Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Sintesi del Manuale del film di Rondolino e Tomasi, Sintesi del corso di Teoria Del Cinema

Sintesi breve e schematica del libro "Manuale del film"

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 10/12/2021

giuliazuppa
giuliazuppa 🇮🇹

4.5

(2)

6 documenti

1 / 49

Toggle sidebar

Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Sintesi del Manuale del film di Rondolino e Tomasi e più Sintesi del corso in PDF di Teoria Del Cinema solo su Docsity! 1. Sceneggiatura e racconto 1.1 Che cosa è una sceneggiatura Prima di un film (narrativo) c'è un'idea (di una storia) che è solo abbozzata. Questa idea viene definita, articolata e modificata grazie alla sceneggiatura ovvero una descrizione coerente di eventi, personaggi, dialoghi connessi tra loro. Ci sono diversi stadi tra idea e sceneggiatura: 1. Il soggetto: È la prima manifestazione concreta di un'idea. Può essere: - Originale, quindi da articolare e ampliare - Preesistente, letterario, quindi da selezionare, tagliare In entrambi i casi il soggetto diventerà altro. 2. Il trattamento: Gli spunti narrativi del soggetto vengono sviluppati e approfonditi. La forma è ancora letteraria, ma più definita e più funzionale alle scene, dal momento che si precisano le ambientazioni e le situazioni. I dialoghi sono ancora in stile indiretto, ma la storia è ben delineata. 3. La scaletta (a volte precede la fase 2): Passaggio dal momento letterario alla costruzione del film. Il trattamento è scandito, diviso in scene che vengono numerate. Serve a tenere sott'occhio l'intera storia, anche per capire se ci sono errori. 4. Il decoupage tecnico: Divisione delle scene in singole immagini (inquadrature o piani), che sono numerate e si indica il contenuto, i movimenti di macchina, il punto di vista della cinepresa... 5. Lo story board: Accompagna il testo scritto con immagini, disegni, che prefigurano le inquadrature. Dagli anni 80 verrà accompagnato a forme di previsualizzazione elettronica. 6. La sceneggiatura desunta dalla copia definitiva del film: Segue la lavorazione del film e serve per conoscerlo o studiarlo meglio. L'autore è un critico o uno studioso di cinema. Questo processo è in verità molto astratto: Vanoye: Dice che esistono forme miste, che variano in base al regista e alla sua idea Pudovkin (anni 20): Parla di “sceneggiatura di ferro", cioè di una definitiva precisazione di ogni particolare Cinema americano classico (dal sonoro alla fine degli anni 50). Notevole funzione alla sceneggiatura Compito del regista è quello di seguire il decoupage tecnico Nouvelle Vague: improvvisazione Hitchcock: Un film ben sceneggiato è un film già fatto. Nel saggio dedicato a “Viaggio in Italia” distingue la sceneggiatura programma, cioè una struttura prete-a-toumer e la sceneggiatura dispositivo, più improvvisata. Cahiers du Cinema: Ostile alla sceneggiatura chiusa. Es. “Nel corso del tempo” (anni 70) viene scritto giorno per giomo. Esistono, oltre ai due estremi, anche posizioni intermedie. Caratteristiche della sceneggiatura: * Fluttuante e instabile: è sempre in modifica, viene ultimata solo a riprese finite * Si dà in funzione di un film (fatto di immagini): è destinata a “diventare un’altra cosa” (Jean Claude Carriere) Anche Pasolini in “La sceneggiatura come struttura che vuol essere altra struttura” si esprime dicendo che questa allude al significato attraverso 2 strade diverse, ma concomitanti, rimanda sia al segno letterario sia al segno del film * Deve essere letta in rapporto alle sue immagini, al film * Funzionalità pratica: materiali, luoghi, numero di attori, effetti speciali, budget La sceneggiatura quindi precede, accompagna e segue la realizzazione di un film. 1.2 Che cosa è un racconto In ambito sia letterario sia cinematografico: * Raccoglie due significati diversi: - di storia, cioè di cosa viene narrato - di discorso, cioè come quella cosa viene narrata * È una catena di eventi legati fra loro da una relazione d causa-effetto che accadono nel tempo e nello spazio * La storia inizia sempre con una certa situazione che poi si modificherà nel tempo * Casualità, tempo e spazio sono gli elementi centrali Concetto di narratività: il racconto è un dato concreto e fattuale, mentre la narratività è un insieme di codici, procedure, indipendenti dal medium in cui si possono realizzare La narratività ha quindi una natura virtuale, finchè non viene concretizzata in racconto Serve un'operazione minimale di narratività che permetta di riconoscere un testo come un racconto e Gardies propone la figura di: equilibrio - evento o serie di eventi - squilibrio - evento o serie di eventi - riequilibrio Vladimir Propp, ricercatore, individuò nelle fiabe russe delle funzioni di base, necessarie allo sviluppo di ogni racconto. Questo lavoro, ripreso anche da Claude Bremond, mostra come sotto ogni racconto, in profondità, si nascondono delle figure che si ripetono, ciò che cambia è solo l'aspetto. Greimas propone un modello che si cela sotto ogni racconto, costituito da 6 funzioni: Destinatore Destinatario Soggetto Oggetto valore Adiuvante Opponente Ognuna di queste funzioni viene definita attante, ecco perchè questo modello viene definito modello attanziale. Di ogni racconto si possono individuare più modelli attanziali, a seconda del punto di vista. Secondo Barthes in un racconto ogni cosa ha un senso, ma non tutto fa senso allo stesso modo. Egli distingue gli elementi in due categorie: * Funzioni, che rimandano a un fare, e fanno avanzare la storia, divise a loro volta in: - Funzioni cardinali (anche dette nuclei): fanno procedere il racconto - Catalisi. si aggiomerano intorno a un nucleo senza modificarne la natura alternativa * Indizi. rimandano a uno stato e arricchiscono la storia, sono divisi a loro volta in: - Indizi propriamente detti: elemento del racconto che dà un'informazione esplicita, che rinvia a un carattere, implicano un'attività di decifrazione - Informanti. apportano una conoscenza già fatta Un'unità narrativa può però appartenere a più classi. sorpresa. - Flashforward: rappresentazione di un evento futuro. Portano lo spettatore a chiedersi “come e perchè accadrà" e non più “che cosa accadrà" Sono più incerti rispetto al flashback, che è sempre qualcosa di sicuro. Questi due termini sono legati alla presenza delle immagini, ma anticipazioni e flashback possono essere resi anche sul piano sonoro, e in questo caso prendono più generalmente il nome di analessi e prolessi. Si dividono a loro volta in esterne, interne e miste. * Durata La durata di un film, diversamente dalla durata di un romanzo, non è relativa, ma determinata dal numero di metri della pellicola impressionata. Quindi esiste una durata della storia e una del racconto, quella del racconto in un film è uguale alla durata del film stesso, mentre quella della storia la desume lo spettatore guardando il film. Ritmo e velocità narrativa possono però modificarsi nel corso del film, secondo cinque rapporti temporali diversi tra durata del racconto e della storia (indicati da Genette): - Pausa(TR=n, TS= 0) Auna certa durata determinata dal tempo del racconto non ne corrisponde nessuna diegetica. Una pausa può essere una descrizione, che può venire resa con i movimenti della macchina da presa, con una successione di immagini. La pausa può essere resa anche utilizzando il campo vuoto, ovvero un'immagine priva di elementi diegetici forti, senza azioni narrative (Antonioni, Dreyer, Ozu, Bresson). Più esplicito del campo vuoto è il fermo fotogramma, dove l'immagine viene bloccata mentre il film continua a durare. - Estensione (TR > TS): il tempo del racconto è superiore a quello della storia, che però non è nullo. Il modo più efficace è lo slow motion, che ha spesso la funzione di enfatizzare e dare maggior risalto a certi eventi, come nelle scene d'azione (Kurosawa, Peckinpah, John Woo). Possono anche venire introdotte delle immagini descrittive o di natura simbolica, che fanno durare di più l'evento rappresentato. - Scena (TR = TS): il tempo del racconto è uguale al tempo della storia. Spesso scene di dialogo, nel cinema è molto comune. Una scena è un'immagine o una successione di immagini che rispetta sempre l'integrità cronometrica delle azioni mostrate. - Sommario (TR < TS): il tempo del racconto è minore di quello della storia. Serve per eliminare dei dettagli considerati inutili o per accelerare il ritmo. Dà vita alle sequenze, cioè un insieme di inquadrature che costruiscono un episodio narrativo compiuto, con salti spaziali o temporali. Esistono due tipi di sequenza, quella ordinaria, dove le ellissi sono di minima incidenza, e quella a episodi, dove ci sono una serie di immagini che scorrono con effetti di dissolvenza o con veloci panoramiche. Un altro esempio di riassunto è il ricorrere ad immagini stereotipate. - Ellissi (TR = 0, TS = n): a una durata determinata del tempo della storia non corrisponde nessuna durata del tempo del racconto. Sarebbe un silenzio testuale, una soppressione temporale. Ha la funzione di eliminare dettagli inutili, tempi morti, celare un evento di rilievo per poi mostrarlo più avanti o interrompendo questo evento di rilievo, generando suspence e stupore. Quando si parla di durata al cinema bisogna tenere conto sia delle singole immagini, sia dell'iniseme di immagini. Gardies dice infatti che la durata al cinema risulta da una doppia articolazione, da un altemarsi di durate piene e di durate interrotte. * Frequenza Si intende il rapporto tra il numero di volte che un evento è evocato nel racconto e il numero di volte che si presume sia accaduto nella storia. Genette individua quattro casi possibili: - Racconto singolativo (1R/1S): racconta una sola volta quanto avvenuto una sola volta - Racconto singolativo plurale (nR/nS): racconta n volte quanto accaduto n volte - Racconto ripetitivo (NR/1S): racconta n volte quanto accaduto una sola volta Più raro dei due precedenti, può essere la ripetizione di una singola cosa, o di un intero episodio (Rashomon di Kurosawa, 1950). - Racconto iterativo (1R/nS): racconta una volta quanto accaduto n volte Difficile da rendere con le immagini, spesso si usa la voce, o una successione di immagini (un montaggio) molto brevi, che mostrano uno stesso evento, rappresentandolo a partire da piccole variazioni. Si può riassumere nella formula “poche volte nel racconto per più volte nella storia”. 1.3.4 Vedere e sapere L'istanza narrante ha il compito di determinare diverse strategie narrative, che fanno diventare una storia un racconto. Una di queste strategie è la focalizzazione (Genette). Con focalizzazione si intende il modo in cui vengono regolati i rapporti di sapere tra istanza narrante, personaggio e spettatore. Ad esempio l’effetto sorpresa e l'effetto della suspence sono due modi ben diversi di veicolare le informazioni allo spettatore, la suspence ci fa sapere di più dei personaggi, la sorpresa avviene proprio perchè sappiamo come i personaggi. Genette articola una tripartizione di questo rapporto: * Racconto non focalizzato (o focalizzazione zero): narratore> personaggio * Racconto a focalizzazione interna: narratore=personaggio * Racconto a focalizzazione estema: narratore<personaggio Il carattere della focalizzazione è il suo essere variabile all'interno dello stesso film, può focalizzarsi su più di un personaggio, e anche se si rapporta con un solo personaggio può comunque approfondire o tralasciare delle informazioni. L'elemento caratterizzante del film per è l'immagine, e questo porta ad introdurre il termine di ocularizzazione (Jost), ovvero la relazione tra quello che la macchina da presa (o l'istanza narrante) mostra e quello che il personaggio vede. Anche questa si può suddividere in due categorie: * Ocularizzazione interna: quello che lo spettatore vede è visto anche dal personaggio. Questa si può dividere in: - Interna primaria: Quando le immagini hanno in sè una traccia di qualcuno che le guarda (tratti di deformazione ottica dovuti allo sguardo del personaggio, immagini in movimento dovute al movimento di quest'ultimo). - Interna secondaria: Alternanza di due immagini che mostrano una il personaggio che guarda, e l'altra quello che il personaggio guarda. * Ocularizzazione zero (0 nobody shot): lo spettatore vede senza la mediazione del personaggio. Sarebbe lo sguardo esterno alla diegesi e può asua volta dividersi in: - Immagine a enunciazione mascherata: immagini ordinarie, chiare, come se la macchina da presa non esistesse. - Immagine a enunciazione marcata: Evidente la volontà di non mostrarci tutto, per generare dubbi, sorprese. Il rapporto tra focalizzazione e ocularizzazione equivale a un rapporto tra vedere e sapere, ma il sapere spesso è solo parziale. Le informazioni del mondo diegetico di un film sono veicolate dalle immagini, dalle musiche, dalle parole, dai rumori e dalle menzioni scritte. L'assenza di focalizzazione è chiamata spesso anche focalizzazione spettatoriale, in quanto è lo spettatore a godere di un punto di vista privilegiato. Il racconto nel cinema moderno e postmoderno Il cinema contemporaneo manifesta un ritorno alla narrazione a tutto campo, che si piega a dinamiche euforiche e sensazionalistiche. Si passa dal racconto ben costruito a un desiderio di incomprensibilità e di vertigine, che diventano le caratteristiche principali. Le strutture narrative stesse si complicano e si ramificano, questo in risposta alla presenza di una nuova tipologia di spettatore, abituato a mass media non lineari, come internet e i videogiochi. Questo privilegia anche la creazione di sequel dei vari film, diventando delle verie e proprie serie. L'intertestualità narrativa è segnata anche dai continui riferimenti ad altri film o contesti culturali e citazioni, che creano nella spettatore un piacere ludico nel riconoscerle. Viene reintrodotto il ralenti (anni Sessanta) che serve a colpire lo spettatore, secondo una logica di attrazione ed estetizzazione. Dal cinema classico viene quindi ripresa l'idea del coinvolgimento e da quello modemo l'idea dell'antiillusionismo. Questi effetti temporali non hanno solo funzione di attrazione spettacolare ma anche di attrazione drammatica, valorizzando la centralità, l'essere di un personaggio. 1.4 Il Racconto seriale 1.4.1 II mondo valorizzato delle serie tv La serialità diviene specchio della realtà, infatti nelle serie televisive americane argomento centrale è spesso la paura, emozione costante nell'era della globalizzazione. Altra emozione di spicco è il male, che da un altrove si sposta nel nostro intimo, dove diventa un sentimento da accettare e tenere sotto controllo. La serie televisiva crea un mondo narrativo duraturo, con un gruppo coerente di personaggi che vivono una catena di certi eventi in un certo arco di tempo. Gli elementi dello storytelling sono quattro: personaggi, eventi, spazio e tempo. 1.4.2 1 personaggi; lo spazio * Anni Cinquanta: fidelizzazione del pubblico proponendo personaggi stereotipati, dal comportamento ricorrente che rispecchiano la quotidianità dello spettatore. Avvento delle comedy, dove la normalità viene esasperata in modo ironico. * Anni Sessanta: avvento della sci-fi, derivata dall'ottimismo riguardo il progresso della scienza. * Sessantotto: visto il moment di incertezza politica e identitaria spiccano gli eroi del quotidiano (medici, avvocati, forze dell'ordine...) C'è una nuova attenzione per la psicologia dei personaggi, che acquistando un passato si evolvono con i loro sentimenti e le loro angosce. * Anni Settanta e Ottanta: rivendicazioni femministe, compaiono anche eroine femminili * Anni Novanta: storie di adolescenti e dei loro drammi. La svolta che rivoluziona l'idea di serialità la segna Lost, creando personaggi psicologicamente complessi, che evolvono durante tutta la serie. Da Lostin poi il personaggio inizia ad essere sempre più complesso e spesso la figura dell’antieroe non si conclude con la redenzione ma con la perdizione, che comunque il pubblico è disposta ad accettare e a comprendere. L'antieroe per la società del tempo è forse l'elemento più eccitante, dal momento che le vecchie morali sembrano non reggere di fronte alla realtà caotica del tempo. Molti letterati italiani divennero sceneggiatori o vendettero le loro opere al cinema, o adattarono parecchi romanzi per il cinema (Gozzano, D'Annunzio, Grazia Deledda, Verga), nobilitando il cinema come forma d'arte. Negli anni Trenta nel cinema italiano vennero interpellati grandi autori come Pirandello, Moravia e Longanesi. Sempre negli stessi anni la cinematografia fascista cercò di affermarsi avvicinandosi al cinema americano. Il cinema francese sonoro invece si alimentò di teatro e letteratura. Il Neorealismo italiano creò invece un cinema di volti e di cose (Zavattini e Rossellini), dove il lavoro di scrittura non era strutturato, contrapponendosi al cinema americano. | neorealisti lavoravano anche in gruppo, dibattendo tra loro. La creazione di un lavoro di gruppo fa slittare il cinema di qualità a quello commerciale. Fu negli anni Sessanta che in Italia si attestò il cinema d'autore, in cui sceneggiatori collaboravano con registi (Zavattini con De Sica, Suso Cecchi D'Amico con Luchino Visconti, Tonino Guerra con Antonioni, Tullio Pinelli ed Ennio Flaiano con Fellini). Gli esponenti della Nouvelle Vague erano nati come critici dei Cahiers du Cinema, ed erano convinti che il regista dovesse esprimere la sua visione personale sia nella sceneggiatura sia nello stile. Negli anni Novanta il cinema italiano prende di nuovo il via con una nuova linea di sceneggiatori, che elaborano nuove strutture narrative, personaggi e ambientazioni differenti, pur mantenendo tratti del cinema classico. A fianco a questi rimane la figura dello sceneggiatore-regista (Paolo Sorrentino, Nanni Moretti). Nel cinema sovietico il tema ricopriva un ruolo molto rilevante, dal momento che la sceneggiatura nasceva da un afflato ideologico. Secondo Pudovkin il lavoro di sceneggiatura continuava anche dopo l'intreccio, ricercando volti, gesti, oggetti e spazi e attribuendo così un significato rilevante sia alla sceneggiatura sia al montaggio. Il regista sovietico spesso partecipava alla stesura dello sceneggiato. inquadratura Le inquadrature sono immagini in movimento e sono l'unità di base del discorso filmico. Possono essere definite come la rappresentazione in continuità di un certo spazio per un certo tempo. Spazialmente è la porzione di realtà rappresentata da un certo punto di vista e delimitata da una cornice ideale costituita dai quattro bordi della stessa, temporalmente invece dalla durata compresa tra il suo inizio e la sua fine. L'inquadratura ha tre peculiarità: rappresentazione, spazio e tempo. A volte il termine viene confuso con quello di piano, che in realtà si riferisce alla porzione di spazio inquadrata, alla sua organizzazione e composizione, mentre l'inquadratura è la cornice che rappresenta uno spazio delimitato. Altra caratteristica dell'inquadratura è la sua bidimensionalità, che viene resa apparentemente tridimensionale grazie a diversi effetti ottici e a tecniche di angolazione, movimento e profondità di campo. Si collega alla nozione di prospettiva, cioè l'arte di rappresentare in una superficie piana degli oggetti con modi e tecniche che rendano questi simili a come sono nella realtà. Ogni inquadratura è il risultato di scelte relative a due livelli: * Il profilmico, cioè tutto ciò che si trova davanti alla macchina e che è lì apposta per essere ripreso. Il profilmico è connesso alla messa in scena, che indica il lavoro di organizzazione del regista dei materiali di ogni inquadratura. * Il filmico, cioè il piano discorsivo, il linguaggio del cinema, ovvero i modi con cui vengono rappresentati gli elementi profilmici. Qui sono presenti elementi come l'angolazione e la distanza, la dialettica di campo e fuori campo, di piani oggettivi e soggettivi, movimenti della cinepresa... Il modo di inquadrare un oggetto è determinato da un progetto e da una soggettività, si tradda non solo di riprodurre, ma di scegliere cosa riprodurre (Villain). Possiamo inoltre distinguere tre tipi diversi di piani: * Il piano fisso, ovvero l'assenza di movimento filmico * Il primo piano, ovvero la distanza tra macchina da presa e soggetto ripreso * Il piano sequenza, ovvero un criterio di ordine narrativo e di rifiuto del montaggio La nozione di piano è cambiata anche nel passaggio da cinema classico, con la divisione in scene e sequenze, e cinema moderno, fondato sull'uso del piano sequenza, che sarebbe un'unica inquadratura che può dar vita a diversi quadri differenti tra di loro. L'operazione che mette in relazione le singole inquadrature, scene o sequenze sulla base di un progetto, viene detta montaggio. Il formato dell’inquadratura: l’aspect-ratio Il formato di un'inquadratura è definito sulla base del rapporto tra la sua altezza e la sua larghezza. L'altezza è pari a 1, la larghezza invece può variare fra 1,33 e 2,55. Il formato è comunemente definito come aspect-ratio. Dai film dei fratelli Lumiere fino agli anni Cinquanta e Sessanta il formato accademico (academic ratio) era l'1:1,33 e venne deciso nel 1930 dall’Associazione dei Produttori e Distributori Americani. Esistono però delle eccezioni come l'1:1,20 di Aurora e Il Milione, o il formato del Napoleone di Abel Gance, dove erano presenti tre macchine che proiettavano sullo schermo tre immagini diverse di formato standard. Negli anni Cinquanta, per tenere testa all'avvento della televisione, questo formato venne messo in discussione per la prima volta dal sistema Cinemascope della 20th Century Fox, che usando lenti anamorfiche, modificava il formato in 1:2,35 e 1:2,55. Il primo film girato con questa tecnica fu La tunica, a cui seguì Come sposare un milionario. L'introduzione di formati più larghi permise anche al cinema di modificare il tempo di durata delle inquadrature, esempi sono Carmen Jones e Brigadoon, le cui inquadrature duravano 43 e 26 secondi, invece che i 13 standard. Oltre al Cinemascope c'era anche il più perfezionato Panavision, con inquadrature più ricche, che veniva usato in particolare per il cinema d'autore. Fino ai giorni nostri il formato 1:2,35 è il più diffuso, mentre all'1:1,33 viene sostituito all'1:1,85. 2.1 Il profilmico e la messa in scena 2.1.1 L'ambiente e la figura L'ambiente di un’'inquadratura può essere naturale, ovvero fondato sull'uso di uno spazio già esistente, parzialmente modificato, o interamente ricostruito. Nella seconda e nella terza tipologia si può parlare di scenografia. La scenografia è la creazione o la modificazione di un ambiente in funzione della ripresa cinematografica, ed è ripresa dal teatro. Eppure si tratta di due cose diverse dal momento che ogni inquadratura di un film rappresenta un aspetto particolare dell'intera scenografia, della scenografia madre. Ogni inquadratura infatti, dà soluzioni differenti rispetto ad un'altra, in base agli effetti e agli strumenti utilizzati, e anche la possibilità di usare piani molto ravvicinati può mettere in evidenza determinati arredi della scenografia. L'ambiente è legato alle figure che vi entrano a far parte. Il senso di un'inquadratura trova nelle relazioni fra ambiente e figura una significativa definizione. Un esempio è la cornice, che spesso è in sintonia con i sentimenti di un personaggio o in contrasto con quest'ultimo. L'ambiente è quindi contenuto essenziale della definizione dei suoi personaggi. Si parla di ricostruzione dell'ambiente nell'ambito dei film storici o ambientati in epoche lontane, nei musical, spesso c'è anche una ragione economica e soprattutto una volontà di significazione e di controllo assoluto della messa in scena. Ricostruire un ambiente in studio permette infatti di modificame degli aspetti per rendere lo spazio in questio più funzionale all'espressione. I modi in cui si può concepire un ambiente sono diversi, e Martin ne propone una tripartizione: * Realista: l'ambiente non ha altra implicazione che la sua stessa materialità. Il neorealismo italiano e il cinema americano usarono spesso questo tipo di ambiente, che connota una realtà ben precisa. * Impressionista: l'ambiente viene scelto, modificato e ricostruito a partire dalla dominante psicologica dell'azione, sarebbe il paesaggio di uno stato d'animo. La definizione prende le mosse dalla prima avanguardia francese (Delluc, Dulac, Epstein, L'Herbier, Gance). * Espressionista o artificiale: l'ambiente può o meno essere funzionale alla dominante psicologica, ed è interamente artificiale. Il mondo è deformato e stilizzato in funzione simbolica. Esempio di rapporto tra ambiente e figura è la scena del comizio elettorale di Charles Foster Kane (Quarto Potere). In questa scena ambiente e personaggio sono in contraddizione, sia attraverso la tecnica del grande/piccolo sia del naturale/artificiale. In Marnie invece nella scena finale vediamo il paesaggio di un porto con attraccata una nave, che si trova al centro dell'inquadratura, contornata dalle linee dei tetti e dei marciapiedi che danno prospettiva al piano. Questo effetto si chiama quadro nel quadro, dove la presenza di certi elementi profilmici ha il compito di creare una seconda inquadratura. In questo caso il primo quadro rende la nave (ricostruita) il centro dell'inquadratura, l'elemento profilmico e scenografico. Questo perchè ha una valenza simbolica per la protagonista, per il trauma del suo passato, ed è anche metafora dell'ostacolo che la donna deve affrontare. Nel secondo quadro invece la nave viene messa fuori campo, poichè viene rapportata a Mamie, per esplicitare il legame tra lei e l'oggetto. Quando Mamie vede la nave ha appena fatto un passo avanti verso la guarigione, si vede infatti che la donna rientra in macchina, la cinecamera inquadra di nuovo la nave ma in modo diverso da prima, ora la nave è ripresa dall'alto e da molta più distanza, inoltre si vede anche il sole che si sta affacciando, in contrapposizione al clima cupo e minaccioso, claustrofobico e oppressivo, di prima. Lo scopo dell'inquadratura era quindi quella di, attraverso l'ambiente, visualizzare un elemento chiave e di mostrare un'evoluzione ben precisa del personaggio principale, designando il lieto fine del film. Anche in Lanterne rosse viene fatto un esempio del rapporto tra figura e ambiente. Il film viene infatti girato in un suntuoso palazzo, e le inquadrature sono quasi tutte molto simmetriche, per evidenziare la prigionia della protagonista, ma anche il rigido rispetto della tradizione e delle sue regole. La simmetria viene resa anche dai gesti rituali che vengono fatti fare dal padrone alla ragazza, come quello di sollevare una lantema. Dietro la ragazza c'è un'altra lantema, che inizialmente non era in simmetria con la lantema tenuta dalla protagonista. Sotto ordine del padrone di alzare un po' la sua lanterna vediamo che i due oggetti poi si allineranno perfettamente. Vediamo dunque la ragazza integrarsi, essere lei stessa parte della simmetria del castello. - L'illuminazione diffusa: determina un rappresentazione più omogenea dello spazio, più distesa e talvolta idilliaca. * Direzione: Percorso che la luce compie fra la fonte e il suo oggetto. Esistono diverse forme di traiettorie: - La luce frontale, che elimina le ombre e appiattisce l'immagine - La luce laterale, che scolpisce i tratti del volto e accentua il gioco di ombre e luci - Il controluce, che stacca la figura dallo sfondo e ne evidenzia i contomi - La luce dal basso, che distorce i tratti del volto creando drammaticità - La luce dall’alto, che suggerisce la presenza di una fonte di luce diegetica posta in alto * Sorgente: Ne esistono di diversi tipi: - La key light, ovvero la fonte di luce primaria, mette in evidenza il personaggio - La fill light, che serve a riempire l'immagine, e ad attenuare o eliminare le ombre create dalla key light, scolpisce il personaggio - La back light, usata soprattutto nel cinema americano, che si sviluppa dietro il personaggio e lo stacca dallo sfondo Nel cinema classico la luce è asservita al personaggio, ma a volte può anche succedere che la luce venga utilizzata per illuminare parzialmente un personaggio, per renderlo più misterioso, contraddittorio (Persona). * Colore: la luce può creare effetti di colore usando filtri colorati da apporre sopra i riflettori, per modificare lo spazio in modo realistico e non. Il cinema classico secondo Revault D'Allones si costruisce su tre imperativi: * La simbolizzazione, dove la luce si metaforizza, impone un modo di vedere unico e massiccio (effetto dell'ombra a tela di ragno in Il sospetto). * La gerarchizzazione, che ha come elemento primario l'attore e determina in ogni inquadratura cosa è importante e cosa no. * La leggibilità, la luce serve per rendere ogni immagine chiara e riconoscibile. Quindi la luce classica è codificata al servizio dell'unicità del senso. Il cinema moderno opera in modo ben diverso, poichè le luci del mondo vengono riprodotte così come sono, senza essere piegate o trasformate, risultando drammaticamente indifferenti. Negli anni Cinquanta e Sessanta il colore si afferma in modo decisivo sul bianco e nero, anche se la sua introduzione nel cinema avviene già negli anni Trenta (Becky Sharp, Il sentiero del pino solitario, Il mago di Oz, Via col vento). Vennero fatti anche dei tentativi di colorazione della pellicola. Il colore non influì molto a livello del discorso filmico, dal momento che i giochi di colore si potevano fare anche tra i bianchi, i neri e le tonalità del grigio, ma venne pensato inizialmente come un accrescimento della realtà visiva, anche se, soprattutto negli anni Cinquanta a causa della pellicola vergine usata, creava colori molto vivaci, che esaltavano solo le figure. Venne infatti privilegiato nei musical e nei western. Negli anni Sessanta il colore iniziò ad affermarsi anche nel cinema d'autore, iniziando quindi a distinguere diverse funzioni che questo aveva all'interno del discorso filmico: poteva avere una tendenza realistica o fantastica, decorativa o espressivo-psicologica. Il colore, in stretto contatto con la luce, gioca un ruolo di primo piano nella composizione dell'immagine, catturando lo sguardo e gerarchizzando gli elementi e le figure dell'inquadratura. Nel cinema la funzione significante del colore gioca un ruolo diverso per ogni film, ovvero per ogni film vengono costruite delle associazioni arbitrarie tra un colore e un personaggio o un motivo, così da rinviare sempre a quel personaggio in particolare. Quindi il significato di un colore può essere sia simbolico e “scontato”, sia del tutto rovesciato, sia deciso in base ai personaggi e ai motivi presenti nel film. Michel Chion però riuscirà a dare una sommaria periodizzazione della storia del colore: * Periodo del bariolage (accozzaglia di colori): mette a frutto l'investimento sui colori, faceva vedere bene che il film era a colori (anni Cinquanta-Sessanta). * Periodo dell'anti-bariolage: serve a far dimenticre i colori, a spegnerli, denaturarli, renderli discreti (anni Sessanta-Settanta). * Periodo del neobariolage: periodo specificatamente europeo, vede il colore riaffermarsi di nuovo, ma in modo diverso dal primo periodo, dal momento che fanno riferimento al cinema e non più alla pittura (anni Settanta in poi, soprattutto nel cinema contemporaneo). Esempi del funzionamento espressivo della luce e del colore: * La morte corre sul fiume (Charles Laughton): il film ripropone da vicino dei modelli scenografici e luminosi tipici del cinema espressionista. La scena in questione è una climax drammatica, dall'inizio del metaracconto del bambino alla sorellina nella loro cameretta di notte, fino alla comparsa del predicatore nella stessa stanza, entrato per capire dove si trovasse il tesoro rubato dal padre dei bambini. La prima inquadratura dell'episodio è la casa vista dall'esterno, illuminata da un lampione, che ha il compito di introdurre la vicenda, mentre la seconda è l'interno della cameretta con i due bambini, i cui volti sono illuminati. Oltre a questi due punti di illuminazione ce n'è anche un terzo, un quadrato sul muro della stanza, formato dalla finestra illuminata dal lampione (luce intradiegetica). La centralità visiva di questo quadrato è dato in tutte le inquadrature, e talvolta è anche occupato dal bambino. Inizialmente la sua funzione non è chiara, ma funge comunque da espediente drammatico, dal momento che alla fine verrà occupato dal predicatore stesso. Le notti bianche (Luchino Visconti): Mario, innamorato di Natalia, la rincorre, mentre lei si sta dirigendo nel luogo dove pensa di incontrare un altro uomo. Tutte le scene dell'inseguimento sono dominate da luci dinamiche, che hanno funzione di drammatizzare. In una scena i due sono appoggiati a una parete diroccata su cui c'è un'apertura di quella che un tempo era una finestra. Il dialogo tra i due è molto teso ed è rafforzato e reso ancora più drammatico dall'effetto di luci dinamiche che nasce da una parte di ponte sotto cui scorre un fiume. L'inquadratura gioca anche sul controluce, che rende la donna angelica, poichè i capelli mossi dal vento vengono illuminati a sembrare una sorta di aureola. Un'altra inquadratura gioca invece sull'organizzazione drammatica dello spazio, usando un effetto di quadro nel quadro. Il piano è diviso in due dal muro della casa diroccata, e in alto a destra Natalia cade a terra dalla disperazione, mentre in basso a sinistra c'è Mario. La caduta della donna viene vista proprio da quella finestra citata prima, che la mette in evidenza rispetto a Mario, la cui presenza nello schermo comunque gli dà una certa importanza. Psycho (Hitchcock): Lila entra in cantina e trova il cadavere della madre di Norman, quando lo vede urta con la mano una lampadina sopra di lei che oscilla e crea una luce dinamica Amarcord (Fellini): Titta entra finalmente nella tabaccheria della donna di cui si è invaghito, e le chiede un pacco di sigarette. La donna, stando al gioco, lo solleva da terra e lo stringe al suo seno prosperoso, e il giovane colpisce una lampadina che crea come in Psycho un effetto dinamico, caricando il significato ironico e grottesco della scena. Via col vento (Victor Fleming): Rossella O'Hara è disperata per la morte della madre, per la rovina della piantagione, eccetera. Quando esce di casa un forte effetto di luce arancione del tramonto ne mette in rilievo il volto e la sua espressione di dolore. Davanti a lei c'è un altro contrasto, dato dall'arancione del cielo e dal grigio dei campi in rovina. Vede una radice e si getta a terra per mangiarla, e l'inquadratura cambia, facendo vedere soltanto il suo corpo, curvato in modo assai animalesco. La donna si rialza e le viene mostrato il volto, per ridarle dignità, e inizia a pronunciare il famoso giuramento. Alla fine delle sue parole, per dare solennità al giuramento, il controluce ritorna e l'inquadratura si allontana, dando anche una tonalità lirica. Allonsanfan (f.Ili Taviani): Fulvio vede in un flashback i suoi familiari, e tutti sono colorati di un colore diverso, che marca un certo aspetto del loro carattere. Un sogno lungo un giorno (Coppola): i colori verde e rosso mettono in evidenza le diversità e il conflitto interno dei due protagonisti. Quando la donna si allontana dal marito è travolta sia da gioia e libertà che da disperazione e paura e questo viene reso dai toni cupi del paesaggio intorno a lei ma anche dalla presenza di fuochi d'artificio e dall'accensione di luci a neon. Schindler's List: il colore si rapporta al bianco e al nero La congiura dei Boiardi (Ejzenstejn): introduce il colore in modo improvviso, accentuando la natura drammatica dell'evento facendone un esempio di pathos ejzenstejniano. Il pathos è quell'effetto che fa balzare lo spettatore dalla sedia, che lo manda in uno stato di estasi. E Johnny prese il fucile (Dalton Trumbo); il presente dell'uomo, reduce di guerra e invalido, è in bianco e nero, il suo passato è a colori. Il caso Thomas Crown (Norman Jewison): la scena del bacio dei due protagonisti avviene alla fine di una lunga partita a scacchi, e proprio nel momento del bacio c'è un'esplosione psichedelica di colori. Donne sull'orlo di una crisi di nervi (Pedro Almodovar): è tutto giocato su tonalità accese e contrasti tra colori vivaci improvvisi, come la sinfonia di rossi nella scena della preparazione del gazpacho. Ubriaco d'amore (Paul Thomas Anderson): Si gioca sul rapporto tra il vestito blu elettrico dell'uomo e quelli in rosa o rosso della donna che si innamora di lui. Il colore viene usato spesso in modo astratto, come in un film d'avanguardia, che accentuano il sentimento di reciproca attrazione della coppia. Macchine da presa, videocamere digitali, obiettivi e formati della pellicola La macchina da presa è quel dispositivo che consente di fissare le immagini in movimento della realtà su un support fotosensibile costituito dalla pellicola. Il suo compito è di far scorrere la pellicola al suo intemo, da una bobina debitrice a una ricevitrice, in modo che essa venga a trovarsi davanti a un otturatore che aprendosi e chiudendosi imprime i singoli fotogrammi (solitamente 24 al secondo). Nel periodo di otturazione la macchina è resa immobile da un sistema di griffe e controgriffe, che trascinano e bloccano la pellicola. La velocità di scorrimento può essere accelerata fino a centinaia di fotogrammi al secondo, o rallentata, fino a un singolo fotogramma al secondo (film classici d'animazione). La sua componente fondamentale è la lente dell'obiettivo. Esistono diversi tipi di lenti, a seconda della loro lunghezza focale (distanza tra centro ottico della lente e piano della pellicola): * La lente standard: è quella tra i 35mm e i 50mm, perchè simile all'occhio umano. * | grandangoli: hanno una lunghezza focale ridotta, dai 35mm in giù, e accentuano la distanza fra ciò che è sull'avampiano e ciò che è sullo sfondo, risaltano la profondità dell'immagine e distorcono le linee rette ai margini del quadro (Quarto potere, Edward mani di forbice). * | teleobiettivi: hanno lunghezza focale maggiore, da 7amm a 250mm. Permettono di vedere qualcosa di lontano come se foss vicino, accentuano la piattezza e la bidimensionalità, e danno origine ad un'immagine sgranata (documentari, // laureato). Nel cinema contemporaneo, a partire dagli anni Settanta, e poi nel cinema postmoderno, i cineasti sono diventati più duttili nell'uso degli obiettivi, dando un'uso barocco dell'immagine, che privilegia punti di vista eccezionali. Il formato standard della pellicola è rimasto sempre lo stesso nella storia del cinema. Nel 1909 la Motion Picture Patent Control stabilì i35mm come standard. Nel 1922 la francese Pathé introdusse il formato 9,5mm, il Pathè Baby, pensato per un cinema amatoriale. La Kodak nel 1923 rispose con il più costoso e affidabile 16mm, e quando acquistò gli stabilimenti di produzione della Pathè introdusse anche l'8mm, che rimase il formato dominante del cinema Dall'altra c'è il sistema che punta a un rapporto interiore tra attore e personaggio, che deve vivere dall'interno quello che sta portando in scena (Actor Studio di Lee Strasberg). Indipendentemente dal metodo usato l'attore riuscirà comunque a creare un rapporto di identificazione, e in questo si può contrapporre il modello di straniamento, di origine bretchiana, dove si nega l'identificazione tra attore e personaggio, che deve essere visto come un effetto semiotico, una parte di testo. Parlando di stile del discorso attoriale abbiamo diversi tipi: * Recitazione naturalista: molto diffusa, la gestualità e la vocalità assumono le caratteristiche della verosimiglianza, la recitazione è neutrale e invisibile * Recitazione sovraccarica: accentua l'uso del gesto e della voce (Robert de Niro e Jack Nicholson) * Recitazione minimalista: si caratterizza per la sobrietà del gesto e dell'espressione (film di Robert Bresson e Ozu Yasujiro) Si possono distinguere anche due modalità d'interpretazione: * Attore replicante, che impara a memoria la parte, i movimenti, i gesti, le espressioni, e li riproduce * Attore creativo, che recita a partire da un canovaccio, e che tende di più all'improvvisazione Queste tipologie di attori dipendono si dall'attore stesso, ma spesso anche dal regista e dal suo stile, ecco perchè spesso molti registi lavorano quasi sempre con gli stessi attori. Ci sono registi come Bergman, Cassavetes e Leigh che danno più spazio all'attore, e altri più “rigidi”, come Lang, Hitchcock e Argento. Lo spazio dato all'attor evari aanche in base alla tipologia delle inquadrature, ad esempio nel caso di un primo piano o di un long take, viene data più libertà all'attore. Dalla fine degli anni Novanta l'uso di telecamere leggere e manovrate a spalla punta, come si nota in La vita di Adele, a una rivalorizzazione dell'umano, a una nuova intimità con il personaggio. La prossemica, ovvero di tutto quello che concerne la collocazione di diversi elementi nello spazio dell'inquadratura, è molto importante a livello del rapporto tra attore e regista, che scegli edove collocarli nelle scene. Il divo è una componente essenziale dell'attore, ma questo vi si differenzia per l'immagine semiotica che riesce sempre a dare ai suoi personaggi. Infatti porta sempre qualcosa di sè, dell'immagine che lui e i media hanno costruito. Il divo si porta dietro un lo residuo, un passato extradiegetico. Usare un divo in un film porta a tre possibilità (Dyer): * Riproporre i suoi tratti caratterizzanti * Selezionarne solo alcuni * Costruire una certa immagine che si oppone del tutto a quella del divo Altro aspetto fondamentale sono i costumi, che giocano un ruolo molto importante e che cambiano più spesso rispetto al teatro, che rimandano ad aspetti caratteristici del personaggio e che al contempo devono essere consoni all'ambiente del film e ai suoi colori. Anche il make up è di particolare importanza, viene spesso usato per abbellire l'attore, per creare effetti speciali e per mettere in risalto alcune espressioni facciali. Ne esistono di due tipologie: c'è il make up naturale, che non si vede ma esiste, e il make up come artificio, tipico dell'espressionismo tedesco e in molti film di Tim Burton. L'attore e il digitale Il chroma key e il set digitale influiscono molto sul lavoro dell'attore, che deve confrontarsi con nuovi problemi, ovvero quello di dover recitare in uno spazio vuoto, di doversi immaginere ambienti, oggetti e altri personaggi con cui parlare. Tuttavia un set virtuale permette una maggiore durata delle riprese e costi più bassi, che permettono all'attore di improvvisare sempre di più. Usare sempre lo stesso ambiente permette anche di recitare con una maggiore continuità, le riprese con la videocamera in spalla permettono più vicinanza tra chi la regge e l'attore, così da instaurare un dialogo vero e proprio. Da pochi anni esiste inoltre l'attore digitale, questo per via della modellizzazione 3D della Computer Graphic. 2.2 Il filmico 2.2.1 La scala dei piani e il volto umano Il grado zero del linguaggio cinematografico coincide con le origini del film, ovvero il film era formato da un'unica inquadratura, con una cinepresa fissa... Il cinema vero e proprio dicono gli storici, nasce quando si inizia a variare la distanza e l'angolo di ripresa della cinecamera nel corso di una stessa scena. Quando si parla di scala dei piani si intende la diversa possibilità di un'inquadratura di rappresentare un elemento profilmico da una maggiore o minore distanza, e ne esistono diverse: Il campo totale: rappresenta per intero un ambiente, ma mette anche in campo tutti i personaggi che partecipano alla scena. Spesso apre una sequenza per mostrare spazio e personaggi, e si ripropone durante la scena per far notare cambiamenti di personaggi e di azioni. Il campo lunghissimo: abbraccia una porzione di spazio molto estesa, la sua funzione è quella di rappresentare un paesaggio, ha funzione descrittiva (film western). Il campo lungo: i personaggi e l'azione sono più riconoscibili, la descrizione va di pari passo con lo sviluppo della narrazione (Mizoguchi, Antonioni). Il campo medio: dà equilibrio ad ambiente e figura, poichè questa occupa un terzo o metà della verticale dello spazio rappresentato. Punto di vista simile a quello teatrale. La figura intera: la figura umana occupa un'altezza pari a due terzi o più della verticale, afferma la centralità del personaggio. Il piano americano: dalle ginocchia in su. La mezza figura: dalla vita in su. Il mezzo primo piano: dal petto in su. Il primo piano: dalle spalle in su. Il primissimo piano: solo il volto. Il particolare: riferito a una parte del corpo o al volto. Il dettaglio: piano ravvicinato di un oggetto. Il primo piano, tra tutte le figure, è quello che è stato più a lungo dibattuto. In origine veniva visto come un taboo, o comunque veniva usato con estrema cautela, poichè ingigantire all'improvviso una figura e mostrarla staccata dall'ambiente, senza un contesto, poteva disturbare lo spettatore. | primi piani all'epoca venivano difatti chiamati teste tagliate, ed erano presenti solo in film fantastici, dove le dimensioni impossibili potevano comunque venire rappresentate senza turbare nessuno. Il primo piano poteva venire collocato solo all'inizio o alla fine di un film, non in mezzo, perchè avrebbe guastato la tensione drammatica el'impressione di realtà dello spettatore. Però qualcuno come Epstein, Dulac e L'Herbier si iniziava a rendere conto dell'importanza del primo piano, visto come una nuova dimensione del cinema, che da spaziale diveniva espressiva. Anche per Ejzenstejn il primo piano e il dettaglio erano di particolare importanza, perchè “permetteva di penetrare nell'intimità di ciò che succede sullo schermo”. Il critico e teorico ungherese Balazs diceva che per lui il volto in primo piano era la gepgrafia di un paesaggio, una micro fisionomia. Il primo piano concerne il passaggio a un'altra dimensione, dove ciò che si afferma sono la fisionomia, l'espressione. Più avanti Bonitzer sottolineò l'importanza del primo piano nella forza espressiva ed eversiva che rivestiva, che aveva una propria autonomia. Deleuze lo definisce come immagine-affezione e lo divide in due categorie: * Il volto riflessivo, che si fissa su un oggetto, è ammirazione e stupore e il suo correlato è la qualità (Griffith). * Il volto intensivo, che risente qualcosa, tende verso un limite e oltrepassa una soglia, e ha per correlato la potenza (Ejzenstejn). Aumont propone invece la distinzione tra il volto del cinema classico e di quello modemo. Quello classico è leggibile, quello modemo invece è pieno di misteri, rifiuta di farsi leggere. Indipendentemente dal tipo, il primo piano permette un processo di intimità tra personaggio e spettatore. Il primo piano, essendo “terra di nessuno", mostra una mappa disegni che lo spettatore deve decifrare per capire il personaggio, e questa mappa spesso viene data senza il bisogno della parola, strumento descrittivo per eccellenza. Un esempio dell'uso del primo piano ce lo dà una scena di Sussurri e grida, di Ingmar Bergman. La scena è un primo piano diviso in quattro parti, e i due personaggi sono Maria e il dottore, un tempo amante di lei: * L'uomo invita la donna ad avvicinarsi ad uno specchio, e si avvia il primissimo piano, che inquadra inizialmente il volto dell'uomo (funzione introduttiva, l'uomo è il narratore diegetico) * Poi la macchina da presa passa ad inquadrare il volto di Maria, e l'uomo fuori campo comincia a parlare (funzione descrittiva e caratterizzante). * Quasi terminato il discorso il dottore si sposta verso l'inquadratura, dove si possono ora intravedere le sue labbra (funzione interpretativa). * Maria parla e poi la macchina da presa riprende anche il volto dell'uomo, insieme a quello della donna. Il dottore affera poi una candela per far vedere meglio il suo volto (ruolo di narratore e narratario si invertono). Le parole del dottore leggono il volto della donna individuando i segni del suo mondo interiore. Sono proprio le parole che rendono il primo piano leggibile, ma solo a un primo sguardo, dal momento che le parole dette dal dottore sono soggettive, e quindi lo spettatore non può fidarsi totalmente di queste. Questo primo piano pone in modo esplicito il problema dei rapporti tra la parola e l'immagine, visto che la parola può sia disambiguare quello che si vede nell'immagine, sia creare ancora più ambiguità. Inoltre, la macchina da presa si sostituisce a uno specchio, facendosi metafora di tutto il cinema bergmaniano, che si può quindi leggere all'insegna di una macchina da presa. C'è anche un uso attento della luce, evocata dalle parole del dottore che precedono il materializzarsi della candela, che ha funzione di organizzare drammaticamente lo spazio attraverso un effetto di luce. Il dettaglio e il particolare nel cinema contemporaneo Il cinema contemporaneo e post moderno accentuano la dimensione vistuosistica del linguaggio, proponendo un cinema di successioni di immagini-fuochi d'artificio. La funzione è di catturare lo spettatore con un surplus di immagini ravvicinatissime, per trasformare in uno spettacolo anche piccole scene quotidiane. Questo spettacolo viene notato solo dallo spettatore e non dai personaggi del film, sottolineando la presenza della cinepresa. A volte questo uso ipertrofico del dettaglio non mira solo a stupire lo spettatore, ma anche a dargli una certa informazione, hanno una funzione drammatica e definiscono il senso della scena o dell'intero film, come accade in Requiem for a Dream. In questo film la scena chiave sono una successione di pochi secondi di immagini che legano tutte le diverse dipendenze dei personaggi, definendo il senso del film stesso. * L'estate di Kikujiro: nelle due sequenze esaminate vengono usate sia l'ellissi (che omette la partenza del pick-up, del mezzo del camionista e della fase iniziale del ricongiungimento) sia il fuori campo, che per due volte è affidato al sonoro, sia quando Kikujiro ringrazia la donna, sia il rumore della pietra che rompe il parabrezza, ma nel primo caso la funzione cognitiva serve per i personaggi intemi al racconto, nel secondo serve allo spettatore e fa anche andare avanti la storia, portando i due personaggi a malmenarsi. L'azione fatta porta poi all'immagine del bastone in aria (citazione di 2001: Odissea nello spazio), che è un effetto di fuori campo interno, e che, insieme alle ripetute entrate e uscite dal campo lungo, quasi lunghissimo, dei protagonisti, fanno prendere distanza dalla vicenda allo spettatore. In questo caso è il regista che, con il campo lungo, con il fuori campo intemo e con l'azione comica delle invece drammatiche entrate e uscite di scena dei due, costringe lo spettatore a rimanere distante dalla scena, a non coinvolgerio troppo. 2.2.4 Soggettiva e sguardo Le inquadrature soggettive esprimono un punto di vista ben determinato, che non è solo quello dell'istanza narrante, ma quello di un personaggio. Quindi, il punto di vista dell'istanza narrante, del personaggio e dello spettatore coincidono. Un esempio lo si nota già alle origini, con Grandma's Reading Glass, in cui si altermano immagini oggettive di un bambino che sta osservando degli oggetti con una lente di ingrandimento, e immagini soggettive che mostrano gli oggetti dal suo sguardo. In queste soggettive si nota che le inquadrature sono contornate dal cerchio della lente d'ingrandimento. Questo tipo di film tra il 1900 e il 1906 diventerà un vero e proprio genere, con il nome di Keyhole films. La struttura base del sistema di costruzione di una soggettiva sono state illustrate da Branigan: Punto Sguardo Transizione Posizione della macchina da presa da cui si guarda Oggetto Consapevolezza della presenza del personaggio La soggettiva non sempre parte però da un'oggettiva. Bernardi parla di questo altro tipo di inquadrature mettendole sotto il nome di soggettive stilistiche, cioè invitano lo spettatore ad essere lette come soggettive senza essere esplicitamente rapportate allo sguardo di un personaggio. Esistono anche le semisoggettive, inquadrature che pur rappresentando lo sguardo di un personaggio non ne rispettano del tutto la posizione e l'angolatura, o lasciano visibili il collo, la nuca e le spalle, e le false oggettive, che pur simulando la soggettiva stilistica si rivelano poi, o si trasformano, in piani oggettivi. I livelli di soggettività e oggettività sono intercambiabili, dal momento che tutto il cinema si muove nell’ambito di una semisoggettività come espressione dello sguardo del personaggio e dell'istanza narrante. Lo sguardo nelle soggettive è l'elemento centrale, visto che può suggerire diverse cose di quel personaggio che guarda, o di chi o che cosa sta guardando. Inoltre si parla di identificazione primaria e secondaria, primaria è quella tra lo spettatore e la macchina da presa, secondaria quella con il personaggio. Una delle forme di superficie che garantisce questa identificazione è proprio la soggettiva, e di questa ne esistono diversi tipi, all'interno di quello che si chiama sintagma soggettivo: * Il sintagma soggettivo aperto, costituito da A che sarebbe l'oggettiva del personaggio che guarda, e da B che sarebbe la soggettiva su chi o che cosa è guardato (AB). * Il sintagma soggettivo chiuso, che parte da una oggettiva, passa a una soggettiva e poi torna all'oggettiva (ABA). * Il sintagma soggettivo alternato, usato da Hitchcock e De Palma, che si fonda su almeno 4 inquadrature (ABAB...). OUAWNE * Il sintagma soggettivo rovesciato, che implica l'inversione di oggettiva e soggettiva (BA). * Il sintagma soggettivo differito, in cui tra oggettiva e soggettiva si inseriscono altri tipi di inquadrature (ACDB). Esempi: Psycho: scena del controllo del poliziotto a Marion, in auto dopo aver commesso l'omicidio. In seguito vedremo come il poliziotto lasci andare Marion ma continui a starle alle calcagna con la sua auto. L'ansia e la paura di Marion sono colte e vissute anche dallo spettatore grazie a un sintagma soggettivo alternato dove l'oggettiva è un mezzo primo piano di Marion che guarda la strada e lo specchietto retrovisore, che mostra la macchina del poliziotto, e la soggettiva è la strada vista dallo specchietto retrovisore, che lascia intravedere l'auto alle calcagna. Una donna nel lago: film realizzato interamente a soggettive, il personaggio principale da cui lo spettatore vede l'avanzare della vicenda è un detective, che si può vedere solo quando egli viene riflesso su uno specchio, dal momento che tutto il film è girato dal suo punto di vista. Montgomery provò con questa tecnica ad esaltare la soggettiva, provando a far entrare lo spettatore ancora di più del dovuto in sintonia con tutta la vicenda, ma proprio esagerando con le soggettive egli fallì, creando anzi uno straniamento da parte dello spettatore. Infatti, come ribadì anche Hitchcock, la soggettiva facilita l'identificazione solo nel momento in cui si accompagna a delle oggettive. Lo sguardo dinamico delle cose Il cinema degli anni Novanta e Duemila ha dato un grande impulso all'uso della soggettiva, soprattutto in film horror, catastrofici e bellici, diffondendo l’idea di affidare un film per intero o quasi a una videocamera azionata da un personaggio. In questi film la soggettiva si accompagna a ampi movimenti di macchina a mano, /ong take e piani sequenza, che danno vita a una rappresentazione mossa, ondeggiante, incerta, con un'estetica a bassa definizione elettronica. La soggettiva viene quindi associata ad un occhio artificiale, non umano, e prende quindi il nome di soggettiva meccanica. Esiste anche la soggettiva impossibile (0 vuota), che non si affida allo sguardo di nessuno, che esprime il punto di vista della materia. 2.2.5 | movimenti di macchina Il movimento di macchina costituisce uno dei codici specifici nell'ambito del cinema, un elemento peculiare del suo linguaggio e non derivato da altre forme di espressione. Un'inquadratura può essere definita statica o dinamica, indipendentemente da ciò che accade nel profilmico. Quindi si crea una dialettica di staticità e dinamismo, rapportata a filmico e profilmico, che porta a quattro diverse possibilità: * Profilmico statico filmico statico * Profilmico dinamico filmico statico * Profilmico statico filmico dinamico * Profilmico dinamico filmico dinamico A determinare la dinamicità del filmico sono i movimenti di macchina. Un'inquadratura dinamica si articola in più quadri, mutando i rapporti di distanza, altezza e angolazione della macchina da presa con i soggetti rappresentati. I movimenti di macchina ci invitano a muoverci nello spazio cinematografico, a viverlo. Alle origini il punto di vista era statico, fatto di inquadrature fisse. | primi movimenti di macchina li ritroviamo in Le Grand canal à Venise, dove la macchina viene collocata su una chiatta in movimento, o su un treno, in The Kiss in the Tunnel. Dai primi anni 1900, panoramiche e carrellate si diffusero anche nei film di finzione, a partire da Cabiria (1914), e nel decennio successivo, soprattutto in Europa (Der Letze Mann, Varietè, L’Argent). | principali movimenti di macchina sono: * La panoramica, in cui la cinepresa, fissa su un cavalletto, ruota sul proprio asse, in senso orizzontale o verticale. Esempi sono la panoramica a 360 gradi, o la panoramica a schiaffo. La carrellata, dove la macchina è posizionata sopra un carrello a binari o un veicolo a pneumatici, la camera car. In base a come sono rapportati movimento e personaggio si hanno: - Carrello laterale, quando la macchina si muove parallelamente al personaggio. - Carrello a precedere, quando la macchina precede il personaggio. - Carrello a seguire, quando lo segue. Il travelling, indica movimenti di macchina che uniscono alle possibilità dinamiche di panoramica e carrello quelle di far salire o scendere la cinepresa. Questi movimenti sono realizzati tramite gru e dolly (veicolo a ruote). Un altro macchinario usato è la steady cam, brevettata da Garret Brown negli anni Settanta, che sarebbe un'intelaiatura dotata di ammortizzatori, indossata direttamente dall'operatore, che permette di mantenere la stabilità dell'immagine indipendentemente dai movimenti dell'operatore. Sempre negli anni Settanta viene brevettata la louma, un braccio tubolare sottile controllato da remoto (usata da De Palma). La macchina a mano o a spalla, dove il movimento precede a sbalzi, a scossoni, in modo discontinuo. Usata prima nei reportage, poi nel cinema-veritè degli anni Cinquanta, e infine anche nel cinema di finzione, per esprimere un punto di vista soggettivo o la presenza esplicita della macchina da presa (usata da Pasolini, Godard, Truffaut, Rocha e Kubrick). La carrellata ottica, dove la macchina non si muove, bensì c'è una variazione focale dell'obiettivo. La differenza tra carrello e zoom è che con il primo gli oggetti statici guadagnano volume e solidità, mentre con il secondo sono più appiattiti e artificiali (cinema della modemità degli anni Sessanta). Tipi di rapporto tra le diverse forme dinamiche: * Movimenti subordinati, sono quelli che seguono la traiettoria di un personaggio o un oggetto in movimento, mantenendo costanti la velocità, la distanza e l'angolazione. La loro funzione è di tenere in campo l'elemento centrale del profilmico per attirare su di esso lo sguardo dello spettatore, la macchina da presa si fa sentire. * Movimenti liberi, sono quelli che prescindono dai movimenti profilmici, la macchina da presa si muove autonomamente nello spazio rappresentato, la macchina da presa non si fa sentire. Sono reversibili e hanno gradazioni differenti in base all'uso (Shining). Una modalità dei movimenti di macchina subordinati è la correzione di campo (o re-inquadratura, recadrage, refraiming), cioè di brevi momenti della macchina d apresa, rapportati a quelli di un personaggio che si sposta all'interno di uno spazio limitato. Il compito del refaiming è quello di mantenere l'equilibrio e la centratura del piano nonostante gli spostamenti profilmici. I movimenti di macchina possono essere relativi allo spazio e al tempo. Funzioni dei movimenti di macchina: Descrittiva, dà una descrizione dell'ambiente circostante (panoramica). Connettiva, mette in connessione il campo con il fuori campo, mostrandolo, creando un legame filmico tra due elementi profilmici. Cognitiva, con la connessione tra campo e fuori campo si può rivelare qualcosa di importante allo spettatore. Selettiva, l'evidenziazione di un qualcosa a partire dal contesto in cui esso era inizialmente inserito. Estensiva, inserisce un elemento particolare in un contesto che può dargli un determinato senso. Tensiva, in base alla velocità dei movimenti di macchina, se il movimento è lento crea attesa, suspence nello spettatore, se è veloce, sorpresa. Affettiva, se raccordato allo sguardo di un personaggio Estetica, spesso assolta dai travelling. Pratica diffusa nei musical. Semantica, definisce il senso della situazione rappresentata. 3. Il montaggio 3.1 Che cosa è il montaggio Il montaggio è quel momento in cui le bobine vengono ordinate, vengono scelte le diverse scene, tagliate ed eliminate se necessario, vengono assemblate a formare la storia pensata, che a volte viene addirittura modificata. Jurgeston, un montatore, diceva che la nascita del montaggio è data da quando si inizia a modificare la posizione di una scena con l'unico scopo di descrivere meglio l'azione o la costruzione drammatica. Questo non accadeva nei primi film dei Lumiere o di Melies, che erano costituiti da un solo piano, di circa un minuto, in campo medio, dove la macchina da presa non era mossa e spostata. Melies fu uno dei primi a scoprire il montaggio, ancora inteso però nella forma del montaggio trucco, trucco dell'arresto e della sostituzione, base del cinema fantastico di Melies. Con The Kiss in the Tunnel (1899), di George Albert Smith, si passa a film con più inquadrature e riprese, producendo un montaggio, ma di grado zero, poichè ancora manca l'idea della frantumazione di uno stesso spazio, cosa che avverrà l'anno successivo con Grandma’s Reading Glass, sempre di Smith. Nel periodo tra il 1909 e il 1916, ovvero a metà tra il cinema primitivo (1902-1908) e classico (1917-1960), il cinema hollywoodiano inizia ad aumentare i tagli fra le scene e al loro intero, per dare ritmo e arricchire la psicologia dei personaggi. A partire poi dal 1917 le inquadrature vengono riprese da diverse angolazioni, il piano d'insieme non è più importante degli altri, i tagli si raccordano sul movimento e ci sono molte più inquadrature. Griffith è stato quello che più si è reso conto che una sequenza deve essere composta da singole inquadrature incomplete, scelte e ordinate in base a diverse necessità, per controllare l'intensità drammatica dei fatti. Il compito del montaggio spetta al montatore, e viene svolto sotto controllo del regista. Nel cinema americano classico però il lavoro veniva affidato esclusivamente al montatore, supervisionato da una squadra specifica, ma il regista non poteva mai mettere mano al suo lavoro. Il montaggio quindi è un'operazione che permette di unire la fine di un'inquadratura con l'inizio della successiva, che mette in relazione (funzione connettiva) due o più elementi tra loro, che può darsi sul piano diegetico, discorsivo e diegetico-discorsivo. Unire tra loro due iniquadrature è dar vita a un rapporto di immagini sulla base di un progetto narrativo, semantico e discorsivo. Metodi di transizione di un'inquadratura: * Sfacco: passaggio diretto e immediato. * Dissolvenza d'apertura: l'immagine appare a partire dal nero dello schermo. * Dissolvenza in chiusura: l'immagine scompare sino a diventare nera, sono usate per pause più pronunciate. * Dissolvenza incrociata: l'immagine che scompare e quella che compare si sovrappongono. Le dissolvenze sono usate per evidenziare ellissi e salti temporali. * Iris: foro circolare che si apre o si chiude. * Tendina: l'immagine scorre via dallo schermo. * Piano di ambientazione: vera e propria scena descrittiva che fa da pausa alla storia. Esempi: * Psycho: Marion decide di fuggire rubando i soldi che il capoufficio le aveva affidato per depositarli in banca. Lo spettatore capisce le sue intenzioni per merito del montaggio, che unisce e mette in piani di diversa importanza le varie inquadrature, ovvero il passaggio dal dettaglio della busta di denaro a Marion che guarda la valigia, sguardi che fanno intendere allo spettatore le sue intenzioni di furto e di fuga. Altri due elementi importanti sono lo specchio, che gioca un'idea del bivio in cui si trova la donna, e la doccia che spunta dalla porta del bagno aperta, anticipazione del suo omicidio nella doccia, punizione che dovrà pagare per aver rubato quel denaro. * La regola del gioco: si narra il triangolo amoroso di due sposi e un altro uomo, che culminerà con l'omicidio effettuato dal marito della donna. Le inquadrature della scena di una festa in maschera riescono molto bene a mettere in scena una dialettica che anticiperà l'omicidio, ovvero quella prima tra vita e morte, poi tra amore e morte. 3.2 Spazio e tempo Il montaggio ha la funzione, dal punto di vista spaziale, di articolare lo spazio diegetico in diverse unità, stabilendo tra esse delle connessioni secondo un progretto narrativo. Anche per l'asse temporale, il montaggio ha il compito di selezionare dei momenti specifici e di ometteme altri nel vuoto delle ellissi. Il montaggio è lo strumento con cui l'istanza narrante costruisce il proprio racconto. Nel contesto dello spazio, il cinema organizza la visione dello spettatore attraverso una successione di diversi punti di vista che fanno dello spazio diegetico uno sapzio filmico. Quindi un ambiente può venire scomposto da un insieme di inquadrature che danno una serie di prospettive organizzate secondo similarità, differenza e presentazione dell'ambiente. Per dare vita alla rappresenzatione filmica di uno spazio diegetico si può: * Usare delle inquadrature per frammentare un piano d'insieme, per avere una chiarezza espositiva (cinema classico). * Usare delle inquadrature parziali per descrivere il piano d'insieme, quindi il montaggio delle parti compone l'intero. In entrambi i casi si ha una segmentazione dello spazio, che viene chiamata decoupage. Nel contesto del tempo, sempre parlando di osservazioni di natura intrasequenziale, il montaggio può introdurre delle ellissi brevi, definite tecniche, che hanno la funzione di abolire i tempi morti per rendere più scorrevole la narrazione, e determinano la differenza tra una scena e una sequenza. La durata delle inquadrature inoltre gioca un ruolo di rilievo, poichè determina il ritmo di una sequenza, il tempo che lo spettatore ha per leggere l'inquadratura e la quantità di informazioni contenute in essa. Nel cinema classico le inquadrature di durata breve venivano usate per sequenze forti e importanti, e quelle più lunghe per scene meno forti, mentre per il cinema modemo e postmoderno è il contrario. Dal livello interseguenziale invece il montaggio consente di determinare il rapporto tra l'ordine degli eventi dela storia (fabula) e quello dell'intreccio. Il cinema classico preferisce una struttura lineare e cronologica, con l’unica eccezione dei flashback, che possono essere diegetici o narrativi (qui si parla di una vera e propria disarticolazione della storia). Un caso più raro è quello dei flashforward, che sostanzialmente sono solo di natura narrativa. Sempre sul piano intersequenziale il montaggio introduce le ellissi, divise in ellissi tecniche, cioè all'interno di una sequenza, e narrative, le quali sono esplicite e omettono fatti irrilevanti o fatti importanti che per il momento si vogliono tenere nascosti, e in questo caso si parla di montaggio ellittico. Il montaggio ellittico invia lo spettatore a una partecipazione attiva, avendo così la stessa funzione che ha il fuori campo nel contesto spaziale. Il cinema classico introduce l'ellissi con una dissolvenza incorciata, mentre quello contemporaneo con un semplice stacco. Un caso particolare di montaggio ellittico è quello della sequenza a episodi o di montaggio che allinea un certo numero di brevi scenette, separate dalle altre da effetti ottici e che si succedono in ordine cronologico. Importante è che ognuna di queste sia parte di un insieme più ampio che si svolge in una certa direzione narrativa. Un'altra figura è il montaggio alternato, che alterna inquadrature di due o più eventi che si svolgono in luoghi diversi ma simultaneamente. Gli eventi devono avere tra di loro un legame diegetico. Dal punto di vista narrativo il montaggio alternato è l'espressione di un narratore onnisciente che informa lo spettatore di eventi che accadono contemporaneamente in più luoghi, così che lui sappia più di quanto i personaggi sanno. Il montaggio assume anche il compito di costruire delle sequenze che si collocano nella descrizione, e in questo caso la successione delle inquadrature non è determinata da un rapporto di consequenzialità, ma serve solo per descrivere un ambiente. 3.3 Forme, funzioni e ideologie del linguaggio Il montaggio, da Griffith a Ejzenstejn, è stato a lungo considerato come l'elemento specifico del linguaggio filmico, poichè faceva del film una forma d'arte autonoma. Bazin, teorico degli anni Quaranta e Cinquanta, mise in discussione questa centralità, parlando di montaggio proibito, e questo mise in posizione di rilievo il piano sequenza. 3.3.1 Il montaggio narrativo e il decoupage classico Quando si parla di cinema classico dal punto di vista stilistico, si parla di uno stile distinto ed omogeneo diffusosi ad Hollywood tra il 1917 e il 1960. Questo tipo di cinema mirava a dar vita a uno spettatore inconsapevole, che scivolasse, si proiettasse, si identificasse, con il film. Per far avvenire ciò, il film doveva mascherare il suo lavoro di scrittura il più possibile, e il montaggio divenne un problema, dal momento che è una forza che disgrega la continuità spazio-temporale della realtà rappresentata, rischiando di fare il lavoro opposto. Quindi viene reso il più discreto possibile, e ciò dà vita al cinema della trasparenza o montaggio invisibile. Bazin scrive che la suddivisione delle inquadrature ha lo scopo di analizzare l'avvenimento secondo la logica drammatica della scena. Le tre caratteristiche del decoupage classico e del modo in cui si articolano la successione delle sue inquadrature sono: motivazione, chiarezza e drammatizzazione. Gli stacchi infatti devono essere motivati, secondo questioni di necessità di vario tipo, che se non ci sono, lo fanno risaltare, quando invece dovrebbe essere inavvertibile. Un altro principio chiave del decoupage classico è la continuità, che ha il fine di controllare l'azione disgregatrice del montaggio, per dar vita a immagini che scorrono in modo fluido. L'idea di avere una continuità narrativa inizia a diffondersi già dagli anni Dieci, e per garantirla venivano usati accorgimenti come la costanza e l'omogeneità dell'iluminazione e la centralità dei personaggi e dell'azione, per avere una continuità grafica tra un piano e l'altro. Un ruolo essenziale viene giocato dal raccordo, che mantiene degli elementi di continuità fra un piano e l'altro, e che ne sono diversi tipi: * Il raccordo di sguardo: mostra un personaggio che guarda verso qualcosa, e poi quel qualcosa. * Il raccordo sul movimento: un gesto iniziato in un'inquadratura si conclude in quella dopo. * Il raccordo sull'asse: due momenti successivi di un'azione sono mostrati in una inquadratura, la seconda inquadratura è poi ripresa sullo stesso asse della prima, ma più vicina o lontana a questa in rapporto al soggetto agente. * Il raccordo sonoro: una battuta, un rumore o una musica si sovrappongono a due inquadrature. Un meccanismo tipico di drammatizzazione tipico del decoupage è il meccanismo di costruzione del climax, ovvero un crescendo graduale degli effetti stilistici e retorici che portano al momento forte di una sequenza narrativa. Nella scena di Colazione da Tiffany, dove Paul si affaccia alla finestra e trova nella finestra sotto di lui l'amata Holly suonare la chitarra, il climax è costruito tramite un avvicinamento progressivo verso la figura di Holly, che avviene prima in un piano sonoro (Moon River suonata alla chitarra, a cui poi si aggiunge una voce femminile), e poi viene scorsa piano piano la figura di Holly anche dal piano visivo, che passa da figura intera, a mezza figura, e infine a primo piano. Nel passaggio tra mezza figura e primo piano c'è un'inquadratura di Paul, poichè il decoupage classico evita spesso un doppio e consecutivo raccorod sull'asse, in quanto troppo meccanico e artificioso. In questa scena il piano di Paul viene usato come ponte per arrivare al piano centrale della sequenza, quello di Holly. Per garantire un'ulteriore continuità, le angolazioni delle inquadrature di Paul sono tutte riprese verso il basso, quelle di Holly verso l'alto. vertigine, centrale in tutte le sue storie, dove un personaggio comunissimo viene trascinato in una spirale di eventi travolgenti che non riesce a gestire. Anche in Full Metal Jacket di Kubrick, dove in una scena di dialogo tra due soldati la struttura formale delle due inquadrature è identica ma speculare, evidenziando gli elementi di analogia formale. 3.3.4 Il montaggio discontinuo Questo tipo di montaggio rifiuta i codici della continuità hollywoodiana, esistono diversi modi per dare vita a una discontinuità. In caso di discontinuità spaziale, un modo è quello di violare lo spazio a 180 gradi. Un esempio è // romanzo di Mildred, dove questo spazio non viene rispettato nella scena del ritrovamento del cadavere, e questa violazione viene giustificata dalla forte drammaticità dell'evento. Invece registi come Ozu e Jacques Tati usano la violazione di questo spazio a prescindere dalla drammaticità degli eventi, usando una rappresentazione a 360 gradi, quindi circolare, dove la cinepresa può non rispettare più la linea immaginaria ma spostarsi e posizionarsi liberamente. Così facendo la posizione dei personaggi sarà continuamente rovesciata sullo schermo, e anche lo sfondo sarà destinato a mutare. Lo spaesamento creato guardando un film di Ozu però, non va minimamente a impedire di seguire la logica della narrazione, e questo testimonia come la continuità sia comunque il sistema dominante. Un altro modo per dar vita a discontinuità spaziali è il jump cut (falso raccordo o montaggio a salti) e questo dà vita a due diverse forme di raccordi irregolari strettamente legati tra loro. La prima mette in successione due o più inquadrature di uno stesso personaggio che sono troppo simili tra di loro, e che quindi per il cinema classico risulterebbero inutili e superflue, la seconda invece si basa sul tempo ed è propria di una successione di inquadrature dello stesso personaggio, divise da brevi intervalli di tempo, che ce lo mostrano in posizioni che cambiano di netto, senza dare il tempo al personaggio di cambiare posizione. Quest'ultima soluzione crea immagini sporche, irregolari, sgrammaticate, che rendono gli stacchi evidenti ed espliciti. Il jump cut è molto diffuso nel cinema della modernità e nei film di Godard, ma anche in Hitchcock, che però non usa il jump cut per attaccare il modello dominante, ma per creare ancora più suspence, come nella scena dell'omicidio nella doccia di Psycho. | falsi raccordi creano nello spettatore inquietudine e ansia, che li prepara all'eccezionalità di quello che accadrà poi. Hitchcock si basa anche sul tempo, infatti la durata media di ogni inquadratura è inferiore al secondo. Il jump cut viene utilizzato anche nel cinema contemporaneo e postmodemo, come nei film di Lars von Trier, dove viene usato per ricondursi alle logiche dell'antillusionismo, o nel cinema di Woody Allen, con Harry a pezzi, dove viene usato per attuare la decostruzione nei confronti del protagonista, o in film di Park Chan-wook come Old Boy, dove viene usato per creare effetti comici. Un altro tipo è quello degli inserti non diegetici, che interrompono la regolare e continua successione di inquadrature attraverso piani estranei allo spazio e al tempo del racconto, usati come associazioni metaforiche a cui l'istanza narrante ricorre per determinarne il senso di una situazione (tipo il pavone meccanico in Ottobre). Il montaggio discontinuo riguarda anche modalità temporali come quelle contenenti l'ordine e la frequenza degli eventi, che vengono stravolti e talvolta ripetuti. La manipolazione temporale è anche inerente al piano della durata, che differentemente dal cinema classico che si basa sulla scena (coincidenza tra tempo della storia e del discorso) e sulla sequenza (tempo del discorso più breve del tempo della storia), si basa sull'estensione del tempo del racconto rispetto all'evento rappresentato, come nella scena dell'ingrasso della sala del trono in Ottobre, che viene ripetuta quattro volte. Un altro tipo ancora è quello della sovrapposizione temporale (o overlapping editing), dove l'inquadratura B non inizia quando finisce A, ma prima. Così facendo il piano B ripete l'ultimo movimento fatto nel piano A. Il montaggio nel cinema contemporaneo Il montaggio contemporaneo mira alla velocità, con l'uso di inquadrature molto più brevi e con una moltiplicazione degli stacchi, che garantiscono quel senso di fuochi d'artificio e di vertigine, ripresi dal cinema degli anni Venti, ma favoriti dallo sviluppo delle tecniche del montaggio digitale. In uno studio dedicato al cinema americano, i dati statistici di David Bordwell riguardo la durata media delle inquadrature dicono che nel tra il 1930 e il 1960 i film avevano tra le 300 e le 700 inquadrature, e la durata media di ognuna era tra gli 8 e gli 11 secondi, mentre negli anni Settanta e Ottanta la durata media era tra i 5 e gli 8 secondi e il numero delle inquadrature salgono da 1500, poi a 2000 e poi a 3000 e passa. L'impennata ritmica del cinema hollywoodiano è stata influenzata dal cinema hongkongese, e ha trovato il suo apice in scene di particolare spettacolarità, ma anche in scene comuni e più tranquille. La rapidità del montaggio viene resa anche con l'uso di travelling e macchina a mano (shaky camera), angolazioni ardite, effetti bruschi e sgrammaticati. La frenesia del montaggio e la brevità delle inquadrature della contemporaneità viene chiamata da molti MTV Style, per richiamare lo stretto rapporto con i video musicali. 3.3.5 Il montaggio proibito Il teorico francese Andrè Bazin dà vita a un'altra concezione del montaggio, che si oppone al decoupage classico e al modello ejzenstenjniano, che decidono cosa, come, per quanto tempo e in che ordine mostrare gli eventi allo spettatore. L'ipotesi di Bazin si fonda su due postulati: il primo individua come vocazione ontologica del cinema la rappresentazione del reale nel rispetto delle sue caratteristiche essenziali, il secondo vuole che nella realtà nessun avvenimento sia dotato di un senso determinato a priori, e che il cinema quindi, nel rappresentare la realtà, deve rispettare la sua ambiguità, andando anche oltre al montaggio. Bazin arriva a parlare di montaggio proibito ogni volta che l'essenziale di un avvenimento dipende dalla presenza simultanea di due o più fattori dell'azione, cioè quando il cinema classico ricorre a soluzioni come il campo e il controcampo e il montaggio altemato. Il cinema deve seguire la riproduzione del mondo reale nella sua continuità fisica e nel rispetto della continuità spazio-temporale. Qui affiorano due modalità espressive di fondamentale importanza: * La profondità di campo: in ambito fotografico è un'immagine in cui tutti gli elementi rappresentati sono perfettamente a fuoco. Sarà maggiore quanto più distanziati saranno lo sfondo e il primo piano e quanto più quest'ultimo sarà vicino all'obiettivo. Per messa in scena in profondità si intende la disposizione di oggetti e personaggi su più piani e il loro reciproco interagire. Già con i fratelli Lumiere ne veniva fatto un grande uso, che però non veniva mai dato in termini espressivi. Alla fine del muto questo utilizzo cadde in oblio, anche per problemi tecnici, con ad esempio l'avvento della pellicola pancromatica, che visto che necessitava una maggiore apertura del diaframma, che determinava una messa a fuoco parziale e degli effetti di sfocatura, gli effetti flou. Ma secondo Bazin, oltre ai problemi tecnici, l'immagine in profondità è stata abbandonata attraverso un processo generale, che suppone che la sfocatura sia nata con il montaggio, sia la sua conseguenza logica, che conferma l'effetto del montaggio. Il ricorso all'effetto flou è il segno del trasferimento delle condizioni di credibilità della rappresentazione filmica dal piano della singola immagine a quello delle forme del racconto. Negli anni Trenta sono pochi i registi che usano la profondità di campo (Renoir e Mizoguchi). All'inizio degli anni Quaranta la profondità di campo torna a riaffermarsi con Quarto Potere, e trova in Bazin uno dei suoi sostenitori, poichè per lui era l'acquisizione capitale della regia, un progresso dialettico nella storia del linguaggio cinematografico. La profondità di campo pone infatti lo spettatore in rapporto con l'immagine più vicino a quello che ha con la realtà, e quindi è sollecitato a contibuire, a fare da sè il suo decoupage, mentre nel montaggio analitico non deve fare altro che seguire le scelte del regista e comprenderle. Grazie alla profondità di campo si reintroduce l'ambiguità nella struttura dell'immagine come una possibilità. Il piano sequenza: è un piano che svolge da solo le funzioni di una sequenza o scena, rappresenta un episodio, caratterizzato da una relativa autonomia nel contesto narrativo del film. Equivale ad una somma di inquadrature su cui si articola una sequenza e si caratterizza per il suo rifiuto del montaggio e, insieme alla profondità di campo che interviene sul piano spaziale (il piano sequenza invece su quello temporale), mette in discussione la centralità che il montaggio aveva acquisito. Il termine usato in america è /ong take (lunga ripresa), e si intendono quelle inquadrature che esibiscono nel loro perdurare un evidente volontà di rifiuto del montaggio. Piano sequenza e long take nascono con il cinema stesso, i film dei Lumiere e di Melies sono un esempio di inquadrature uniche. Con l'emergere del montaggio in continuità queste si faranno mano a mano più brevi, a partire dagli anni Venti, dove la durata media era di cinque secondi, per poi raddoppiarsi con l'avvento del sonoro. Però soprattutto negli anni Trenta sono stati molti i registi a preferire delle inquadrature più lunghe, e a prediligere il long take e la profondità di campo (Renoir, Mizoguchi, Welles, Dreyer, Antonioni, Warhol, Godard). Questo tipo di inquadrature sono più complesse ed articolate, quindi la lettura sarà molto più attenta e lunga rispetto a quelle del cinema classico. Queste tre figure fanno dell'inquadratura un'unica significanza formale. Inoltre, l'inquadratura del decoupage classico ha solo un significato, mentre il piano sequenza e l'inquadratura in profondità hanno più significati. Secondo Bazin, il piano sequenza, nel suo mantenere la continuità spazio-temporale della realtà, dà maggiore realismo e riporta il cinema alla sua vera natura, poichè lo spazio è rappresentato per blocchi unitari, e questo dà allo spettatore la facoltà di decidere o meno dove guardare e per quanto tempo, facendo da sè il proprio decoupage. Questo però ha scaturito delle critiche: in primis la realtà e la sua rappresentazione non possono venire confuse, dal momento che il cinema si può avvicinare al reale ma non confondersi con esso, e anche la scelta di ridurre al minimo la manipolazione della realtà può essere letta come una scelta di discorso. Questo discorso è inoltre succube di precise scelte di messa in scena e di rilievo, che sono di conseguenza una scelta di rappresentazione. La seconda critica è il fatto che Bazin abbia sottovalutato alcune caratteristiche proprie del piano sequenza e della profondità di campo, poichè non tutte le volte che vengono usate vanno nella direzione teorizzata da Bazin, ma anzi, pongono una lettura univoca delle immagini, guidano lo sguardo in una direzione ben precisa. Ed è per questo che quindi non sono una vera e propria negazione del montaggio, bensì una forma particolare di questo, cioè un montaggio interno, ovvero una forma di montaggio che si costruisce all'interno di un solo piano, mettendo in relazione degli elementi all'interno di una singola inquadratura. Quindi possono dar vita ad inquadrature che, senza ricorrere al montaggio vero e proprio, possono comunque essere frammentate in più piccole unità significanti, attravero un gioco di variazioni intere all'inquadratura. Il cinema in 3D La profondità di campo è la tecnica che più di altre può godere dello sviluppo delle tecniche legate alla tridimensionalità, per mirare a far superare all'immagine lo schermo, facendola uscire in direzione della sala, sviluppando in essa l'ambientazione del film. La storia del 3D risale al 1838, con il dispositivo di visione stereoscopica di Charles Wheatstone. In ambito cinematografico si ricordano gli esperimenti degli anni Venti e quelle di Hollywood negli anni Cinquanta, dove, assieme al colore e agli schermi panoramici, grazie ad appositi occhialini, furono resi tridimensionali film come // mostro della laguna nera e Il delitto perfetto. Un secondo tentativo risale agli anni Settanta e Ottanta, con Lo squalo 3 e Amityville III, e un terzo con il cinema d'animazione della Pixar (Up e Toy Story 3) e della Sony (Piovono polpette e Mostri contro Alieni). Il vero capolavoro del cinema in 3D fu però Avatarnel 2009, e sono da citare anche film di ambito dovumentario, tra cui Pina e Cave of Forgotten Dreams, presentati al festival di Berlino del 4. Il suono, l'immagine Il cinema nasce come una semplice successione di immagini, privo dell'accompagnamento di un suono registrato, ma si avvertiva comunque l'esigenza di un accompagnamento perlomeno musicale. Questo per vincere il silenzio, per coprire il rumore della macchina di proiezione, per aggiungere la mancante dimensione sonora. Perciò molto spesso si ricorreva a un pianista o a un'intera orchestra, soprattutto nelle proiezioni pubbliche (come accadde per Cabiria, The Birth of a Nation e Intolerance). Alla fine degli anni Venti il cinema venne potenziato dall'avvento del sonoro, che completava la verosimiglianza del filmico con la realtà. Il primo film con un commento sonoro registrato direttamente sulla pellicola, ma ancora privo di dialoghi, fu Don Giovanni e Lucrezia Borgia, del 1926, diretto da Alan Crosland e prodotto dalla Wamer Brothers. L'anno seguente sempre la Warner pubblicò un altro film di Crosland, musicato e parlato, // cantante di jazz. Agli inizi degli anni Trenta in America, e due anni dopo in Europa, le altre case di produzione seguirono la Wamer. Questo aprì un dibattito sul linguaggio cinematografico e sulle sue possibilità espressive: da una parte, studiosi come Amheim negavano valore artistico al sonoro, poichè nel suo naturalismo annullava molti dei caratteri peculiari del cinema, altri come Bela Balazs, ponevano le basi per un corretto uso del fonofilm. Già dal 1928 Ejzenstejn e Pudovkin avevano divulgato il manifesto dell'asincronismo, dove sostenevano la validità del sonoro. A dire il vero l'avvento del sonoro inizialmente determinò un grave arretramento rispetto al cinema muto, visto che le attrezzature ponevano molti problemi alle riprese e si perdeva molta della libertà di movimento di attori e macchine da presa, ma in breve gli strumenti di registrazione vennero alleggeriti e venne ideata la presa sonora in fase successiva, così da far evolvere la tecnicità del cinema sonoro. Così con la fine degli anni Venti nasce la colonna sonora, formata dalle tre materie di espressione su cui si articola il suono: parole, rumori e musiche. 4.1 Le funzioni del suono Qualsiasi discorso sul suono prescinde dal suo rapporto con l'immagine, diventando così l'esame delle relazioni e combinazioni che un film costruisce sul piano audiovisivo, visto che la percezione visiva influenza quella sonora e viceversa. Un'immagine accostata a suoni diversi, o anche a nessun suono, produce effetti diversi sullo spettatore. Il sonoro ha assunto dunque un ruolo di primo piano nel linguaggio cinematografico. La sua funzione chiave è quella di avere un ruolo determinante nell'unificare il flusso delle immagini, nell'attutire quell'effetto di brusca rottura creato dallo stacco. Ed è per questo che nel dialogo in campo e controcampo il sonoro gioca un ruolo molto importante, poichè il passaggio da un'inquadratura ad un'altra viene attenuato attraverso effetti di accavallamento sonoro. La stessa funzione unificante è giocata dal suono ambientale che può rimanere costante e continuo durante tutta la durata di una scena frammentata in diverse inquadraure. Essenziale qui è il ruolo della musica, che immerge le immagini in un continuo flusso sonoro. Quindi, le immagini staccano e il suono unisce. Nel cinema classico inoltre, un evento drammatico può venire enfatizzato da un brusco contrasto audiovisivo, dove lo scontro tra due immagni diverse è amplificato da un conflitto sonoro di altrettanta portata. Come per le immagini, anche il suono è sottoposto a un processo di selezione e combinazione. Una volta selezionati, i suoni vengono combinati tra loro, dando vita al montaggio sonoro. Qui il volume acquista particolare importanza, poichè alcuni suoni saranno regolati con un volume più basso e altri più alto, regolando la presenza di suoni in primo o in secondo piano, distanti o vicini. Montaggio di suoni e regolazione del loro volume viene definita missaggio. Immagini e suoni non sono mai separate, quindi montaggio sonoro e visivo diventano un'unica forma di montaggio, chiamato audio-visivo. Questo tipo si dà non solo nella forma della successione, orizzontale, ma anche in quella della simultaneità, verticale. 4.1.1 Suono e spazio Esistono due ordini di rapporti tra suono e racconto, il primo riguarda lo spazio, il secondo il tempo. Dal punto di vista dello spazio il suono si distingue in intradiegetico ed extradiegetico (suono over) e la distinzione tra i due tipi è solitamente molto chiara allo spettatore, ma esistono delle eccezioni. Il suono intradiegetico più essere suddiviso in suono in campo (suono in) e fuori campo (suono off) e la distinzione è permessa dall'elemento visivo. Il suono fuori campo ha la funzione di estendere lo spazio dell'inquadratura e di contestualizzarla meglio, crea inoltre senso di attesa e invita lo spettatore a fare delle ipotesi. A volte la distinzione tra suono in campo e fuori campo è molto labile. Chion individua tre tipi di suoni che creano non poche perplessità a riguardo: * Il suono ambiente, cioè quel suono inglobante, che avvolge una scena. * Il suono interno, cioè che proviene dalla realtà intera del personaggio, dai suoi ricordi eccetera... * Il suono estero (on the air), cioè che ha origine da una sorgente fisica ben precisa, come il suono trasmesso da una radio, un telefono eccetera... Un termine che riassume quello che si occupa dei rapporti tra suono e immagine è quello proposto da Chion, il suono acusmatico (suono over o off), cioè un suono che si sente senza vedere la fonte da cui proviene. A questo si oppone il suono visualizzato (suono in). Il suono fuori campo può assumere funzione attiva o passiva. Il suono inoltre, accompagnato ad un'immagine, può dirigere la nostra attenzione su un suo elemento o su un altro. Lo spazio quindi può essere disarticolato e messo in evidenza in alcune sue componenti, invitandoci così a uno sguardo selettivo. Il problema che ci si è posto per molto tempo è quello della direzione: fino agli anni Settanta gli altoparlanti erano sistemati solo dietro lo schermo, ma dagli anni Settanta in poi, la diffusione del suono stereofonico e di altri sistemi multicanalizzati hanno permesso di ampliare le potenzialità espressive del suono al cinema, posizionando altoparlanti sia dietro lo schermo, ma anche a destra, a sinistra e in fondo alla sala. Il dolby è la tecnica più diffusa per direzionare il suono. Secondo Chion questo crea una nuova figura, quella del supercampo, una sorta di campo audiovisivo determinato non solo da quello che l'immagine ci mostra ma anche dal suono ambiente, fatto di parole, musiche, rumori, che proviene da più direzioni. Questo supercampo costituisce la coscienza dell'insieme dell'ambiente che sta intorno a ciò che viene mostrato da una determinata inquadratura. 4.1.2 Suono e tempo A riguardo dei rapporti tra suono e tempo dobbiamo distinguere il suono in: * Suono simultaneo: quando il sonoro e l'immagine si danno in uno stesso tempo narrativo. * Suono non simultaneo: quando l'effetto sonoro anticipa o segue le immagini che si vedono in quel momento sullo schermo. Un caso frequente è quello del ponte sonoro (sound bridge), ovvero delle anticipazioni sonore in cui parole, musiche o rumori della scena successiva iniziano a sentirsi già in quella proiettata sullo schermo. Riprendendo la distinzione di Chion di suono acusmatico e visualizzato, vedremo che esistono due tipi di persorso diversi: da una parte, il suono visualizzato che poi si fa acusmatico, dall'altra l'effetto opposto. Nel primo caso avremo un'immagine ch einizialmente è associata ad un suono, poi, quando comparirà solo il suono, quell'immagine di prima apparirà subito nella mente dello spettatore. Il secondo caso è tipico dei racconti che creano suspence e tensione, ovvero il tenere segreta la causa di un suono. Un'altra questione centrale è quella del ritmo, che, come dicevano Bordwell e Thompson, è formato da due componenti principali: la velocità e la regolarità degli intervalli. La velocità è determinata dalla durata degli intervalli, la regolarità invece nasce sulla base della coincidenza o meno delle durate, che se coincidono danno un ritmo regolare, altrimenti irregolare. Queste qualità possono essere combinate tra loro, e inoltre, anche i movimenti di un'inquadratura, il montaggio, la colonna sonora, hanno le proprie possibilità ritmiche indipendenti l'una dall'altra. Quindi il ritmo del cinema nasce da un intricato rapporto di ordine audiovisivo. Spesso il ritmo sonoro e visivo vengono adeguati l'uno all'altro (musical e film d'animazione Disney), tuttavia possono anche sorgere delle discrepanze ritmiche, volte a sottolineare la drammaticità di un preciso momento, o i sentimenti di un personaggio. 4.2 Suono e racconto: il punto d’ascolto Oltre al punto di vista visivo esiste anche quello sonoro, o punto d'ascolto. Qualsiasi punto di vista si occupa di diverse dimensioni: quella oggettiva (spaziale) e quella soggettiva (riguardante gli aspetti narrativi e il rapporto fra sguardo della macchina da presa e dei personaggi). Esistono tuttavia alcune distinzioni a livello spaziale: all'inizio, prima dell'avvento della stereofonia, tutti i suoni provenivano dagli altoparlanti dietro allo schermo, così la sorgente non poteva essere localizzata in un punto preciso, ma era comunque possibile distinguere, attraverso il volume, suoni vicini e lontani, così da poter immaginare una scala di piani sonori. |l rapporto tra scala visiva e sonora può dare vita a diverse possibilità, attraverso i suoi due estremi, la coincidenza e il contrasto. Il punto d'ascolto troverà poi nel suono stereofonico e nel dolby altre possibilità di esistenza. L'aspetto più interessante del punto di ascolto è quello che riguarda la sua dimensione narrativa, inerente cioè il rapporto fra ciò che noi sentiamo e ciò che sente invece un personaggio. A questo riguardo si esprime Jost, introducendo i termini di auricolarizzazione e ocularizzazione, la cui distinzione si dà sulla base di uno stretto rapporto tra il sonoro e il visivo. L'auricolarizzazione si divide in interna, quando si tratta di un suono diegetico accostato a un personaggio, divisa a sua volta in primaria, quando si verifica un'alterazione sonora causata da una particolare condizione del personaggio in ascolto, e in secondaria, quando viene evidenziata da determinati meccanismi visivi. Quella esterna invece si dà quando i suoni del film non sono ancorati a un determinato personaggio, sono suoni che possono essere sia intradiegetici, sia extradiegetici. 4.3 Parole e voci La parola non nasce con l'avvento del sonoro. Ai tempi del muto i mezzi di trasmissione della parola erano il narratore e le diffusissime didascalie. Quando i film iniziarono a farsi più complessi però, queste due forme non bastarono, in quanto si presentavano i problemi della asincronia, del margine d'alea e dell'improvvisazione che doveva rivestire il narratore, e l'intervento solo in successione delle didascalie. La registrazione sonora ritrova quella simultaneità tra parola e immagine che rendeva il film ancora più realistico. AI cinema la voce riveste un ruolo di primo piano, in quanto staccata e messa in evidenza rispetto agli altri suoni, musiche e rumori non devono mai prevaricarla e devono sempre garantire la sua intelligibilità, se non per motivi di espressione stilistica. Chion scrive che il cinema è verbo-centrista, tratta la realtà profilmica in modo dinamico attraverso le luci e le ombre, il montaggio, e la dialettica di campo e fuori campo, una delle tecniche più evidenti di questo movimento. Il sound designer (Ben Burtt per Guerre Stellari, Walter Murch per Apocalyspe Now): progetta, contolla e dirige tutto l'impianto sonoro del film, programma uno stile sonoro accompagnando il regista, e creando specifici effetti sonori che potrebbero poi anche diventare caratterizzanti e essere individuati come marchi di riconoscimento di quello specifico film. Le tracce audio dei singoli microfoni presenti sul set vengono incise generalmente su registratori multitraccia, e in alternativa sono premixate e trasferite direttamente sulle camere. Il cinema muto era portato ad enfatizzare sentimenti e situazioni con gesti, mimica e movimenti all'apparenza esagerati, e le sceneggiature erano basate soprattutto sull'azione e sul gesto. L'assenza di rumori obbligava anche a girare piani e dettagli che dovevano far immaginare il suono. A inizio Novecento, soprattutto per un pubblico poco allenato e abituato al cinema, iniziarono a comparire in sala delle figure chiamate narratori o imbonitori, che dovevano commentare le immagini per rendere più di comprensione allo spettatore. In Giappone soprattutto si delinea la figura assai facoltosa del benshi, che si posizionava a lato della sala e interpretava le voci di tutti i personaggi e della voce narrante. Lo spettacolo veniva anche ovviamente integrato a un accompagnamento musicale, a rumori e commenti verbali. Negli anni Venti vennero anche pubblicati manuali e cataloghi per suggerire temi e melodie atti ad accompagnare le azioni e i sentimenti espressi nell'immagine. La musica sottolineava il ritmo del montaggio, intensificava il contenuto emotivo e manteneva viva l'attenzione del pubblico. L'avvento del sonoro lo si ha sin dal 1914, quando iniziarono i primi brevetti per le apparecchiature audiovisive, tuttavia si inizia ad espandere il suo utilizzo quando dapprima il suono veniva inciso su dischi di fonografo, poi veniva impressonato sulla pellicola secondo il metodo ottico, facendo diventare la colonna sonora a pieno titolo parte del film. Come detto in precedenza, l'avvento del sonoro inizialmente provocò un calo nelle tecniche di ripresa, ma ben presto le apparecchiature vennero migliorate e alleggerite e nacque una vera e propria estetica dell'audiovisione. Nel 1950 venne introdotto il suono su traccia magnetica, che avveniva tramite l'incollaggio di una striscia di materiale magnetico con il sonoro direttamente impresso sulla pellicola. Questo fu un passo verso l'introduzione della traccia multipla, e per la prima volta i suoni potevano uscire da qualsiasi direzione. Furono anche adottati due sistemi per la riproduzione delle immagini: quello della Twenty Century Fox, nel 1953, e quello del Todd-Ao-System, del 1955. Negli anni Settanta e Ottanta ci fu un ritomo al sonoro registrato su traccia ottica e su pellicola da 35mm, secondo i canoni del Dolby Stereo. Nel 1986 venne introdotto il Dolby SR (Spectral Recording), tutt'oggi il più diffuso insieme al Dolby Digital. Nel Dolby Digital è presente un segnale audio digitale, diverso da quello analogico poichè produce un sistema discreto, diviso, discontinuo, anzichè continuo. Il suono digitale è un flusso di dati, duplicabile all'infinito e senza perdita di qualità, ed è per questo che è altamente manipolabile. L'introduzione della teconologia digitale ha stimolato una concorrenza tra le major hollywoodiane, che hanno messo a punto diversi sistemi di decodifica digitale in continuo miglioramento. La sala cinematografica modera viene sempre di più concepita come un'estensione dello studio di registrazione, e negli ultimi quindici anni il modello audiovisivo ha portato a una distribuzione precisa delle informazioni sonore tra i diversi canali, creando una mappatura acustica della sala di proiezione. Si mira sempre di più a un equilibrio tra narrazione e attrazione, attraverso la ripartizione delle funzioni sonore dei diversi canali, che prevede che le informazioni narrative siano destinate, insieme ai dialoghi, ai canali centrali, e che canale destro e sinistro producano un ambiente tridimensionale a 180 gradi, così da coincidere con il campo visivo dello schermo, che la musica sia prodotta in stereofonia, e che gli effetti sonori come il surround e il subwoofer si impieghino in suoni dislocati, non presenti nello schermo. Murray Schafer conia il termine Soundscope per indicare una combinazione di suoni che creano un ambiente immersivo, costituito da suoni ambientali naturali o prodotti dall'uomo. 5. L'analisi del film 5.1 Le caratteristiche La vera e propria analisi del film nasce nella seconda metà degli anni Sessanta, sebbene Ejzenstejn e Bazin la abbiano anticipata. Inoltre, da quando è entrata a far parte dell'insegnamento universitario e dell'editoria cinematografica i film vengono sottoposti a un'analisi più rigorosa e sistematica, ma i metodi con cui un film viene analizzato sono spesso discussi e verificati. Due sono i testi di notevole importanza, quello di Jacques Aumont e Michel Marie e quello di Francesco Casetti e Federico Di Chio, che sebbene diversi tra loro, sono indirizzati nell'ambito di uno stesso orizzonte. Le prime analisi del film degli anni Sessanta erano molto influenzate dai modelli dello strutturalismo, ma rapidamente si sono aperte anche ad altri campi e discipline, come la semiotica, la narratologia, le teorie letterarie e artistiche, la storia sociale, la sociologia, la psicanalisi, il femminismo, il marxismo, il neoformalismo... Eppure così l'analisi del film sembra disperdersi in aree molto diverse tra loro, e questo indica che non esiste un metodo universale di analisi del film, ma è comunque possibile trovare in essa delle caratteristiche comuni, che la differenziano dal discorso critico e teorico intorno al cinema. L'analisi pone come oggetto primario del suo lavoro il testo filmico, inteso come un insieme di film, un film singolo, o una parte di film, che presentano dei tratti di omogeneità, a partire da una determinata pertinenza. L'analisi smonta e rimonta il film, permette di coglierne la struttura e il funzionamento, a individuame la meccanica e le leggi di composizione. L'analisi non parte da un genere per poi arrivare al film, ma da un preciso film per cercare in esso una generale definizione di quel genere, o per cercare di capire che immagine essi proponessero al pubblico. Il primo segno distintivo dell'analisi del film è la sua aderenza al testo filmico, su cui getta uno sguardo analitico e descrittivo, che riesce a far dissociare certi elementi per interessarsi a un qualche suo aspetto. L'analisi è quindi particolarmente attenta al funzionamento significante del film, poichè solo così si potrà articolare un discorso fondato. L'analisi non rinuncia al confronto con i temi e i contenuti, tuttavia nel cinema non c'è contenuto indipendente dalla forma nella quale viene espresso. Lo studio del contenuto di un film suppone lo studio della forma in cui viene enunciato, in caso contrario si ignorerebbe il coefficiente di trasformazione semantica che il film imprime a quei materiali. Di un film non si può dire tutto e per questo è necessaria una prospettiva, porsi delle domande, su che cosa si vuole cercare nel film e poi interrogare il testo filmico. Bisogna quindi isolare il campo d'azione, e fare queste domande mantenendosi in un costante rapporto di aderenza con il film. Questo può accadere tramite un'ipotesi preventiva, ovvero, ad esempio, vedendo un film mi accorgo di un rapporto tra montaggio e caratterizzazione dei personaggi, e questa viene chiamata ipotesi, è qualcosa di concreto su cui lavorare, è un'idea sul punto di arrivo del lavoro, e partendo da questa si può guardare il film con uno sguardo nuovo, più consapevole, e poter arrivare alle risposte che si volevano. L'analisi mette alla prova questa ipotesi. Prende le mosse da una prima interpretazione del testo, il motore inventivo del percorso. Senza ipotesi preventiva, l'analisi non può esistere. | due rischi di analizzare un film sono quello di fare dell'analisi una pseudo-analisi, una parafrasi del film, o quello di forzare l'analisi, dando al testo un'interpretazione troppo libera e aberrante. Ci deve essere un equilibrio tra le due parti, l'analisi deve essere fatta di metodo e rigore ma anche di creatività e fantasia. L'analisi non guarda la funzione estetica del film, ma offre delle conoscenze sul film che rivelano uno o più aspetti essenziali e destinati a sfuggire a una semplice visione, accentuando l'intelligibilità del testo. C'è un'uguale attenzione all'oggetto e al metodo utilizzato, aiuta a comprendere il testo e anche a capire come e perchè si arriva a questa comprensione. L'utopia dell'analisi esaustiva ha finito con il creare una nuova forma, quella dell'analisi del frammento, che è molto più precisa e permette di analizzare i dettagli. Questo tipo si deve attenere a due regole: il frammento deve essere nettamente delimitato e avere una certa coerenza, e anche sufficientemente rappresentativo del film intero. Un ruolo chiave di questo tipo di analisi è l'analisi degli esordi, poichè l'esordio possiede un'altra concentrazione significante. 5.2 Gli strumenti e i criteri Sono sempre necessarie più visioni per poter analizzare un film. Per prima cosa ci si deve chiedere se c'è conformità con il film originale, ovvero se non ci sono tagli o manipolazioni. Visto che l'analisi si definisce in rapporto a delle pertinenze, sono queste a determinare quali di questi strumenti serviranno: * Strumenti descrittivi. tra essi c'è la sceneggiatura desunta, ovvero la descrizione delle inquadrature del film, e la si può intendere come dell'intero film o di una sola sequenza. Per la stesura di una sceneggiatura si deve per forza ricorrere alla numerazione delle inquadrature, il resoconto del loro contenuto, la trascrizione dei dialoghi. Poi il tipo di analisi imporrà delle pertinenze specifiche, come il tipo di campo o piano, l'incidenza angolare, le entrate e uscite di campo, i raccordi di montaggio, gli effetti di interpunzione, i movimenti di macchina, le musiche, i rumori... Un altro strumento di questo tipo è la segmentazione, ovvero la suddivisione di un film nelle sequenze che lo articolano, utile perchè consente di tenere sotto occhio lo sviluppo del racconto. C'è poi la descrizione della singola inquadratura e dei quadri, dove vengono trasposti in linguaggio verbale gli elementi di significazione che l'immagine esaminata contiene. La descrizione dell'immagine è selettiva e presuppone un partito preso analitico. | fini dell'analisi determinano quale argomento di essa viene trattenuto nella descrizione. Bisogna prestare attenzione a non fare dell'immagine un elemento autonomo in quanto parte dell'universo diegetigo del film. Un altro strumento è quello di grafiche, tavole e schemi, che rendono in modo formalizzato un particolare aspetto del film, visto che uno schema può contentere criteri per la segmentazione, la messa in evidenza di una sequenza... Strumenti citazionali. sono un prelievo dal corpo del film. Molto utile per le analisi orali, consente un rapporto diretto con il testo analizzato, ma ricorrere solo a estratti rischia di proporre un'idea del film come fatto di singoli frammenti, stravolgendo la sua visione come una totalità. Si può ricorrere anche alla riproduzione di un singolo o più fotogrammi. Il fotogramma è un effetto paradossale, essendo da un lato la citazione letterale del film, dall'altro la negazione di quelli che sono due dei suoi momenti essenziali: il movimento e la durata. Vanno scelti in base alla loro tipicità, ovvero quando sono capaci di rendere al meglio l'aspetto che si vuole analizzare. Molto utile è il ricorso a schizzi che trattengono solo gli elementi pertinenti all'analisi. * Strumenti documentari: sono costituiti da dati fattuali estemi al film, ma utili per l'analisi. Si hanno i dati anteriori alla distribuzione del film e quelli posteriori. Riassumendo, analizzare un film implica sempre queste tre operazioni: * Scomposizione * Analisi delle parti * Ricomposizione Si parte da un'ipotesi preventiva, si divide il film in episodi narrativi, sequenze, scene, inquadrature, immagini... e poi si passa all'analisi delle diverse parti individuate. In ognuna delle parti si individuano dei procedimenti dominanti. Una volta stabilite le costanti di ogni unità si estende l'analisi all'insieme delle unità, cercando di individuarne costanti, varianti e opposizioni. Infine si ricompone il testo a partire dal percorso compiuto, cercando poi di elaborare un modello in grado di dare un'interpretazione e che tenti di dare un senso alle costanti individuate. L'analisi svela quindi uno dei meccanismi interni al testo che contribuiscono alla costruzione del significato complessivo del film.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved