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La fine della Repubblica di Venezia: l'occupazione francese del 1797, Schemi e mappe concettuali di Storia

La fine della repubblica di venezia nel 1797, quando l'esercito francese guidato da napoleone bonaparte occupò la città. La crisi politica e morale che affliggeva la repubblica, la violazione della neutralità veneziana e la fine del patriottismo veneziano sono alcuni dei temi trattati nel documento.

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2019/2020

Caricato il 18/03/2024

lara.polloni
lara.polloni 🇮🇹

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Scarica La fine della Repubblica di Venezia: l'occupazione francese del 1797 e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Storia solo su Docsity! LA CADUTA XII 10 febbraio 1789. Mentre la piazza risuona delle risate e degli schiamazzi delle maschere che festeggiano il Carnevale, il doge Paolo Renier sta morendo. E gia piu di là che di qua e continua a chiedere al medico chi pensa che possa essere il suo successore. Paolo Renier fu un buon profeta. Tra parecchi concorrenti, un conclave spendaccione e festaiolo, che aveva sprecato una fortuna in mangiare, bevute e comodità varie, eleggeva proprio il procuratore Manin. La famiglia dei conti Manin, d’origine toscana, trasferita in Friuli nel Trecento, era stata ascritta al patriziato soltanto nel 1651, in seguito all’offerta di centomila ducati per le necessità della guerra di Candia. Nonostante tanti torti e tante colpe, il doge Renier aveva avuto sempre dinanzi agli occhi la preoccupazione di fondo della preservazione dell’indipendenza veneziana. Nelle tragiche vicende nelle quali il doge Manin si trovò coinvolto, la sua preoccupazione fondamentale appare tutt’altra: quella di preservare l’incolumità degli abitanti e l’integrità dei loro beni. Renier non era tanto interessato all’indipendenza della Repubblica, ma la sua preoccupazione andava soprattutto alla conservazione sociale, alla quale ogni cosa va subordinata. Maggio 1789. La riunione degli Stati Generali di Francia a Versailles apre una delle vicende fondamentali della storia dell’umanità. E la Rivoluzione. Da questo momento, la Francia fa notizia in tutto il mondo. Ma già l’anno prima l’ambasciatore veneziano a Parigi, Antonio Cappello, aveva ammonito: è il momento di rompere l’isolamento, di cercare alleanze, la situazione francese è esplosiva e non si sa dove andrà a parare. Già nel 1788, un’ipotesi di partecipazione all’alleanza antiturca tra l’imperatore Giuseppe II e Caterina la Grande di Russia viene lasciata cadere dal Senato. La politica dell’isolamento rimane una vera e propria ossessione. Nel 1790 il ministro veneziano a Torino denuncia le mire francesi di rivoluzione europea. La Francia mirava all’Italia, non solo per creare un diversivo che costringesse l’imperatore asburgico a ritirare le sue truppe dal fronte Reno, ma per far man bassa sulle ricchezze di quel paese benedetto. Ci fu una crisi di tipo culturale: una terraferma ansiosa di mutamenti e travagliata dal dissidio sociale interno si opponeva a una capitale sostanzialmente fedele alle antiche istituzioni e mantenuta dalla costante politica governativa, che la favoriva, a un livello di vita piu che decente. Un elemento di disturbo era rappresentato dagli emigrati francesi che, di mano in mano che la situazione interna precipitava per loro, si spargevano dappertutto in giro per l’Europa. Con l’aggravarsi della crisi francese, le voci degli emigrati spargevano notizie sempre piu tragiche, i massacri nelle prigioni, la decapitazione del re e della regina, la lunga serie di vittime consegnate alla ghigliottina. La buona società veneziana inorridiva, ma fino a un certo punto. Quelle notizie venivano da lontano, la quiete ovattata della vita veneziana, con i sui teatri, i suoi balli, i suoi Carnevali, le sue funzioni religiose e le sue cerimonie di Stato, le rendeva quasi irreali. C’era un malumore generale che si tramutava spesso in spiriti rivoluzionari. La Repubblica segue gli eventi francesi adattandovisi. Una profferta di lega difensiva da parte del re di Sardegna è rifiutata nel tardo autunno 1791; nel novembre del 1792, il Senato rifiuta di aderire alla coalizione europea contro la Francia. In queste circostanze, non è che gli altri stati italiani brillassero per straordinaria fermezza; al contrario. Ma, nonostante il suo calo di prestigio, Venezia era ancora circondata da un’antica fama di avvedutezza politica, di abilità diplomatica, che, in un certo senso, l’impegnava di piu di fronte all’opinione pubblica. Nella testa dei savi e di molta parte del senato, il diritto delle genti teneva una parte fondamentale: costituiva una base fissa, un appoggio, ne si immaginava che qualcuno ardisse violarne i principi sacri e inviolabili. Un simile modo di ragionare avrebbe forse potuto trovare qualche vaga rispondenza nei vecchi generali dell’Ancien Regime, ma certamente non nella giovane generazione dei generali francesi nati dalla Rivoluzione, ai quali, del diritto delle genti, non importava un bel nulla. Fa senso pensare che questo tipo di fiducia si sviluppasse all’interno di un corpo come il Senato. Fin qui, comunque, Venezia aveva serbato abbastanza dignitosamente il proprio equilibrio nel nuovo stravolgimento che investiva l’Europa. Gli avvenimenti in Francia potevano legittimamente far sperare al Senato di avere scapolato il momento piu acuto della crisi. Tanto piu che il ministro francese Lallement presentava, il 25 febbraio 1795, il testo di due deliberazioni governative che confermavano l’intenzione di mantenere la buona intelligenza e di consolidare viepiu òle buone relazioni tra le due Repubbliche. Si pensava, dunque, che fosse giunto il momento di normalizzare definitivamente le relazioni diplomatiche. Nelle giornate piu torbide della Rivoluzione, l’ambasciatore Alvise Pisani aveva lasciato Parigi; sembrava il caso di mandare qualcuno al suo posto; fu deciso di mandare il nobilomo Alvise Querini, con il titolo di nobile in Francia. Mentre in Francia il potere passava al Direttorio, esplodeva la questione del conte di Lilla, il primogenito di Luigi XVI. Morti tragicamente il fratello, la cognata e il nipote Luigi XVII, egli aveva assunto la figura e la posizione di pretendente al trono francese. Ciò, ovviamente, non andava a genio alle autorità francesi; mentre Lallement protestava a Venezia, il nobile in Francia subiva fieri attacchi da parte del ministero degli affari esteri del Direttorio. Era un nuovo focolaio di ostilità che minacciava di accendersi. La questione giunse in Senato, e vi fu vivacemente dibattuta. Francesco Pesaro era del parere che si dovessero rispettare i sacri doveri dell’asilo e dell’ospitalità e i savi del Consiglio optarono per l’espulsione del pretendente ed egli cosi decise di partire. Nel frattempo, in una lettera indirizzata al Senato il 17 febbraio 1796, Lallement annunciava enfaticamente che centomila repubblicani stavano per discendere in Italia, non per conquistarla, ma per cacciare al di là delle Alpi le orde austriache che da troppo tempo la desolavano. Ma la notizia piu grave di tutte, il Lallement non la comunicava, ne, se l’avesse comunicata, avrebbe suscitato alcuna reazione: mentre il comando supremo delle forze austriache era stato conferito ad Beaulieu, il comando dell’armata francese d’ Italia veniva assunto da un giovane e sconosciuto generale dal nome italiano, Napoleone Buonaparte. Il quale prende possesso del suo quartier generale a Nizza il 20 marzo 1796. A fine aprile 1796: il Piemonte, baluardo militare d’Italia, era crollato in un soffio e l’esercito imperiale era in ritirata. A maggio, il giovane generale, infischiandosene del diritto delle genti, violava la neutralità del ducato di Parma e passava il Po d’improvviso, addosso al Beaulieu che si vedeva costretto a cedere la Lombardia austriaca. I centomila repubblicani si avvicinavano a gran passi. E stato detto e ripetuto che il Senato non avrebbe mai potuto aspettarsi un’evoluzione cosi rapida delle vicende di guerra, men che meno la ritirata dell’esercito imperiale; l’avere tra la Francia e i propri confini il regno di Sardegna e la Lombardia austriaca poteva dare una certa tranquillità. Ma la sorpresa non giustificava la rassegnata assenza di ogni ragionevole misura protettiva, assenza motivata delle ristrettezze economiche e da altre ragioni plausibili, ma insufficienti. Il fatto è che molta parte della classe dirigente veneziana era già nello stato d’animo della rinuncia. Per fronteggiare la nuova situa il Senato eleggeva un provveditore generale in terraferma, con autorità su tutti i rettori e i rappresentanti veneziani e con l’incarico di coordinare le operazioni necessarie ad assicurare il rispetto della neutralità. La violazione della neutralità veneziana da parte del maresciallo Beaulieu, che occupava a sorpresa la fortezza di Peschiera, trascinava con sé la violazione della neutralità veneziana anche da parte dei francesi. Bonaparte accusò i Veneziani di parzialità verso gli imperiali. La terraferma diventa terreno di manovra e di scontro per i due eserciti. Il podestà descrisse Bonaparte in termini tra l’ammirato e l’inorridito. Il 1 giungo 1796, a Valeggio, ha luogo il primo incontro col provveditore generale Foscarini. Successivamente Bonaparte finge di rinunciare a malincuore di bruciare Verona purche il provveditore (Foscarini) consenta alle truppe francesi di occuparla. Foscarini acconsente a ciò e gli fu data una grande colpa per ciò, tuttavia il Senato non gli aveva dato altra scelta. Mentre Venezia festeggia, per l’ultima volta, l’Ascensione con una cerimonia, ecco i Francesi a Verona. I rapporti formali tra le autorità venete e i comandanti dell’armata d’Italia sono corretti, ma la popolazione è malcontenta; i Francesi pretendono di essere mantenuti in cambio di buoni senza alcun valore, i soldati rubano e insidiano le donne, emerge un’atmosfera di insicurezza e di tensione. In seguito ci fu una riunione che portò a varie iniziative: il Senato aveva eletto un un provveditore alle Lagune e ai Lidi, col compito di coordinare le misure difensive necessarie ad assicurare la sicurezza della capitale. Una serie di funzionari e di ufficiali veniva investita di varie responsabilità nei vari settori difensivi. Era stato poi deciso l’invio a Verona di due savi del Consiglio, che avrebbero dovuto incontrarsi col generale Bonaparte e rassicurarlo sulle buone intenzioni della Repubblica. I due savi, trovarono un Bonaparte inaspettatamente tranquillo e quasi cordiale, che parlava di essersi dimenticato delle vicende di Peschiera e che voleva dare l’indipendenza a Milano per avvantaggiare Venezia, che non si sarebbe piu trovata circondata dagli Austriaci su tre lati. Il generale, però, chiese in cambio un grosso rifornimento di armi, ventimila fucili; intanto gli inquisitori di Stato informavano il Senato che ormai era certo che Bonaparte pensava di impadronirsi di Legnano per meglio investire la fortezza austriaca di Mantova e per controllare la navigazione dell’Adige, a danno di Venezia…è chiaro che i savi ci pensarono due volte prima di leggere al Senato un comunicato cosi sgradevole. L’anno 1796 trascorreva così tra violenze degli uni e degli altri belligeranti, tra proteste diplomatiche e iniziative di difesa della laguna. trovava via via nuovamente ridotta alle sue condizioni originarie di completo isolamento dalla terraferma. Nel precipitare degli eventi, riprende peso e autorità la figura del doge. Un rapporto dell’ammiraglio Condulmer che riferiva sui lavori iniziati dai Francesi, schierati sul confine lagunare, per procurarsi un valico attraverso le secche verso la città, e che si dichiarava disposto ad usare il cannone per distruggerli se i savi gliel’avessero ordinato, provocò tensione e timore. Il 1 maggio, si raduna il Maggior Consiglio, ad ascoltare un discorso del doge. La parte autorizza i deputati di Bonaparte, al quale viene aggiunto il luogotenente del Friuli, Movenigo, a trattare con il generalissimo anche la modifica della forma di governo. E il principio della fine dell’aristocrazia, a cinquecento anni dalla serrata del Maggior Consiglio; eppure riporta ben cinquecentonovantotto voti. Ma lo stesso giorno Bonaparte aveva pubblicato un manifesto che costituiva una dichiarazione di guerra in piena regola. Il manifesto concludeva con l’ordine del ministro Lallement di lasciare Venezia; le truppe francesi avrebbero dovuto trattare da nemiche le truppe venete, e dovunque, i leoni di San Marco avrebbero dovuto essere atterrati. Il giorno dopo il generale entrava a Treviso dove non era ancora successo nulla. Un Maggior Consiglio piu che mai inerte e spaurito, dopo aver ascoltato un nuovo discorso del doge, ratificò a precipizio le misure imposte dalla volontà francese. L’ambasciatore di Vienna, scriveva di aver saputo per certo che i Francesi intendevano democratizzare il governo veneto. Non era piu una novità. I partigiani delle idee di Francia, adesso, erano un po piu numerosi. Avevano ben poco da macchinare dato che l’iniziativa era completamente in mano all’esercito francese e all’agente diplomatico francese, ma la paura dell’insurrezione, della sovversione, si era impadronita di quasi tutti i personaggi rivestiti di qualche responsabilità, compresi il comandante militare Condulmer e il deputato dell’interna Custodia, responsabile dell’ordine pubblico. Quella psicosi, quella paura dovevano dare il colpo di grazia al governo e all’indipendenza veneziana. Il doge continuava a parlare di salvare la vita, la religione e le sostanze dei cittadini utilizzando la mediazione del segretario incaricato d’affari della legazione di Francia; i savi, erano talmente suggestionati dalle minacce di Andrea Spada, presunto capo della congiura e confidente del Villetard, da pretendere che il conferente di Francia, Piero Donà, conferisse direttamente con lui. Nemmeno il Donà era disposto a tanto. Ma a complicare le cose a questo punto compariva, a questo punto, un altro confidente di Villetard. Costui aveva la funzione di mediatore e aveva spaventato ancora di piu il deputato dell’Interna Custodia Morosini, raccontandogli di aver sentito alla tavola del Villetard che tutto era pronto per l’insurrezione , ma che egli stesso era riuscito a farla rinviare di un giorno purche si potessero concordare col doge le modalità di un trapasso indolore , ed era riuscito a far convocare una nuova consulta, alla quale si era presentato il 9 maggio assieme ad Andrea Spada. Donà e Battagia presentarono una scrittura che conteneva il pensiero di Villetard. Era un nuovo ultimatum: liberazione immediata di tre prigionieri politici che si diceva fossero rimasti in carcere , apertura al pubblico delle prigioni dei Piombi e dei pozzi, licenziamento dei soldati schiavoni; affidamento dell’ordine pubblico a un comitato speciale, del quale Spada doveva essere il segretario; poi, in un secondo momento, innalzamento dell’albero della libertà in piazza San Marco, amnistia generale, libertà di stampa e istituzione di una Municipalità provvisoria di ventiquattro membri, che avrebbe invitato le città della terraferma, dell’ Istria, della Dalmazia e delle isole Ionie a riunirsi alla loro antica capitale nella nuova forma di governo. La Municipalità provvisoria avrebbe dovuto essere presieduta dal doge Manin e da Andrea Spada. IL piano era semplice:  La liberazione dei rimanenti prigionieri politici, e l’apertura delle prigioni e l’apertura ai cittadini della visita alle prigioni dovevano avere un significato propagandistico; l’allontanamento degli schiavoni doveva garantire contro il rischio di un colpo di mano o di un ammutinamento; la composizione della Municipalità doveva coinvolgere il doge, tranquilizzando il patriziato detronizzato. La festa dell’albero della libertà, doveva rispondere al tradizionale amore dei Veneziani per le cerimonie corali e per la coreografia Ma c’era una clausola, che era una clausola chiave, e che annullava in un colpo solo oltre undici secoli di storia e di tradizione veneziana: quella che prevedeva l’ingresso in città di una forza di occupazione di tremila soldati francesi. La Consulta, appena informata, andò in uno stato di profonda confusione. L’ultimo atto del malinconico dramma si svolse il 12 maggio 1797. La mattina presto, Andrea Spada porta a casa di Francesco Battagia uno stralcio della lettera del tesoriere dell’armata di Italia, che confermava l’accordo di Bonaparte con le proposte di Villetard. Sulla base di quel documento privato, il doge di Venezia doveva proporre al Maggior Consiglio di Venezia l’abdicazione propria e del Consiglio, e il consenso di quest’ultimo all’occupazione di Venezia da parte di truppe di uno Stato straniero e dichiaratamente nemico. Mentre i nobili entravano in palazzo ducale alla spicciolata, una gran folla si ammassava tra Piazza e Piazzetta. C’era molta tensione nell’aria. La seduta si aprì con la questione del numero legale e successivamente parlò il doge. Il risultato della votazione fu: cinquecentododici voti per la parte, trenta contrari e cinque astenuti. Mentre il consigliere in settimana prendeva la parola per mostrare il decreto, si udì risuonare, all’esterno del palazzo, una serie di spari. Erano i soldati schiavoni che, a bordo delle navi che li trasportavano in patria tiravano cannonate forse come forma di saluto. Seguì una grandissima rivolta difficile da sedare. La caduta della Repubblica aristocratica e le sue ultime vicende suscitano, da sempre, espressioni di riprovazione e disprezzo. Che Venezia fosse in uno Stato di crisi generale all’inizio del secolo non ci stupisce, quello che sorprende è che si sviluppò anche una crisi di tipo morale, d ovuta all’allargarsi degli orizzonti politici al di là dei confini del patriottismo veneziano: molti componenti del patriziato, molti membri del Senato, delle varie magistrature , del Collegio, e anche delle malaugurate Consulte , appartenevano all Massoneria, avevano orientamenti illuministici, non si trovavano piu a loro agio con la politica veneziana. C’era chi pensava bisognasse evitare soprattutto di rimetterci troppo, bisognava trovarsi dalla parte del vincente, bisognava essere partecipi del cambiamento perchè nulla cambiasse, o non cambiasse troppo. Nel corso dell’organizzazione nella difesa delle lagune, si erano viste cose disgustose, come comandanti che rifiutavano delle cariche perche non le ritenevano degne di loro. Senza l’appoggio di una flotta efficiente Venezia era destinata a rimanere bloccata, senza possibilità di ricevere rifornimenti di viveri, ne aiuti militari. Era quindi normale che i responsabili si preoccupassero di come alimentare la popolazione e i difensori, oltre che di come far fronte ad un esercito numeroso che si presentava pronto ad attaccare. Il suicidio del Maggior Consiglio sarebbe dovuto essere la garanzia della sopravvivenza della Repubblica. Non fu colpa del governo aristocratico se quella sopravvivenza fu troncata dagli accordi tra la Rivoluzione, rappresentata da Bonaparte, e l’assolutismo rappresentato dal barone Thugut. E stato scritto che l’abdicazione del Consiglio rappresentava una fuga dalle responsabilità. Era vero. Ancora una volta Venezia diventava il bersaglio d’odio di un’Europa invidiosa: troppo a lungo aveva resistito, troppo a lungo aveva conservato la propria indipendenza. Mentre il generale Bonaparte preparava la sua bene architettata beffa ai danni dei democratici veneziani, costoro si sostituivano ai padroni di un tempo, senza nemmeno le garanzie derivanti da lunghe consuetudini, da un lungo costume di convivenza con la vecchia classe dirigente, ora ed esausta.
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