di una fonte di luce diegetica posta al di sopra del personaggio. 3. Sorgente Ci sono almeno due sorgenti di luce: • Key light → la fonte di luce primaria che determina l’illuminazione dominante e struttura le ombre principali • Fill light → serve a riempire l’immagine e ad attenuare o eliminare le ombre create dalla key light Nel cinema americano c’è un sistema a tre luci principali, ovvero key light, fill light e back light (controluce). La key light è posta frontalmente e mette in evidenza il personaggio, la fill light è posta lateralmente e scolpisce il personaggio e la back light è posta dietro al personaggio e un po’ più in alto, in modo da staccarlo dallo sfondo. La luce può servire a mettere in evidenza il personaggio, spesso il volto, in modo che lo spettatore possa seguirne meglio le azioni esteriori e interiori. A volte però la luce lavora il volto del personaggio per illuminarlo parzialmente, tipico per esempio dei personaggi dal carattere ambiguo o misterioso. Per esempio Persona, di Bergman (1966), gioca sullo sdoppiamento e l’identificazione di due donne, un’attrice e un’infermiera. Il volto delle protagoniste è diviso in due dall’illuminazione, proprio perché lo sdoppiarsi del volto rappresenta la doppia identità delle due donne. 26 4. Colore La luce può creare effetti di colore attraverso l’uso di filtri colorati posti davanti ai riflettori, che possono così modificare la tinta di un determinato ambiente. Cinema classico →assegna alla potenza espressiva della luce un ruolo di primo piano nei suoi processi di significazione e coinvolgimento emotivo dello spettatore. D’Allones individua tre imperativi su cui si costruisce la fotografia classica: • Simbolizzazione → la luce si metaforizza, impone allo spettatore un senso massiccio e uno solo, al quale lo spettatore non può sfuggire. L’esempio è quello dell’ombra a tela di ragno che si disegna alle spalle di Cary Grant in Il sospetto di Hitchcock (1947), quando questo porta il bicchiere di latte avvelenato alla moglie. Associato all’ombra, il protagonista appare come un ragno che sta tessendo la sua tela ai danni della consorte • Gerarchizzazione → elemento d’elezione primaria è l’attore. Determina all’interno di ogni inquadratura ciò che è più importante. • Leggibilità → la luce deve servire a rendere ogni immagine chiara e riconoscibile. In sostanza, nel cinema classico la luce è fortemente codificata al servizio dell’unicità del senso. Obbedisce ad un cammino logico nel quale tutto converge perfettamente verso il senso voluto e solo quello. Cinema moderno → c’è una pratica e un’etica della luce documentaria, che procede attraverso un intervento minimamente significante. Le luci sono riprodotte così come sono, senza essere trasformate dalla necessità del racconto e del senso. Ciò che conta è che essa renda conto del reale e della sua assenza di senso. Il colore si afferma in modo decisivo sul bianco e nere negli anni Cinquanta e Sessanta (anche se introdotto negli anni Trenta). L’avvento del colore fu pensato inizialmente come un accrescimento delle potenzialità realistiche del cinema, anche se i colori degli anni Cinquanta avevano ben poco a che vedere con quelli della realtà. Il colore inizialmente si caratterizzò per la sua natura decorativa e spettacolare, e sarà poi il perfezionamento delle sue qualità tecniche a determinare l’affermarsi del colore anche nell’ambito del cinema d’autore negli anni Sessanta. Un esempio può essere Deserto rosso di Antonioni (1964), in cui il colore è usato in modo espressivo, antidecorativo e antirealistico, arrivando a dipingere ambienti, oggetti e paesaggi naturali per esprimere l’interiorità dei personaggi. Si possono distinguere diverse tendenze nell’uso del colore: quella realistica contrapposta a quella immaginaria, quella decorativa-estetizzante in contrasto con quella espressivo-psicologica. Il colore gioca un ruolo di primo piano nella composizione dell’immagine: i colori chiari attirano lo sguardo più di quelli scuri, i toni caldi attraggono maggiormente rispetto a quelli freddi. I rapporti dominanti tra primo piano e sfondo possono essere assecondati o rovesciati dal colore: i colori più vividi di uno sfondo possono accentuare la sua importanza rispetto a ciò che è posto in primo piano. Queste funzioni del colore in realtà si trovano anche nel cinema in bianco e nero: il rapporto tra neri, grigi e bianchi è sempre un’indicazione di lettura del senso dell’immagine. Il chiaro attira più dello scuro, ma a volte le aree scure possono essere predominanti quando sono collocate su degli sfondi chiari che le mettono in risalto. La funzione significante del colore poggia su un processo di costruzione proprio ad ogni film: si tratta di costruire delle associazioni arbitrarie fra un colore e un personaggio o un motivo, in modo da far sì che le apparizioni successive di quel colore rinviino all’elemento associato. 27 Ejzenstejn cita due esempi: 1. Il vecchio e il nuovo (1929) → il nero rappresenta la reazione, il crimine, l’arretratezza; il bianco rappresenta la gioia, la vita, le nuove forme di governo 2. Aleksandr Nevskij (1938) → i bianchi mantelli dei cavalieri rappresentavano il tema della crudeltà, dell’oppressione, della morte; il nero rappresentava il colore della milizia popolare russa, ovvero il tema positivo dell’eroismo e del patriottismo. Perciò, non esistono delle leggi generali, i colori e i suoni forniscono determinate emozioni che di volta in volta ci sembrano necessarie. Ejzenstejn sottolinea come i colori possono essere percepiti molto individualmente. È vero che ci sono alcuni dati generali, per esempio il nero ricorda le tenebre, l’azzurro il cielo, il giallo il sole, ma questo non vuol dire che ci sia un catalogo dei colori, che infallibilmente agiscono secondo uno stesso determinato orientamento. Il significato del colore è stabilito dal contesto dell’opera, come spiegato nei due esempi precedenti tra il bianco e il nero. Chion individua tre grandi periodi della storia del colore: 1. Bariolage → investimento sui colori (accozzaglia di colori) – anni Cinquanta e Sessanta 2. Anti-bariolage → voleva far dimenticare i colori – anni Sessanta e Settanta 3. Neo-bariolage → vede il colore affermarsi nuovamente con fierezza – dagli anni Ottanta Il cinema contemporaneo è sempre più interessato non ad attutire i contrasti ma ad esaltare tonalità sempre più accese del colore. Analisi di alcune sequenze che aiutano a capire il funzionamento espressivo della luce e del colore. Esempio: La morte corre sul fiume di Charles Laughton, 1955 Racconta la storia di un predicatore, Harry Powell, che vuole strappare a due bambini, John e Pearl, il segreto del luogo in cui è nascosto il bottino di una rapina. Ripropone alcuni modelli scenografici propri del cinema espressionista in un’atmosfera pervasa da elementi fiabeschi che esprimono l’ingenuo punto di vista di due bambini. È notte, John racconta una storia a Pearl e ci troviamo in un metaracconto: narrazione che è metafora della narrazione del film. la scena è costruita intorno ad un climax drammatico, rappresentato dall’improvvisa e minacciosa apparizione della grande ombra di Powell sulla parete della cameretta. Egli è fermo sulla strada, vicino ad un lampione. Importante è il ruolo dell’illuminazione. La prima inquadratura mostra la casa di notte dall’esterno, si mette in rilievo il lampione, e questo mostra il luogo che si troverà a giocare un ruolo di primo piano nello sviluppo della scena. La seconda inquadratura ci porta dentro alla cameretta, dove Pearl è già a letto e John è seduto vicino a lei. La direzione delle luci crea tre diversi spazi privilegiati: il volto di Pearl, quello di John e un quadrato luminoso che so disegna sulla parete di fondo, giustificato dalla luce del lampione che filtra attraverso la finestra. Questo quadrato luminoso è particolarmente importante, perché anche se inizialmente non si capisce bene la sua funzione, è o prepotentemente in campo o, quando non lo è, è indicata allo spettatore attraverso lo sguardo dei due ragazzini che sono rivolti proprio verso quella direzione → è uno spazio doppiamente messo in rilievo. In un primo momento questo spazio luminoso è occupato da John, che viene messo in cornice di questo quadro nel quadro, e in questo modo la sua immagine si raddoppia: da una parte quella reale e dall’altra la sua ombra. Quando nomina i cattivi della sua storia, in questo spazio entra l’ombra di Harry Powell, che si è fermato minacciosamente sotto il lampione. L’ombra dell’uomo prima si sovrappone a quella di John, cancellandola, e poi all’immagine vera e propria del ragazzino. 30 Esempio: Il caso di Thomas Crown di Norman Jewison, 1968 In questo film, la scena del bacio tra i due protagonisti, preparato da una lunga partita a scacchi tutta costruita su un calcolato gioco di dettagli e particolari, culmina, nel momento del bacio vero e proprio, con l’irruzione di una serie di effetti di colore quasi psichedelici. Un altro esempio è sempre Un sogno lungo un giorno, in cui la decisione della protagonista di lasciare il marito, con i sentimenti contrastanti che questa decisione comporta (eccitazione e libertà ma anche dolore e paura), sono espressi dalle variazioni luministiche e cromatiche del direttore della fotografia, che modifica le tonalità dominanti delle immagini in base ai sentimenti della donna, per esempio da un caldo giallo ad un freddo grigio, oppure moltiplica i punti luce… Il cinema contemporaneo ha rilanciato l’uso del colore dai toni pop, che esalta i contrasti e gioca con le tonalità accese. Due esempi dell’uso postmoderno del colore sono i seguenti. Esempio: Donne sull’orlo di una crisi di nervi di Pedro Almodovar, 1988 Il film è giocato su tonalità molto accese e contrasti fra colori vivaci, che irrompono sullo schermo e si dispongono sull’avampiano e sullo sfondo. Interessante è la scena in cui Pepa è arrabbiata con l’amante che non le risponde, e si prepara in cucina un gazpacho. La rabbia della donna trova espressione in un acceso colore rosso, dal momento che rosso è il suo vestito, rosse le sue unghie, rossi i pomodori, rosso il gazpacho, rossi gli oggetti a fondo delle inquadrature (telefono, aeroplano, strofinaccio, presine, le sue labbra, i vasetti di salsa…). Esempio: Ubriaco d’amore di Paul Thomas Anderson, 2002 Qui il gioco sta nel rapporto tra il vestito blu elettrico del protagonista e quelli in rosa o rosso della donna che si innamora di lui. I due personaggi sono associati ai colori dei loro vestiti e, in molte scene, la tavolozza cromatica dell’ambiente che li contiene è ridotta a questi stessi colori. Per esempio, quando escono dal ristorante della loro prima cena, sono immersi in una città quasi del tutto colorata di solo blu e rosso, colori specchio dei loro sentimenti. Questi colori hanno anche un uso astratto nel film, infatti spesso irrompono immagini di macchie di colore blu e rosa, che interrompono lo sviluppo narrativo dell’opera per accentuare il sentimento di reciproca attrazione tra i protagonisti. Importante è la prima inquadratura del film, che introduce il protagonista al telefono, seduto in uno spazio vuoto. Egli è in una posizione decentrata, ma attraverso il gioco dei blu del vestito del protagonista e del muro alle sue spalle, si crea una convergenza che confonde la distinzione fra la figura e lo sfondo, contribuendo a sminuire l’identità del personaggio e ad evidenziare la sua incapacità di emergere e distinguersi. Macchine da presa, videocamere digitali, obiettivi e formati della pellicola Compito essenziale della macchina da presa è quello di far scorrere la pellicola al proprio interno, da una bobina debitrice ad una ricevitrice, in modo che durante il percorso venga a trovarsi davanti un otturatore che, aprendosi e chiudendosi, consenta di volta in volta l’impressione dei singoli fotogrammi. È importante che quando l’otturatore è aperto, la pellicola sia immobile, in modo da non creare immagini mosse, cosa che avviene tramite un sistema di griffe e controgriffe che si assume il compito di bloccare la pellicola. Una componente importante della macchina da presa è l’obiettivo. Le lenti si differenziano per la lunghezza focale (= distanza tra il centro ottico della lente e il piano della pellicola). La lente normale è quella fra i 35 e 50 mm, campo da vista simile a quello dell’occhio umano, ma ci sono anche altri tipi di obiettivi: • Grandangolo → ha una lunghezza focale ridotta, dai 35 mm in giù, che consente di rappresentare ampie porzioni di spazio. Dà risalto alla profondità di immagine e provoca una distorsione delle linee rette che si trovano vicino ai margini del quadro 31 • Teleobiettivo → lente di lunghezza focale maggiore, da 75 mm fino ai 250 mm. Consente di vedere come se fosse vicino qualcosa che è lontano dalla macchina da presa, accentua la piattezza e la bidimensionalità del piano e schiaccia fra loro i diversi elementi dell’immagine, tende ad azzerare le distanze. È tipico del cinema documentario, in cui è necessario riprendere qualcosa a cui non ci si può avvicinare troppo Esempio: Edward mani di forbice di Tim Burton, 1990 Edward si trova a cenare con la famiglia che lo ha ospitato. Le inquadrature dei personaggi a tavola sono girate con il grandangolo, che esaspera le distanze tra Edward e gli altri commensali, proprio per evidenziare la sua condizione di estraneità. Esempio: Il laureato di Mike Nichols, 1967 Qui la disperata corsa del protagonista verso la chiesa in cui si sta svolgendo il matrimonio della donna amata è ripresa in un’inquadratura frontale e in campo lungo con un teleobiettivo, che comprime le distanze e ottiene l’effetto ottico di rallentare la velocità della cora, proprio per evidenziare la difficoltà della sua disperata lotta contro il tempo. Nel cinema contemporaneo a partire dagli anni Settanta, si è notata una maggiore duttilità nell’uso degli obiettivi, sia quelli a focale lunga che quelli a focale corta, che privilegiano punti di vista eccezionali che puntano sulla spettacolarità o sull’espressività. Il formato standard della pellicola è sempre rimasto 35 mm, ma nel 1909 l’associazione dei maggiori produttori americani (Motion Picture Patent Control) stabilì il 35 mm come formato standard del cinema professionale. Nel 1922, la francese Pathé introdusse un formato a 9,5 mm, usato soprattutto per il cinema amatoriale. La Kodak poi, nel 1923, rispose con il più costoso 16 mm, e successivamente acquistò gli stabilimenti di produzione della Pathé, così il 9,5 mm venne sostituito da un 8 mm. Anche i formati più larghi, come il 70 mm, furono ideati agli inizi del Novecento, ma è solo negli anni Cinquanta e Sessanta, con la diffusione degli schermi panoramici, che cominciarono ad essere girati in 70 mm anche film di grande spettacolo. Questo entusiasmo però si esaurì rapidamente in quanto troppo costoso. Il diffondersi delle videocamere digitali portò un regista come Lucas a realizzare con Star Wars: Episodio II. L’attacco dei cloni (2002), il primo film commerciale girato in Alta Definizione, e ha determinato un calo dell’uso delle macchine da presa tradizionali e della pellicola. Inoltre, gli sviluppi del cinema digitale prefigurano anche le possibilità di un cinema realizzato interamente tramite computer, senza più pellicola, macchina da presa o videocamera. Le videocamere digitali convertono il segnale analogico proveniente dall’obiettivo, lo catturano su chip elettronici e lo immagazzinano sull’hard-disk del computer. Da qui, poi, le immagini potranno essere digitalmente riprese e rielaborate. L’uso delle videocamere digitali permette anche una riduzione dei costi delle riprese, dato che non c’è più la pellicola, una maggiore durata delle inquadrature, dal momento che non c’è più un limite della capienza del caricatore, e l’ottimizzazione in tempo reale delle immagini durante le stesse riprese. Direttore della fotografia Il direttore della fotografia è colui che pratica la “scrittura con la luce”. Il suo compito è quello di garantire coerenza figurativa all’immagine, componendo l’inquadratura in linea con le esigenze narrative e stilistiche del film, attraverso: • la disposizione delle fonti naturali e artificiali di luce sul set • il controllo dei movimenti della macchina da presa • le scelte dell’angolo di ripresa 32 • la selezione dei negativi e degli obiettivi • il piano di messa a fuoco • l’apertura del diaframma per l’esposizione voluta • la distanza e la profondità di campo • il processo di sviluppo e stampa Il direttore della fotografia è il responsabile del reparto fotografia di cui egli stesso fa parte insieme all’operatore di macchina, all’assistente operatore, all’aiuto operatore, al tecnico del video-control, al capo elettricista e al capo macchina. Nella fase di preproduzione, il direttore della fotografia collabora con altre figure professionali, che sono quella del regista, dello scenografo e del direttore di produzione. Egli infatti partecipa ai sopralluoghi per la scelta delle locations nelle quali sarà ambientata ciascuna scena. Collabora con lo scenografo per la progettazione degli ambienti da ricostruire in merito alle esigenze spaziali del reparto fotografia e alla scelta dei colori, e con il costumista per operare scelte cromatiche coerenti anche nell’abbigliamento. Collabora anche con lo sceneggiatore, per scegliere il taglio delle inquadrature. La fotografia del film sarà anche la fotografia di quel determinato direttore, perché è caratterizzata dal suo modo di vedere e raccontare con la luce e con la macchina da presa. Nel secondo decennio del Novecento, si andò meglio delineando la figura del direttore della fotografia ante litteram: nelle scene di massa e d’azione erano necessarie più macchine da presa e più operatori, coordinati da una direzione tecnica. Così nacque nel cinema francese la dicitura “chef-opérateur” e, nel cinema italiano degli anni Trenta, quella di “capo-operatore”. Nel 1915 I prevaricatori di Cecil DeMille segnò la storia della fotografia cinematografica, in quanto il direttore della fotografia Alvin Wyckoff riuscì a conferire una profondità sbalorditiva all’immagine, lasciando quasi del tutti in ombra la scena, che veniva attraversata da un taglio di luce orizzontale a colpire un personaggio o un dettaglio → “illuminazione Lasky”. Alla fine degli anni Venti, l’avvento del sonoro portò l’esigenza del silenzio assoluto sul ser, e quindi le produzioni andarono in grandi capannoni insonorizzati che dovevano essere illuminati con luce artificiale. Crebbe in questo modo il numero degli addetti alle apparecchiature illuminanti. Negli anni Trenta, invece, da Hollywood si diffuse un tipo di illuminazione che ridusse al minimo le zone d’ombra a favore di una luce diffusa e piena. Sempre negli anni Trenta, l’introduzione del colore segnò un altro momento chiave nella storia della fotografia cinematografica: il primo Oscar per la fotografia a colori venne assegnato a Ernest Haller e Ray Rennahan per Via col vento. L’evoluzione delle tecnologie, dalla lampada ad arco alla lampada di quarzo, fino al controllo elettronico dell’illuminazione, ha garantito un progressivo perfezionamento della produzione e della gestione della luce. Il passaggio dalla pellicola al digitale è un momento chiave anche perché risulta possibile riprendere con una quantità sempre minore di luce. I software che si utilizzano in post produzione permettono di modificare anche la direzione e gli effetti delle luci e anche la scala cromatica, di aggiungere dettagli o di distorcere la realtà. Il cambiamento riguarda l’intero processo di realizzazione del film, dalla scelta dei materiali fino alla proiezione, passando per le riprese. L’anno di svolta però per la cinematografia digitale è stato il 2009: da quest’anno il cinema digitale si è conquistato sempre maggior spazio e oggi si è arrivati ad un punto in cui è raro girare con la pellicola. 35 Il costume cinematografico deriva dal costume teatrale, ma se ne differenzia per due ragioni: 1. Nel cinema i cambiamenti di costume sono molto più numerosi 2. Il cinema attraverso la possibilità dei piani ravvicinati, può evidenziare un certo dettaglio dell’abbigliamento di un personaggio. L’abbigliamento può anche definire il rapporto che si viene ad instaurare tra due o più personaggi, come per esempio in Quarto potere di Orson Welles, 1941. Il diverbio tra Kane e Leland passa anche attraverso la contrapposizione visiva tra due modi di vestire i personaggi. Entrambi rimandano ad uno status sociale alto, ma mentre Kane è a capo scoperto, con la cravatta, in maniche di camicia, un gilet e dei pantaloni a righe, al contrario Leland è con il cappello in testa, senza cravatta, un pastrano che gli copre la camicia che invece di essere a righe è puntinato. È chiaro come i codici vestiari possano contribuire visivamente a definire la contrapposizione drammatica in gioco. Importante è anche il make-up, di origine teatrale, ma che nel cinema ha più peso sempre grazie ai piani ravvicinati. Il make-up può essere naturale (coprire quindi solo le imperfezioni, c’è ma non si vede), o artificiale, quando invece c’è e si vede. L’attore e il digitale L’avvento delle tecnologie digitali incide non poco sul lavoro dell’attore cinematografico. Questo è costretto, infatti, a recitare in spazi vuoti, deve immaginare l’ambiente che lo circonda, deve usare oggetti che non può tenere tra le mani, deve interagire con personaggi che non esistono e che saranno aggiunti successivamente grazie al computer. Egli deve confrontarsi con una serie di assenze di cui non si può non tenere conto. La recitazione cinematografica si allontana quindi sempre di più da quella teatrale: in un set virtuale, la performance cinematografica si avvicina al momento delle prove di uno spettacolo teatrale, non a quello dello spettacolo vero e proprio. L’avvento delle videocamere digitali permette: • Maggiore durata delle riprese, che consente agli attori di compiere la loro performance con una maggiore continuità • Costi ridotti, che permettono all’attore una maggiore possibilità di improvvisazione, cosa che lo rende più autore del suo personaggio • La loro leggerezza favorisce le riprese a spalla e quindi un maggior contatto tra attore e chi sta dietro la videocamera – i piani si fanno più ravvicinati e questo lascia più spazio al lavoro espressivo del corpo e del volto dell’attore Un altro aspetto importante del rapporto tra attore e digitale è l’attore digitale. Infatti, con le tecniche di oggi, è possibile dar vita ad attori virtuali dalle sembianze fotorealistiche. Esisterà ed esiste già un cinema che affiderà la rappresentazione dell’umano non più all’attore ma a delle creature digitali. L’attore non scomparirà, e nemmeno i film dal vero, ma dovranno confrontarsi con altre possibilità. IL FILMICO La scala dei piani e il volto umano Il cinema delle origini si caratterizzava per la costruzione di uno spazio filmico assai simile a quello teatrale, così come questo era percepito da uno spettatore seduto in una posizione ideale. L’inquadratura era unica, la cinepresa fissa, dominavano immagini in cui i personaggi occupavano uno spazio compreso tra una metà e i due terzi della verticale dell’inquadratura, la cinepresa era quasi sempre posta in una posizione frontale, ad altezza di sguardo e in modo da collocare i personaggi al centro dell’immagine → grado zero del linguaggio cinematografico. 36 Il cinema come forma di espressione autentica e originale nasce quando si comincia a variare, attraverso il montaggio o i movimenti di macchina, la distanza e l’angolo di ripresa della cinecamera nel corso di una stessa scena. L’inquadratura non implica solo uno spazio profilmico ma anche un punto di vista, quello della macchina da presa. Scala dei piani → diversa possibilità di ogni inquadratura di rappresentare un elemento profilmico da una maggiore o minore distanza. Si dovrebbe parlare di “impressione di distanza”, in quanto non è solo la posizione della macchina da presa, ma anche la lunghezza focale dell’obiettivo prescelto che può determinare una rappresentazione più ravvicinata o distanziata. La scala dei piani parte da inquadrature più ampie e distanziate per arrivare a piani più ristretti e ravvicinati: • Campo lunghissimo → inquadratura che abbraccia una porzione di spazio particolarmente estesa, la sua funzione è di tipo descrittivo. Se è presente una figura umana, è perlopiù ridotta a semplice elemento ambientale. È spesso usato nel cinema western. • Campo lungo → inquadratura di ampie proporzioni, dove i personaggi e l’azione sono più riconoscibili di quanto non lo siano nel campo lunghissimo. L’ambiente gioca un ruolo predominante, ma la sua descrizione va di pari passo con lo sviluppo della narrazione. • Campo medio → ristabilisce un certo equilibrio nei rapporti tra ambiente e figura umana, dal momento che questa occupa un terzo o una metà della verticale dello spazio rappresentato. • Figura intera → la figura umana occupa un’altezza pari a due terzi o più della verticale dell’immagine – è la prima inquadratura che afferma la centralità del personaggio. • Piano americano → dalle ginocchia in su. • Mezza figura → dalla vita in su. • Mezzo primo piano → dal petto in su. • Primo piano → dalle spalle in su. • Primissimo piano → solo il volto umano. • Particolare → riferito ad una parte del volto o del corpo umano. • Dettaglio → riguarda il piano ravvicinato di un determinato oggetto. La distinzione tra piani va presa con attenzione, perché ogni piano concreto può collocarsi tra due delle figure indicate (dove finisce un primo piano e inizia un primissimo piano?) o perché ogni inquadratura può essere ambigua e magari contrapporre due elementi, uno in primo piano e l’altro in campo lungo, di pari importanza drammatica. Caratteristica importante della scala dei piani è quella che, nel passaggio dal campo lungo al primo piano, si finisce per attestare la centralità della figura umana, e quindi del personaggio. Nel cinema classico, infatti, i parametri costitutivi dell’inquadratura si organizzano in rapporto ai personaggi. Vernet: il personaggio è centro della finzione ed è garante dell’immagine, perché è attraverso lui che comincia la lettura dell’immagine, è lui stesso che dà senso alle immagini. Un’altra figura da aggiungere alla scala dei piani è il campo totale. Questa rappresenta per intero un ambiente e mette in campo tutti i personaggi che prendono parte alla scena rappresentata. Spesso può aprire una sequenza per mostrarci lo spazio in cui si svolgerà e i personaggi che prenderanno parte all’azione. Ha un carattere principalmente informativo e gioca un ruolo essenziale all’interno della comunicazione narrativa filmica. Invece, si è dibattuto molto sul primo piano, non apprezzato dagli spettatori dei primi anni del cinema. Agli inizi del secolo scorso, il piano ravvicinato era considerato come qualcosa da usare con cautela, dal momento che lo spettacolo cinematografico doveva rispettare certe convenzioni. Dal momento che il cinema aveva come riferimento lo spettacolo teatrale e dava vita ad una rappresentazione dello spazio simile a quella del palcoscenico, il piano ravvicinato non era riconoscibile per il pubblico dell’epoca, 37 abituato a vedere il corpo umano mantenere le proporzioni costanti per tutto lo spettacolo. Ingigantire una parte del corpo dell’attore e mostrarla staccata dal resto poteva infastidire lo spettatore, distraendolo dalla proiezione. Ci sono diversi esempi di film contrari al piano ravvicinato. Esempio: L’uomo dalla testa di caucciù di Georges Méliès, 1902 Qui il regista gonfia a dismisura la propria testa staccata dal corpo e collocata all’interno di un caminetto. Esempio: Il grande boccone di James Williamson, 1901 Un uomo è infastidito da un operatore che ha puntato l’obiettivo contro di lui. Si avvicina all’obiettivo fino a riempire lo schermo intero, e poi l’inquadratura ci mostra l’operatore finire insieme alla macchina nelle fauci del protagonista. Esempio: La grande rapina al treno di Edwin Porter, 1903 La storia è quella di un gruppo di banditi che vengono catturati da uno sceriffo. Si parla dell’ultima scena, un primo piano di Barnes, dicendo che poteva essere messa o all’inizio o alla fine del film. Questo perché il corpo tagliato avrebbe turbato gli spettatori, non abituati a questo tipo di rappresentazione del corpo umano, e poteva essere usata o all’inizio o alla fine perché sono gli unici due momenti in cui essa non avrebbe interrotto la continuità della storia e della sua rappresentazione. Ancora, Flament, in riferimento a La passione di Giovanna D’Arco di Dreyer (1927), dice che l’uso delle teste in primo piano opprime e il pubblico si allontana in quel silenzio che avvolge le grandi catastrofi. Nel frattempo c’era anche chi cominciava a rendersi conto dell’importanza dei piani ravvicinati. In Francia, Epstein sosteneva che il primo piano era un modo per penetrare la vita, che attraverso il viso si poteva leggere la geografia della persona. Anche Ejzenštejn era a favore dell’importanza del primo piano e del dettaglio, in quanto sosteneva come, tramite l’aiuto del primo piano, lo spettatore potesse penetrare nell’intimità di ciò che succedeva nello schermo. Balázs sosteneva che il volto in primo piano era la geografia di un paesaggio, in cui possono manifestarsi sentimenti contraddittori: è la drammatica rivelazione di ciò che realmente si nasconde nell’apparenza di un uomo. È il passaggio ad un’altra dimensione, possiamo vedere con i nostri occhi qualcosa che non esiste nello spazio: i sentimenti, gli stati d’animo, le intenzioni della persona. Anche Bonitzer sottolinea l’importanza del primo piano nella forza espressiva ed eversiva che esso introduce nel cinema. Deleuze definisce il primo piano come immagine-affezione, e lo suddivide in due categorie: • Volto riflessivo → pensa a qualche cosa e si fissa su un soggetto • Volto intensivo → prova o risente qualcosa, tende verso un limite e oltrepassa una soglia, è desiderio Aumont propone una distinzione tra il volto del cinema classico e quello del cinema della modernità: • Cinema classico → volto leggibile e privo di misteri • Cinema della modernità → volto visibile, al di là dell’intelligenza e della codificazione, che rifiuta di farsi leggere e si caratterizza come luogo del mistero Il primo piano, quindi, dà vita ad un processo di intimità tra personaggio e spettatore, innescando così meccanismi di proiezione e identificazione sconosciuti. Il primo piano è il tentativo del cinema di rappresentare l’essere di un personaggio attraverso le sole immagini, senza l’ausilio di una voce che in qualche modo dica di essere tale. 40 Si tratta di 28 piani, ripartiti fra i due personaggi, che sono sempre inquadrati singolarmente. Sul piano filmico, le inquadrature di Marion sono tutte identiche tra loro, così come lo sono quelle di Norman (stesse distanze, altezze, angolazioni e punto di vista della macchina da presa). C’è però una forte differenza tra le inquadrature di Marion e quelle di Norman. Marion → è inquadrata frontalmente e la macchina da presa è posta alla sua altezza. La donna occupa il centro dell’immagine, e lo spazio inquadrato e il volto della donna sono illuminati in modo omogeneo. Le linee che attraversano il piano sono orizzontali (divano), verticali (tenda) e ovali (il quadro e il volto). È un’immagine ordinaria, priva di particolari. Norman → è inquadrato dal basso e di profilo, la figura è collocata sulla destra dell’immagine, lasciando vuota la parte di sinistra. La macchina da presa è in posizione obliqua, infatti le linee verticali e orizzontali diventano oblique rispetto ai bordi dell’inquadratura. L’illuminazione è contrastata, ci sono ombre minacciose sulle pareti e anche il volto dell’uomo presenta una zona più scura e una più illuminata. Sullo sfondo, appesi alle pareti, ci sono quadri di donne svestite e uccelli impagliati, animali rapaci che sembrano pronti ad attaccare la preda. MARION NORMAN Frontalità Lateralità Centralità Marginalità Mdp altezza personaggio Mdp bassa Assenza di angolazione Angolazione dal basso Mdp perpendicolare Mdp inclinata Linee orizzontali e verticali Linee oblique Luce omogenea Luce contrastata Elementi scenografici neutri Elementi scenografici minacciosi Il discorso filmico gioca un ruolo di anticipazione di quel che di lì a poco accadrà nella storia. In realtà, gli uccelli rapaci alle spalle di Norman possono essere letti sì come attributi simbolici del personaggio, ma non solo come espressione del ruolo di minaccia che questi esercita nei confronti di Marion ma anche come espressione della minaccia che grava sullo stesso Norman. Infatti, i piani dedicati a Norman danno vita ad un universo claustrofobico e minaccioso di cui lo stesso Norman è espressione e vittima. Norman è carnefice di Marion, ma anche lui stesso sarà vittima della sua malattia. C’è una duplicità nel personaggio, una scissione del suo io, su cui il film insiste molto e che ci consentono di leggere le sue immagini attraverso un duplice processo di interpretazione che mette a nudo i voluti doppi sensi che attraversano l’opera. Esempio: Quarto potere di Orson Welles, 1941 Il film vuole sottolineare la dimensione contraddittoria di Kane, il contrasto tra la sua potenza e la sua debolezza. All’interno del film sono frequenti le angolazioni dal basso, soprattutto successivamente alla sconfitta elettorale di Kane. Queste angolazioni da una parte servono a conferire al personaggio la forza di un uomo di potere, ma allo stesso tempo la contraddice, in quanto l’uso così marcato di queste angolazioni finisce per mettere in campo i soffitti degli interni, che cominciano a gravare minacciosamente sul protagonista, dando vita a spazi claustrofobici e oppressivi, che esprimono la sconfitta di Kane, la sua debolezza e la sua immaturità → visualizzano la dimensione contraddittoria del protagonista e di tutta la sua esistenza. Visioni impossibili Inquadrature oggettive irreali → momenti di un film in cui un’immagine mostra una porzione di realtà in modo anomalo o apparentemente ingiustificato, segno di un’intenzionalità comunicativa che va 41 esplicitamente oltre la semplice raffigurazione, cosa che accade quando la macchina da presa si colloca in una posizione ardita, inaccessibile ad un personaggio. Il cinema contemporaneo presenta un uso molto più diffuso di immagini riprese da punti di vista eccezionali. Propone anche con una certa frequenza visioni impossibili, come per esempio le riprese di personaggi da dietro le fiamme di un camino, oppure dall’interno del frigorifero, o di una scatola. Garcia: questa molteplicità di punti di vista danno vita ad una successione di sguardi audaci proposti da un occhio unico e ubiquitario, a seconda dei casi incarnato, reificato o dematerializzato. Incarnato quando questo è legato ad uno sguardo umano, reificato quando rappresenta il punto di vista di una cosa, dematerializzato quando è privo di ancoraggio. La cornice e i due spazi Esempio: A Chess Dispute di Robert W. Paul, 1903 Due uomini sono seduti ad un tavolo mentre giocano a scacchi. Ad un certo punto sorge un diverbio che li spinge a venire alle mani. Mentre i due si prendono a pugni finiscono a turno con l’uscire di campo nella parte bassa dell’inquadratura. Il regista optò per la soluzione di mostrare solo la parte iniziale dell’azione, quindi il colpo che parte, e non quella finale, quella del colpo che arriva. Il regista realizza uno dei primi esempi di fuori campo. L’inquadratura, in quanto racchiusa da una cornice immaginaria, è definibile sulla base di un doppio criterio spaziale: lo spazio in campo e quello fuori campo. Campo → ciò che ci viene mostrato Fuori campo → ciò che non ci viene mostrato ma che fa parte dell’ambiente di cui quell’inquadratura non è che un prelievo. È composta da una serie di elementi profilmici non inclusi nel campo ma che con questo hanno una relazione di contiguità. Campo e fuori campo sono spesso in un rapporto di reversibilità: è infatti sufficiente un movimento di macchina o un effetto di montaggio per esplicitare il fuori campo, o per relegare nel fuori campo quello che prima era nel campo. Burch indica come lo spazio fuori campo sia suddivisibile in sei aree: quattro che stanno ai lati dell’inquadratura (a destra, a sinistra, in alto e in basso), una che è oltre la scenografia e una che sta dietro la macchina da presa. Diversi sono i modi con i quali è possibile creare all’interno di un’inquadratura una sorta di dialogo con il fuori campo: 1. Entrate e uscite →un personaggio che entra in campo non arriva dal nulla, ma da uno spazio che è contiguo a quello dell’azione, che noi non vediamo ma che fa parte della scena rappresentata. Queste entrate e uscite di campo possono avvenire da e verso ognuna delle sei aree che rappresentano lo spazio fuori campo (spesso ai lati). 2. Sguardo del personaggio → tramite i gesti, le parole e le sue interpellazioni. Lo sguardo del personaggio che guarda verso un determinato punto del fuori campo indica la presenza di qualcosa di esterno, ed esplicita l’esistenza di ciò che è dato a vedere al personaggio ma non allo spettatore. Nasce così una dialettica tra il poter vedere e il sapere del personaggio e il non poter vedere e il non sapere dello spettatore. Conseguenze: a. Si accende nello spettatore un voler vedere e sapere quello che il film si limita a suggerirgli b. Si accende nello spettatore un gioco di previsioni, l’azzardo di ipotesi intorno a quello che il personaggio sta vedendo. In questo mod oil racconto filmico spinge lo spettatore in una condizione d’attesa e lo costringe a porsi delle domande. 42 3. Suono-off → presenza di una componente sonora diegetica di cui però l’inquadratura non mostra la fonte. La voce di un personaggio o la musica di una radio possono essere uditi dallo spettatore senza che le immagini ce li mostrino. Questo esplicita l’esistenza di uno spazio fuori campo, dando vita nuovamente alla dialettica di non vedere/non sapere e voler vedere/voler sapere. 4. Inquadrature che tagliano il corpo di un personaggio → quando troviamo inquadrature che tagliano il corpo di un personaggio, in particolare quelle che tagliano tratti forti del personaggio, che quindi sono confinati al fuori campo, queste invitano lo spettatore ad interrogarsi sul non- visibile. Il fuori campo può essere distinto in vari modi. • Fuori campo attivo e passivo o Fuori campo attivo → quello proprio alle inquadrature a struttura centrifuga, che tendono verso l’esterno e rimandano a qualcosa sito oltre i bordi dell’immagine e costringono lo spettatore ad interrogarsi su di esso o Fuori campo passivo → quello delle inquadrature a struttura centripeta, dove tutto converge verso il proprio interno e niente rinvia a ciò che sta oltre i bordi dell’immagine • Fuori campo esterno e interno o Fuori campo esterno → quello di cui ci siamo occupati finora o Fuori campo interno → fuori campo che è sotto un certo aspetto in campo, perché all’interno dell’inquadratura, ma nascosto allo sguardo dello spettatore da un elemento profilmico (una tenda, un oggetto). Volontà del film di trarre in inganno lo spettatore e di fargli credere che un certo soggetto non sia presente in scena per poi mostrarcelo all’improvviso • Fuori campo concreto e immaginario o Fuori campo concreto → spazio che è escluso dal piano di ripresa, ma che noi abbiamo avuto modo di vedere in precedenza o Fuori campo immaginario → fuori campo a cui allude una determinata inquadratura ma che noi non abbiamo potuto vedere Questa distinzione pone un altro problema – quello della definizione di fuori campo a seconda che ci si ponga a livello dell’inquadratura o della sequenza (= insieme di piani che trattano un episodio narrativo). Nell’ambito della sequenza, nel passaggio da un’inquadratura ad un’altra, lo spazio in campo e fuori campo si scambiano continuamente di ruolo – esiste un fuori campo della sequenza, per esempio quelle situazioni ambientate in un interno dove la presenza di qualcuno all’esterno è indicata dal sonoro: la sequenza ci nega quello spazio esterno ma ci invita a tenerlo presente. Bonitzer propone l’idea di un fuori campo anti-classico, eterogeneo al campo, e che potrebbe definirsi come lo spazio della produzione occupato dalla troupe e dalle macchine necessarie alla lavorazione di un film, suggerito attraverso gli sguardi in macchina. Esempio: M, il mostro di Düsseldorf di Fritz Lang, 1931 Il film si apre con un’inquadratura dall’alto di un gruppo di bambini che recitano la filastrocca dell’uomo nero, con la funzione di introdurre il personaggio di M, un assassino psicopatico che sequestra e uccide i bambini. Un movimento di macchina ci porta poi sul balcone del cortile, prima che una donna si affacci per rimproverare la figlia he recita la filastrocca. Sia i bambini del cortile che questa donna sono solamente delle figure di transizione, che servono a condurre lo spettatore verso altri eventi e altri personaggi. Infatti, la donna giunge poi su un pianerottolo e suona ad una porta chiusa, introducendo un altro spazio fuori campo e un sentimento di attesa nello spettatore. Dopo qualche secondo la porta si apre ed entra in campo un’altra donna, la cui importanza si può capire grazie al lento movimento di macchina in avanti che la 45 La narrazione visiva, quindi, diverge da quella sonora: mentre la prima rappresenta l’attesa dei personaggi che sono rimasti sul pick-up, la seconda fa andare avanti la storia, dal momento che questo evento lega questa sequenza a quella successiva. Il gioco delle ripetute entrate e uscite di campo dei due protagonisti scaraventati a turno a terra, introduce un elemento di comicità: un momento di violenza quotidiana è risolto attraverso un registro comico. La presa di distanza, la mancata aderenza del discorso filmico al contenuto della rappresentazione, oltre che al fuori campo interno e al gioco delle uscite e delle entrate, si affida anche all’uso del campo lungo, che tiene lo spettatore a distanza senza coinvolgerlo. L’uso di queste tecniche dà vita ad una rappresentazione in contrasto con il suo contenuto drammatico: farci vedere poco (fuori campo), farci vedere da lontano (campo lungo), farci vedere senza montaggio (tutto in un’unica inquadratura) e non farci ascoltare (aderenza del punto d’ascolto al punto di vista), ci tengono lontani e non ci vogliono coinvolgere troppo. Soggettiva e sguardo Inquadrature soggettive → esprimono un punto di vista ben determinato che non è più solo quello dell’istanza narrante, ma quello di un personaggio. Il punto di vista dell’istanza narrante, quello del personaggio e quello dello spettatore coincidono in un unico sguardo. Un esempio è Grandma’s Reading Glass di Albert Smith (1900), in cui si alternano immagini oggettive di un ragazzino che, con una lente di ingrandimento, osserva ciò che lo circonda, a sue soggettive che mostrano i diversi oggetti del suo sguardo. Dagrada: tra il 1900 e il 1906, i film incentrati su un personaggio che guarda attraverso qualcosa divennero così numerosi da costituire una sorta di genere, recentemente etichettato keyhole films, film a buco di serratura. La struttura di base su cui si costruisce una soggettiva è stata definita da Branigan, attraverso la seguente articolazione: 1. Punto 2. Sguardo 3. Transizione 4. Posizione della macchina da presa da cui si guarda 5. Oggetto 6. Consapevolezza della presenza del personaggio In una prima inquadratura è rappresentato un punto (1) nello spazio dove si trova un personaggio che guarda (2). C’è una transizione (3), di solito attraverso uno stacco, a una seconda inquadratura in un rapporto di simultaneità o continuità temporale con la precedente. Questa inquadratura mostra un oggetto (5) da una posizione (4) che si presume essere quella del punto (1). Ciò che tiene insieme il tutto è la supposizione che il personaggio sia lì, in campo nella prima inquadratura e fuori campo nella seconda, a guardare quell’oggetto (6). La soggettiva, quindi, può darsi come tale solo a partire da un’oggettiva, ovvero un’inquadratura che rappresenta il punto di vista della sola istanza narrante. Ma questo non è sempre vero, infatti esistono delle soggettive che sono definite come stilistiche, ovvero inquadrature che invitano lo spettatore ad essere lette come soggettive senza essere esplicitamente rapportate allo sguardo del personaggio. 46 Esempio: Halloween di John Carpenter, 1978 La macchina da presa si avvicina ad una casa, spia una ragazza e il suo amichetto, poi vede una maschera e se la infila. A partire da ora il carattere soggettivo della visione si accentua, sia sul piano visivo (vediamo attraverso gli occhi della maschera) che su quello sonoro (sentiamo il respiro sempre più affannoso). Poi c’è l’omicidio della ragazza e la maschera strappata che porta ad un controcampo che svela che l’assassino è un bambino. Inquadratura semisoggettiva → inquadratura che pur rappresentando lo sguardo di un personaggio non ne rispetta fino in fondo la posizione. Questo accade quando la macchina da presa è più vicina o lontana dall’oggetto di quanto non lo sia il personaggio. Possiamo intendere semisoggettiva anche l’inquadratura che ci mostra una porzione di realtà come la vede un personaggio in cui la macchina da presa non ne sostituisce lo sguardo ma si colloca alle sue spalle, così da entrare in campo insieme alla nuca. Inquadratura falsa soggettiva → inquadratura che, pur simulando il carattere di una soggettiva stilistica, si rivela in piano oggettivo. Questo accade quando un piano in movimento simula l’avanzare di qualcuno in uno spazio determinato, qualcuno che tuttavia finisce con l’entrare in campo oggettivizzando il piano. Tuttavia, gli studiosi mettono in discussione una distinzione troppo rigida tra soggettività e oggettività, dal momento che i due livelli sono intercambiabili: un soggetto può diventare oggetto se guardato da qualcun altro. Un’altra questione fondamentale legata alla soggettiva è quella dello sguardo, che può disegnare dei percorsi di lettura privilegiati all’interno del campo o spingersi al di fuori di esso, può suggerire sentimenti, emozioni, tratti caratteriali… Lo sguardo è un elemento di importanza basilare nella strutturazione dell’immagine filmica e della sua natura significante. Importante è anche la questione del rapporto fra la soggettiva e i meccanismi di identificazione. Per l’identificazione corretta è necessario prendere in esame le differenze tra identificazione primaria e identificazione secondaria • Primaria → identificazione dello spettatore con l’occhio della macchina da presa • Secondaria → identificazione dello spettatore con i personaggi Nell’oggettiva noi vediamo il volto del personaggio su cui si dipingono i segni delle sue emozioni, mentre nella soggettiva siamo calati dentro di esso e vediamo con lui e come lui ciò che suscita queste emozioni. L’uso della soggettiva è teso a mettere in primo piano i sentimenti del personaggio che ne è portatore, e invita lo spettatore a viverli in prima persona → certe soggettive non si limitano a rappresentare il punto di vista ottico di quel personaggio, ma ne esprimono quello affettivo spingendo lo spettatore a condividere le emozioni e i sentimenti. L’inquadratura soggettiva si rivela come tale a partire dal sintagma che la contiene. A seguire i diversi tipi di sintagma soggettivo (in cui A= oggettiva del personaggio che guarda; B= soggettiva su chi o che cosa è guardato): • Sintagma soggettivo aperto → successione di due inquadrature: AB • Sintagma soggettivo chiuso → successione di tre immagini: ABA • Sintagma successivo alternato → almeno quattro inquadrature: ABAB… • Sintagma soggettivo rovesciato → inversione delle posizioni di A e B, prima mostra l’immagine soggettiva e poi quella oggettiva: BA • Sintagma soggettivo differito → fra A e B si inseriscono altre inquadrature che di fatto ritardano l’enunciazione della soggettiva vera e propria: ACDB 47 Esempio: Psyco di Alfred Hitchcock, 1960 Marion ha appena rubato una somma di denaro ed è in fuga sulla macchina diretta verso la cittadina del fidanzato. La donna si ferma a riposare sul ciglio della strada, e la sequenza si apre con un campo medio dell’auto in sosta. Arriva un’auto della polizia, da cui scende un uomo, di cui prima vediamo il volto da lontano e poi di profilo. L’uomo sveglia la donna e questa, vedendo l’agente, spalanca gli occhi in un’espressione di paura. Finalmente possiamo vedere il volto del poliziotto, i cui sguardo però è nascosto da un paio di occhiali da sole. Lo sguardo della donna, invece, mostra sentimenti di paura, angoscia e colpa. Il poliziotto sembra essere una proiezione dei fantasmi della donna. La soggettiva che ci rivela il volto dell’uomo non rappresenta solo il punto di vista ottico di Marion, ma anche quello affettivo. Elemento chiave di questa soggettiva sono gli occhiali da sole del poliziotto che ne nascondono lo sguardo, rendendo indecifrabile la sua espressione e ciò che può intuire. All’assenza di sguardo del poliziotto si contrappone la trasparenza dello sguardo di Marion, uno sguardo che esprime sentimenti di paura. Il conflitto tra gli sguardi non fa che definire con maggior forza i ruoli narrativi contrapposti dei due personaggi: la donna che ha commesso un crimine e un uomo che ha il compito di far rispettare la legge. Dopo aver controllato la targa dell’auto, il poliziotto restituisce i documenti alla donna e la lascia andare, ma il resto della sequenza ci lascia in dubbio in merito alle vere intenzioni dell’agente, e né gli spettatori né Marion riescono ad azzardare ipotesi sulla sua decisione. Il resto della sequenza è giocato sull’alternanza di tre serie di inquadrature strutturate così: 1. Oggettiva – MPP di Marion, sullo sfondo auto del poliziotto 2. Soggettiva – la strada 3. Oggettiva – MPP di Marion che sposta lo sguardo dalla strada allo specchietto retrovisore, sullo sfondo auto del poliziotto 4. Soggettiva – lo specchietto retrovisore che riflette l’auto del poliziotto 5. Oggettiva – MPP di Marion che sposta lo sguardo dallo specchietto retrovisore alla strada, sullo sfondo auto del poliziotto 6. Soggettiva – un bivio 7. Oggettiva – MPP di Marion che sposta lo sguardo dalla strada allo specchietto retrovisore, sullo sfondo auto del poliziotto 8. Soggettiva – lo specchietto retrovisore che riflette l’auto del poliziotto 9. Oggettiva – MPP di Marion che sposta lo sguardo dallo specchietto retrovisore alla strada, sullo sfondo auto del poliziotto 10. Soggettiva – la strada con un cartello che annuncia un bivio 11. Oggettiva – MPP di Marion che sposta lo sguardo dalla strada allo specchietto retrovisore, sullo sfondo auto del poliziotto 12. Soggettiva – lo specchietto retrovisore che riflette l’auto del poliziotto 13. Oggettiva – MPP di Marion che sposta lo sguardo dallo specchietto, sullo sfondo vediamo l’auto del poliziotto prendere un’altra direzione. Un’espressione di sollievo si dipinge sul volto di Marion Si alternano quindi tre immagini ben precise: i mezzi primi piani di Marion, le soggettive sulla strada e quelle sullo specchietto retrovisore. Le inquadrature sono due, soggettive e oggettive, e si alternano rigorosamente. La centralità dello sguardo di Marion è ribadita dall’uso di una struttura complessiva della scena in cui le inquadrature soggettive sono sempre precedute da oggettive dove Marion sposta lo sguardo dalla strada verso lo specchietto o viceversa e seguite da altre oggettive con il percorso opposto. Non c’è nessun campo totale, questo avrebbe fatto venire meno l’identificazione che qui si crea tra lo spettatore e la donna, attraverso un’alternanza di oggettive e soggettive che piega l’evento rappresentato al punto di vista affettivo di Marion. La narrazione è così filtrata attraverso la soggettività di un personaggio. La sequenza che si avvia con la partenza delle due automobili è un esempio di sintagma soggettivo alternato, che crea il massimo di identificazione e partecipazione dello spettatore ai sentimenti di Marion. 50 collocato su una piattaforma a sua volta sistemata su un veicolo a ruote, il dolly, o su una vera e propria gru, che consente una maggiore possibilità di elevazione e di conseguente spettacolarizzazione dell’immagine. Un’altra apparecchiatura è la steadycam, messa a punto negli anni Settanta da Garret Brown. È un’intelaiatura dotata di un sistema di ammortizzatori, indossata direttamente dall’operatore e su cui viene fissata un’apposita macchina da presa. Questa consente di mantenere la stabilità dell’immagine, indipendentemente dai movimenti dell’operatore, che può correre, salire o scendere scale, fermarsi all’improvviso senza provocare sobbalzo alla cinepresa. Mentre corre, l’operatore non deve più guardare dentro al mirino, ma può controllare l’immagine attraverso un piccolo monitor video di cui l’apparecchiatura è dotata. Negli anni Settanta si è affermata un’altra apparecchiatura, la louma, un braccio tubolare assai sottile che può arrivare ad una lunghezza di quasi dieci metri. È fissata su una gru, ed è in grado di muoversi e ruotare in tutte le direzioni possibili, agire in spazi ristretti ed essere controllata da un video remoto (usata ad esempio in L’inquilino del terzo piano di Roman Polanski, 1976). • Macchina a mano o a spalla → la cinepresa non è più fissata su un cavalletto, ma è tenuta dall’operatore tra le mani oppure appoggiata sulle spalle. Il movimento della macchina non ha più fluidità, ma procede per sbalzi, scossoni, in modo discontinuo e irregolare. Diventa più comune negli anni Cinquanta, con il diffondersi del cinéma-verité, che lo imponeva per dar vita ad un rapporto più diretti e immediato con la realtà. Un problema a parte è quello della carrellata ottica, in cui la macchina da presa non si muove, ma attraverso la variazione della lunghezza focale dell’obiettivo, può dar vita a passaggi da un piano più distanziato a uno più ravvicinato (zoom in avanti) o viceversa (zoom indietro). La differenza tra carrello e zoom è che con il movimento di macchina vero e proprio, gli oggetti statici guadagnano, con l’avvicinarsi della macchina da presa, volume e solidità e che lo sfondo si dà con una certa profondità. Al contrario, l’immagine che lo zoom dà agli oggetti, dello sfondo e dello spazio in generale, una rappresentazione più appiattita e artificiale. Movimenti subordinati e movimenti liberi: • Movimenti subordinati → seguono la traiettoria di un personaggio o un oggetto in movimento, mantenendo costanti la velocità, uguale a quella di chi è rappresentato, la distanza e l’angolazione. Sono movimenti di macchina la cui funzione principale è quella di tenere in campo l’elemento centrale del profilmico e di dirigere su di esso l’attenzione dello spettatore • Movimenti liberi → prescindono dai movimenti profilmici, in cui la macchina da presa si muove autonomamente nello spazio rappresentato, per allontanarci da qualcosa e avvicinarci a qualcos’altro Anche se c’è questa distinzione, un movimento può avviarsi come subordinato, seguendo la traiettoria di un personaggio, ma poi diventare libero, abbandonando il personaggio per mostrarci qualcos’altro. Esistono inoltra diversi gradi di subordinazione o di libertà di un movimento, per esempio pur seguendo un personaggio, la macchina da presa può modificare il proprio angolo di ripresa, la propria distanza, si muove ad una velocità diversa da quella del personaggio: questo movimento si allontana dalla sfera della subordinazione per entrare in quella della libertà, mantiene l’attenzione sul personaggio ma non si subordina al suo movimento. Esempio: Shining, Stanley Kubrick, 1980 Qui, un movimento di macchina in avanti segue l’avanzare del piccolo Danny, che corre sul triciclo lungo i corridoi e le cucine di un grande hotel. Il movimento di macchina a seguire parrebbe subordinato a quello del triciclo, ma in realtà ci rendiamo conto di come l’avanzare della macchina da presa sia più lento di quello di Danny. Il movimento profilmico determina solo in parte quello filmico: la direzione è la stessa, ma la velocità è diversa. Ad un certo punto Danny arriva alla fine del corridoio e svolta verso destra, uscendo di 51 campo. Il movimento profilmico viene azzerato. Kubrick fa continuare il piano avanzando la macchina da presa attraverso uno spazio vuoto e immobile, e il movimento della cinepresa si fa del tutto libero. Finisce con il rappresentare uno sguardo che non può essere che quello dell’istanza narrante. Questo sguardo in movimento ha anche un’altra valenza, perché lascia nello spettatore l’impressione che abbia una sua indipendenza e autonomia, superiore allo sguardo di Danny. → questo dimostra come la dialettica tra movimenti di macchina liberi e subordinati possa giocare un ruolo di primo piano nella costruzione drammatica di un film. Una modalità dei movimenti di macchina subordinati è quella della correzione di campo o re-inquadratura. Si tratta di brevi movimenti della macchina da presa, rapportati a quelli di un personaggio che si sposta all’interno di all’interno di uno spazio limitato, per esempio alzandosi dalla sedia, inchinandosi verso qualcosa o qualcuno… Il compito di questi movimenti è quello di mantenere l’equilibrio e la centratura del piano nonostante gli spostamenti profilmici che ne minacciano la stabilità. Nei movimenti di macchina subordinati, l’istanza narrante tende a nascondersi, a farsi invisibile, mentre nei movimenti di macchina liberi c’è proprio una marca d’enunciazione. I movimenti di macchina implicano una dimensione relativa allo spazio e una riferita al tempo: • Spazio → i movimenti di macchina si possono suddividere in base alla loro estensione, per esempio una panoramica potrà essere di pochi gradi o avere una completa rotazione su se stessa; una carrellata potrà disegnare un breve movimento all’interno di uno spazio circoscritto oppure muoversi lungo dimensioni spaziali decisamente più estese. Un movimento di macchina può anche avere diverse traiettorie: muoversi in modo diretto verso un punto, procedere a zigzag, in avanti e indietro… • Tempo → ciò che conta è la durata e la velocità del movimento. Una panoramica può durare solamente pochi secondi, mentre un travelling anche per un paio di minuti, oppure con estrema lentezza, creando attesa per ciò che metterà in campo alla fine del movimento. I movimenti di macchina possono anche distinguersi in: • Continui → propri di quelle inquadrature che si danno in forma dinamica dall’inizio alla fine • Interrotti → piani in cui un movimento può di tanto in tanto interrompersi, fissandosi su se stesso, e poi riprendere. Ci sono diverse funzioni espressive dei movimenti di macchina: 1. Funzione descrittiva → nel suo percorrere un ambiente, un movimento di macchina assolve il compito di dare di quel determinato ambiente una sorta di descrizione 2. Funzione di rendere reversibili campo e fuori campo → un movimento di macchina si avvia mostrando qualcosa, percorrendo un certo spazio e approdando a qualcosa di nuovo. Ciò che era in campo all’inizio può essere fuori campo alla fine e viceversa 3. Funzione connettiva → stabilisce un legame filmico tra due elementi profilmici 4. Funzione cognitiva → questi movimenti che approdano a qualcosa che prima era fuori campo possono rivelare allo spettatore l’esistenza di qualcosa di rilevante ai fini di una certa situazione narrativa, di cui questi prima era ignaro. Questa funzione riguarda il regime di focalizzazione di un film: il sapere dello spettatore si fa maggiore rispetto a quello del personaggio e l’istanza narrante esplicita la sua natura onnisciente 5. Funzione selettiva → tipica dei movimenti di macchina in avanti. Implica l’evidenziazione di un qualcosa a partire dal contesto in cui esso era inizialmente inserito (es: dal totale di una classe di alunni bianchi, avanza e si concentra sull’unico bambino di colore) 52 6. Funzione estensiva → tipica dei movimenti di macchina indietro. Inserisce un elemento particolare in un contesto che può conferirgli un determinato senso (es: dall’immagine ravvicinata del bambino di colore, arretra fino a mostrare la classe piena di alunni di pelle bianca) 7. Funzione tensiva → si dà in particolare quando un movimento percorre con una certa lentezza uno spazio, creando nello spettatore una situazione d’attesa per ciò che finalmente sarà rivelato alla fine di quello stesso movimento 8. Funzione affettiva → quando il movimento di macchina è raccordato allo sguardo del personaggio. Funzione di concernere il sentimento di desiderio e brama di questo personaggio verso ciò cui il movimento si avvicina 9. Funzione estetica → tipica dei travelling, che contribuiscono alla valorizzazione artistica di ciò che essi mostrano, nel tentativo quindi di renderlo più bello. È spesso diffusa nei musical 10. Funzione semantica → i movimenti di macchina possono contribuire in modo decisivo alla definizione del senso della situazione rappresentata. Esempio: Notorious di Alfred Hitchcock, 1964 Alicia ha sposato una spia nazista, Sebastian, con l’intento di smascherarne i traffici. La donna deve entrare in possesso della chiave della cantina di Sebastian, dove sono nascosti i campioni di uranio. Due sono le scene importanti. La prima scena è quella in cui Alicia tenta di entrare in possesso della chiave. Vediamo la donna che si avvicina alla stanza del marito, ma giunta sulla soglia si ferma improvvisamente e getta uno sguardo preoccupato verso il fuori campo che viene mostrato allo spettatore nell’inquadratura successiva. Ci mostra due spazi: il primo è rappresentato da una parte della stanza di Sebastian, il secondo dalla sala da bagno in cui l’uomo si trova. La sala da bagno rimane in buona parte fuori campo, ma viene esplicitato dalla porta aperta e dall’ombra di Sebastian che si proietta sulla porta → la presenza dell’uomo costituisce un pericoloso ostacolo al compito di Alicia. Lo spazio fuori campo si configura, sul piano semantico, come spazio della minaccia. L’inquadratura torna su Alicia, che cambia la direzione del proprio sguardo ad un altro elemento diegetico del fuori campo, e uno stacco ci mostra l’oggetto dello sguardo della donna: la scrivania vicina al bagno. Un movimento in avanti mostra in dettaglio un mazzo di chiavi, tra cui quella della cantina. È evidente quindi la funzione cognitiva: attraverso il suo percorso di avvicinamento, la macchina da presa ci mostra il mazzo di chiavi che prima non vedevamo. Un’altra funzione di questa scena è quella selettiva: le chiavi non vengono solo mostrate ma anche evidenziate attraverso il progressivo avvicinarsi della cinepresa. L’ultima funzione è quella affettiva: le chiavi sono una proiezione del desiderio di Alicia di possederle. Il movimento però è molto ambiguo: dal momento che si avvia dallo sguardo della donna, lo spettatore ha l’impressione che si traduca con l’avvicinarsi di questa alla scrivania, ma l’inquadratura successiva ci mostra Alicia ferma a dove l’avevamo lasciata. Non è lei ad avvicinarsi alla chiave, ma l’occhio della cinepresa. Questa ambiguità ha una conseguenza anche sul piano della comunicazione narrativa, infatti se il movimento in avanti ci fa credere che Alicia abbia trovato il coraggio di avvicinarsi alle chiavi, ritrovarla al punto di partenza significa costringere lo spettatore a dover ricominciare tutto da capo, con un guadagno sulla suspense. Nell’inquadratura successiva la vediamo avvicinarsi alla scrivania, dando prima un’occhiata al fuori campo che ci ricorda il pericolo presente nella stanza, pericolo che si fa più presente dato che si sente la sua voce dal fuori campo. Uno stacco ci mostra nuovamente la porta del bagno aperta e l’ombra che si proietta su di essa. Agli elementi del fuori campo di prima, l’ombra e la porta aperta, se ne aggiungono altri due, la voce e il carattere più ravvicinato del piano. Alicia riesce ad entrare in possesso della chiave, ma quando sta per andarsene il marito la raggiunge e le apre le mani per baciarle, costringendola così a gettare a terra la chiave per nasconderla sotto al tavolino. Così finisce la scena, che ci lascia così con un atto in sospeso. La seconda scena importante è aperta da uno spettacolare movimento di macchina che inquadra dall’alto la scala che dà sull’atrio di casa di Sebastian. La cinepresa poi si muove verso destra per mettere in campo altri partecipanti, tra cui Sebastian e Alicia. Quando i due arrivano al centro dell’immagine, il movimento 55 limita alla suddivisione dello schermo a metà, ma propone soluzioni più elaborate come quelle della frantumazione triangolare e della compresenza di due immagini di dimensioni diverse. C’è una scena interessante, in cui i due sono nella vasca da bagno e si sfiorano i limiti del meta-cinema, quando i piedi dei due interlocutori toccano i confini della loro porzione di schermo, congiungendosi per un attimo. Un altro esempio interessante è Il caso Thomas Crown di Norman Jewison (1968), in cui c’è un utilizzo molto composito di tale procedimento, che non si limita a due o tre riquadri, ma ne usa un numero molto più alto, secondo formati e dimensioni diverse. Nella sequenza telefonica del via alla rapina e quella della partita di polo, troviamo una compresenza simultanea di diverse immagini che si rifanno a situazioni che avvengono nello stesso tempo ma in luoghi diversi. L’uso dello sfocato serve per mettere determinati riquadri in secondo piano. Lo split screen viene usato anche come effetto di enfatizzazione grafica, come avviene per esempio con il volto di Steve McQueen. Il successo dello split screen è testimoniato anche dal film Chelsea Girls di Andy Warhol del 1967, ma decadde nel periodo successivo. Negli anni Duemila, lo split screen è tornato a godere di una certa popolarità, grazie anche al cinema digitale che ne rende più facile la realizzazione. Una pratica diffusa nel cinema contemporaneo è quella che mostra diversi monitor in azione presenti all’interno di uno stesso piano. Uno dei registi che ha lavorato su questo e in particolare sul rapporto tra immagine cinematografica classica ed elettronica è stato Wim Wenders, che nel suo documentario Appunti di viaggio su moda e città (1989) tende a distinguere tra macchina da presa tradizionale e videocamera, considerando la seconda come meno intrusiva e più adatta ad una dimensione intima. Egli spesso riprende all’interno dell’inquadratura degli schermi video che costituiscono l’effetto del quadro dentro al quadro, una sorta di split screen digitalizzato. Esempio: Timecode di Mike Figgis, 2000 Questo è il caso di un film che narra le vicende di alcuni personaggi legati da rapporti sentimentali ed erotici, attraverso quattro piani sequenza che durano per tutto il film e che vengono simultaneamente proposti sullo schermo in quattro finestre uguali. La coincidenza temporale delle quattro immagini è indicata attraverso diversi espedienti, come la compresenza di due personaggi nello stesso posto, o scosse di terremoto che agitano i diversi riquadri nello stesso momento… Peter Greenaway è il regista che più ha usato le tecniche del digitale per dar vita ad un nuovo tipo di inquadratura multipla, le “finestre”, ovvero delle immagini che si sovrappongono digitalmente al piano di fondo. Le finestre possono differenziarsi per numero, dimensioni, formato, durata e per il fatto di essere statiche o in movimento, a colori o in bianco e nero. Possono darsi su uno sfondo nero o su uno spazio intradiegetico a cui possono sovrapporsi in modo netto o per trasparenza. Esempio: Le valige di Tulse Luper – parte 1. La storia di Moab di Peter Greenaway, 2003 Qui, l’occorrenza più frequente è quella che vede una grande finestra occupare la parte centrale dell’inquadratura, su uno sfondo più ampio di cui quella stessa finestra non è che un ritaglio. Per esempio, in una finestra c’è la madre che rimprovera e malmena il figlio perché sta giocando alla guerra, mentre dietro vediamo gli altri ragazzi intorno continuare nella loro corsa. La finestra, in questo caso, opera una sorta di ritaglio da un contesto più ampio, evidenziandone l’evento principale. La logica del raccordo in avanti (un effetto di montaggio che passa da un’immagine più ampia a una più ristretta) è così ripresa su un puro piano spaziale, giocando sulla compresenza dei due elementi. Vedi pagina 182. 56 CAPITOLO 3 – IL MONTAGGIO CHE COS’È IL MONTAGGIO Il montaggio è una fase importantissima della lavorazione dei film, è quella in cui il montatore ordina i chilometri di pellicola, sceglierà fra le diverse riprese di una stessa inquadratura quella più efficace, unirà gli spezzoni scelti fra loro, ricostituirà scena dopo scena la storia del film così come era stata concepita in fase di sceneggiatura o modificata nel corso delle riprese. Inquadrature o addirittura intere scene possono essere eliminate, modificate o collocate in un momento del racconto diverso da quello in cui erano state originariamente previste. Jurgenson scrive che la nascita del montaggio avviene quando si comincia a pensare di modificare la posizione della macchina da presa su di una scena con nessun altro scopo se non quello di dare una migliore descrizione dell’azione. Méliès fu tra i primi a scoprire le possibilità del montaggio, anche se ancora inteso nella forma del montaggio trucco. Un giorno la sua macchina da presa si interruppe e dovette poi riprendere poco dopo il suo lavoro. Sviluppando il negativo, Méliès si trovò di fronte a qualcosa di sensazionale: l’omnibus che stava riprendendo si era improvvisamente trasformato in un carro funebre. Attraverso un effetto di montaggio in macchina, operato durante la ripresa, nasce il trucco dell’arresto e della sostituzione, che sta alla base del cinema di Méliès. Si tratta di un uso elementare del montaggio, in cui lo stacco (= momento di passaggio da un’immagine all’altra), è accuratamente nascosto, per garantire la meraviglia di un’imprevista trasformazione. 57 CAPITOLO 3 – IL MONTAGGIO CHE COS’È IL MONTAGGIO Il montaggio è una fase della lavorazione del film che prevede il mettere in ordine e scegliere fra le diverse riprese di una stessa inquadratura quella più efficace, l’unire gli spezzoni scelti tra loro, il ricostruire scena dopo scena la storia del film così come era stata concepita in fase di sceneggiatura o modificata nel corso delle riprese. Inquadrature o addirittura intere scene potranno essere eliminate, modificate o collocate in un momento del racconto diverso da quello in cui erano state originariamente previste. Jurgenson: si può dire che la nascita del montaggio dati dal giorno in cui si è pensato di modificare il punto di vista della macchina da presa su di una scena nel corso di quella stessa scena, di modificare cioè la sua posizione senz’altro scopo che quello di una migliore descrizione dell’azione o di una migliore costruzione drammatica. Méliès fu uno dei primi a scoprire le possibilità del montaggio, anche se ancora inteso nella forma del montaggio trucco. Sviluppando il negativo, Méliès si trovò di fronte a qualcosa di sensazionale: l’omnibus che stava riprendendo si era improvvisamente trasformato in un carro funebre. Nasce così, attraverso un effetto di montaggio in macchina, operato durante la ripresa, il trucco dell’arresto e della sostituzione, base del cinema fantastico di Méliès. Si tratta di un uso elementare del montaggio, dove lo stacco (=momento di passaggio da un’immagine all’altra) è accuratamente nascosto, per garantire la meraviglia di un’imprevista trasformazione. Esempio: The kiss in the tunnel di George Albert Smith, 1899 Il film si apre con l’immagine vista da una locomotiva in movimento di una galleria che si avvicina, e prosegue con quella di due amanti che, in uno scompartimento del treno, si scambiano un bacio. Termina poi di nuovo dalla prospettiva della locomotiva, con un’inquadratura dell’avvicinarsi del treno alla fine del tunnel. Ad unire queste tre inquadrature ci sono due stacchi che determinano un doppio movimento dello spazio. Il montaggio c’è, ma è ancora al suo grado zero, limitato al passaggio da un luogo ad un altro luogo. Esempio: Grandma’s reading glass di Smith, 1900 Un ragazzino osserva ciò che lo circonda con una lente di ingrandimento, e a questo piano si alternano una serie di inquadrature che ci mostrano, a uno a uno, questi elementi, generando così la frammentazione dello spazio in cui si svolge la scena. Fra il 1909 e il 1916, il cinema hollywoodiano inizia a dar forma non solo al proprio modo di produzione, ma anche ai suoi modelli di narrazione e montaggio. Aumentano sempre di più i tagli fra le scene e al loro interno, per dare ritmo e arricchire la psicologia dei personaggi. A partire dal 1917, le inquadrature vengono riprese da diverse angolazioni, il piano d’insieme non è più importante degli altri, i tagli si raccordano sul movimento e i film hanno molte più inquadrature: fra i cinquecento e i mille piani. Importante è il regista David Wark Griffith, perché con lui il montaggio raggiunge la prima tappa della sua maturità. La scoperta essenziale di Griffith è stata quella di rendersi conte che una sequenza dev’essere composta da singole inquadrature incomplete, scelte e ordinate una base a motivi di necessità drammatica. La macchina da presa poteva avere una parte attiva nella narrazione: spezzando un avvenimento in brevi frammenti, ciascuno ripreso dalla posizione più adatta, si poteva modificare l’importanza delle singole inquadrature, controllando così l’intensità drammatica dei fatti. Questo compito importante spetta al montatore, lavoro che svolge sotto lo stretto controllo del regista. Esiste però un’eccezione a questa realtà, quella rappresentata dal cinema americano classico. Negli studios a Hollywood, i registi erano spesso assenti dal montaggio, e non avevano diritto di decisione sul montaggio 60 Ma questo non è l’unico modo per passare da un’inquadratura all’altra: • Dissolvenza o D’apertura → l’immagine appare progressivamente a partire dal nero dello schermo o In chiusura → l’immagine scompare progressivamente sino a diventare nera o Incrociata → l’immagine che scompare e quella che compare si sovrappongono per alcuni istanti sullo schermo Le dissolvenze in chiusura rappresentano, rispetto a quelle incrociate, una pausa più pronunciata, interrompono il flusso narrativo e separano nettamente le azioni che le precedono da quelle che le seguono. Erano usate per indicare salti temporali maggiori di quelli suggeriti dalle dissolvenze incrociate. • Iris → un foro circolare si apre o si chiude intorno a una parte dell’immagine • Tendina → la nuova immagine si sostituisce a quella precedente facendola scorrere via dallo schermo Piani d’ambientazione → sono un tipo di figura che si colloca a livello della storia. si intende quel tipo di inquadratura prettamente descrittiva che avvia una scena con il compito di introdurne i caratteri ambientali, di consentire cioè allo spettatore di conoscere il luogo in cui sta per svolgersi una determinata sequenza. Questo permette allo spettatore di possedere tutte le informazioni necessarie ad una corretta comprensione dell’episodio che sta per essere narrato. SPAZIO E TEMPO Dal punto di vista spaziale il montaggio ha assunto la funzione di articolare lo spazio diegetico in diverse unità, stabilendo tra queste delle connessioni secondo un certo progetto narrativo. A livello invece temporale, il montaggio ha il compito di selezionare quei momenti della storia narrata che hanno un’importanza maggiore di altri e di confinare questi ultimi nel vuoto delle ellissi. Il montaggio, quindi, è uno strumento fondamentale attraverso cui l’istanza narrante costruisce il proprio racconto, conferendogli certi caratteri anziché altri, sulla base di quei principi di selezione e combinazione su cui è organizzato ogni racconto. Spazio Nel suo trattare lo spazio attraverso il montaggio, il cinema organizza la visione spettatoriale attraverso una successione di diversi punti di vista che fanno dello spazio diegetico uno spazio filmico. Un qualsiasi ambiente potrà così essere scomposto da un insieme di inquadrature che ci daranno di esso una serie di prospettive organizzate secondo le possibilità della similarità, della differenza e dello sviluppo. Esisterà quindi un ambiente (spazio diegetico) e una rappresentazione di questo ambiente attraverso una successione di inquadrature (spazio filmico) che sarà determinato dalle scelte dell’istanza narrante. Ci sono due possibilità di dar vita alla rappresentazione filmica di uno spazio diegetico: 1. A un piano d’insieme dell’ambiente in questione seguono una serie di inquadrature che lo frammentano e che in qualche modo sono comprese nel piano originario → chiarezza espositiva 2. Lo spazio d’insieme è costruito attraverso una serie di inquadrature parziali che ce ne mostrano sempre e solo una parte e mai la sua globalità → è il montaggio delle parti a comporre l’intero. Découpage → segmentazione dello spazio. Esempio: Notorious di Hitchcock, 1946 La vicenda del film corre su due binari paralleli, da una parte c’è la spy story, che ha come oggetto il tentativo di Alicia di smascherare con l’aiuto di Delvin i traffici di una spia nazista, Sebastian, mentre dall’altra c’è la love story, ovvero la contrastata vicenda sentimentale tra Alicia e Delvin. La spy story 61 impedisce la love story, infatti per compiere la sua missione Alicia deve sposare Sebastian. La scena analizzata è quella in cui Alicia si reca negli uffici dell’FBI per comunicare a Delvin e agli altri funzionari la decisione di Sebastian di prenderla in moglie. La prima scena ci mostra l’esterno del palazzo degli uffici, si tratta di un piano di ambientazione che ha il compito di introdurre lo spettatore al luogo in cui si svolgerà la scena appena iniziata. Tutti i personaggi che sono nell’ufficio vengono mostrati allo spettatore in un piano di insieme mentre discutono il caso in questione, ma Delvin è di spalle e in secondo piano. Il dare le spalle e il non partecipare alla conversazione di Delvin danno vita ad un contrasto audiovisivo all’interno del piano che prepara il conflitto a venire. Infatti, in questo momento bussa qualcuno alla porta annunciando la visita di Alicia, e subito dopo c’è un mezzo primo piano di Delvin, sempre di spalle, nel frattempo gli agenti fuori campo cominciano a parlare male di Alicia, fino a quando Delvin non si volta e inizia a difenderla. L’ambiente dell’ufficio si articola in due spazi diversi, quello del tavolo e della finestra da una parte e quello della porta dall’altra. Il primo spazio è occupato da Delvin e gli altri agenti, il secondo è quello dell’annuncio dell’arrivo di Alicia. Significativo è il momento in cui il segretario annuncia il nome di Alicia, perché sorprende Delvin in un piccolo gesto di reazione. C’è un’associazione audiovisiva che il montaggio crea tra il nome della donna e l’immagine dell’uomo, che ci fa capire che l’arrivo di Alicia ha un significato diverso per Delvin. Il mezzo primo piano di Delvin è importante perché lo evidenzia e mette fuori dai bordi dell’inquadratura gli altri personaggi → découpage e messa in scena operano per dar vita ad un sistema di alleanze e opposizioni tra i tre agenti, Delvin e Alicia. Questo passaggio di inquadratura al mezzo primo piano di Delvin indica un rapporto preferenziale tra lui e Alicia e lo allontana dagli altri tre agenti, che ora sono fuori campo. Successivamente si alternano piani dei tre uomini a mezzi primi piani solo di Delvin, mentre ribatte alle accuse che gli altri muovono contro Alicia. C’è la costruzione qui di un nuovo spazio, di esclusiva proprietà dei tre. Il montaggio dà vita ad un’opposizione tra Delvin e i tre agenti, ad uno scontro tra piani a uno e piani a tre → spazio di conflitto. L’entrata di Alicia dà l’avvio alla seconda parte della scena. Da questo momento l’istanza narrante opera un restringimento spaziale, dando vita ad un gioco di montaggio costruito solo sull’alternanza dei piani rovesciati di Alicia, dei mezzi primi piani di Delvin e quelli di Prescott. Lo spazio dell’ufficio è così frammentato dalla successione di tre tipi di inquadrature che hanno una loro funzione drammatica: quella di dare risalto al dramma sentimentale di cui Alicia e Delvin sono protagonisti. Il dialogo del discorso verte sulla spy story, ma la successione delle immagini organizzata dal montaggio mette in evidenza la love story, attraverso il gioco dell’alternanza tra le immagini di Alicia e quelle di Delvin, rapportate da degli sguardi disperati e impotenti verso il fuori campo occupato dall’altro. Anche le inquadrature di Prescott funzionano in base a questa strategia, grazie agli sguardi in direzione del fuori campo che l’uomo getta continuamente verso Alicia o Delvin: anche se sono nel fuori campo, i due amanti vengono esplicitati attraverso il gioco di sguardi di Prescott. Questo è un esempio di come il montaggio può subordinare la rappresentazione dello spazio a precise esigenze narrative, contribuendo a determinare i nuclei drammatici degli eventi rappresentati. Tempo A livello di tempo, invece, il montaggio può introdurre delle brevi ellissi, che possiamo definire tecniche. Queste hanno il compito di abolire i tempi morti e di rendere più avvincente la narrazione. Sono esse a determinare la differenza tra una scena (non sono presenti ellissi, il tempo della storia è uguale a quello del discorso) e una sequenza (il tempo del discorso è più breve del tempo della storia – presenza di ellissi). Un altro aspetto fondamentale che riguarda il tempo è la durata delle inquadrature. La durata di un’inquadratura determina il tempo che lo spettatore ha per leggere quell’inquadratura. La durata dell’inquadratura determina anche il ritmo di una sequenza: più le inquadrature sono di breve durata, più il ritmo è sostenuto, mentre più sono lunghe e più il ritmo si distende. 62 Solitamente le scene d’azione sono costruite su inquadrature più brevi rispetto alle scene meno forti a livello spettacolare. Nel cinema moderno e postmoderno questo si può rovesciare. Il montaggio lavora il film nelle sue grandi articolazioni narrative, passando dal livello intrasequenziale a quello intersequenziale. Il montaggio consente di determinare il rapporto tra l’ordine degli eventi della storia o fabula e quello dell’intreccio. In un racconto gialli l’ordine degli eventi della storia può essere il seguente: 1. A tradisce B 2. B uccide A 3. B è ricercato dalla polizia 4. B è arrestato e confessa L’intreccio della storia però potrà dar vita a questa successione: 3. B è ricercato dalla polizia 4. B è arrestato e confessa 1. A tradisce B 2. B uccide A Il cinema classico tendenzialmente preferisce una struttura lineare e cronologica. L’unica eccezione è quella rappresentata dall’uso dei flashback, che possono essere divisi in due categorie: 1. Diegetici → prendono vita dalle parole o dai pensieri di un personaggio che racconta o che ricorda qualcosa avvenuto in passato 2. Narrativi → propri dell’istanza narrante che, senza la mediazione di un personaggio, racconta un episodio passato in un tempo successivo. Solo in questo secondo caso si può parlare di una disarticolazione dell’ordine della storia da parte dell’intreccio. Più raro del flashback è il flashforward. Quelli diegetici sono quasi impossibili, infatti abbiamo quasi sempre flashforward narrativi. A livello intersequenziale, il montaggio introduce, nel tessuto narrativo di un film, delle ellissi. Il passaggio da una scena o sequenza ad un’altra implica un salto temporale che, a seconda dei casi, potrà essere più o meno marcato. A differenza delle ellissi tecniche, quelle intersequenziali (che possiamo definire ellissi narrative) sono esplicite e più evidenti agli occhi dello spettatore. Possono omettere ipotetici fatti irrilevanti alla costruzione della storia e alla caratterizzazione dei personaggi, ma possono anche tenere nascosti elementi importanti del racconto, che potranno successivamente essere rivelati attraverso un flashback o un dialogo tra i personaggi. Solitamente, quando un film tende a omettere elementi importanti di una narrazione, sia a livello intrasequenziale sia sul piano intersequenziale, si parla di montaggio ellittico. Questo tipo di montaggio invita lo spettatore alla partecipazione attiva, a lavorare con l’immaginazione. L’ellissi agisce nel tempo assumendo le stesse funzioni proprie del fuori campo, che, al contrario, agisce nello spazio. Un particolare caso di montaggio ellittico è quello della sequenza a episodi o di montaggio, che allinea un certo numero di brevi scenette, separate nella maggior parte dei casi le une dalle altre da effetti ottici, e che si succedono in ordine cronologico. Ognuna di queste brevi scene è parte di un insieme più ampio che si svolge in una certa direzione narrativa di cui noi cogliamo il senso proprio attraverso questa successione di brevi evocazioni. 65 Il passaggio da un’inquadratura A a un’inquadratura B deve avere una ragione, deve rappresentare ciò che sta accadendo. Gli stacchi devono essere motivati: trasferire l’attenzione su un’altra immagine quando la prima avrebbe potuto servire egualmente bene è del tutto inutile. Sostiene ancora che se lo stacco segna uno sviluppo drammatico importante di solito risulta drammaticamente e narrativamente efficace, ma in un contesto diverso lo stesso stacco potrebbe essere avvertibile e inaccettabile. Nel découpage classico la rappresentazione che il montaggio dà dello spazio e del tempo è subordinata alle esigenze della narrazione e alla chiarezza della sua esposizione. Il cinema americano classico ha rapidamente messo a punto un modello di narrazione in cui découpage/montaggio rispettava l’unità di azione, luogo e tempo, e includeva uno spettatore invisibile situato in ogni piano nel migliore punto di vista possibile. Il montaggio deve anche essere invisibile o insensibile. Un altro principio chiave del découpage classico è la continuità, il cui fine primario è di controllare la forza disgregatrice del montaggio, per dar vita ad uno scorrevole flusso d’immagini da un’inquadratura a un’altra e facilitare così la proiezione dello spettatore nel mondo della finzione. Nel corso degli anni Dieci si afferma l’idea che il montaggio debba assicurare la continuità narrativa all’interno di un modello di rappresentazione che deve raccontare in modo chiaro e coerente una storia. controllare la forza disgregatrice del montaggio significava cercare di dare il massimo di scorrevolezza possibile al passaggio da un’inquadratura all’altra, e questo avveniva tramite alcuni accorgimenti, come la costanza e l’omogeneità dell’illuminazione e la centralità dei personaggi in rapporto allo spazio inquadrato. Importante è anche il ruolo del raccordo, il cui compito è quello di mantenere degli elementi di continuità tra un piano e l’altro, in maniera che ogni mutamento di inquadratura si dia nel modo meno evidente possibile. Alcuni tipi di raccordo sono: • Raccordo di sguardo → un’inquadratura ci mostra un personaggio che guarda qualcosa, quella successiva ci mostra questo qualcosa • Raccordo sul movimento → un gesto iniziato dal personaggio nella prima inquadratura si conclude nella seconda • Raccordo sull’asse → due momenti successivi di un’azione sono mostrati in due inquadrature, la seconda delle quali è ripresa sullo stesso asse della prima, ma più vicina o più lontana • Raccordo sonoro → una battuta di un dialogo, un rumore o una musica si sovrappone a due inquadrature Esempio: Colazione da Tiffany di Blake Edwards, 1961 – pag. 212 Il montaggio qui è utilizzato per accentuare gli elementi di continuità tra un’inquadratura e l’altra. Dei nove stacchi che articolano la scena in considerazione (quella in cui Paul sta scrivendo e sente una voce femminile nel fuori campo, Holly che sta cantando sulla finestra), sette sono costruiti su raccordi di sguardo, movimento o d’asse. Inoltre, la canzone che canta Holly funziona anche come raccordo sonoro che contribuisce a legare tra loro tutte le prime otto inquadrature del segmento. Altri elementi di continuità sono gli oggetti profilmici che mettono in cornice i due personaggi (la scala antincendio per Paul e la finestra per Holly), collocati al centro dei piani. Anche il gioco delle angolazioni contribuisce alla continuità generale del segmento, dal momento che tutte le inquadrature di Holly sono riprese dall’alto, così come quelle di Paul sono riprese dal basso. Un altro aspetto importante è quello del meccanismo di drammatizzazione tipico del découpage classico, di costruzione del climax, inteso come un crescendo graduale degli effetti stilistici e retorici che portano al momento forte di una sequenza narrativa. In questa scena, il climax si costruisce attraverso il processo di avvicinamento progressivo a quel momento forte, tipico del cinema hollywoodiano, che è l’enunciazione del primo piamo della star. In questo caso lo troviamo nell’ottava inquadratura, il primo piano di Holly, e ci 66 arriviamo grazie ad un graduale processo di intensificazione della presenza nel campo visivo e sonoro di Holly. Il climax procede così: 1. Nella prima inquadratura sentiamo le note di Moon River suonate da una chitarra – elemento sonoro che rinvia alla presenza di Holly, ma non possiamo leggere come tale perché non sappiamo se questa musica è intradiegetica o extradiegetica 2. Nella seconda inquadratura sentiamo una voce femminile che lo spettatore può riconoscere come quella di Holly, ma non possiamo ancora essere sicuri che nel fuori campo di questa inquadratura ci sia Holly. 3. L’interrompersi del ticchettio e del movimento dei tasti della macchina di Paul ci suggerisce che anche lui ha sentito qualcosa e questo lo ha portato ad interrompere il suo lavoro. Riusciamo a “leggere” Holly nelle parole del racconto di Paul. 4. Paul guarda verso la finestra, si alza, si avvicina, la apre e si affaccia sull’esterno. Grazie a questo movimento capiamo che nel fuori campo c’è proprio Holly, l’abbiamo sentita, letta e ora dobbiamo solo vederla. 5. L’inquadratura successiva ritarda ancora l’enunciazione della sua immagine, mostrandoci Paul affacciato alla finestra. L’elemento chiave è la posizione della macchina da presa, che si trova non più nella stanza di Paul, ma all’esterno del palazzo, a metà strada tra Paul e la ragazza. Non vediamo ancora Holly, ma siamo più vicini a lei di quanto non lo siamo mai stati. 6. Le successive due inquadrature ci mostrano finalmente Holly, si avvicinano progressivamente a lei tramite un raccordo sull’asse che passa da una figura intera ad una mezza figura. 7. La successiva inquadratura ci mostra ancora Paul affacciato alla finestra. Questa inquadratura è importante per diverse ragioni: a. Il passaggio diretto dalla figura intera, alla mezza figura e poi al primo piano di Holly, avrebbe implicato un doppio e consecutivo raccordo sull’asse che il découpage classico cerca di evitare. b. Il ritorno a Paul prima di mostrare il primo piano di Holly ribadisce il carattere soggettivo della scena nel suo complesso, la centralità del punto di vista del giocane. Noi stiamo vedendo un giovane uomo che guarda la ragazza di cui è innamorato, non una ragazza che canta una canzone. c. Questa inquadratura introduce un momento di pausa nel progressivo procedere della scena, che consente di ritardare il suo climax e metterlo meglio in risalto. d. Il piano di Paul è un collegamento che ci permette di passare dalla figura intera (Holly), alla mezza figura (Holly), al mezzo primo piano (di Paul) e poi al primo piano (Holly). Un altro aspetto chiave del découpage classico è il sistema dello spazio a 180°. Prendiamo ad esempio una scena di dialogo costruita sul campo-controcampo, quella che mostra alternativamente i due personaggi che dialogano. La scena è avviata con un’inquadratura di insieme dei due personaggi (1). Questo presenta coloro che prendono parte alla scena e stabilisce anche lo spazio nel quale può collocarsi la macchina da presa. La linea d’azione immaginaria che unisce i personaggi determina due spazi: uno al di là e uno al di qua della linea. Una volta che la macchina da presa ha occupato lo spazio al di qua, non potrà più scavalcare questa linea, dando vita così ad uno spazio che non è a 360° ma a 180° e facendo in modo che lo spettatore rimanga sempre dalla stessa parte dell’azione. In questo modo, ognuno dei personaggi sarà inquadrato singolarmente (2-3): se lo sguardo del primo è rivolto verso destra, quello del secondo sarà rivolto a sinistra, in modo tale da far capire che i due si stanno guardando. Se questa regola venisse infranta (scavalcamento di campo) tramite uno sbagliato posizionamento della macchina da presa (X), i personaggi finirebbero per guardare 67 non più l’un l’altro, ma nella stessa direzione. Inoltre, il passaggio da 1 a 2 offre il vantaggio di assicurare uno spazio comune, dal momento che 2 mostra uno sfondo che si sovrappone parzialmente a 1. L’uso dello spazio a 180° determina l’esistenza di altri tre raccordi chiave del cinema classico: • Raccordo di posizione → due personaggi ripresi in un’inquadratura uno e destra e l’altro a sinistra devono mantenere la stessa posizione nell’inquadratura successiva • Raccordo di direzione → un personaggio che esce di campo a destra deve rientrare a sinistra nell’inquadratura successiva • Raccordo di direzione di sguardi → nel corso del dialogo tra due personaggi, la macchina da presa è sempre posizionata in modo da far sì che, quando uno dei due personaggi viene inquadrato singolarmente, il suo sguardo si rivolga verso l’altro personaggio Quello che accomuna questi raccordi è la preoccupazione di rappresentare chiaramente lo spazio, in modo che lo spettatore possa capire la disposizione dei personaggi nello spazio. Esempio: Colazione da Tiffany di Edwards, 1961 Holly deve dire addio a Doc, il suo primo marito. (1) Doc, Holly e Paul in mezza figura. Holly dice a Paul di lasciarla sola con il marito e la macchina da presa si avvicina ai due personaggi. Questo piano serve a stabilire la linea immaginaria che unisce i due interlocutori, Doc a destra e Holly a sinistra. Il movimento di macchina in chiusura che si avvia dopo l’uscita di Paul è interessante: il restringimento di campo che esso opera serve ad eliminare quella porzione di spazio vuoto a sinistra di Holly, precedentemente occupato da Paul. Questo movimento serve anche a stabilire un rapporto di continuità con l’inquadratura successiva, con Doc in primo piano. (Da 2 a 8) Primi piani di Doc e Holly in campo-controcampo. I primi piani ci mostrano chi parla o chi ascolta in base alla volontà di mettere in rilievo quel che viene detto o sentito. Lo sfondo dei piani è sfocato (effetto flou), secondo una tecnica del cinema classico che mira a mettere in rilievo il volto rispetto all’ambiente. Lo sfondo di Doc rimane quello della prima inquadratura (continuità di passaggio fra le prime due immagini), mentre quello di Holly è nuovo e mostra un chiosco di dolciumi. La diversità dei due sfondi ha una funzione drammatico-psicologica che caratterizza i due personaggi: Holly con uno sfondo variegato e multicolore, Doc con uno sfondo omogeneo e grigio. Doc guarda sempre verso sinistra e Holly verso destra. (9) Piano d’insieme di Doc e Holly in mezza figura, si spostano leggermente verso sinistra. Il passaggio alla nona inquadratura è mascherato da un effetto diegetico, ovvero l’irruzione alla fine del piano precedente di un passeggero che si infila dietro ai due per ritirare un bagaglio chiedendo scusa. Questo serve per creare un momento di distrazione per lo spettatore, che permette così di rendere invisibile lo stacco che chiude il piano. Il personaggio passerà di nuovo davanti ai personaggi alla fine dell’inquadratura, nascondendo anche il passaggio al piano successivo e alla serie dei nuovi campi e controcampi. Il rispetto della regola dei 180° mantiene immutata la posizione dei personaggi della prima inquadratura. (10-11) Campo e controcampo di Holly e Doc. Queste inquadrature sono diverse rispetto ai campi-controcampi precedenti. Infatti i piano che si alternano non sono più piani ad un solo personaggio, ma a due: di uno si vede il volto, dell’altro solo parte della nuca, del profilo e delle spalle. (12-15) Campi e controcampi di Doc e Holly in primissimo piano e singolarmente. Abbiamo sempre i personaggi ripresi singolarmente come all’inizio, ma in questo caso si fa ricorso al primissimo piano anziché il primo piano. Questo simbolizza l’intensificarsi drammatico del dialogo, il dolore 70 Ejzenštejin fa l’esempio di Ottobre. L’ascesa di Kerenskij al potere e alla dittatura dopo luglio 1917. L’effetto comico in questo caso viene ottenuto montando insieme didascalie di cariche (dittatore, generalissimo, ministro della marina e dell’esercito…) sempre più alte con 5-6 pezzi della scala del Palazzo d’Inverno su cui Kerenskij percorre ogni volta sempre lo stesso tratto. Il conflitto tra continuare a salire le scale e il rimanere sempre allo stesso punto produce una risultante intellettuale: il discredito satirico di quei titoli in rapporto alla nullità di Kerenskij. Altro esempio sempre di Ottobre: Konrilov marciò contro Pietrogrado con la parola d’ordine “in nome di Dio e della patria”. Qui il conflitto si svolge tra il concetto di “divinità” e la sua simbolizzazione. Mentre nell’immagine del Cristo barocco concetto e raffigurazione sono in accordo, i due elementi si discostano sempre più ad ogni immagine. Si mantiene il concetto di “Dio” e lo i rappresenta con immagini che non corrispondono alla nostra intuizione di tale concetto. Conflitto tra un concetto dato e il suo processo di discredito tramite una visualizzazione. Per Ejzenštejin il montaggio è il principio fondamentale del processo di significazione cinematografica. Non riguarda solamente ei rapporti tra i piani, ma è anche uno stadio dell’inquadratura. Il conflitto compositivo all’interno dell’inquadratura è il nucleo, una cellula di montaggio. L’inquadratura deve mettere in gioco gli stessi elementi di conflitto propri del montaggio ed essere strutturata in base alle inquadrature che la precedono e che la seguono. Il montaggio assume un ruolo centrale anche sul piano della costituzione dei rapporti audiovisivi: si tratta di andare al di là della semplice rappresentazione per entrare nella sfera dell’interpretazione, il rapporto tra suono e immagine non deve limitarsi alla riproduzione del reale ma deve darcene il senso. Il montaggio ejzenstejniano è un montaggio che si struttura sulla base del conflitto, che si dà in tutta la sua evidenza e il cui fine principale è quello della significazione. Esempio: Ottobre di Ejzenštejin, 1927 Un altro esempio tratto da questo film è la sequenza del pavone meccanico e dell’ingrasso di Kerenskij nella sala del trono degli zar. Il fine ideologico del segmento è quello di sottolineare la lontananza di Kerenskij dagli autentici ideali rivoluzionari e il suo rapporto di continuità con il regime zarista. Ejzenštejin si affida al montaggio, attraverso cui mette in rapporto diverse serie di immagini al centro delle quali ci sono quelle dedicate a Kerenskij che varca la soglia della sala degli zar. I modi in cui il montaggio determina il senso della situazione sono quattro: 1. La frammentazione operata sul corpo di Kerenskij. Egli ci è mostrato nella sua totalità solo all’inizio e alla fine del sintagma, le altre inquadrature ce ne danno solo scorci parziali di due tipi diversi: i piani ravvicinati della mano sinistra dietro la schiena che stringe un guanto di pelle e quelli degli eleganti stivali che si muovono avanti e indietro. Queste inquadrature sottolineano il nervosismo dell’uomo e la tensione nel prendere possesso di un luogo che è lo spazio del potere. 2. Connessione tra la serie di Kerenskij a quelle di altri elementi diegetici che fanno parte dell’ambientazione. Per esempio, i piani ravvicinati dei funzionari di palazzo che ammiccano fra loro nel notare il nervosismo di Kerenskij e gli ufficiali colti in pose statuarie per sottolineare la durezza del potere. Importante è anche la serie degli stemmi della dinastia zarista. Burocrazia, esercito e tradizione: questo è il senso delle tre serie di immagini che vengono associate ai guanti e agli stivali di Kerenskij per indicare il rapporto di continuità tra presente e passato. 3. L’elemento messo in gioco non fa parte dell’ambiente in cui si svolge l’azione ma è collocato in uno spazio altro che il film non esplicita. È un elemento extradiegetico. Si tratta del pavone meccanico che, dopo alcune inquadrature introduttive, aprirà la propria coda ruotando su se stesso nel momento in cui Kerenskij entrerà nella sala. Questo spiega il senso delle inquadrature che frammentano il corpo di Kerenskij, infatti indica il pavoneggiarsi del personaggio e la sua tensione 71 nervosa di fronte alla conquista del potere sognato e vissuto all’insegna di un prestigio individuale che non ha nulla a che vedere con gli ideali della rivoluzione a venire. Questo suggerisce anche la presenza di un’istanza narrante che non si limita a rappresentare ma che si avvale di ogni strumento per strappare al rappresentato il suo senso più autentico. 4. Il quarto livello lavora a livello temporale nel momento in cui, climax della sequenza, si apre la porta d’accesso alla sala del trono. L’apertura della porta è ripetuta in quattro inquadrature, riprese ognuna da un punto di vista diverso e sempre più ravvicinato. Il culmine dell’episodio è enfatizzato attraverso un processo iterativo e di dilatazione temporale del tutto privo di preoccupazione di verosimiglianza. Quest’analisi fa emergere due aspetti essenziali del montaggio ejzenstenjiano: la dimensione esplicita e la funzione semantica. Anche la dimensione conflittuale gioca un ruolo di primo piano: conflitto fra personaggi e oggetti, fra volti e altre parti del corpo, fra eccesso di espressività dei funzionari e la statuaria posizione degli ufficiali, fra immagini diegetiche e immagini extradiegetiche, fra diversi punti di vista di uno stesso elemento o evento… La sequenza è in grande contrasto con il découpage classico. L’ambiente è ricostruito in modo frammentato, i personaggi non vengono rappresentati in un piano d’insieme, il pavone meccanico non vi fa parte, eppure viene filmicamente inserito a forza, il tempo della rappresentazione è superiore a quanto si rappresenta. Anche l’ordine di successione dei piani è ambiguo: ciò che viene dopo nella serie discorsiva delle inquadrature non sembra venire dopo anche a livello della storia, tanto che la sequenza potrebbe essere rimontata in mille altri modi senza perdere intelligibilità. La successione dei piani non è dettata da una logica di verosimiglianza o chiarezza d’esposizione narrativa, quanto piuttosto da una libera ed arbitraria volontà di significazione. Un esempio di montaggio semantico dalla funzione connotativa si può trovare in 2001: odissea nello spazio di Stanley Kubrick, 1968. Ci troviamo in un’epoca preistorica, la terra è ancora abitata da soli animali, tra cui scimmie antropoidi presunte antenate dell’uomo. L’episodio preso in considerazione costituisce il climax dell’intero prologo ed è quello in cui “Guarda la luna”, una delle scimmie, scopre che l’osso di uno scheletro può diventare uno straordinario strumento d’offesa, col quale aggredire e sottomettere al proprio dominio le altre specie animali. Kubrick organizza discorsivamente questo episodio, che ricopre un ruolo di primo piano per la comprensione del film. 1. Campo lungo di un paesaggio quasi desertico nel quale si muovono alcune scimmie, tra cui “Guarda la luna”. 2. Figura intera di “Guarda la luna”, al entro del piano, inquadrata frontalmente e ad altezza sguardo. La scimmia si mette a rovistare tra le ossa di uno scheletro animale, e tutto d’un tratto alza la testa come se si stesse rendendo conto di qualcosa. Abbiamo qui il modello classico dell’avvicinamento progressivo attraverso il passaggio dal campo lungo alla figura intera che mette in rilievo il personaggio più importante. Le scimmie in secondo piano lasciano il campo al protagonista, in modo che lo spettatore non possa concedersi distrazioni. Lo stacco che porta dalla prima alla seconda inquadratura è esempio di continuità costruita da un raccordo sul movimento di “Guarda la luna” che avanza verso sinistra. 3. Ravvicinato di un monolite nero, inquadrato dal basso → immagine ambigua che non possiamo ancora interpretare. 4. Figura intera di “Guarda la luna”, che abbassa e solleva il capo più volte guardando le ossa a terra e poi distogliendo lo sguardo come a voler continuare il suo ragionamento. Parte “Così parlò Zarathustra” di Strauss. “Guarda la luna” afferra un osso di grandi dimensioni e comincia a colpire le ossa rimaste a terra. 72 A questo punto si alternano immagini del particolare della zampa di “Guarda la luna” riprese dal basso e a rallentatore, figure intere dal basso di “Guarda la luna” che colpisce le ossa a terra con il suo, ravvicinati di un grosso animale che stramazza al suolo e dettagli di pezzi di scheletri mandati in frantumi dai colpi di “Guarda la luna”. Qui, il gioco delle angolazioni dal basso, l’inno al superuomo e lo slow motion concorrono insieme nel dare la necessaria enfasi all’azione rappresentata. L’inquadratura della zampa di “Guarda la luna” che brandisce l’osso e quella dell’osso che si abbatte su dei pezzi di scheletro e li manda in frantumi legano tra loro una causa e un effetto. Successivamente a queste inquadrature, abbiamo una serie di inquadrature che rompono questa continuità, dal momento che vediamo solamente i pezzi di scheletro che vengono frantumati, mettendo la prima parte del gesto di “Guarda la luna” in ellissi. Questa rapida successione di piani da un lato intensifica il ritmo dell’azione, dall’altro dà vita ad una dialettica che gioca sul contrasto tra tale brevità e l’estensione temporale determinata dall’uso di immagini rallentate. Le due inquadrature degli animali che stramazzano al suolo sono interpretabili come la conseguenza diretta della scoperta di “Guarda la luna”, ovvero la possibilità grazie all’osso-strumento-arma di prendere il sopravvento sulle altre razze animali. Importante è anche il montaggio che porta all’immagine del monolite. Bisogna prendere in considerazione il significato del monolite in sé, che è un totem. È immagine del divino, simbolo di ciò che è oltre, dell’uomo che è oltre la scimmia e di Dio che è oltre l’uomo. Il monolite è metafora del divenire che è un oltrepassare, infatti appare nel momento in cui “Guarda la luna” inizia a rendersi conto della possibilità di trasformare un semplice osso in uno strumento di offesa, indica così il punto di inizio di un’evoluzione che porterà dalla scimmia all’uomo e dall’uomo a quell’oltre-uomo che il film significherò nell’inquadratura finale con l’immagine di un feto vagante nello spazio. Kubrick determina il senso dell’episodio associando la nascita della tecnica e l’origine della specie umana da un lato a un atto di violenza e sopraffazione, e dall’altro indicando l’avviarsi di un processo d’oltrepassamento. La funzione semantica del montaggio è evidente anche nella chiusa del prologo preistorico del film, quando “Guarda la luna” getta in aria il suo osso, che la macchina da presa seguirà e poi un’ellisse ci porta nel futuro, mostrandoci un’astronave la cui forma e dimensione filmica è simile a quella dell’osso. Il montaggio formale Il rapporto tra due inquadrature può essere nel contempo narrativo, semantico e anche estetico. Chi analizza il film deve capire se e come una di queste funzioni prevale sulle altre. La funzione estetica del montaggio è quella che tende a porre in primo piano degli effetti di tipo formale, attraverso l’accostamento di immagini che instaurano fra loro un rapporto di volumi, superfici, linee, punti, al di là della concreta natura degli elementi rappresentati. Il montaggio formale ha trovato nel cinema d’avanguardia degli anni Venti uno dei suoi momenti di massima intensità. Uno dei più importanti autori della storia del cinema che ha elaborato un modello di rappresentazione alternativo a quello classico è Yasujirô Ozu. Esempio lampante è il suo modo di riprendere i dialoghi, che gioca proprio sulla ricerca di associazioni e sovrapposizioni di tipo formale. Egli rifiuta i modi usuali del campo e controcampo, ponendo la sua macchina da presa non a fianco degli interlocutori, ma proprio sull’immaginaria linea che li unisce. Esempio: Fiori d’equinozio di Ozu, 1958 La scena presa in considerazione è uno dei tanti dialoghi tra la giovane coppia di fidanzati Taniguchi e Setsuko. I due sono seduti a terra nella stanza del giovane, Ozu li riprende a uno a uno, ponendo la macchina da presa sulla linea che li unisce e inquadrandoli così frontalmente, in modo che non guardino l’uno in una direzione e l’altro nell’altra, ma tutti e due verso la macchina da presa. Le inquadrature della donna sono più ravvicinate di quelle dell’uomo, questo in modo che il suo volto occupi la stessa porzione di spazio sullo schermo occupata dall’uomo, e in modo anche che le dimensioni dello spazio vuoto sopra alle teste di entrambi sia pressoché uguale. 75 Il montaggio discontinuo può anche riguardare modalità temporali del racconto, come quelle contenti l’ordine (degli eventi) e la loro frequenza. Esempio: Il bandito delle ore undici di Jean-Luc Godard, 1965 Ferdinand ha appena conosciuto Marianne, una donna che frequenta una banda a metà strada tra politica e gangsterismo. I due trascorrono la notte insieme e si trovano nell’appartamento di Marianne, ma ad un certo punto arriva un uomo, così i due lo eliminano e fuggono. La sequenza della fuga è un esempio di scardinamento dei modi classici di organizzazione dell’ordine e della frequenza temporali. La sequenza si articola su alcuni momenti ben precisi: i due sulla terrazza, la discesa lungo la grondaia, la salita sull’auto, la corsa lungo le strade di Parigi. Questi quattro momenti, però, non sono rappresentati nel film secondo la loro successione cronologica, ma attraverso un gioco di continui salti avanti e indietro. Per esempio, l’inquadratura in cui vediamo Ferdinand salire sull’auto guidata da Marianne è seguita da un’inquadratura che mostra i due ancora sulla terrazza. Inoltre, alcuni piani si ripetono a distanza l’uno dall’altro (es: salita in macchina). Esempio: Harry a pezzi di Woody Allen, 1997 Si riprende uno scardinamento dei principi di ordine e frequenza nella scena che accompagna i titoli di testa del film. i movimenti di una donna, che scende da un taxi e si avvicina ad un’abitazione, non sono mostrati nella loro naturale successione, ma in un gioco di continui jump cut che corrono avanti e indietro nel tempo e che fanno sì che ciò che è accaduto prima possa essere mostrato dopo e viceversa, e anche che singoli gesti compiuti dalla donna una sola volta possano essere mostrati più volte. Un’altra possibilità di manipolazione del tempo riguarda il piano della durata. Alternativa al cinema classico è la pratica dell’estensione, dove la durata della rappresentazione è superiore a quella dell’evento rappresentato. Un esempio è Ottobre, attraverso la ripetizione in quattro inquadrature di uno stesso evento: l’apertura della porta della sala degli zar. Un altro tipo di estensione è quello della sovrapposizione temporale o overlapping editing, in cui l’inquadratura B non inizia dove finisce A, ma un po’ prima, in questo modo il piano B ripete l’ultima parte del movimento rappresentato in A. Approfondimento: Più veloce del vento. Il montaggio nel cinema contemporaneo Una delle differenze tra il cinema contemporaneo rispetto al cinema del passato è la sua velocità, l’uso di inquadrature molto brevi e la moltiplicazione degli stacchi. Il cinema contemporaneo è tornato, con un livello tecnico superiore, a quelle vertigini di montaggio che avevano segnato radicali esperienze del cinema d’avanguardia degli anni Venti del secolo scorso. Bordwell offre degli interessanti dati statistici sulla durata media delle inquadrature nei diversi periodi della storia del cinema hollywoodiano. Dal 1930 al 1960 i film comprendevano fra le 300 e le 700 inquadrature, con una durata media dei piani tra gli 8 e gli 11 secondi. Negli anni Settanta e Ottanta, questa media scende fra i 5 e gli 8 secondi, con un innalzamento del numero delle inquadrature, prima a 1500, poi a 2000 e poi a 3000. Quest’impennata ritmica del cinema hollywoodiano è stata influenzata anche da un cinema d’azione hongkongese, e trova il suo apice nelle scene di maggior spettacolarità, quelle di sparatorie e di inseguimenti, con inquadrature sempre in movimento, fatte di travelling e macchina a mano, angolazioni ardite ed effetti di montaggio bruschi. La rapidità del montaggio non riguarda solo le scene d’azione, ma anche momenti più pacati del racconto, come per esempio le scene di dialogo. Il montaggio proibito: profondità di campo e piano sequenza Bazin dà vita ad un’altra concezione del montaggio, anzi addirittura ad una sua negazione, che si oppone ai modelli forti finora esaminati, in particolare a quelli del découpage classico e del montaggio ejzenstejniano. 76 Questi due modelli appaiono quasi antitetici, ma hanno una somiglianza: entrambi danno vita ad un rapporto coercitivo nei confronti dello spettatore. Uno impone gli aspetti più importanti dell’evento narrato e li mette in evidenza, l’altro costruisce il senso di ciò che rappresenta. In entrambi i casi, lo spettatore si trova di fronte a qualcosa di totalmente precostruito e definito in modo univoco e non deve fare altro che registrarlo. Tanto il cinema ejzenstejniano che quello hollywoodiano decidono che cosa mostrare allo spettatore, come mostrarlo, per quanto tempo e in che ordine. L’ipotesi di Bezin si fonda su due postulati di base: 1. Il primo individua come vocazione ontologica del cinema la rappresentazione del reale nel rispetto delle sue caratteristiche essenziali 2. Il secondo vuole che nella realtà nessun avvenimento sia dotato di un senso determinato a priori, che il reale sia caratterizzato da un’immanente ambiguità Da ciò consegue che, nel rappresentare la realtà, il cinema deve saperne rispettare l’ambiguità, e per questo deve andare oltre il montaggio, dal momento che “il montaggio si oppone essenzialmente e per sua natura all’espressione dell’ambiente”, forzandola nella direzione di un senso ben determinato. Bazin arriva a parlare di montaggio proibito ogni volta che “l’essenziale di un avvenimento dipende dalla presenza simultanea di due o più fattori dell’azione”, ovvero quando il cinema classico ricorre a soluzioni quali quelle del campo e controcampo o del montaggio alternato. Sempre secondo Bazin, il cinema deve riprodurre il mondo reale nella sua continuità fisica ed evenemenziale, nel rispetto fotografico della continuità spazio-temporale. Ci sono due modalità espressive nell’ambito dei parametri che costituiscono il linguaggio cinematografica: profondità di campo e piano sequenza. 1. Profondità di campo → un’immagine in profondità di campo è un’immagine in cui tutti gli elementi rappresentati, sia quelli in primo piano che quelli di sfondo, sono perfettamente a fuoco. Essa sarà maggiore quanto più distanziati saranno lo sfondo e il primo piano e quanto più quest’ultimo sarà vicino all’obiettivo. Per messa in scena di profondità si intende la disposizione degli oggetti e dei personaggi su più piani e il loro reciproco interagire. Già i primi film di Lumière ne facevano grande uso, ma alla fine del muto questo procedimento cade nell’oblio. Questo a causa dell’avvento della pellicola pancromatica, meno sensibile alla luce di quella ortocromatica, e quindi richiedeva una maggiore apertura del diaframma che determinava delle immagini con una messa a fuoco parziale e degli effetti di sfocatura. Secondo Bazin, alla base dell’abbandono dell’immagine in profondità non ci sono ragioni tecniche, ma dice che la sfocatura è conseguenza del montaggio. Se ad un certo punto il regista vuole fare il dettaglio di qualcosa, normalmente isolerà il dettaglio anche nello spazio mediante una messa a fuoco dell’obiettivo, e lo sfondo sfocato conferma dunque l’effetto montaggio. Il ricorso all’effetto flou non va interpretato come un abbandono della verosimiglianza dell’immagine cinematografica, quanto come il segno del trasferimento delle condizioni di credibilità della rappresentazione filmica dal piano della singola immagine a quello delle forme del racconto, della verosimiglianza psicologica, della continuità spazio-temporale. All’inizio degli anni Quaranta torna ad affermarsi questo tipo di messa in scena anche grazie a Quarto potere. Bazin sostiene che la profondità di campo è un’acquisizione capitale della regia, un progresso dialettico nella storia del linguaggio cinematografico. Pone lo spettatore in un rapporto con l’immagine più vicino a quello che ha con la realtà, ed è invitato a fare da sé il proprio découpage. Questo perché, nel caso del montaggio analitico, lo spettatore deve solo seguire la guida, mentre in questo caso è richiesto un minimo di scelta personale. Dall’attenzione e dalla volontà dello spettatore dipende in pare il fatto che l’immagine abbia un senso. La profondità di campo reintroduce l’ambiguità nella struttura dell’immagine almeno come possibilità. 77 • Approfondimento: Il cinema in 3D La profondità di campo godrà di un particolare sviluppo con le tecniche legate al cinema tridimensionale, che possono esaltarne le caratteristiche visive. Il cinema postmoderno è ossessionato dallo stesso problema del cinema classico: come fare perché lo spettatore sia nel film e si immerga nella storia? Uno degli obiettivi del cinema postmoderno è la totale immersione attraverso la realizzazione del 3D. infatti, un travelling a velocità elevata in una scenografia in cui è necessario superare degli ostacoli, è più efficace in 3D, grazie a cui l’immagine supera lo schermo, nel senso che esce da esso in direzione della sala, sviluppando in essa l’ambientazione del film. La storia del 3D precede quella dello stesso cinema, dal momento che si inizia con il dispositivo di visione stereoscopica messo a punto da Wheatstone nel 1838. Hollywood ha tentato più volte la strada del cinema stereoscopico. La prima negli anni Cinquanta, in cui il cinema tentò di accentuare la propria spettacolarità per difendersi dalla concorrenza televisiva. Si va al cinema con gli appositi occhialini con cui gli spettatori possono vedere il film in 3D. Un altro tentativo è quello degli anni Settanta e Ottanta. Perciò, il 3D digitale che ancora prevede l’uso degli occhialini, è la terza ondata della storia del cinema stereoscopico, il cui campo di utilizzo è principalmente quello del cinema di animazione, a cui però sono seguiti anche film dal vero. Il cinema in 3D potrà dare sviluppo al lavoro sulla profondità di campo e al montaggio di inquadrature in profondità, e potrà scolpire l’immagine uscendo da una dimensione pittorica per entrare in una scultorea. 2. Piano sequenza → è un piano che da solo svolge le funzioni di una sequenza o scena. Rappresenta un evento o una serie di eventi caratterizzati da una relativa autonomia nel contesto narrativo del film. Si tratta dell’equivalente di una somma di inquadrature su cui si articola una sequenza. Il piano sequenza si caratterizza per il suo rifiuto del montaggio, quel che nel cinema tradizionale avveniva tramite la successione di più inquadrature, qui si dà in un unico piano. Perciò, il piano sequenza a livello temporale e la profondità di campo a livello spaziale rappresentano una messa in discussione della centralità che il montaggio aveva assunto nel corso degli anni Venti e Trenta. Gli americani si riferiscono al piano sequenza con long take, ovvero quelle inquadrature che esibiscono nel loro perdurare un’evidente volontà di rifiuto del montaggio. Queste inquadrature nascono con il cinema stesso, infatti i primi film di Lumière e Méliès sono realizzato in un’unica inquadratura, e sono perciò dei piani sequenza. Con l’emergere del montaggio in continuità le inquadrature si fanno sempre più brevi, ma nel corso della storia del cinema ci sono registi che hanno preferito ricorrere a inquadrature dalla durata maggiore di quella media, imponendo una tendenza che si è diffusa coì a partire dalla fine degli anni Trenta. Non è un caso che gli stessi registi che hanno fatto uso della profondità di campo ricorrano anche al piano sequenza, dal momento che la messa in scena in profondità dà tendenzialmente vita a delle inquadrature più complesse e articolate che impongono un tempo di lettura maggiore di quelle del cinema classico. Profondità di campo, long take e piano sequenza fanno dell’inquadratura un’unità di grande significanza formale. Si può dire quindi che l’inquadratura di un film a découpage classico ha uno e un solo significato, mentre un piano sequenza o un’inquadratura in profondità presenta più significati. Secondo Bazin, il piano sequenza, nel suo mantenere la continuità spazio-temporale, determina un maggiore realismo e quindi riporta il cinema alla sua vera natura ontologica. Lo spazio non è più temporalizzato e frammentato, ma è rappresentato per blocchi unitari e siamo noi a doverne cogliere gli elementi significanti. A differenza del découpage classico, piano sequenza e profondità di campo danno allo spettatore la possibilità di essere lui a decidere. Infatti, nel caso del découpage classico vediamo tutti lo stesso film perché siamo guidati, mentre nel secondo caso ognuno fa da sé il proprio découpage, dando un proprio significato. Ci sono due osservazioni critiche riguardo queste affermazioni di Bazin. 80 Tra i due nessuna parola e nessun contatto, come se ci fosse un muro a dividere i due spazi che occupano. A rendere ancora più drammatica la scena, il levarsi di un sibilo metallico che si fa sempre più intenso, fastidioso, lacerante, quasi un urlo extradiegetico di rabbia impotente. Un piano sequenza fisso, lo sguardo dello spettatore è liberato da ogni imposizione e può concentrarsi come vuole tra l’immagine della donna e quella dell’uomo. Esempio: Scarface di Howard Hawks, 1931 Questo è un esempio di piano sequenza che invece sfugge alla logica di Bazin. Siamo di fronte ad una lunga inquadratura costruita attraverso elaborati movimenti di macchina, la cui logica è quella di evidenziare di volta in volta gli elementi diegetici di maggiore importanza: piano sequenza e movimenti di macchina fanno quello che farebbe il montaggio nell’ambito di un film a découpage. La scena si apre con l’immagine dal basso di un lampione. Quando questo si spegne, la macchina da presa si sposta verso destra per inquadrare l’uomo delle pulizie di un locale notturno. Il movimento di macchina è avviato dallo spegnersi del lampione, come nel cinema classico i movimenti di macchina devono avere una certa motivazione. La macchina da presa segue l’uomo che rientra nel locale e gli si avvicina. Nel contempo, qualcosa di nuovo è accaduto: sentiamo dal fuori campo le voci di alcuni uomini, e a questo punto la macchina da presa mette in fuori campo l’uomo delle pulizie e si sposta su tre gangsters che discutono, prima seduti sul tavolo e poi in piedi. Il capo dei gangster, poi, si avvicina ad un telefono, sempre seguito dalla macchina da presa, che si ferma quando l’uomo si ferma vicino al telefono. I movimenti della macchina da presa sono subordinati agli eventi della diegesi, allo stesso modo in cui lo sarebbe stato il montaggio, se la scena fosse stata ripresa attraverso degli stacchi. Quando l’uomo inizia la conversazione, la macchina da presa può tornare a muoversi, avvicinandosi a lui, ma all’improvviso muta la direzione e si sposta verso destra, finendo con l’inquadrare l’ombra di un uomo che avanza fischiettando. Raggiunta l’ombra, la cinepresa inverte il suo movimento, seguendo quello del nuovo personaggio. La macchina da presa si ferma con essa, quando l’ombra estrae la pistola e fa fuoco contro il gangster al telefono nel fuori campo. Un nuovo movimento di macchina segue la pistola, gettata contro il cadavere, mettendo in campo il cadavere. Dopo qualche istante sopraggiunge l’uomo delle pulizie, che si toglie il grembiule, si infila la giacca e il cappello e se ne va seguito sempre dal movimento di macchina. I movimenti di macchina che articolano questo piano sequenza non sono estranei alla logica del découpage classico, ma al contrario la confermano nei suoi due aspetti essenziali: l’invisibilità (i movimenti di macchina sono sempre motivati da quello che accade sul piano della storia) e la drammatizzazione (i movimenti di macchina mettono in evidenza gli aspetti più importanti dell’episodio). Lo spettatore è costretto ad una successione di immagini strutturata e organizzata quanto quella del più classico dei découpage. Anche nel cinema della Nouvelle Vogue possiamo trovare piani sequenza vicini ad una logica tradizionale del montaggio. Esempio: Muriel di Alain Resnais, 1963 Hélène cammina attraverso le stanze di un appartamento, e la macchina da presa ne segue i movimenti. La donna sta cercando un uomo che dovrebbe trovarsi ancora lì, ma che in realtà se n’è andato. Il piano sequenza è suddivisibile in tre segmenti, che esprimono le tre diverse relazioni dell’istanza narrante con gli oggetti e i soggetti rappresentati. Nel primo segmento abbiamo un movimento di macchina a seguire il personaggio, infatti lo spettatore esplora con la donna l’appartamento vuoto. Quello che si afferma qui è il punto di vista ottico di Hélène. Nel secondo segmento, la macchina da presa precede il personaggio, mostrandone il viso → l’attenzione dello spettatore non è più sull’ambiente ma sul volto della donna, perciò qui non conta il suo punto di vista ottico, ma quello affettivo, la delusione espressa dal suo viso di fronte allo spazio vuoto, siamo attenti quindi ai sentimenti della donna. 81 Nel terzo segmento abbiamo invece l’uscita di campo del personaggio e la rappresentazione diretta dell’appartamento vuoto. L’istanza narrante abbandona il personaggio e pone lo spazio vuoto come elemento centrale della rappresentazione. Il senso dell’assenza dell’uomo, che la donna cercava, si afferma in sé e per sé. Queste tre immagini danno vita ad un evidente gioco di montaggio interno, costruito sull’articolarsi di tre figure – la semisoggettiva, l’oggettiva del volto della donna e l’oggettiva della stanza vuota. L’uso del piano sequenza permette il rispetto baziniano delle coordinate spazio-temporali della realtà, ma dà anche vita ad un montaggio interno che non è distante dalla logica drammatica del cinema classico. Esempio: Il cimitero del sole di Nagisa Oshima, 1960 Il segmento preso in considerazione ci mostra due giovani che camminano in un prato. Poco alla volta il dialogo si fa sempre più testo e nervoso, quando all’improvviso uno dei due estrae un coltello. Questa prima parte è rappresentata attraverso un fitto montaggio di inquadrature: i due di spalle in piano americano e figura intera, il primo piano dell’uno e quello dell’altro, il particolare delle mani che aprono in coltello e ancora i primi piani dell’uno e dell’altro. A questo punto si apre la seconda parte dell’episodio, quella di maggiore intensità drammatica, dove uno dei due ragazzi accoltella l’altro. L’evento è rappresentato da un unico long take in campo lungo, dove Oshima rifiuta qualsiasi effetto di facile drammatizzazione. La macchina da presa segue da lontano l’azzuffarsi dei due, limitandosi a carrellare semi-circolarmente verso destra e mantenendosi così sempre alla stessa distanza dai personaggi. Lo spettatore, posto a distanza dalla scena, deve immaginare che cosa accade, il regista non gli conferisce una serie di punti di vista privilegiati, ma al contrario lo tiene lontano, ne fa un semplice osservatore casuale di qualcosa che accade davanti ai suoi occhi. Approfondimento: Virtuosismo e simulazione. Il “nuovo” piano sequenza L’avvento delle tecniche del digitale hanno permesso al cinema di estendere i confini della durata di un’inquadratura ben oltre quella decina di minuti che le singole bobine di pellicola permettevano in passato. Si è così arrivati alla possibilità di girare un film in un unico piano sequenza. Nel cinema contemporaneo e postmoderno, piani sequenza e long take si caratterizzano soprattutto per il loro carattere virtuosistico e per la dimensione spettacolare dei travelling che li costituiscono, ponendo in primo piano quel bagno di sensazioni e quel carattere immersivo che sono tratti costitutivi dell’esperienza spettatoriale del cinema dei giorni nostri. Le tecniche del digitale consentono di superare il tradizionale piano sequenza con quello che possiamo chiamare “l’effetto piano sequenza”. È infatti possibile arrivare alla cancellazione degli stacchi, che permette di presentare in un solo piano sequenza ciò che in realtà necessita di più riprese. Si tratta di piani sequenza simulati, dove i passaggi da un’immagine all’altra, gli stacchi, sono cancellati, dando così l’impressione allo spettatore di trovarsi di fronte ad una ripresa in continuità, che invece non è tale. Il carattere virtuosistico e spettacolare del piano sequenza e il suo carattere simulato non sono una novità del cinema contemporaneo. Si prenda per esempio Nodo alla gola di Hitchcock (1948), che ricorre ad otto long take, dove le interruzioni di ripresa tra un’inquadratura e l’altra venivano mascherate da corpi degli stessi attori che, passando davanti alla telecamera, oscuravano le immagini, nascondendo gli stacchi tra queste → unico piano sequenza simulato. Bazin: Nel cinema degli effetti speciali, tutto è piano sequenza ma niente è autentico: la cancellazione degli stacchi, l’illusione della continuità perfetta, non è il supporto di alcun realismo, se non di un realismo disincarnato, astratto, staccato dalle contingenze di un reale ridotto alla sua immagine. 82 Esempio: Omicidio in diretta di Brian De Palma, 1998 Il film si apre con le immagini televisive di una reporter che annuncia lo svolgersi di uno scontro pugilistico. Dal monitor di servizio si passa poi ad un secondo schermo televisivo, che riprende all’interno dello stadio in cui avviene l’incontro e dove vediamo il protagonista del film, l’agente di polizia Rick Santoro. Dall’immagine sul monitor si passa all’immagine del vero Rick, che si avvicina ad una serie di monito di servizio. Da questo momento, attraverso una serie di movimenti virtuosistici e stacchi cancellati, la macchina da presa seguirà gli spostamenti di Rick, accompagnandolo nei suoi diversi incontri di persona o mediati dal cellulare. La presenza di diverse scale, che il protagonista sale e scende, contribuisce a rendere più mossa la rappresentazione del tutto. Alcuni quadri giocano sulla profondità di campo, altri assumono delle angolazioni oblique. Il detective entra finalmente nell’arena e va a sedersi vicino al ring. Il long take termina nel momento in cui Rick riceve una telefonata che gli comunica il progetto dell’attentato, che pochi attimi dopo avrà luogo, seminando il panico tra la folla, evidenziato dal movimento di macchina all’indietro e dall’allargamento di campo che enfatizzano quello che sta succedendo. Elaborati e continui movimenti di macchina, immagini intermediali che fanno dialogare cinema e televisione, la pellicola e il video, effetti di quadro nel quadro, piani in profondità, inquadrature oblique, saliscendi sulle scale, primi piani e campi lunghi e la recitazione sopra le righe, fanno di Omicidio in diretta un perfetto esempio del bagno di sensazioni che oggi piani sequenza e long take si prendono in carico di produrre. Approfondimento: Montatore Il lavoro del montatore prima del digitale consisteva nella giunzione alla moviola di segmenti di pellicola impressionata, in modo da comporre una successione di inquadrature che restituissero il senso desiderato dal regista. Il passaggio al digitale non ha modificato la struttura del lavoro, che si articola in tre fasi principali: 1. Selezione del materiale filmico 2. Unione 3. Composizione Il montaggio tradizionale prevedeva l’uso della moviola, una macchina da proiezione munita di un tavolo di montaggio che permetteva di vedere la pellicola positiva, chiamata scena, e di ascoltare una o due colonne sonore. Il caricamento della pellicola avveniva inserendo il positivo – la scena – nei rocchetti predisposti, in modo che passasse davanti ad un gruppo ottico provvisto di una lampada di proiezione. Un lettore acustico, la testina magnetica, riproduceva i suoni incisi sulla colonna attraverso un amplificatore e un altoparlante nel momento in cui la colonna magnetica veniva fatta scorrere sulla testina stessa. Se la colonna sonora era di tipo ottico, la si faceva scorrere davanti ad una cellula foto-elettrica. Il montaggio vero e proprio avveniva con il taglio e la giunzione della pellicola stessa, tramite una pressa e utilizzando lo scotch come collante. Alla fine del montaggio si otteneva la copia lavoro. Una volta che tutta la pellicola, scena e colonna, era arrivata in moviola, la prima operazione consisteva nel ripristino della consequenzialità fra le varie scene, dato che durante le riprese non si gira quasi mai in sequenza. Si divideva tutto il materiale di pellicola e relativo sonoro e poi si ripristinava tra i due il sincrono, la cosiddetta “messa al ciack”. Dalla “messa al ciack” il materiale era poi posto in sequenza, veniva cioè ripristinato l’ordine della sceneggiatura. Sulla base della sceneggiatura, ogni sequenza veniva numerata e sintetizzata in un cartellone per avere in un solo colpo d’occhio la visione globale della struttura del film e quindi del montaggio. Alla fine del montaggio, la copia del film veniva divisa in rulli da 300 metri. Fino a poco tempo fa questa era l’unica tecnica di post produzione utilizzata nel mondo del cinema, un sistema di montaggio lineare che prevedeva l’uso di un supporto analogico, in modo da creare una sequenza video operando direttamente sul supporto originario stesso. 85 CAPITOLO 4 – IL SUONO, L’IMMAGINE Il cinema nasce come semplice successione di immagini, privo dell’accompagnamento di un suono registrato. Già nei primi anni di vita avvertiva l’esigenza di una presenza sonora, in particolare quella musicale. Le ragioni possono essere diverse: può essere per il bisogno di vincere la “terribilità del silenzio”, o quello di coprire il fastidioso rumore della macchina di proiezione, o il voler aggiungere a quelle immagini così vere la dimensione che mancava, quella sonora. La possibilità di registrare e riprodurre il suono c’era già dagli anni Dieci, ma il sistema produttivo preferì utilizzare il più a lungo possibile le tecniche già esistenti, evitando il rischio di nuovi e pericolosi investimenti. Alla fine degli anni Venti lo spettacolo cinematografico che aveva conquistato il pubblico di ogni paese fu ulteriormente potenziato dall’avvento del sonoro che completava la cosiddetta verosimiglianza dell’illusione filmica. Il cinema muto aveva un forte limite nelle sue possibilità di riproduzione della realtà fenomenica: il silenzio. Sul piano della spettacolarità, il silenzio e gli altri limiti del muto, costituirono un condizionamento forte per la creazione di quella totalità della rappresentazione realistica che non poteva non attrarre il pubblico. questo bisogno estetico e psicologico fu tempestivamente colto dai produttori cinematografici più accorti che, accertati i caratteri e le possibilità della nuova scoperta tecnica, si buttarono sul cinema sonoro. Il primo film con un commento sonoro registrato direttamente sulla pellicola, ma ancora privo di dialoghi, fu Don Giovanni e Lucrezia Borgia di Alan Crosland nel 1926. L’entusiasmo nei confronti di questo film portò Crosland a registrarne subito un anno, che uscì l’anno dopo: Il cantante di jazz. Il successo internazionale del film fu tale da aprire la strada del sonoro. In Europa, con un paio di anni di ritardo, si arrivò allo stesso risultato. Registi più o meno noti presero posizione a favore o contro il sonoro e lo stesso fecero anche molti teorici, dando vita ad un dibattito sul linguaggio cinematografico e sulle caratteristiche e possibilità espressive. L’affermarsi del sonoro determinò un grave arretramento rispetto alle conquiste linguistiche ed espressive a cui era giunto il cinema muto. Le attrezzature necessarie al nuovo corso, infatti, ponevano notevoli problemi alle riprese, e attori e macchina da presa finivano con il perdere gran parte della libertà di movimento conquistata negli anni precedenti. Bettetini dice che la storia del cinema vede coincidere il suo punto di crisi maggiore con la scoperta delle tecniche di registrazione sonora. Tutta la produzione si orientò verso l’allestimento di spettacoli ricchi di dialoghi che non si staccavano per niente dalle formule della commedia teatrale. Con il tempo, però, vennero realizzati nuovi progressi tecnici, come l’alleggerimento degli strumenti di registrazione e la possibilità di ricorrere alla presa sonora in una fase successiva a quella delle riprese, che consentirono al cinema sonoro di affinare le proprie possibilità espressive tanto da non aver più nulla da invidiare al muto. Alla fine degli anni Venti, quindi, nasce quella che è chiamata la colonna sonora di un film, che non è formata solamente da brani musicali, ma da tutte e tre le materie d’espressione su cui si articola il suono: parole, rumori e musiche. LE FUNZIONI DEL SUONO La percezione visiva influenza quella sonora e viceversa. Non si vede la stessa cosa se anche la si sente, così come non si sente la stessa cosa se anche la si vede. Un’immagine, nel momento in cui è accostata ad un suono, può produrre un significato diverso da quello che essa produce quando ne è ancora priva. Michel Chion parla di valore aggiunto, inteso come il valore espressivo e informativo di cui un suono arricchisce un’immagine data, sino a far credere, nell’impressione immediata che se ne ha o nel ricordo che si conserva, che questa informazione o espressione si liberi naturalmente da ciò che si vede e sia già contenuta nella sola immagine. 86 Esempio: Lettera dalla Siberia di Chris Marker, 1957 Il regista dimostra con efficacia il potere del suono nel dar forma al modo in cui noi interpretiamo un’immagine. Per tre volte il regista ci mostra le stesse riprese – un’inquadratura di un autobus che sorpassa una macchina, tre inquadrature di operai al lavoro – accompagnandole ogni volta con un diverso commento. A seconda delle parole usate, la città potrà apparire moderna o sinistra, l’autobus magnifico o rosso sangue, ogni persona o cosa che attraversa il campo potrà essere qualificata in un modo o nel suo esatto contrario. Il risultato è la dimostrazione radicale che si può far dire alle immagini tutto e il contrario di tutto. Sul piano dell’evoluzione del linguaggio cinematografico, il sonoro ha assunto un ruolo di primo piano. la sua funzione chiave è quella di giocare un ruolo determinante nell’unificare il flusso delle immagini, nell’attutire quell’effetto di brusca rottura implicito in ogni stacco. Il dialogo in campo e controcampo fra un uomo e una donna, ad esempio, vede attenuato il passaggio da un’inquadratura all’altra attraverso effetti di accavallamento sonoro in cui una frase pronunciata dall’uomo inizia con un’inquadratura su di lui, per terminare su un’inquadratura della donna. Stessa cosa vale per il suono ambientale, che può rimanere costante e continuo per tutta la durata di una scena frammentata da una successione di diverse inquadrature. In sostanza, le immagini staccano e il suono unisce. Esempio: Viaggio a Tokyo di Yasujiro Ozu, 1953 Le prime cinque inquadrature del film sono dedicate a diversi aspetti di una cittadina di provincia: un fiume, una via, un gruppo di case viste dall’alto, la ferrovia, un tempio. Cinque diversi sguardi su di una stessa realtà. Il regista sceglie di stabilire un rapporto di continuità tra queste inquadrature attraverso una serie di rumori che presentano tutti delle caratteristiche simili: il motore di un battello, i passi degli zoccoli di legno sul selciato, lo sferragliare di un treno, il frinire delle cicale. Ognuno di questi suoni può durare per una o più inquadrature, sentirsi da solo o insieme ad altri, scomparire perché ci allontaniamo dalla sua fonte o perché un rumore più forte lo copre, darsi in una o più circostanze. L’impressione è quella di un flusso sonoro continuo, dal momento che ognuno di questi rumori è costruito su uno stesso regolare e ritmato scandire che consente di passare senza soluzione di continuità dall’uno o dall’altro. Questi suoni verranno ripresi più volte nel corso del film, non solo attraverso le istanze diegetiche che gli danno vita, ma anche attraverso il ticchettio di un orologio o il battito di un tamburo. Ecco che il senso di questi suoni diventa chiaro: siamo di fronte a una sorta di overture fatta di rumori che dà a queste immagini una dimensione temporale e introduce sul piano sonoro quel tema del fluire di tutte le cose. Il regista giapponese non solo utilizza il suono per dar forma a particolari e inediti modi di continuità audiovisiva, ma fa del rumore un elemento chiave del complessivo processo di significazione su cui questo e gli altri suoi film si costruiscono. La caratteristica unificante del sonoro è una qualità che gli è stata attribuita da un certo cinema. Nel cinema classico, a volte, un particolare evento drammatico può essere enfatizzato attraverso un contrasto audiovisivo, dove lo scontro tra due immagini decisamente diverse tra loro è amplificato da un conflitto sonoro. Il cinema moderno ha dato vista ad un esplicito gioco di conflitti sonori al fine di rendere il più evidente possibile il carattere di artificialità proprio di ogni costruzione filmica. Anche il suono è sottoposto ad un processo di selezione e combinazione. Per esempio, in una scena di dialogo che si svolge in un parco, si danno come possibili tantissimi suoni (voci di chi dialoga, i bambini che giocano, i passi sui vialetti…), ma solamente alcuni suoni di questa serie infinita saranno selezionati e inseriti nel film. Si tratta di una scelta importante. Una volta selezionati, i suoni vengono combinati tra loro dando vita ad un montaggio sonoro. Qui il volume di ogni singolo suono acquista un’importanza particolare. Alcuni suoni saranno regolati su un volume più alto, altri su uno più basso, perciò bisogna scegliere quali mettere in evidenza e quali mettere in secondo piano. Il montaggio dei suoni e la regolazione del loro volume è quello che viene chiamato il missaggio. Il montaggio sonoro e quello visivo finiscono per dare vita ad un’unica forma di montaggio, detto montaggio audio-visivo, che si dà sia nella forma della successione che in quella della simultaneità. 87 Suono e spazio Nell’ambito del montaggio audiovisivo possiamo pensare a due grandi ordini di rapporti tra suono e immagini, tra suono e racconto. Il primo riguarda lo spazio, il secondo il tempo. Dal punto di vista dello spazio, possiamo distinguere il suono intradiegetico (proviene dalla diegesi) e quello extradiegetico (i personaggi del film non lo sentono). La distinzione tra i due suoni è spesso chiara, ma in alcuni casi i confini tra questi due spazi possono essere labili e il film può giocare sul loro confondersi. È il caso per esempio di musiche che iniziano come diegetiche e si trasformano poi in extradiegetiche quando continuiamo a sentire in una scena successiva a quella del teatro che si svolge in un altro luogo. Un esempio è L’orologio degli Amberson di Orson Welles, in cui il narratore è extradiegetico e riassume la storia della protagonista, ma, ad un certo punto, una delle sue frasi è direttamente commentata da uno dei personaggi della finzione. Il dialogo che si instaura tra una voce extradiegetica e una diegetica dà vita ad una situazione paradossale. Il suono intradiegetico può essere a sua volta diviso in: • Suono in campo → la fonte sonora è all’interno dell’inquadratura • Suono fuori campo → la fonte è all’esterno dell’inquadratura Il suono fuori campo ha spesso la funzione di estendere lo spazio dell’inquadratura, di permetterci di contestualizzarla meglio. Per esempio, abbiamo una serie di inquadrature di due personaggi che stanno dialogando, ma non sappiamo nulla del luogo in cui si trovano. Se si aggiunge un vociare di sottofondo, rumori di tazzine e bicchieri ecc… capiamo che possono trovarsi in un bar. Un’altra funzione del suono fuori campo è quello di creare un senso d’attesa nello spettatore, di invitarlo ad azzardare delle ipotesi. Per esempio, vediamo una donna che guarda qualcosa che io non vedo, sentiamo delle grida e degli spari ma non vediamo cosa succede. Non ci rimane altro che attendere sperando che questa attesa sia breve e, nel frattempo, iniziare a darci delle risposte da soli. La distinzione tra suono in campo e suono fuori campo è stata contestata in nome di eccezioni e casi particolari di cui non riesce a rendere conto. Chion individua tre tipi di suoni che creano non poche perplessità riguardo la loro collocazione tra campo e fuori campo: • Suono ambiente → suono inglobante che avvolge una scena nella quale diventerebbe assurdo chiedersi se il cinguettio degli uccelli che sentiamo sia in campo o fuori campo, sulla base del fatto che si vedano o no gli uccelli in volo o sui rami degli alberi • Suono interno → si oppone a quello esterno. Quello esterno ha origine da una sorgente fisica ben precisa, quello interno proviene dalla realtà interna del personaggio. Sono quei suoni che sentiamo in quanto immaginati o ricordati da un personaggio, e corrispondono sul piano sonoro a quelle che, sul piano visivo, vengono chiamate immagini mentali • Suono on the air → è quello che sentiamo in quanto trasmesso da strumenti quali una radio, un telefono ecc… Abbiamo quindi isolato tre tipi di suoni, che possono essere denominati in altri modi: 1. Extradiegetici → suono over 2. Intradiegetici in campo → suono in 3. Intradiegetici fuori campo → suono off Un termine importante riguardo i rapporti tra suono e immagine è acusmatico, ovvero un suono che si sente senza vedere la fonte da cui proviene. Al suono acusmatico si oppone il suono visualizzato → il suono acusmatico è un suono off o over, mentre il suono visualizzato è un suono in. 90 Un caso di non simultaneità dei rapporti temporali di suono e immagine è quello del ponte sonoro. Si tratta di quelle brevi anticipazioni sonore in cui le parole, le musiche o i rumori della scena immediatamente successiva a quella presente sullo schermo iniziano già a sentirsi prima che se ne vedano le immagini. Altra particolarità si può riprendere dalla distinzione che Chion ha fatto tra suono acusmatico e suono visualizzato, individuando due percorsi: 1. Il suono visualizzato che poi si fa acusmatico → caso in cui un’immagine è inizialmente associata ad un suono. In un secondo momento, poi, sarà solo il suono a comparire, ma ecco che questo suono potrò evocare nella mente dello spettatore quell’immagine a cui precedentemente era associato. 2. Il suono acusmatico che diventa visualizzato → tipico dei racconti di mistero in cui si preserva a lungo il segreto della causa di un suono e di chi lo produce. Anche il ritmo è importante. Si può parlare di ritmo sonoro a partire dalle due componenti chiave: la velocità e la regolarità degli intervalli. La velocità è determinata dalla durata degli intervalli: se l’intervallo è breve, il suono avrà un ritmo veloce, se è lungo avrà un ritmo lento. La regolarità, invece, nasce sulla base della coincidenza o meno di queste durate: se le durate degli intervalli coincidono, avremo un ritmo regolare, se non coincidono, il ritmo sarà irregolare. Un suono può cioè essere lento, come il rumore dei passi di qualcuno che sta camminando, o veloce, come quello di qualcuno che sta correndo; regolare, come il ticchettio di un orologio, o irregolare, come l’esplosione dei fuochi d’artificio. I movimenti di ogni singola inquadratura hanno il loro ritmo, determinato da velocità e regolarità. Inoltre, anche il montaggio ha il suo ritmo. Infine, ognuna delle tre componenti che articolano la colonna sonora di un film – parole, musiche e rumori – hanno le proprie possibilità ritmiche indipendenti le une dalle altre. Di conseguenza, il ritmo al cinema nasce da un intricato rapporto di ordine audiovisivo. Qualsiasi film può modificare il proprio ritmo in ogni suo momento. Il cambiamento del ritmo sonoro può preludere a determinati sviluppi drammatici o connotare la realtà interiore di un certo personaggio. Una musica extradiegetica sempre più lenta può comunicare il mutamento dei sentimenti vissuti da un certo personaggio. Un esempio è Una giornata particolare di Scola, in cui il sentimento di solitudine e disperazione della protagonista è espresso anche attraverso il progressivo rallentamento del ritmo della musica extradiegetica che accompagna l’epilogo del film. SUONO E RACCONTO: IL PUNTO D’ASCOLTO È possibile parlare anche di un punto d’ascolto. La nozione di punto d’ascolto può partire dalla differenziazione tra punto di vista soggettivo e oggettivo, ponendo però delle distinzioni che riguardano il problema dei rapporti con lo spazio. Al cinema, prima dell’avvento della stereofonia, tutti i suoni provenivano solamente dagli altoparlanti posti dietro o schermo. In questo modo, la sorgente del suono non poteva essere localizzata in un punto preciso, bensì dietro una superficie che non cambiava mai. Tuttavia, grazie al volume, era possibile distinguere tra suoni vicini e suoni lontani, tanto che si potrebbe immaginare una scala dei piani sonori simile a quella dei piani visivi. I due poli estremi di questa scala sarebbero quelli della coincidenza e del contrasto. Si prenda ad esempio un’inquadratura fissa, inizialmente in campo medio, di un uomo che si allontana in un grande spazio vuoto. Se mentre la sua figura si fa sempre più piccola anche il rumore dei passi affievolisce, noi avremo una coincidenza di punto di vista e punto d’ascolto. Immagini e suoni ci racconteranno una stessa cosa. Se, invece, l’uomo allontanandosi diventa sempre più piccolo, ma il rumore dei passi continua a rimanere sullo stesso volume, punto di vista e punto d’ascolto si daranno nella forma del contrasto. L’immagine ci racconta un allontanarsi, i suoni un rimanere. Le possibilità espressive di questa doppia articolazione audiovisiva sono, nel primo caso, un allontanarsi del personaggio, nel secondo quella di un allontanarsi che è un rimanere, perché magari il personaggio non vuole veramente andarsene o altro. 91 Nel suono stereofonico, il punto d’ascolto ha trovato ulteriori possibilità di esistenza, dal momento che i suoni possono trovare una localizzazione spaziale della loro sorgente a seconda che provengano da dietro, da davanti, da destra o sinistra. Il rapporto tra ciò che sentiamo noi e quello che sente un determinato personaggio è l’auricolarizzazione, in parallelo con il concetto di ocularizzazione, e determina il rapporto tra il sonoro e il visivo. • Auricolarizzazione interna → ancora un suono diegetico ad un determinato personaggio o Primaria → quando questo suono assume una dimensione esplicitamente soggettiva, presentandosi in forme in qualche modo alterate, come accade nei casi in cui una voce si fa sempre più flebile perché il personaggio che l’ascolta finisce per distrarsi e mettersi a pensare ad altro, o quando questa voce ci giunge deformata da un apparecchio telefonico con cui il personaggio sta conversando. Si dà perciò a partire da un’alterazione sonora causata da una particolare condizione del personaggio in ascolto. o Secondaria → quando determinati meccanismi visivi o di montaggio la evidenziano. Per esempio, se allo scoccare della mezzanotte il visitatore del castello si volterà di scatto verso l’orologio a muro, ecco che questo suono, di natura oggettiva, sarà visivamente rapportato a quel personaggio. Anche in questo caso, la coincidenza tra punto di ascolto del personaggio e dello spettatore si verifica, ma il suo esplicitarsi è dato dall’elemento visivo congiunto a quello sonoro e non più solo da quest’ultimo, come accadeva nella forma precedente. • Auricolarizzazione esterna → si dà nel caso in cui i suoni del film non sono ancora ancorati in modo particolare ad un determinato personaggio. Si tratta dei suoni d’ambiente come il rumore del traffico, lo scorrere del ruscello… sono suoni sentiti dal personaggio ma che non rivestono un significato particolare per lui. L’auricolarizzazione esterna implica anche i suoni extradiegetici, che non possono essere sentiti dai personaggi. Esempio: Il lamento del sentiero di Satyajit Ray, 1955 Druga, una ragazzina di sei anni, passa il suo tempo a rubare dei mango dal giardino dei vicini. Il film ce la mostra in azione, e, successivamente, introduce il personaggio della madre, che vediamo di spalle e in campo medio andare alla fontana che si trova davanti la casa dei vicini a prendere l’acqua. L’immagine del volto della donna si dà in concomitanza alle accuse lanciate a gran voce dalla vicina (“e finché la madre non prende sul serio la cosa, non serve parlare”). Siamo di fronte ad un montaggio audiovisivo giocato su un effetto di simultaneità, dove le parole dette da un personaggio sono associate al volto di un altro personaggio che è l’ideale destinatario di quelle stesse parole. L’auricolarizzazione diventa interna e il punto d’ascolto acquista una natura soggettiva, perché le parole dette non contano tanto o solo per quello che significano in sé e per sé, non per quello che vogliono dire per il personaggio che le ascolta. Ray mette in primo piano un punto d’ascolto soggettivo che permette agli spettatori di fare propri i sentimenti vissuti dai personaggi e di intensificare così il carattere drammatico della narrazione. Altro esempio del film è quando il padre di Druga torna da uno dei suoi viaggi di lavoro, e non sa della scomparsa della figlia. Egli mostra quello che ha comprato durante il viaggio, e quando tira fuori il sari destinato a Druga, la madre non riesce a trattenere le lacrime. L’uomo chiede una spiegazione ma inizia una musica extradiegetica molto tesa che copre le parole e che quindi non possiamo sentire. La madre disperata si stende a terra e l’uomo si rende conto dell’accaduto. A questo punto il suono torna diegetico e il padre inizia ad urlare il nome di Druga. Su queste grida uno stacco ci porta dal fratello di Druga, Apu, che vediamo mentre continuiamo a sentire le urla del padre. Qui punto di vista e punto d’ascolto non coincidono più, perché Apu è troppo lontano per poter sentire il padre. Occhio della macchina da presa e orecchio del microfono non sono nello stesso punto. Siamo di fronte ad un montaggio audiovisivo in simultanea, dove l’accostamento dei suoni e immagini non ha una giustificazione diegetica. Apu non può sentire quelle grida, ma per lui hanno una grande importanza, dal momento che rimandano a uno dei temi 92 fondamentali del film: la morte. Infatti, la storia di Apu è una storia di crescita e maturazione, dove la morte, prima quella della zia e poi quella di Druga, segna il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, segno che si smette di essere bambini quando si scopre che si deve morire. Ci sono altri esempi in questo film che ancorano un suono ad un personaggio e che chiariscono la distinzione tra auricolarizzazione interna primaria e secondaria. Durante uno dei litigi tra la madre e la vecchia zia di Apu, la zia si allontana decisa a prendere la propria roba e andarsene di casa. La macchina da presa la segue mentre va nella sua stanza, mentre i rimproveri della madre si affievoliscono progressivamente. L’ocularizzazione è così esterna, noi vediamo la vecchia che si allontana, ma l’auricolarizzazione è interna perché sentiamo come lei affievolirsi la voce della madre. In questo caso è primaria, perché sentiamo il volume delle parole abbassarsi in concomitanza con l’allontanarsi della vecchia. Un’altra scena importante è quella in cui il piccolo Apu, con la famiglia, è seduto sulla veranda di casa in una serata estiva. Nel corso di un primo piano della vecchia zia si comincia a sentire in modo distinto il rumore off di un treno. La vecchia solleva lo sguardo nella direzione di Apu, e un raccordo di sguardo ci porta al piccolo Apu seduto a fianco del padre. Mentre il rumore del treno si intensifica, un lento movimento di macchina isola il personaggio di Apu. Si tratta un’altra volta di associare un suono ad un personaggio. Apu sente il rumore del treno, ma il movimento di macchina in avanti che lo isola dal contesto fino a metterlo in primo piano implica che quel suono ha per lui un significato particolare. Abbiamo un altro esempio di auricolarizzazione interna secondaria, che prelude ad una scena chiave del film, quella in cui Apu potrà finalmente vedere per la prima volta un treno, tappa essenziale della sua maturazione. PAROLE E VOCI La parola nel cinema è nata con l’avvento del sonoro. Ai tempi del muto, essa trovava due mezzi di trasmissione: quello del narratore e quello delle didascalie. Quando i film cominciarono a diventare più complessi, articolandosi in scene e sequenze, i compiti dello spettatore diventarono più difficili. Non doveva solamente seguire una storia, ma colmarne i vuoti, quegli spazi bianchi tipici del testo narrativo. La rivoluzione del sonoro non è stata quella di introdurre la lingua nel film, ma di riprodurla sotto forma di registrazione sonora. Questo modo di riproduzione si opponeva alle parole del commentatore e al racconto scritto nelle didascalie. Il commentatore pronunciava parole in simultaneità con l’immagine, ma il suo testo comportava un margine di improvvisazione dovuto anche alla personalità del narratore e al contesto concreto in cui si trovava ad esercitare la sua performance. Le didascalie avevano eliminato questo margine, ma il loro intervento non poteva che darsi nella successione. La registrazione sonora permette di ritrovare la simultaneità di parola e immagine e di eliminare il fenomeno dell’aleatorietà. Dei tre materiali su cui si fonda il suono del cinema, la voce è indubbiamente quello che assume il ruolo di primo piano: è staccata e messa in evidenza rispetto a tutti gli altri suoni, musiche e rumori sono solo di accompagnamento. Questa voce è importante in quanto supporto dell’espressione verbale, della parola. Il cinema è voco-centrista o verbo-centrista. Per gli spettatori non esistono suoni, tra i quali, insieme agli altri suoni, c’è anche la voce umana. Esistono le voci e poi tutto il resto. Chion distingue tre diversi tipi di parola presenti nel cinema. 1. Parola-teatro → è caratterizzata da due elementi: la sua intelligibilità e il suo essere emanata dai personaggi. È la parola dei dialoghi. Può assumere diverse funzioni: informativa e drammatica, psicologica e affettiva. Tutto il resto è costruito a sua misura. 2. Parola-testo → si caratterizza per una diversa fonte di emissione: è la parola del narratore. Agisce sul corso delle immagini, le evoca e ne stabilisce o contraddice il senso. Nel contempo, anche l’immagino può rimettere in discussione il senso della parola che l’ha evocata se non altro per la sua sostanziale impossibilità di essere raccontata per intero. 95 MUSICHE La musica per film è stata oggetto di una lunga serie di analisi e sistematizzazioni storiche e teoriche che hanno dato vita a una ricca bibliografia. Fin dal 1895, quando è nato il cinema, si è cominciato a porre il problema del rapporto tra musica e immagini. È la stessa natura del linguaggio filmico che ha condotto il cinema a stabilire con la musica una serie di rapporti fertili. Sappiamo che il film muto non è mai esistito, o quasi, perché fin dall’inizio i film hanno avuto un sonoro, almeno nel senso che le sue immagini incerte e traballanti, e poi le scene e sequenze più elaborate e curate, erano nella maggior parte dei casi accompagnate da una musica in sala. Questa musica era prodotta da pianoforti o organi, altre volte addirittura da un coro. Nel corso degli anni dieci vengono pubblicati i primi repertori musicali, in cui le principali situazioni drammatiche, psicologiche e ambientali a cui potevano dar vita i film dell’epoca trovavano dei loro corrispondenti musicali. La funzione principale della musica che accompagna i film è quella di riflettere nella mente dell’ascoltatore il clima della scena, e di suscitare più rapidamente e intensamente nello spettatore il susseguirsi delle emozioni della storia narrata del film. Gli anni venti profilano un nuovo rapporto tra cinema e musica. Protagonista di questa fase è il cinema delle avanguardie, che punta ad un rapporto estetico e strutturale fra i due diversi linguaggi. Cinema e musica si integrano tra di loro diventando immagini da sentire e suoni da vedere. Si possono individuare due modi attraverso cui la musica al cinema si rapporta alle immagini: 1. Partecipazione → in questo caso la musica esprime la sua partecipazione all’emozione della scena, assumendone direttamente il ritmo, il tono attraverso codici universalmente riconosciuti come quelli della gioia, della tristezza, della frenesia… 2. Distanza → in questo caso la musica manifesta una sorta di indifferenza nei confronti della situazione rappresentata dalle immagini, sviluppandosi in modo autonomo. A seconda delle possibilità, questa indifferenza potrà indicare la volontà di allontanarsi dell’istanza narrante dalla realtà rappresentata, il mantenere verso essa un freddo e oggettivo distacco oppure il dar vita ad una diversa dorma di drammatizzazione, dove l’emozione non scompare ma al contrario si rafforza proprio attraverso il contrasto tra musica e immagini. La musica ha dato vita a figure dominanti i modelli di rappresentazione classica, ovvero il leitmotiv e l’avvio o interruzione improvvisa. Il leitmotiv è un tema melodico ricorrente che caratterizza fatti, momenti o personaggi nel corso di uno spettacolo teatrale o un film. La teorizzazione del leitmotiv è di Wagner e il cinema classico lo ha utilizzato tanto, dal momento che ogni suo personaggio principale o ogni sua idea chiave possono essere dotati di un tema che li caratterizza e che costituisce il loro angelo custode musicale. Questi temi poi potranno subire delle trasformazioni riflettendo il modificarsi degli atteggiamenti o dei modi di essere dei personaggi a cui sono associati. La distinzione tra musica diegetica ed extradiegetica ha un peso narrativo importante. La musica intradiegetica assume in primo luogo una valenza informativa, che solo in un secondo momento può assumere una funzione indiziaria; la musica extradiegetica è portatrice della prospettiva assunta dall’istanza narrante nei confronti delle situazioni o dei personaggi narrati. Esempio: Una giornata particolare di Ettore Scola, 1979 Il film si ambienta in un palazzo popolare il giorno della visita di Hitler a Mussolini. A causa dei festeggiamenti, solo due inquilini sono rimasti a casa, Gabriele, un omosessuale che sta per essere condotto al confino, e Antonietta, madre di sei figli che crede nel regime ma non è potuta andare ai festeggiamenti per preparare la cena e riordinare casa. Il film racconta l’incontro tra questi due personaggi, così lontani (uno contro e l’altra a favore del regime) ma allo stesso tempo così vicini (entrambi oppressi dal 96 fascismo, lui perché omosessuale, lei perché donna) e della loro fugace esperienza d’amore. Rientrano tutti. Antonietta mette a posto la casa e mette a letto i bambini, consapevole che il marito la sta aspettando in camera. Il film alterna le immagini sue e quelle dell’uomo che si sta preparando per la sua partenza. Quando l’uomo esce di casa, la macchina da presa mostra il volto della donna. Sentiamo il tondo della porta dell’appartamento di Gabriele che si chiude e il rumore è troppo forte per essere oggettivo. La sua accentuazione, a fini drammatici, vuole sancire la definitiva separazione dei due e questa amplificazione quasi lo soggettivizza, esprimendo il significato che riveste per la realtà di Antonietta, alla cui immagine viene associato il suono. È un esempio di auricolarizzazione interna. Alla soggettivizzazione del punto di ascolto si aggiunge quello del punto di vista. La donna vede dalla finestra l’uomo che viene portato via dai due agenti. Si avvia un brano musicale extradiegetico: una marcia militare di origine prussiana che già avevamo sentito provenire dagli altoparlanti nel corso della giornata, i quali diffondevano la radiocronaca dell’incontro tra Hitler e Mussolini. Questa musica rappresenta quindi la musica del regime che lei ha imparato a riconoscere come oppressivo. Gabriele è ormai giunto sul portone e la sua ultima uscita di campo avviene attraverso il suo quasi finire contro la macchina da presa, oscurando l’immagine allo stesso modo in cui buio sarà il destino suo e quello di Antonietta. Le immagini tornano sulla donna. Poco dopo , la melodia suonata dalla pianola accenna il motivo di “Aranci”, brano che lo spettatore già conosce dal momento che lo ha già sentito nel primo momento di intimità tra Antonietta e Gabriele, quello del ballo. Se la marcia militare rimanda all’oppressione del regime, “Aranci” rimanda al momento di liberazione che l’incontro con Gabriele ha rappresentato per Antonietta, che le ha fatto comprendere la realtà di quel regime che lei credeva ideale. I due brani configurano un doppio leitmotiv che ha il compito di riassumere e sintetizzare la storia di Antonietta. Mentre un lento movimento di macchina si avvicina alla donna, i due brani continuano un gioco di sovrapposizione e alternanza: da una parte l’orchestra e il coro proseguono senza interruzioni l’esecuzione della marcia militare, dall’altra la pianola alterna il tema della marcia a quello di Belle bimbe innamorate. La macchina da presa entra nell’appartamento, il coro e l’orchestra scompaiono e la musica dei due brani è affidata solo alla pianola. Il passaggio da esterno a interno diventa quasi un passaggio da pubblico a privato. L’oppressione del regime non finisce sulla porta di casa. Mentre Antonietta spegne a una a una tutte le luci del suo appartamento, i due motivi continuano ad essere alternati dalla pianola, ma si fanno sempre più lenti. L’ultima inquadratura è un dettaglio di una lampada accesa sul comodino a fianco del letto della donna. La sua mano entra in campo e la spegne. Sul buio dell’immagine, lo stesso che accompagnava l’ultima e definitiva uscita di campo di Gabriele, scorrono i titoli del film. L’uso delle musiche dimostra le possibilità espressive dell’uso del leitmotiv e nel contempo di come il montaggio sonoro e quello audiovisivo possano avere un peso essenziale sia sul piano della caratterizzazione drammatica che su quello della costruzione dei significati. RUMORI Sempre grazie ai lavori di Chion, ci si è iniziato a porre il problema di una definizione del rumore in ambito di possibilità espressive del cinema. Tuttavia, gli studi sono carenti, e questo è dovuto ad una sua giustificazione nella scarsa presenza ed efficacia nel cinema classico. Infatti, nel cinema classico, tra la musica e i dialoghi onnipresenti, non rimane molto spazio per il resto, se non qualche serie di passi discreti, dei bicchieri che tintinnano, spari… tutti rumori poveri acusticamente e astratti, che sembrano tagliati da una stessa stoffa grigia e impersonale. L’avvento del dolby e della possibilità di registrazione e diffusione sonora su più piste hanno permesso di far sentire, insieme a dialoghi e musiche, dei rumori ben definiti. La funzione del rumore nel cinema è essenziale. Lo avevano già capito i registi del muto, quando mostravano il dettaglio di un rubinetto d’acqua da cui cadevano lentamente delle gocce ribelli, per esprimere un opprimente silenzio evidenziato dall’ossessivo rumore di una goccia che cade dopo l’altra, rumore affidato all’immaginazione dello 97 spettatore. Importante è anche il rumore fuori campo, che può accompagnare il primo piano di un personaggio, permettendo ad esso di essere comunque ben definito da ciò che gli sta intorno. Esempio: Playtime di Jaques Tati, 1967 Tati è uno dei maestri nell’uso del rumore. Hulot è il protagonista del film, un personaggio strettamente legato alla tradizione del cinema comico e di quello muto. Egli non parla e il suo rapporto con la realtà che lo circonda è fondato sull’incapacità di adeguarsi ad essa. Hulot si trova a vivere ai margini della società di cui è parte. Il suo mondo è quello della Francia degli anni dell’arricchimento, della modernità a tutti i costi, e dell’idiozia. L’immagine che il regista dà di questa società è sonora, è una società del rumore in cui il nostro silenzioso eroe non può che trovarsi profondamente a disagio. La scena presa in considerazione è divisibile in tre segmenti. Il primo ha una funzione introduttiva, ed è quello dell’arrivo di Hulot in un modernissimo complesso di uffici in cui ha un appuntamento. Lo accoglie un anziano custode che, attraverso una centralina, avvisa un altro impiegato del suo arrivo. La centralina si esprime attraverso un gioco di luci e suoni che impongono all’anziano custode un ritmo per lui troppo veloce. Il rumore diventa fin da subito un elemento che caratterizza la società moderna e la difficoltà del custode di rapportarsi ad esso anticipa quello che sarà il disagio di Hulot. L’uomo fa accomodare Hulot su una poltroncina nell’atrio del palazzo. Inizia il secondo segmento della scena. L’inquadratura mostra Hulot seduto sulla sinistra, vicino ad un muro. Il custode è in piedi al suo fianco e sulla destra, in profondità di campo, un lungo corridoio la cui vista è impedita a Hulot. L’arrivo dell’impiegato è preceduto e accompagnato dall’amplificato suono dei suoi passi. Il punto d’ascolto fa sì che ciò che noi sentiamo è quello che anche Hulot sente, ma questa comunanza è poi negata dal punto di vista che fa sì che noi vediamo quel che Hulot non può vedere. Sentendo il forte rumore di passi, Hulot crede che l’impiegato stia per arrivare quando in realtà è ancora lontano, e faccia più volte per alzarsi, fermato dal custode. L’estraneità di Hulot alla società moderna inizia a darsi attraverso un rapporto con un rumore che egli non è in grado di interpretare e che invece, attraverso un ben determinato punto di vista, noi spettatori possiamo comprendere. Il film ci fa sentire quello che sente Hulot, ma ci fa vedere di più, dando vita ad una relazione di partecipazione e distacco tra personaggio e spettatore. L’impiegato arriva e fa accomodare Hulot in una sala d’attesa, le cui vetrate danno direttamente sulla strada. Alcune inquadrature riprendono l’uomo dall’esterno, quindi lo vediamo mentre sentiamo il rumore del traffico, e così sembra essere prigioniero di una gabbia di vetro circondata da suoni minacciosi. Lo spaesamento del personaggio è accentuato dalla presenza di alcuni ritratti fotografici, gli sguardi dei quali sembrano diretti verso Hulot, il quale si trova solo in quella sala ma con mille occhi puntati su di lui. Ciò che turba Hulot sono le poltroncine in semipelle del locale, in quanto emettono uno strano suono. A Hulot i rumori della società moderna non si adattano, o meglio, è lui che non riesce ad adattarsi ad essi. Sopraggiunge quindi un altro personaggio, sempre nella sala d’attesa, uno yuppie anni Sessanta, il quale sembra essere perfettamente integrato nella società moderna. L’opposizione tra i due personaggi è costruita attraverso il loro diverso rapporto con il rumore: il nuovo arrivato non si stupisce dei suoni amplificati delle poltroncine, anzi, lui stesso quando si muove emette una serie di suoni amplificati che si integrano perfettamente con quelli proprio a quel determinato ambiente. Quando l’impiegato tornerà nella sala d’attesa sarà per far accomodare l’ultimo arrivato, non Hulot. Tati dà vita all’opposizione tra i due personaggi che esprimono un modo diverso di vivere il rapporto con la società moderna attraverso uno scontro che non è di immagini ma di suoni. L’uso che fa del rumore dà contributo alla costruzione drammatica, narrativa ed espressiva del film. Esempio: Full metal jacket di Stanley Kubrick, 1987 Vietnam, guerra americana. Una carrellata ci mostra i marines che si riparano dietro alcune barricate durante uno scontro con il nemico. Alcuni soldati passano davanti alla macchina da presa trasportando con delle barelle i corpi dei soldati feriti o morti. La componente sonora è costituita da una canzone rock, le cui cadenze si intrecciano al crepitare delle armi da fuoco e al fragore delle esplosioni. Siamo di fronte ad un intrigante montaggio sonoro, giocato sull’interrelazione strutturale di suoni diegetici ed extradiegetici. Voci,
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