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Sintesi del manuale "Il dialetto nell'Italia unita, Storie, fortune e luoghi comuni", Dispense di Dialettologia

Sintesi completa e dettagliata del manuale, suddivisa per capitoli.

Tipologia: Dispense

2019/2020

In vendita dal 13/01/2023

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Scarica Sintesi del manuale "Il dialetto nell'Italia unita, Storie, fortune e luoghi comuni" e più Dispense in PDF di Dialettologia solo su Docsity! I DIALETTO E LUOGHI COMUNI Quando si parla di dialetti, soprattutto in sedi divulgative (quali la rete), le presunte certezze assolute sono molto frequenti. Alcune delle idee o certezze che circolano in rete sono quelle secondo cui l’Unità d’Italia sia la causa diretta della crisi dei dialetti o l’affermazione «La lingua è un dialetto con un Esercito o una Marina». Tale ultima frase, con diverse piccole variazioni, è ripetuta centinaia di volte in rete e per questo ogni giorno presa per buona dai navigatori di Internet. La convinzione che una lingua tragga la sua fortuna dalle armi e dal loro peso presuppone che la diffusione di una lingua si accompagni sempre a una conquista o ad una pressione militare. In realtà, l’italiano non si è affermato né per la forza delle armi, né a seguito di una decisione di tipo politico, nemmeno per effetto diretto di decisioni legislative. L’italiano non ha mai potuto contare sull’appoggio di un Esercito o di una Marina: prima dell’Unità d’Italia non c’era un sostegno militare perché non c’era un unico Stato italiano dotato di forze armate. È noto poi che prima dell’unificazione politica e prima della nascita del Regno d’Italia, l’italiano era già la lingua di cultura degli italiani, visto che nei diversi Stati della penisola era da secoli la lingua della burocrazia, della letteratura, delle leggi e della scuola, pur in presenza di dialetti diversi che con l’italiano convivevano. Già prima dell’Unità d’Italia il prestigio e la diffusione dell’italiano non dipendevano da iniziative di carattere politico, ma dall’adozione sul piano delle scritture ufficiali di una lingua che aveva trovato il suo punto di forza maggiore dell’espansione della letteratura. Tale forza connessa al prestigio culturale era servita a limitare gli ambiti d’uso in precedenza occupati prevalentemente dal latino. Quindi, semplicemente, l’italiano ha combattuto contro il latino e non contro i dialetti. I luoghi comuni sui dialetti italiano però non sono meno numerosi: c’è chi pensa che tutti i dialetti meridionali siano uguali tra loro, altri sono convinti che la qualifica di dialetto corrisponda a una svalutazione spregiativa, perché pensano che un dialetto sia una specie di deformazione o corruzione della lingua. L’ostilità verso i dialetti è inoltre chiamata in causa da chi sottolinea che a fine Ottocento la politica scolastica sarebbe stata condotta con l’obiettivo di estirpare quella che al tempo sarebbe stata etichettata come malerba dialettale. Se però il riferimento fosse stato abituale a fine Ottocento o inizio Novecento, noi dovremmo incontrare negli scritti di quel periodo molti riferimenti espliciti riguardo questa malerba. Invece non è così: le due parole in sequenza non sono scritti in nessuna pagina stampata nel corso del XIX secolo e ciò dimostra che non si tratta per niente di una sorta di parole d’ordine dei decenni post-unitari. Queste due parole compaiono per la prima volta accostate nel 1903, nel titolo di un saggio di un letterato Pietro Mastri che non aveva in mente il dialetto usato nelle conversazioni, ma nel suo scritto si riferiva soltanto alla moda dei poeti che scrivevano in dialetto. Per lui la malerba dialettale era quella che andava a infestare la poesia del suo tempo. A proposito di scuola, va precisato che l’insegnamento dell’italiano nella scuola non rappresenta una novità introdotta nel Regno d’Italia; anche prima del Settecento la lingua insegnata nelle scuole era esclusivamente l’italiano e piuttosto, la novità principale è data dalla quantità di scolari raggiunta dall’insegnamento, poiché dopo l’Unità l’istruzione non riguarda solo una parte della popolazione, ma è indirizzata a tutti. È evidente che la scuola post-unitaria ha avuto la responsabilità di riscattare dall’analfabetismo tutti i cittadini italiani, senza distinzione di ceto sociale o luogo di nascita. Prevalgono però, ad oggi, narrazioni in cui si omettono passaggi fondamentali e quindi giornalisti, opinionisti, scrittori, quando leggono che dopo l’Unità d’Italia nella scuola italiano l’italiano era materia di insegnamento, presuppongono, per disinformazione, che prima nelle scuole si insegnassero i dialetti. A tutte queste affermazioni sui dialetti andrebbero aggiunte anche tante ricostruzioni etimologiche erronee che vengono passate come sicure ed affidabili. Il problema, infatti è costituito proprio dalla sicurezza con cui cono messe per iscritto sulla carta e soprattutto sul web affermazioni che non supererebbero una minima verifica né sul piano fonetico, né sul piano storico. Un esempio di erronea etimologia potrebbe essere questo: in una lista di parole napoletane presentate come sicuri francesismi, figura il verbo nzerrà, che significa ‘chiudere’ ricondotto al verbo francese enserrer. A chi fa una tale affermazione non viene però in mente che l’ipotesi non regge ad una semplice verifica fonetica, visto che volendo difendere tale etimologia ci si dovrebbe anche accollare l’onere di spiegare come la terminazione dell’infinito della prima coniugazione in -are/ -à possa derivare da un infinito francese che invece termina in -er. Occorrerebbe anche chiarire come mai il napoletano nzerrà abbia una presunta origine, mentre il verbo in italiano serrare è ricondotto al tardo latino SERARE (chiudere una porta con un paletto) e in ultima analisi al sostantivo SERA che indicava il paletto usato per chiudere una porta. A tal proposito, andrebbe anche indagata la diffusa convinzione secondo cui la presenza di parole straniere in un dialetto rappresenterebbe una sorta di benemerenza linguistica, una vera e propria onorificenza di cui fregiarsi: i forestierismi sono presenti in tutti i dialetti italiani, perché popolazioni di diverse provenienze o emigrati italiani di ritorno hanno portato parole di origine straniera in ogni località italiana. Un altro esempio riguarda il modo di dire napoletano tenere ̓e làppese a quadriglié che abballano pe capa, cioè avere delle matite o pietre (?) a quadretti che danzano in testa. Risalta, anche in questo caso, la sicurezza con cui in rete è proposto un collegamento con i mattoncini a quadretti che caratterizzano il cosiddetto opus reticulatum dei Romani. In questo caso la motivazione semantica sarebbe data dal fatto che disporre con estrema precisione ogni singola pietra (lapis-lapidis), cercando di farle combaciare con le altre, comportava un tale dispendio di energie fisiche che un manovale impegnato in tale impresa a fine giornata poteva mostrare segni di nervosismo e di impazienza. Ma tale teoria ha due punti deboli: in primis non c’è alcuna documentazione a riguardo; in secondo luogo, la spiegazione non regge sul piano semantico. Infatti, in napoletano lapis non significa ‘pietra’ ma ‘matita’ quindi in nessun modo si può evocare una connessione con la parola romana LAPIS, LAPIDIS intesa nel senso di pietra. Il caso richiede un supplemento di indagine: in questa circostanza soccorre una battuta presente nella celebre Gatta Cenerentola di De Simone. Qui si legge un personaggio che senza mezzi termini e in modo chiaro e schietto dice: «Io tengo ̓e cazze ca m ̓abballano pe ̓ ccapo»: sembra plausibile che i làppese (le matite e non le pietre) sia semplicemente un eufemismo che ha permesso ad una cruda affermazione di fare il suo ingresso nella fraseologia napoletana. Per quanto riguarda poi la storia remota dei dialetti, è il caso di accennare a coloro che affermano che nel Placito capuano (del marzo 960) si debba riconoscere la prima manifestazione scritta del dialetto napoletano. Il riferimento a Placiti come ai primi testi in napoletano deriva molto probabilmente dalla tendenza ad immaginare il remoto passato linguistico come simile ad una percezione della realtà attuale. A tale prospettiva potrebbe contribuire il quadro offerto oggi dall’Unesco, che presenta il napoletano come la lingua unica di quasi tutta l’Italia meridionale peninsulare. Tale quadro appare del tutto inverosimile se proiettato sull’area campana del X secolo e se riferito alla situazione che, sotto l’influenza dei Longobardi, tra Capua, Teano e Sessa Aurunca, suggerì la scelta di adottare il volgare del Partendo dal latino, gli studenti liceali imparano che, per le quattro coniugazioni, le forme del futuro latino erano del tipo AMABO, MONEBO, VENDAM, AUDIAM. Se questo tipo di futuro sintetico fosse stato usato sempre da tutti coloro che parlavano il latino, oggi lo troveremo ampiamente presente nelle lingue romanze. Invece, non è così: le forme del futuro usate nelle lingue romanze derivano da perifrasi costruite con l’infinito. Pensiamo per esempio all’italiano canterò, allo spagnolo cantaré: queste forme risalgono a CANTARE HABEO, cioè ad una perifrasi in cui all’infinito del verbo sono aggiunte le forme del verbo avere che a lungo andare hanno assunto la funzione di desinenza. A prima vista, sulla base della documentazione scritta, sembrerebbe un futuro raro e scarsamente diffuso, ma la documentazione offerta dalle lingue fa capire che le cose sono andate in un altro modo. I futuri delle lingue romanze confermano che il futuro del tipo CANTARE HABEO era largamente usato nel parlato, anche se evidentemente era evitato nella scrittura. L’affermazione di questo tipo di futuro con il suo approdo nella scrittura fu possibile solo quando la lingua parlata si allontanò definitivamente dal modello di riferimento del latino scritto e si andò differenziando nelle diverse aree. Ciò permette di pensare che il futuro del tipo AMABO, CANTABO ecc. fosse ancora adottato soprattutto da chi conosceva e applicava correttamente gli usi della lingua scritta, mentre nella comunicazione parlata prevalevano perifrasi come VOLO CANTARE, VENIO AD CANTARE, CANTARE HABEO. Tutte queste forme perifrastiche sono con ogni evidenza costruite con il tempo presente seguito dall’infinito. Il punto cruciale è questo: non si tratta di una caratteristica esclusiva del siciliano e in particolare, il futuro manca nei dialetti meridionali. Nei dialetti settentrionali il futuro del tipo canterò è presente, ma non esclusivo. La carta dell’AIS (Atlante italo-svizzero), che presenta le forme corrispondenti all’italiano «lo manderò» nei diversi dialetti italiani, è ampiamente a favore della tesi. In particolare, in Italia meridionale il tipo «lo manderò» è del tutto assente, mentre è quasi generalizzato il solo presente «lo mando». Anche nelle regioni settentrionali, infatti, accanto al tipo maggioritario «lo manderò», si trova in molti punti il tipo «lo mando». Il presente in luogo del futuro per di più è diffuso anche in italiano e basta prestare attenzione all’italiano effettivamente usato nella comunicazione parlata, per rendersene conto. III DIALETTO È UNA BRUTTA PAROLA? Capita delle volte di imbattersi in rete e trovare definizioni come «il napoletano non è un dialetto ma una lingua». Una ricerca condotta con il motore di ricerca Google, offre risultati indicativi: la frase «non è un dialetto ma una lingua» si incontra 4.380 volte. Un’ affermazione di principio di tale tipo nei testi stampati è molto più rara; tali dichiarazioni trovano un habitat congeniale in rete e ciò è dovuto, probabilmente, alla genesi della scritta in rete che pone l’utente di fronte al suo schermo come un dominus incontrastato dal contesto, per cui mal si tollera l’intrusione di prospettive diverse seppur più autorevoli. Le affermazioni qui considerate sono strutturare su una contrapposizione tra dialetto e lingua, dove la negazione di una qualifica (dialetto) è seguita dall’affermazione di un’altra qualifica. Ma per quale motivo, soprattutto nella produzione degli utenti della rete, la qualifica di dialetto è considerata in modo così negativo? Una possibile ipotesi è che a questa parola sia assegnato il significato attribuito al termine inglese dialect che nella prospettiva della linguistica angloamericana indica una variante di una lingua standard, cioè una modalità particolare di parlare una certa lingua o anche una deformazione della lingua. Questo vuol dire che in questa prospettiva con dialect si può intendere anche un modo deviante di parlare una certa lingua, una sorta di corruzione della lingua presente. La definizione di dialect, però, non si adatta al caso dei dialetti italiani: il siciliano, il napoletano, il piemontese ecc. non sono varianti devianti della lingua italiana, né sono modi sbagliati di parlare l’italiano. In riferimento alla realtà linguistica italiana, la parola dialetto reca questo significato: I DIALETTI NON SONO VARIANTI CHE DEFORMANO L’ITALIANO NÉ TANTO MENO “UNA LINGUA PARLATA MALE”, MA SONO SISTEMI LINGUISTICI DERIVATI DIRETTAMENTE DAL LATINO. Alle origini dei dialetti italiani si colloca la realtà del latino parlato, che era fortemente frammentata. Il latino era parlato in modi diversi nelle varie zone geografiche, ma si diversificava secondo anche l’istruzione dei parlanti e anche in grado al rapporto di formalità e informalità della comunicazione. Nonostante tale condizione di frammentazione era avvertita l’unità del latino, che poggiava sull’autorità della lingua scritta e letteraria, studiata e usata dalle persone istruite. Dopo il V secolo, la frammentazione locale si fa presente e comincia a lacerare il velo linguistico unitario che risulta assottigliato e consumato per dei fattori storici e sociali, in primis perché il prestigio del latino di tipo unitario è avvertito sempre meno e da un numero minore di persone istruite. Si perde così la cognizione di un’unità culturale di ampia portata geografica. Sintetizzando, con il crollo delle strutture dell’Impero, cambiano le prospettive di spazio delle persone che, perdendo la percezione di un orizzonte più vasto e dell’unità geografica, restano confinate in orizzonti spaziali più ristretti. In questo restringimento degli orizzonti si è determinata una situazione linguistica nuova dove si è accresciuto il prestigio delle lingue parlate perché era meno avvertito dalla stragrande maggioranza della popolazione il prestigio del latino scritto. In questa nuova situazione, in cui la quasi totalità dei parlanti ha come punto di riferimento solo la lingua parlata nell’ambito limitato di una singola località, si determina una localizzazione minuta linguistica: il modo di parlare di ogni luogo, derivato dal latino parlato in zona, acquista e conserva caratteri locali diversi anche da quelli dei centri vicini. Tale diversificazione sul piano della lingua, si collegava ad una frammentazione abitativa in un quadro generale di ridotta densità della popolazione. In quell’epoca i centri abitati erano collocati in collina, arroccati intorno ad un castello, per cui risaltava in modo netto la differenza tra luoghi diversi, dove i rispettivi abitanti percepivano di far parte di gruppi comunitari diversi. Fin qui risulta evidente la continuità tra il latino parlato in una certa località al tempo dei Romani e il dialetto che nella stessa località è stato in seguito parlato ed è stato trasmesso nel tempo da una generazione all’altra; continuità non significa però immobilità assoluta e perciò il dialetto odierno di un certo luogo non è identico al latino parlato nella zona 1.500 anni fa, ma ne rappresenta la sua evoluzione. A tal punto è evidente che i dialetti italiano non sono varianti dell’italiano di oggi, semmai sono varianti del latino, su cui hanno poi esercitato una certa influenza anche le lingue giunte in tempi successivi (le lingue germaniche, il tedesco, l’inglese, il francese, lo spagnolo). Bisogna però domandarsi, come mai oggi sia più forte questa tendenza ad affermare che un certo dialetto non sarebbe un dialetto ma una lingua. Ciò, forse, dipende dal fatto che nel campo degli studi di linguistica italiana e di linguistica romanza, molte persone tengono conto solo della nozione angloamericana di dialect. In tal modo si diffonde l’idea che i dialetti italiani siano solo modi differenti di usare l’italiano. Sulla base di questa convinzione sbagliata la parola dialetto è considerata come il segno di una svalutazione: ne deriva un singolare paradossi, secondo cui coloro che per passione si interessano delle varietà linguistiche locali, cioè dei dialetti, sono più pronti poi a rivelare una ostilità verso la qualifica di dialetto. La parola dialetto è passata nelle diverse lingue europee: l’inglese dialect, il francese dialecte, il tedesco dialekt, che non sarebbero altro che italianismi risalenti alla forma dialetto. La più antica attestazione della nozione di dialetto riferita a una lingua moderna si incontra in italiano, poco prima del 1530, negli appunti linguistici dell’umanista Colocci, che parla di «dialecti» in relazione al «mutar delle lingue», cioè alle differenze tra le diverse zone d’Italia. Dopo alcuni secoli, la parola dialetto assume almeno per alcuni un significato attribuito alla parola inglese dialect, che in senso stretto sarebbe un originario italianismo. In Italia, a partire dalla frammentazione dell’alto Medioevo, si è nei secoli affermato l’italiano come lingua comune, che nel tempo ha preso il posto del latino. Tale processo non si è verificato per un’imposizione politica o legislativa, ma si è collegato al prestigio culturale di una lingua letteraria di tipo fiorentino affermatasi dal Trecento in poi. A partire dalla riflessione linguistica di Dante Alighieri, nella cultura italiana si è affermata la ricerca di una lingua da affiancare al latino e, secondo l’auspicio e il desiderio di Dante, destinata a prendere il suo posto. In un celebre brano del “Convivio”, Dante auspica appunto l’avvento di una nuova lingua che sostituisca il latino anche per dare finalmente la luce a coloro che non conoscevano il latino. All’inizio del Cinquecento, nella fase storica in cui si svolge la cosiddetta “questione della lingua”, che puntava alla ricerca di una lingua che avesse lo stesso prestigio letterario e culturale del latino, il letterato Pietro Bembo, fissa le norme che dovranno essere seguite dai letterati successivi. Secondo Bembo, per scrivere opere che possano essere lette anche dopo secoli occorre scrivere come Petrarca nella poesia e come Boccaccio nella prosa. Ogni letterato al momento di scrivere adotta un criterio di selezione che gli permette di scegliere le forme da accettare nella scrittura. Proprio in questo periodo nella cultura italiana si delinea la nozione di dialetto. All’inizio del Seicento la prospettiva affermata da Bembo fu accolta e rilanciata dal Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612), che rappresentava un importante aiuto per chi intendeva comporre opere letterarie in una lingua che tutti i lettori potevano capire. Nella prima metà del Seicento la prima lingua che veniva studiata a scuola era solo il latino, ma l’italiano entrava lentamente come materia di studio in alcuni Collegi. Mentre l’italiano come nuova lingua di cultura cominciava a svolgere le funzioni che prima erano del latino, gli italiani nella comunicazione quotidiana e familiare parlano la lingua del proprio luogo d’origine. Tuttavia, quando vogliono comunicare in modo più formale o incontrano persone di altre zone, tendono ad usare l’italiano. V DOPO L’UNITÀ IL DIALETTO ERA UNA MALERBA? Se dopo l’Unità i dialetti sono stati combattuti con delle iniziative rigide, c’è da chiedersi come mai dopo cent’anni da questa i dialetti erano ancora ampiamente usati dalla maggioranza della popolazione. L’ipotesi che qui si avanza è che le iniziative antidialettali non siano state condotte a tappeto, visto che a lungo i dialetti hanno occupato uno spazio considerevole nella comunicazione quotidiana. L’articolo di Franco Brevini accenna all’estirpazione di quella che veniva chiamata «malerba dialettale», mentre Loporcaro parlava di sradicamento. L’espressione malerba dialettale è pensata dal poeta e critico letterario Mastri, il quale poco tollerava il successo clamoroso raggiunto in quegli anni dagli autori che scrivevano in dialetto. Nel titolo del saggio il sostantivo è abbinato all’aggettivo dialettale, ma questa espressione si riferisce alla letteratura in dialetto e infatti, ad essere presi di mira sono i versi di Cesare Pascarella o, per meglio dire, i gusti del pubblico. Egli afferma che si vendono molti libri dei poeti dialettali in occasione di pubbliche letture e che questi libri fiorivano ogni giorno perché la produzione poetica in dialetto aveva fortuna un po' in tutti i luoghi. Non c’era regione, afferma, dove non vi si trovava il suo poeta che, dopo aver raccolto le espressioni più tribali e plebee e le sguaiataggini che caratterizzavano i bassifondi sociali del suo paese, non sentiva bisogno di renderne compartecipe tutto il resto della nazione, con la pretesa di aver fatto un’opera d’arte. Ad accentuare i malumori di Mastri contribuisce la narrativa di autori che non scrivono né in lingua né in dialetto, ma in un ibrido gergo che è un po' dell’una e un po' dell’altro, un italiano dialettizzato o un dialetto italianizzato. Le pagine del Mastri hanno avuto una certa risonanza nella storia della critica per merito di B. Croce, che nel suo saggio su Pascarella cercava di individuare un punto di equilibrio tra le lodi espresse da G. Carducci e la stroncatura di Mastri. È evidente che solo quest’ultimo ha parlato di malerba dialettale a proposito della fortuna toccata ai poeti in dialetto e, per questo motivo è del tutto impropria l’idea diffusa secondo cui dopo l’Unità il dialetto sarebbe stato trattato come una “malerba”. Tale affermazione non ha alcun fondamento, tanto più se si considera che la critica di Mastri non riguardava il dialetto parlato, né le abitudini linguistiche degli scolari, ma nasceva solo nel quadro di una polemica letteraria circoscritta. A proposito poi della scuola, va anche ricordato che l’obiettivo dell’insegnamento dell’italiano comportava una sorveglianza molto vigile delle scelte linguistiche e al centro dell’attenzione, non erano tanto le parole dialettali in sé quanto l’incontrollata interferenza tra dialetto e italiano che poteva portare gli scolari a usare tipi lessicali dialettali trasposti impropriamente in italiano. Fuori dall’ambiente scolastico lo scrittore Carlo Tenca lamentava che l’italiano si fosse incrociato con i dialetti dando luogo nelle conversazioni a una sorta di dialetto singolare, un italiano vestito alla vernacola. In un libro di Dialoghetti e letterine, l’autore Mancini notava che l’incontro tra dialetto e italiano conduceva a una lingua scorretta e arbitraria. All’inizio del nuovo secolo un libro di Nuzzo riconosceva l’espansione di una lingua d’arbitrio, una via di mezzo tra italiano e dialetto preferita inizialmente solo dalla gente di mezza cultura ed ora, anche da persone coltissime. Su questa stessa linea si colloca nel primo Novecento l’opera L’idioma gentile di De Amicis che conosce un’amplissima diffusione: nelle sue pagine sono passati in rassegna molti degli errori, in particolare prodotti in interferenza in ambito lessicale, che punteggiano la lingua arbitraria da cui i giovani lettori sono invitati a guardarsi in maniera costante. L’attenzione rivolta verso tante forme che noi oggi considereremmo tipiche dell’Italiano regionale non dipende sa un’accondiscendenza verso il dialetto, ma dalla convinzione che in un contesto di apprendimento dell’italiano sarebbe stato difficile immaginare che gli scolari decidessero di parlare o di scrivere in dialetto. Era invece molto probabile che scolari scivolassero involontariamente verso una mescolanza non voluta e non gradita. Un atteggiamento guardingo verso gli effetti del dialetto non costituisce una novità della scuola dell’Italia unita; anche prima dell’Unità la didattica linguistica aveva come unico obiettivo l’insegnamento dell’italiano; anche prima dell’Unità circolava l’idea che la scolarizzazione avrebbe in qualche modo determinato condizioni di crisi dei dialetti. Alcuni libri scolastici dimostrano come i dialetti non fossero guardati con favore nelle scuole preunitarie e tal cosa, va messa in evidenza per evitare che qualcuno possa immaginare una scuola preunitaria con atteggiamenti morbidi verso il dialetto e l’italiano regionale o addirittura orientata verso l’insegnamento del dialetto. In un Saggio di nomenclatura pubblicato a Napoli da Carlo Mele, l’autore raccomanda ai maestri di insegnare agli scolari le parole italiane; solo in questo modo i fanciulli non saranno costretti a tradurre il loro pensiero e avranno un uso spedito di queste forme. Pochi anni prima, la stessa prospettiva traspare da uno scritto del letterato Montani che auspicava a una generale diffusione dell’italiano da raggiungere anche attraverso il ricorso a delle istitutrici toscane. Questi accenni danno un’idea di sentire molto diffuso nel primo Ottocento e confermano che l’istruzione e la scuola erano viste come veicolo di una necessaria italianizzazione connesso alla funzione dell’insegnamento. Tale obiettivo fu alla portata di tutti gli scolari perché l’istruzione non era ancora offerta a tutti i cittadini. Questi elementi di continuità sul piano scolastico dimostrano i limiti di concezioni che tendono a presentare l’affermazione dell’italiano come il risultato conseguito attraverso leggi e riforme. Su tale argomento restano fondamentali delle pagine di Tullio De Mauro in cui si accenna alla diffusione dell’italiano nella realtà viva e alla conseguente semplificazione della lingua letteraria. De Mauro sottolinea che la semplificazione dell’italiano letterario non poteva essere opera di soli letterati e che hanno dato vivace apporto le persone che nella realtà quotidiana hanno usato l’italiano da una parte all’altra dell’Italia. Il corso della storia linguistica italiana è stato quindi modificato dall’opera costante e prolungata di parlanti che hanno trasmesso l’italiano durante i loro viaggi e spostamenti: emigranti, maestri e maestre, avvocati, attori, camionisti. A categorie di questo tipo appartenevano anche coloro che prima dell’Unità, allontanandosi dal loro luogo natale, praticavano per esigenze comunicative una lingua comune diversa dai dialetti locali. Anche i maestri e le maestre dopo l’Unità si muovevano da una parte all’altra d’Italia e di questi trasferimenti, si ha un’idea attraverso Il romanzo di un maestro di Edmondo De Amicis. Le pagine di De Mauro ricordano che la diffusione capillare dell’italiano è il risultato di un lungo processo e non l’esito rapido di un’iniziativa legislativa e inoltre, risulta sempre più evidente, che tale diffusione non è la causa della crisi dei dialetti. VI CONTINUITÀ DIALETTALE FINO A METÀ NOVECENTO Se l’Unità d’Italia avesse determinato l’azzeramento dei dialetti gli effetti sarebbero stati visibili in tempi brevi ma, alcuni segnali ci orientano verso una spiegazione diversa. Ancora fino al Novecento inoltrato, risalta una sostanziale e prolungata vitalità dei dialetti delle abitudini legate al mondo dialettale e si profila, inoltre, una versa e propria fortuna di questi. In una poesia di Franco Palumbo, scritta nel dialetto di Matera, è presentato il rientro serale del padre che porta con sé la carne appena comprata, tenendola nascosta sotto la giacca. La poesia si intitola L’amor pu vicin e non porta in primo piano la quiete della sera e del pasto in famiglia, consentito dal relativo benessere di chi riesce a comprare la carne, ma il gesto della condivisione verso i vini meno fortunati: la mamma, che di nascosto porta un po' di cibo alla vicina è il segno di un’attenzione premurosa verso chi ha bisogno, la stessa attenzione che mostra il padre nel non esibire un acquisto che è un piccolo lusso. Nel gesto di solidarietà evocato nella poesia si riconosce un’affinità con un episodio narrato nei Promessi Sposi: nel capitolo XXIV del romanzo, Manzoni narra che Lucia viene ospitata a casa del sarto del villaggio. In questo squarcio di narrazione, Manzoni dà idea di come potrebbe scorrere serenamente la vita quotidiana in assenza di prepotenze e di eventi funesti. Nelle ore trascorse in quella casa Lucia trova un ambiente domestico tranquillo, dove pur senza lussi il cibo quotidiano non manca. Durante il pasto familiare, il sarto riferisce qualcosa dell’omelia del cardinale Federigo e ne ammira il comportamento sobrio e la carità, il ringraziamento che bisogna volgere al Signore e l’idea che l’essere poveri non è una disgrazia piuttosto è una disgrazia il comportarsi in malo modo ed essere delle cattive persone. Nella vicenda narrata da Manzoni troviamo quindi una situazione molto simile a quella riferita da Palumbo nella sua poesia. Ovviamente la Matera degli anni Trenta del Novecento non è identica alla Lombardia di circa tre secoli prima, ma le due scene domestiche sono accomunate da qualcosa che rimanda a una continuità di modi di vivere che si perpetuano. Inoltre, in entrambe le situazioni domina il senso di una comunità che è tangibile nell’attenzione verso gli altri e si può aggiungere che, per alcuni versi le condizioni di vita del 1930 erano più vicine a quelle del 1630 che alle condizioni di vita dell’inizio del XXI secolo. È necessario ribadire che questa continuità tra i due mondi non è da attribuire ad un’ipotetica arretratezza della Basilicata novecentesca: con esclusione delle grandi città è verosimile che la vita quotidiana nella realtà dell’Italia agricola tra le due guerre avesse connotati affini nelle diverse parti d’Italia. La constatazione della continuità si combina alla sensazione di una frattura, che ha investito i modi tradizionali di vivere e di parlare; in tale frattura è da riconoscere anche la fase storica in cui si è maggiormente evidenziata la crisi dei dialetti, che non sarebbe perciò da attribuire all’Unità d’Italia ma ad eventi accaduti nel corso del Novecento. Proprio in termini di continuità va considerato anche un altro episodio narrato di recente dallo scritto Camilleri che contraddice l’idea che una guerra senza quartiere sarebbe stata combattuta e vinta contro i dialetti nei decenni successivi all’Unità e ancora di più negli anni del fascismo. Se da un lato è noto che dopo l’Unità non mancarono posizioni ostili al dialetto è anche vero che questo è rimasto a lungo vitale e prevalente nella comunicazione quotidiana degli italiani. In uno scritto del 2018, nel rievocare l’origine della sua scrittura improntata ad una sorta di bilinguismo, Camilleri ricorda un episodio della sua giovinezza dove viene rimproverato dalla madre poiché rientra troppo tardi la sera e si nota che vi è una sorta di divisione: la prima parte che è una mozione degli affetti è tutta in dialetto mentre la seconda parte, che è un’intimidazione, è in italiano. Quindi, una minaccia è in italiano, una cosa VII IL BOOM ECONOMICO E LA CRISI DEI MICROCOSMI DIALETTALI L’evidenza dei numeri va a smentire l’opinione corrente che vede dell’Unità d’Italia e nei programmi scolastici la causa decisiva e diretta della crisi dei dialetti. Nel secondo Ottocento, in tutto il Novecento e anche all’inizio di questo XXI secolo si sono verificati in Italia altri eventi che hanno comportato delle conseguenze linguistiche:  due guerre mondiali;  l’urbanizzazione con lo spostamento degli abitanti da una parte all’altra dell’Italia, ovvero le migrazioni interne;  l’abbandono delle campagne;  diverse crisi economiche;  il boom economico. Per le implicazioni linguistiche delle migrazioni interne basti ricordare che dagli anni Trenta agli anni Sessanta del Novecento si realizza l’urbanizzazione che modifica l’assetto demografico totale: i flussi migratori che conducono verso le grandi città da un lato provocano l’aggregazione nei centri urbani di gruppi di provenienze diverse, dall’altro lato si accompagnano al fenomeno dell’abbandono delle campagne. Il movimento verso le grandi città fu combattuto con determinazione dal fascismo che vietò il trasferimento verso i centri che avevano più di 25.000 abitanti, concedendo il cambio di residenza solo a colo che potevano dimostrare di avere un lavoro e un reddito garantito. Questo provvedimento fu poi abrogato ma molti italiani si trasferivano già verso le grandi città, in particolare Roma e Milano. In quegli anni cambiò totalmente il peso demografico della città: nel 1931 erano residenti delle grandi città poco più di quattro milioni di persone, nel 1981 questo numero era raddoppiato. I movimenti demografici spiegano le modifiche intervenute nella vita quotidiana dei cittadini che, cambiando il luogo di residenza, cambiavano spesso abitudini linguistiche, forse arrivando a non trasmettere più il dialetto ai propri figli o a suggerire loro di farne a meno. Bisogna riconoscere anche che certe situazioni non sempre dipendevano dalle scelte delle famiglie antidialettali, ma derivavano da circostanze obiettive, come matrimoni con coniuge di altra origine o i condizionamenti dell’ambiente circostante. Ai movimenti demografici, orientati per lo più dalle campagne verso la città, corrisponde, di conseguenza, il cosiddetto fenomeno dell’abbandono delle campagne, la diminuzione drastica del numero degli addetti all’agricoltura. L’abbandono delle campagne comporta ripercussioni linguistiche, perché, diversamente da altre categorie di lavoratori, gli agricoltori sono molto più legati alla terra dove vivono, dove sono nati, conservandone così anche gli usi linguistici. Il nesso tra lavoro agricolo e la vitalità del dialetto risalta meglio se ci soffermiamo a pensare che dal lavoro della terra dipendeva l’alimentazione: ne derivava la conservazione del lessico tradizionale del cibo, delle preparazioni alimentari, dell’allevamento e della pastorizia. Sul versante della vita quotidiana, l’abbandono delle terre ha comportato l’erosione del lessico tradizionale dell’alimentazione e l’adesione a delle mode globalizzanti. Quindi, risulta sempre più chiaro, che solo in modo semplicistico le innovazioni linguistiche possono essere ricondotte a esplicite norme legislative. Nonostante tutto, prima e dopo il 1960, gli abitanti delle campagne volevano andare via perché il lavoro agricolo non sempre permetteva di andare molto al di là della semplice sussistenza. È comprensibile che, di fronte a delle aspettative di vita migliori, molti agricoltori e braccianti abbiano scelto l’emigrazione. Chi si allontanava dal proprio paese, cercava di porre una cesura tra il prima e il dopo, tra le angustie quotidiane di un passato non molto bello e la novità di una vita che in un posto nuovo permetteva di coltivare e realizzare un sogno (avere un’automobile, degli elettrodomestici ecc.). In questa prospettiva gli usi tradizionali, il legame con il passato, lo stesso dialetto erano quindi avvertiti come connessi all’esperienza della povertà da cui era giunto il momento di prendere le distanze. Pier Paolo Pasolini ripensando alla sua giovinezza, accenna ad una realtà in cui il dialetto era ancora l’asse portante della comunicazione. Dopo gli anni del boom economico, lo sguardo di Pasolini si volgeva al dialetto del passato che, nel 1974, appariva perduto e connesso ai tempi difficili del passato. Egli diceva: «Non avevo automobile, quando scrivevo in dialetto. Non avevo un soldo in tasca. E in tutto il mondo povero intorno a me, il dialetto pareva destinato a non estinguersi che in epoche così lontane da parere astratte. Fra le altre tragedie che abbiamo vissuto, c’è stata anche la tragedia della perdita del dialetto, come uno dei momenti più dolorosi della perdita della realtà». Questa riflessione nasce in un periodo in cui una crisi petrolifera internazionale impose la scelta di ridurre il consumo di carburante. Fu così che si decise di bloccare il traffico delle automobili il giorno della domenica e quindi, per qualche settimana, gli italiani riscoprirono il gusto e il piacere di passeggiare a piedi. Nella prospettiva di Pasolini apparivano chiari i limiti del progresso e prendeva forma il ricordo di un universo ancora pieno di dialetto. Secondo questa rievocazione, all’incirca un secolo dopo l’Unità, non si avvertiva come imminente la perdita eventuale del dialetto. Pasolini si pone quindi questo dilemma: o la scuola postunitaria ha prodotto i suoi effetti antidialettali in ritardo, circa un secolo dopo, con dei risultati molto lenti, oppure non è stata la scuola postunitaria a provocare la perdita dei dialetti. La realtà a cui fa riferimento Pasolini è quella della vita quotidiana e della cultura materiale, dove si manifestava concretamente la continuità con il passato. Sul senso di smarrimento della continuità, ancora Pasolini si sofferma in un articolo del 1975 in cui, come punto di riferimento storico, individua la cosiddetta «scomparsa delle lucciole». Questo articolo, dove le lucciole non sono l’argomento centrale, è un intervento di analisi politica sul potere democristiano, sul fascismo e sul regime di Mussolini; l’intuizione dell’autore riguarda proprio l’improvviso senso di frattura tra il passato e il presente. A proposito di fratture tra generazioni, non si può dimenticare che la fase maggiormente segnata da una cesura profonda è quella Sessantotto: in quegli anni di contrapposizione e contestazione, tutto acquisiva una forte carica ideologica, l’accentuazione del distacco rispetto al mondo dei padri e delle generazioni, chiamate direttamente come matusa, il dialetto veniva visto inevitabilmente come segno di un passato, come un qualcosa appartenente ad un’epoca non considerata positiva. Solo successivamente in realtà il dialetto sarebbe stato “riscoperto” dalle giovani generazioni, soprattutto a partire dalle esperienze musicali. La rottura e la frattura di continuità si sono concretizzate anche in una perdita di contatto con la vita agricola che, ancora tra il 1920 e il 1950, rientrava tra le esperienze abituali di tutti gli italiani, anche degli intellettuali. Se nel mondo agricolo si riconosce uno dei serbatoi più consistenti che hanno alimentato la vitalità dei dialetti, è possibile osservare anche che la vicinanza alla vita quotidiana dell’agricoltura permetteva di conservare stretti contatti con il dialetto. L’esperienza diretta della vita reale ha permesso nel tempo ai letterati italiani di muoversi tra diversi registri linguistici e tra diverse situazioni comunicative, dove l’italiano e i dialetti entravano in contatto e in interferenza e ciò significa che, da un lato le persone che leggevano, scrivevano e parlavano in italiano hanno anche parlato il dialetto, ma dall’altro significa che coloro che parlavano il dialetto entravano continuamente in contatto con le persone che parlavano l’italiano. La prossimità dei letterati a una vita quotidiana dialettale è dimostrata dal ricordo di Pasolini e risalta anche attraverso una celebre pagina di Machiavelli. Si tratta della famosa lettera che Machiavelli scrive a Francesco Vettori nella quale descrive una sua giornata in campagna, scandita tra incontri con i conterranei e la lettura dei poeti in volgare e in latino e anche dei prosatori latini. È possibile immaginare quindi che nei dialoghi con i tagliatori del bosco e con i viandanti Machiavelli parlasse la stessa lingua dei suoi interlocutori, diversa dalle elaborazioni complesse e argomentative della letteratura. Alla fine della giornata, tornato a casa, cambia la situazione linguistica: dalla comunicazione parlata e corrente l’autore passa alla scrittura delle opere letterarie cambiando così anche gli usi linguistici. In questa lettera, Machiavelli comunica all’amico di avere scritto un’opera de principatibus; si tratta quindi di un testo di grande rilievo nella storia della letteratura italiana, ma in questo caso la lettera è citata perché ci permette di vedere il canale diretto che pone in comunicazione la lingua della letteratura con la comunicazione quotidiana. Negli stessi anni Settanta del Novecento, anche lo scrittore Malerba, in un libro intitolato Le parole abbandonate sottolinea il senso di una frattura linguistica. Sin dal titolo, l’autore allude a una novità intervenuta a causa di un abbandono, un atteggiamento che rimanda a un senso di trascuratezza, ma non certo all’effetto di direttive o di imposizioni legislative. Malerba presenta alcuni eventi che collega direttamente alla crisi: l’emigrazione, la guerra, l’industrializzazione e la scuola. Questi eventi sono certamente fattori che favoriscono la diffusione dell’italiano, ma Malerba sottolinea un altro aspetto più decisivo: la frattura rispetto alle abitudini tradizionali. Malerba tratteggia le fasi di una rottura della continuità prospettando un quadro molto diverso da quello oggi immaginato da chi pensa che siano state le imposizioni legislative a limitare l’uso del dialetto. La sua spiegazione si accosta alle dinamiche della vita di tutti i giorni, dove si realizza la comunicazione interpersonale attraverso i canali dell’affettività e con il coinvolgimento personale: è il piano su cui si colloca gran parte della comunicazione parlata. Per Malerba le nuove generazioni si sono allontanate dalle precedenti attraverso il rifiuto del mestiere dei loro padri e inoltre, gli anziani non riuscivano più a rivedere sé stessi nelle generazioni più giovani. Questo contatto con la realtà viene completamente tagliato fuori da coloro che prendono in considerazioni solo le imposizioni legislative. Nel libro di Malerba è anche molto acuta l’osservazione sul cambiamento delle abitudini comunicative; dopo la Seconda guerra mondiale, sembra ormai in crisi l’abitudine del racconto e della conversazione intorno al caminetto. La crisi del dialogo familiare segna un momento cruciale di svolta o di declino per una società fondata sulla comunicazione parlata. Il problema è espresso nel dramma Napoli milionaria! di Eduardo De Filippo, in cui il personaggio principale Gennaro Jovine vorrebbe narrare le vicende sofferte durante la prigionia e nel suo viaggio di ritorno a casa, ma incontra l’indifferenza dei familiari e degli amici. Proprio allo svanire del racconto come prassi comunicativa assidua si riferisce Malerba, sottolineando come, anche la Seconda guerra mondiale rappresenti uno spartiacque cronologico tra il mondo tradizionale comunitario e la contemporaneità individualista, segnata dal silenzio o dalla comunicazione urlata. In Napoli milionaria! l’incapacità di ascoltare è legata all’euforica situazione di chi si trova colpito da un improvviso benessere dopo la sofferenza della guerra e dopo secoli di privazione. Nelle condizioni del sopraggiunto VIII FORTUNE POSTUNITARIE DEL DIALETTO Alla fortuna e al prestigio delle lingue concorrono fattori che non sono sempre legati a delle imposizioni dall’alto e non si può nemmeno credere che alle enunciazioni di principio corrisponda l’immediato raggiungimento degli obiettivi dichiarati. È evidente che proprio dopo l’Unità, mentre si unificavano la burocrazia, l’esercito, le reti stradali, mentre la scuola continuava ad insegnare l’italiano, si realizzavano anche altre circostanze che contribuivano a un’immagine positiva dei dialetti. Possiamo pensare in primo luogo alla letteratura. Dopo l’Unità il dialetto ha conosciuto un prestigio letterario non paragonabile a quello di cui godeva in precedenza. Il filologo Contini ha affermato che quella italiana è l’unica grande letteratura nazionale la cui produzione dialettale faccia corpo con il restante patrimonio. Tale osservazione rimanda in primo luogo a un fatto concreto: in Italia i parlanti che usano l’italiano appartengono alle stesse comunità linguistiche in cui rientrano coloro che usano i dialetti anzi, per meglio dire, sono le stesse persone. Nella nostra storia letteraria l’uso del dialetto non nasce mai da un monolinguismo dialettale assoluto e alternativo alla conoscenza dell’italiano. Sostanzialmente i dialetti letterari sono impiegati da autori che usano anche l’italiano. La letteratura in dialetto c’era anche prima dell’Unità (basti pensare ai capolavori di Basile, Cortese, Belli), ma dopo l’Unità la sua diffusione e la sua valenza positiva sono generalizzate. Un altro punto da sottolineare a proposito della sorte letteraria dei dialetti è questo. Prima dell’Unità spesso la fortuna dei dialetti era connessa ai generi comici o a scelte che si presentavano come “minori”. Dopo l’Unità, la letteratura in dialetto si colloca negli stessi territori della poesia in italiano, superando i confini del comico ed entrando in dialogo con la poesia europea contemporanea. Il nuovo spazio letterario conquistato dai dialetti si collega anche a delle scelte espressive maturate nel corso dell’Ottocento. In epoca postunitaria si osserva una novità sia sul versante degli usi linguistici, sia sul versante della percezione degli italiani e ciò sta a significare che, agli occhi degli italiani, si cominciò ad avere idea di cambiamenti imminenti che facevano prevedere una larga diffusione dell’italiano. In questa prospettiva si affermò l’attenzione degli studiosi verso ciò che sembrava essere messo in pericolo dall’italiano. Ne derivò lo studio delle tradizioni e delle diverse manifestazioni locali, recuperate dagli studiosi delle tradizioni popolari. In qualche caso la percezione di un mondo in via di scomparsa era sostenuta anche da affettivi cambiamenti concreti intervenuti nella vita quotidiana e nella struttura urbana. Prendendo come esempio la città di Napoli, vediamo che questa dagli anni Ottanta dell’Ottocento subì profonde modifiche nel periodo chiamato dello “sventramento”. Il nesso tra modificazioni improvvise, anche urbane, e uso del dialetto in letteratura risalta particolarmente nei sonetti della raccolta ̓ O Funneco verde di Salvatore Di Giacomo. La genesi di questi versi dipende dalla consapevolezza che il Fondaco verde (spazio viario senza uscita) sarebbe scomparso, così come tante altre strade. Lo stesso sentimento di rimpianto e di malinconia è manifestato da Di Giacomo a proposito della demolizione del Teatro San Carlino. Al cambiamento repentino della realtà ponevano in qualche modo rimedio gli studi storici e le ricerche dello stesso Di Giacomo che, attraverso la poesia perseguiva una nuova definitiva consacrazione letteraria del dialetto cittadino. Perciò, se gli interventi urbanistici vanno in una direzione, la poesia va ancora in un’altra direzione. La qualità letteraria elevata della poesia fa ovviamente il resto, contribuendo alla fortuna del dialetto: vale a dire che un prodotto artistico di qualità getta luce anche sullo strumento linguistico adottato. Dopo l’Unità la poesia in dialetto si avvale infatti della potente cassa di risonanza della canzone che porta i dialetti lontano dai luoghi di origine, raggiungendo così un pubblico senza fine. La canzone conferisce nuovo spazio ai dialetti proprio nella dimensione dell’oralità, che è il campo privilegiato della comunicazione in dialetto. Come la canzone, anche il teatro rappresenta una letteratura concepita per l’ascolto, prima limitato al solo pubblico che andava al teatro; dopo l’Unità sempre più spesso il teatro è esteso a un pubblico larghissimo raggiungibile attraverso i dischi, la radio e la televisione. Alla fortuna della letteratura dialettale, si riferisce all’inizio del Novecento il letterato Mastri, il quale auspicava la fine della letteratura in dialetto. Tale fortuna, invece, non cessò neanche durante il regime del fascismo, nonostante i numerosi proclami a favore dell’italianità e della compattezza linguistica. D’altro canto, però, perfino nei libri unici fascisti entravano frasi o versi in dialetto, accenni a canzoni o alla pronuncia locale degli scolari e, proprio in quegli anni, diventavano Accademici d’Italia poeti che scrivevano in dialetto: Di Giacomo, Trilussa e Pascarella. Quella che Mastri chiamava «malerba dialettale» non solo non veniva debellata ma veniva, al contrario, ampiamente riconosciuta. Si pensi, inoltre, che proprio nell’ultimo decennio del fascismo, il successo del dialetto investe in modo più largo il teatro (possiamo pensare al successo dei fratelli De Filippo) o il cinema. A proposito del cinema, il dialetto entra nei dialoghi, come accade nel film 1860 di Blasetti, che all’italiano e all’italiano regionale affianca il siciliano di alcuni personaggi. Il Neorealismo segna l’ingresso stabile del dialetto nel cinema, volendo citare alcuni che hanno vinto l’Oscar: Ladri di biciclette, Ieri, oggi e domani, Il giardino dei Finzi- Contini di Vittorio De Sica; Amarcord di Fellini; Nuovo cinema paradiso di Tornatore; La vita è bella di Roberto Benigni. Anche un altro aspetto della fortuna dei dialetti va sottolineato: si tratta della circolazione delle parole dialettali che sono entrate stabilmente in italiano, dal genovese mugugno al napoletano sfizio. Si aggiunga che molte parole italiane di origine dialettale hanno poi fatto il giro del mondo: pizza e ciao più di ogni altra parola. A pizza e ciao si possono aggiungere pizzaiolo (dal napoletano), cassata (dal siciliano), gorgonzola (dall’area lombarda), grana (dall’Emilia) e provolone (di area campana). La fortuna di queste parole è rimasta anche legata al successo di film e canzoni, ma la loro diffusione di base ha luogo nella comunicazione corrente, grazie alla circolazione delle persone. Dopo l’Unità, del resto, anche la scuola ha contribuito a dare visibilità culturale ai dialetti. In primo luogo, conviene osservare che qualsiasi imposizione di ordine linguistico poteva avere vigore ed efficacia solo all’interno dell’aula scolastica, limitatamente agli usi scritti e alle comunicazioni orali tra alunno e docente, mentre risulta difficile pensare che scolari dialettofoni rinunciassero ad usare il dialetto con i compagni di scuola o all’interni delle famiglie. In secondo luogo, non si deve dimenticare che perfino una didattica linguistica fondata sulle prescrizioni dava luogo ad un confronto tra il dialetto e l’italiano, tra le forme suggerite e quelle censurate. Anche la didattica del «non si dice» dava visibilità alle forme da evitare. IX IL DIALETTO A SCUOLA: UNA GRAMMATICA DEL 1917 Di una certa rilevanza è un episodio che può essere visto come un punto di incontro tra la fortuna postunitaria del dialetto in letteratura e le vicende del dialetto nella didattica. È poco noto il fatto che ad un originale progetto didattico realizzato da Ciro Trabalza parteciparono alcuni letterati di diversa provenienza. Trabalza, che fu funzionario del ministero e, come grammatico convinto sostenitore della necessità di non trascurare il dialetto come punto di partenza nella didattica dell’italiano, pubblicò la grammatica Dal dialetto alla lingua dove inserì la traduzione di alcuni dialetti italiani di una pagina del terzo capitolo dei Promessi Sposi, quella del Miracolo delle noci. A tale iniziativa collaborò tra gli altri anche Salvatore Di Giacomo. Alla grammatica furono invitati a partecipare studiosi e scrittori illustri: solo per ricordare alcuni nomi, la traduzione sarda fu condotta da Grazia Deledda mentre quella lombarda dal glottologo Carlo Salvioni. Non è chiaro come Trabalza pensasse di far entrare nella concreta pratica didattica questi testi dialettali, che proponevano probabilmente una varietà letteraria non familiare (in quanto scritta) alla maggioranza degli alunni. La grammatica di Trabalza permette di porre in modo esplicito qualche interrogativo sulle modalità con cui testi di questo genere potevano essere usati nella pratica didattica quotidiana. Il libro infatti presenta qualche problema proprio per il suo aspetto più innovativo, cioè per lo spazio che viene dato ai dialetti. Per ogni argomento, a una descrizione delle forme italiane segue l’elencazione delle caratteristiche diverse dei dialetti d’Italia. I riferimenti ai dialetti sono però incompleti, perché alcune varietà regionali sono poche rappresentate o trascurate del tutto; inoltre bisogna domandarsi come Trabalza pensava che tali piccoli riferimenti alle forme dialettali potessero entrare in modo produttivo nella didattica delle scuole elementari: è difficile immaginare un piccolo scolaro della quarta elementare pronto ad apprendere tutte le diverse forme dei pronomi nei dialetti italiani, per di più dopo aver già memorizzato le caratteristiche delle forme italiane. Quindi è un percorso che parte da qualcosa che sembra essere ignoto, la grammatica italiana, e che va verso qualcosa di ancora più ignoto, le caratteristiche grammaticali dei dialetti di tutta l’Italia. Grazie a tali accostamenti l’alunno poteva osservare anche che i dialetti hanno la loro regolarità grammaticale, cosa utile ma poco gratificante per lo scolaro che andava incontro ad un apprendimento mnemonico. Trabalza però contava sulla capacità dei maestri di procurarsi una cultura superiore che li ponesse in grado di fare da filtro in modo adeguato nei confronti degli studenti. Per quanto riguarda le difficoltà insite nel libro, Trabalza riprende un concetto a lui caro, esaltando il ruolo e la funzione del maestro, che proprio per la grande libertà a lui riservata correva degli innumerevoli rischi. Quindi l’autore della grammatica raccomanda esplicitamente ai docenti di evitare l’adozione di termini difficili come gutturali e labiali, protoniche e postoniche, sillabe aperte e chiuse. Sull’idea della lingua e del dialetto sottintesa alla grammatica di Trabalza, dalle pagine introduttive si trae qualche informazione interessante. Un’idea portante è che l’italiano debba recuperare la sua purezza e tale scopo è raggiungibile solo riportando il dialetto a una condizione di purezza: se nella realtà italiano e dialetto sono impuri, poiché si contaminano a vicenda, è importante prendere in esame quel tipo di lingua in cui non si avverta il rischio di un’esposizione alla contaminazione dialettale. In questo modo si spiega la scelta di proporre come modello la lingua alta dei Promessi sposi. A Trabalza interessava dimostrare adeguatamente che il dialetto aveva una sua valenza letteraria potenziale e le traduzioni dimostravano esso poteva aspirare alla stessa purezza dell’italiano. L’intento dell’autore era quello di evitare che dialetto e lingua si confondessero diversificazione linguistica presente nella realtà italiana. Il discorso fatto dal maestro sembrerebbe ideato per persuadere gli alunni, per convincerli del fatto che il dialetto non dovrebbe suscitare derisione, così come non dovrebbe essere deriso lo scolaro dialettofono, sia perché la scuola lo avrebbe messo nelle condizioni di parlare italiano, sia perché qualsiasi dialetto vantava una sua dignità artistica e letteraria. Con queste premesse, si è portati ad ipotizzare che, ancora all’inizio degli anni Trenta, la situazione fosse capovolta rispetto a come la presentano alcuni autori: non si vedrebbe un coerente e massiccio impegno politico teorico, indirizzato a far fallire le innovazioni filodialettali della riforma Gentile. Sembra piuttosto che, attraverso la pressione ideologica del libro scolastico unico, si metta in circolazione l’idea che il dialetto non sia né pericoloso per l’unità della Patria, né un qualcosa di cui vergognarsi. Pertanto, il libro unico fascista in una scuola che forse fino a quel momento si era mostrata impermeabile alla penetrazione delle nuove idee, poteva perfino trasformarsi in uno strumento involontario di propaganda ideologica a favore dei dialetti. Altro caso di presenza del dialetto può essere questo: durante una gita del balilla Vittorio, suo zio Francesco, in una barca a Napoli, in coro con il barcaiolo intona una canzone di Libero Bovio (“Chisto è ̓ o paese d’ ̓o sole”). Sganciata da una necessità narrativa, tale citazione suona come un riconoscimento alle potenzialità artistiche del dialetto, a conferma del valore estetico di alcune canzoncine sostenute dai programmi della riforma di Gentile. D’altronde, la presenza in un libro scolastico di un dialetto non connotato negativamente rappresenta un caso eccezionale nella storia della scuola italiana postunitaria e questa si spiega solo grazie alla riforma. Nei libri scolastici, sia prima che dopo l’Unità, gli accenni al dialetto si concepivano solo nel corso di dialoghi o esercizi lessicali direttamente funzionali a mostrare le forme corrette (italiane) accanto a quelle sbagliate (in dialetto o in italiano regionale); chi ha frequentato poi le scuole elementari dopo la Seconda guerra mondiale ha sperimentato che nei libri di lettura degli anni Cinquanta e Sessanta erano assenti frasi dialettali. Questo era il segno che, dimenticate del tutto le innovazioni della riforma Gentile, la scuola aveva fatto ritorno alla chiusura verso il dialetto. Nei libri degli anni Cinquanta e Sessanta, come massima concessione al dialetto, si trovavano poche celebri frasi, di quelle pronunciate dai martiri o dagli eroi del Risorgimento, riferite nei libri perché utili a fissare nella mente un episodio storico narrato in modo aneddotico ai fanciulli delle elementari. Frasi di tale tipo sono presenti anche nei libri unici fascisti, a proposito della narrazione di eventi cruciali, tutti legati all’idea di patria: come a voler sottolineare che, pur con dialetti materni diversi, gli italiani hanno sempre avvertito l’Italia come una nazione unica, ancora prima dell’Unità nazionale. Qualche altro indizio, al di là dei libri di testo, fa pensare poi che nemmeno nella realtà il dialetto fosse sottoposto a una vera e propria repressione. Da un articolo apparso su “La provincia di Aosta” si apprende che il dialetto poteva essere usato perfino nelle prediche; l’autore dell’articolo, Domenico Vanelli, sollecita interventi decisi per la diffusione dell’italiano e ciò ci lascia intendere in primo luogo, che nonostante l’antidialettalità proclamata dal fascismo, accadeva ancora nel 1940 che un prete predicasse piemontese; in secondo luogo, si capisce che nell’ottobre del 1940, quattro mesi dopo l’entrata in guerra, il fascismo e tutti gli italiani hanno purtroppo altro a cui pensare. I casi fin qui considerati inducono a porre un altro problema: quanto siamo sicuri che sia stato proprio l’orientamento politico fascista a provocare l’insuccesso della riforma Gentile fondata sul metodo “dal dialetto alla lingua”? È evidente che le indicazioni dei programmi insistevano spesso sulle funzioni estetiche del dialetto, sottovalutando troppo le sue funzioni comunicative. La lingua e il dialetto non interessano come strumenti di comunicazione quotidiana, ma solo in forza della loro potenzialità estetica: questo è il limite principale dei programmi che provocano un atteggiamento non negativo verso il dialetto. D’altra parte, è ovvio che l’obiettivo dell’insegnamento scolastico sia sempre la didattica della lingua italiana. I programmi della riforma Gentile prescrivevano ciò: per la prima classe si raccomandava di educare alla lettura con «esercizi preparatorii, per avviare il bambino alla pronunzia chiara e franca»; per la seconda si prevedevano «esercizi metodici e graduati di dettatura, ricolti specialmente a combattere gli errori di ortografia, più frequenti perché suggeriti dal dialetto»; a partire dalla classe terza, si prescrivono esercizi di confronto grammaticale tra dialetto e lingua, che poi diventeranno esercizi di traduzione in quarta ed esercizi di vocabolario in quinta. È significativa la massiccia presenza di brani di autori celebri, anche dei secoli passati, con difficoltà nella lettura e nella comprensione da parte dei piccoli lettori, ma anche da parte degli insegnanti. Infatti, è verosimile che il dialetto letterario non fosse per gli allievi né più semplice né più familiare dell’italiano scritto, dal momento che l’ostacolo maggiore era rappresentato dalla scrittura in sé. La riforma Gentile si scontrò con equivoco: molti criticarono il metodo “dal dialetto alla lingua” perché ritenevano erroneamente che esso comportasse il diretto insegnamento del dialetto. Non sorprende quindi che alcuni autori di manualetti fossero costretti a precisare che la loro opera non serviva ad insegnare il dialetto ma ad insegnare l’italiano attraverso di esso. Le insistenze dei programmi sul valore estetico delle composizioni in dialetto ponevano infine in secondo piano il fatto che, accanto alle filastrocche esistesse anche un metodo scientifico e una tecnica dello studio dei dialetti e della loro descrizione. Ai maestri si chiedeva di saper cogliere il valore estetico dei testi, ma non era a loro richiesta la preparazione necessaria per compiere un confronto tra dialetto e lingua. La conferma di come una preparazione linguistica specifica fosse ritenuta superflua si ha dai programmi per l’istituto magistrale, dove non era previsto nessun avviamento a nozioni di tipo dialettologico. XI UNO SGUARDO ALLA STORIA RECENTE Così come Cardona, anche Francesco Bruni, negli anni Ottanta del secolo scorso, rilevava una tendenza alla valorizzazione positiva dei dialetti e della regionalità. In una riflessione lo studioso affermava che c’era stato un rafforzamento delle varietà regionali dell’italiano in alcuni settori: si va dalla tendenza alla regionalizzazione del servizio militare, ai numerosi movimenti di origine intellettuale e di presa variabile, che rivalutano la cultura folclorica, i dialetti, le tradizioni locali. Si è inoltre attenuata la standardizzazione promossa dalla radio e dalla televisione e quindi appare, da vari indizi, che il pendolo si è spostato verso il colore municipale. A distanza di trentacinque anni le valutazioni di Bruni non solo si dimostrano pienamente fondate, ma indicano anche le linee utili per ricostruire oggi la storia linguistica italiana dell’ultimo mezzo secolo. Bruni rivela la tendenza alle rivendicazioni filodialettali connotate in senso polemico verso la storia unitaria del paese. Proprio rivendicazioni di questo tipo hanno messo in moto una certa ideologizzazione dell’attenzione verso i dialetti. La tendenza già rilevata da Bruni si è poi orientata verso atteggiamenti filodialettali caratterizzati da prospettive identitarie, dove la valorizzazione delle “piccole patrie”, delle tradizioni locali, dei dialetti ha assunto talvolta i colori di una contrapposizione anche esasperata tra la propria identità da salvaguardare e l’identità altrui. La difesa del dialetto nel quadro linguistico italiano si è quindi manifestata come insofferenza verso la dimensione unitaria della storia italiana. Un contributo importante da questo punto di vista è stato dato da posizioni politiche orientate a rivendicare i localismi sia in funzione antiunitaria, sia in funzione oppositiva verso gli altri che provenivano da un “altrove” che veniva percepito in maniera negativa in rapporto all’identità da salvaguardare. La sensazione che dialetto e tradizioni debbano essere difesi in nome dell’identità conduce ad una contrapposizione tra identità diverse e all’innalzamento delle barriere. Con il passare del tempo cresceva anche la preoccupazione verso una scuola “veicolo” di insegnati di altra provenienza: il partito leghista nella persona di Goisis, affermava, nel 2009, bla necessità che gli insegnanti meridionali per lavorare nelle regioni settentrionali dovessero superare un esame di tradizioni locali e di dialetto, dimostrando il loro livello di conoscenza della storia, della cultura e delle tradizioni della regione in cui vogliono andare ad insegnare. Interessanti sono anche gli interventi presenti in rete che potrebbero confermare l’ipotesi che dichiarazioni di questo genere risultano riprese e amplificate e vanno a rinforzare l’interpretazione della storia postunitaria. Al clima culturale definito e alla valorizzazione dei dialetti alcuni anni fa si riferiva anche Umberto Eco, il quale affermava che a rendere più difficile la situazione è proprio il razzismo leghista che rende tutti timorosi di esibire un amore per le tradizioni locali e quindi ci sottrae la gioia di provare orgoglio per le nostre tradizioni. Le opinioni espresse in una prospettiva politica a mo’ di critica verso l’Unità italiana si sono abbinate alle arbitrarie ricostruzioni linguistiche che attribuiscono la diffusione dell’italiano a una sorta di imposizione. Da ciò deriva un atteggiamento di rivalsa a favore dei dialetti danneggiati e, proprio di tale atteggiamento si colgono in rete numerose manifestazioni. Se si resta sul piano della realtà sociale concreta, si trova conferma di alcuni fattori che hanno favorito, come già diceva Bruni, una percezione positiva dei dialetti. Una crisi di continuità per i dialetti si associa negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento all’urbanizzazione e alle migrazioni interne. Intorno agli anni Ottanta del Novecento la spinta verso le grandi città si affievolisce anche perché si cominciano a palesare i primi sintomi di una crisi economica e, nello stesso periodo, si notano effetti sociali per l’istituzione delle Regioni, nate nel 1970. La novità amministrativa comporta il costituirsi XII SCORCI DIALETTALI NELLA LETTERATURA CONTEMPORANEA In un quadro di apertura verso ciò che ha un sapore locale rientra anche la connotazione regionale di una parte della lingua letteraria contemporanea e, pertanto, l’insistenza in questa direzione andrebbe interpretata come uno dei segni di attenzione corrente verso ciò che è dialettale. In ambito letterario valgono in particolar modo ragioni letterarie, espressive e stilistiche quindi non si deve credere semplicemente che le scelte degli autori siano assimilabili alle mode o alle circostanze che suggeriscono l’adozione del dialetto o dell’italiano regionale nella pubblicità. La scrittura letteraria ha comportato per secoli l’adozione di una varietà linguistica orientata verso l’assoluto rispetto di una norma uniforme, tanto che l’apertura al dialetto comportava in genere una diversificazione netta rispetto alla letteratura in italiano: gli autori che scrivevano in dialetto, scrivevano anche in italiano, ma tendevano in genere a non confondere i due versanti, puntando da un lato a un italiano puro e dall’altro ad un dialetto sempre puro. Era quindi vietata qualsiasi indifferenza. Ancora nel pieno Novecento l’italiano letterario era un punto di riferimento sicuro spesso indicato come modello agli studenti. La lettura di opere letterarie, anche quelle di autori contemporanei, era consigliata nelle scuole proprio come modello di lingua scritta. Alle opere di scrittori riconosciuti come maggiori si aggiungevano autori che sono stati proposti a generazioni di lettori: “Cuore” di De Amicis, “Gambalesta” di Capuana, “Il corsaro nero” di Emilio Salgari. Anche la letteratura di consumo era considerata accettabile, poiché in ogni caso permetteva un assiduo contatto con la lingua scritta. La lettura, oltre che per scopi edificanti, serviva in primo luogo come mezzo per migliorare la scrittura di ogni genere di testo, da quello giornalistico e quello saggistico. Il progressivo avvicinamento della lingua letteraria al parlato e, poi, verso i toni informali della lingua quotidiana ha svincolato la letteratura dal ruolo primario di modello linguistico. Sempre più frequentemente, infatti, gli scrittori non solo non intendono proporsi come esempi di norma linguistica, ma si presentano con un consapevole scarto rispetto a una norma più o meno tradizionale e più o meno condivisa. Nelle grammatiche del primo Novecento era invece frequente che a sostegno delle buone regole della lingua fosse addotta non solo la lingua degli scrittori contemporanei. Era diffusa la convinzione che uno scrittore dovesse sempre adottare nella scrittura una lingua impeccabile e aderente alle prescrizioni grammaticali. Un giornalista che si chiamava Pasquale De Luca pubblicò negli anni Venti una Piccola guida dello scrittore corretto, che in poche pagine dava una serie di precetti inflessibili. In tale Guida colpisce uno dei giudizi riportati nella terza e nella quarta pagina di copertina, quello di Antonino Anile, ministro della Pubblica Istruzione. Secondo Anile, la Piccola guida era di una grande utilità e avrebbe meritato un ampliamento visto che le offese alla lingua si moltiplicano. Non si sa a quali offese o a quali scrittori Anile si riferisse, ma è chiaro che a suo parere uno scrittore dovesse sempre e comunque evitare di scrivere, per esempio, a mezzo di invece di per mezzo di, leggero per leggiero. Oggi gli scrittori si sentono meno condizionati rispetto allo scrivere “come si deve” e si affidano a una maggiore sicurezza, liberati da quella sensazione di sentirsi sempre sotto esame. Nel considerare in diacronia le vicende dell’italiano letterario della contemporaneità, è opportuno tenere conto di quella che possiamo chiamare diacronia dei lettori. Negli anni Sessanta del Novecento i lettori di Moravia, Gadda, Pasolini percepivano lo scarto di certe scelte linguistiche, che apprezzavano proprio perché la lingua della tradizione letteraria era ben nota a loro. Chi leggeva questi autori aveva un’idea precisa di come fosse la lingua italiana letterario della tradizione. Se oggi si accetta che tutti gli italiani parlano l’italiano, si deve anche considerare che questo italiano non è certamente quello della tradizione letteraria: se un autore sceglie una forte adesione al parlato per distaccarsi dai modi della letteratura tradizionale, è anche possibile che un buon numero di lettori si accorga subito che tale lingua scritta è simile a quella parlata abitualmente, ma non avrà sempre gli strumenti per accorgersi del distacco rispetto alla prosa di Leopardi o di D’Annunzio. Alcuni esempi di soluzioni stilistiche che conducono all’inserimento del dialetto nei testi narrativi potrebbero essere questi: È esemplare l’uso del dialetto proposto dallo scrittore lucano Cappelli nel romanzo Parenti lontani: qui con un tocco lieve e scanzonato si profila un romanzo generazionale che abbraccia l’arco della seconda metà del secolo scorso. Cappelli non punta alla fusione tra voce del narratore e voce dei personaggi, ma con una certa partecipazione empatica mantiene un punto di osservazione esterno, che conduce alla sottolineatura di un dialetto lucano-campano incrociato con l’italiano. L’esperienza stilistica di Cappelli non è lontana dall’esperienza biografica di molti suoi coetanei, che in qualche modo si sono avvicinati al dialetto e al mondo locale superando un atteggiamento tiepido e distaccato. Nel caso dello scrittore sussisteva infatti il pericolo di incontrare una ricezione stereotipata delle sue opere: egli ci teneva a non essere scambiato per uno dei soliti scrittori meridionali poiché, all’epoca, nascere al Sud sembrava significare essere condannati a scrivere di mafia, di incesti, di famiglie in disgrazia. Forse ciò accadeva perché la maggior parte degli scrittori meridionali veniva fuori da esperienze del tutto diverse dalla sua generazione e finiva per riprodurre sulla pagina dei cliché logori, laddove egli sentiva il bisogno di un nuovo punto di vista, un punto di vista più ampio. Cappelli, pur riferendosi al tempo passato e agli ambienti locali, riesce ad arginare i possibili rischi di una lettura stereotipata, trovando la giusta misura per inserire brani dialogici in un dialetto affrancato dall’adesione autobiografica e dalla nostalgia per il piccolo mondo paesano. In un piccolo aneddoto egli, infatti, vi inserisce anche il dialetto e il ricorso a questo, non riporta ad una situazione statica. A dare un movimento dinamico alla coloritura linguistica interviene la tensione verso il futuro e verso spazi geografici diversi. L’autore in questo modo non solo scongiura i pericoli paventati all’inizio della sua attività, ma evita sia l’anonimato della lingua media sia lo schiacciamento sul dialetto, che diventerebbe sterile se fosse solo ricercato come alternativa a un italiano ritenuto insufficiente. Un punto di forza di Cappelli è la capacità di condurre, con tono non serioso, un minuzioso lavoro stilistico su una lingua media che non risulta piatta, ma elaborata con una forma di ricercatezza. Allo stesso modo è evitato l’uso diretto del dialetto come documento. Il rifiuto per l’uso documentario del dialetto contrassegna anche un romanzo del 2010, “Autopsia dell’ossessione” di Walter Siti, che si dichiara ostile alle piatte registrazioni magnetofoniche. Nella prospettiva di Siti, il dialetto in letteratura si combina con una doppia libertà: da un lato è svincolato dalla norma dell’italiano tradizionale della scrittura, dall’altro lato si libera dall’assillo documentario della letteratura realista. Priva di tale condizionamento, la lingua letteraria si apre alla percezione di voci variegate che non hanno alcuna pretesa di descrizione, ma fissano momenti di ascolti occasionale raccolti come frammenti di esperienze. Alcuni autori napoletani da un lato devono fare i conti con una consistente letteratura dialettale di antica data o con manifestazioni recenti, dall’altro lato non si sottraggono ad una ricca tradizione di rappresentazione che porta ad osservare la realtà in modo problematico. Questi autori (Matilde Serao, Saviano, Viviani, De Filippo) presentano nelle loro opere una realtà contemporanea, senza però proporsi come paladini. Ne viene fuori una visione problematica del dialetto e della realtà. Bisogna sottolineare che a Napoli negli ultimi decenni, la cura, l’interesse di studio, la passione per una realtà in cui l’uso del dialetto è vivo si coniuga con interrogativi non banali che riguardano l’universo dialettale. È emblematico il quesito che si pone Francesco Durante a proposito di una certa dialettalità giovanile: di fronte a situazioni proposte in alcune interviste televisive, Durante manifesta l’impressione che alcuni dialettofoni siano del tutto impermeabili a un uso colloquiale dell’italiano. Ciò da un lato da conto di una dialettalità urbana che alcuni studiosi e giornalisti ritenevano superata già da un po', dall’altro lato induce a domandarsi se il ricorso al dialetto sia sempre il risultato di una consapevole scelta alternativa. Certi radicati usi letterati risultano a colte per certi parlanti l’unica possibilità espressiva concreta e praticabile che avrebbe, ancora tutt’ora, come unica alternativa il silenzio. La televisione mostrava scene di arretratezza, raccontava storie di camorra, tragedie familiari, povertà e spaventosa ignoranza. Come era possibile che ragazzi di 17-18 anni non fossero in grado di pronunciare una sola parola in italiano? Tale constatazione induce a domandarsi se poi adesso sia tanto impellente l’urgenza di inserire il dialetto tra le materie scolastiche obbligatorie e la conoscenza del dialetto tra gli obiettivi prioritari della scuola italiana. Proprio la televisione, che ha contribuito a diffondere un italiano uguale per tutti, dimostra che ci sono ancora persone capaci di esprimersi in modo funzionale soltanto in dialetto. In “Romanzo di questa vita menzognera”, Giuseppe Montesano ci presenta alcuni personaggi il cui limite è quello di essere pienamente a proprio agio solo nella propria spontaneità nativa, lontani da qualsiasi ambizione che non sia strettamente materiale ed economica, in una prospettiva in cui gli orizzonti ristretti non prevedono alcuna apertura umana. Questi personaggi cioè non sono sguaiati perché parlano in dialetto, ma perché mostrano in ogni loro manifestazione una spontaneità sguaiata Per Montesano il dialetto non è né evocazione, né gioco, piuttosto una varietà deprivata e ristretta di gruppi socialmente devastanti; il dialetto diventa quindi un codice interno di riconoscimento e di appartenenza, o di chi non saprebbe più accedere ad un italiano spontaneamente non stentato e usuale. In questo modo si spiega come mai, presso una parte della cultura intellettuale napoletana, il dialetto, seppur amato, studiato e conosciuto, non dia sempre luogo ad un’entusiastica adesione, né ad una rivendicazione ideologica. In Montesano è chiaro che il dialetto in sé non è né bello né brutto, ma si qualifica in base ai personaggi che lo parlano e al contesto d’uso. In tal senso Montesano guarda e presenta la realtà con la voce degli altri e ne consegue che la ripresa del dialetto e degli altri elementi locali si combina sempre con l’osservazione del presente invece che con una proiezione del passato. Le riprese degli elementi linguistici locali (del dialetto o dell’italiano regionale) in Montesano si collocano lungo una linea problematica che allude a una concreta realtà extraletteraria in cui il dialetto è presente: non sembra si possa parlare di ripresa del dialetto come risarcimento letterario rispetto a una assenza definitiva dagli usi linguistici reali, piuttosto, in questi autori, certi usi linguistici segnano il congiungimento tra impegno stilistico e impegno civile. Con un’osservazione problematica della realtà, Montesano e altri autori (si pensi a Gomorra o La paranza dei bambini di Saviano) si distinguono da altre possibili opzioni in cui il dialetto coincide con la sottolineatura di un atteggiamento estatico o fanatico o apatico o ancora statico e simpatico. È chiaro che narratori tra loro molto diversi trovano un minimo comune denominatore nella consapevolezza di osservare una realtà non semplice e non uniforme. Per quanto riguarda le trasposizioni televisive, un caso a parte è rappresentato dalla serie “Gomorra”, nata dal libro inchiesta di Roberto Saviano (2006), che permette una riflessione anche sul ruolo della televisione: come in passato è accaduto per la canzone, il teatro e il cinema, anche la televisione, come mezzo destinato alla diffusione del parlato trasmesso, è un luogo di espansione del dialetto nella sua ampia variabilità. La serie Gomorra accoglie nei XIII DIALETTI IN RETE E GEOGRAFIA LINGUISTICA SECONDO L’UNESCO La fortuna dei dialetti in rete è indizio dell’interesse suscitato dall’argomento, ma permette anche di notare alcuni effetti non del tutto positivi. Il primo è che sull’argomento tutti intervengono con curiosità, coinvolgimento ma, purtroppo, anche con aggressività. Si verificano per i dialetti le stesse opportunità e gli stessi inconvenienti che in rete si manifestano anche per altri argomenti. Per i dialetti però c’è un problema aggiuntivo, determinato dai fraintendimenti sul termine dialetto e dal fatto che su argomenti linguistici ha molta visibilità la prospettiva dell’Unesco. L’UNESCO da un lato segnala periodicamente le lingue in pericolo, dall’altro prospetta una situazione in cui adeguate norme legislative sembrerebbero adatte ad arginare i pericoli per la sopravvivenza delle lingue. Da questa premessa si diffonde la convinzione che anche le minacce contro le lingue provengano in un modo o nell’altro da carenze normative o da ostilità delle stesse normative vigenti. Si diffonde l’idea che tutto ciò che riguarda le lingue possa e debba essere regolato da apposite leggi. Negli ultimi anni si è diffusa in rete e nell’opinione comune una certezza relativa al napoletano: è la certezza secondo cui l’UNESCO avrebbe riconosciuto il napoletano come lingua o come “bene dell’Umanità”. È evidente che questa convinzione poggia su presupposti che subito risultano deboli e scricchiolanti sul piano argomentativo: il primo è che la qualifica di “lingua”, derivi da una specie di riconoscimento pubblico, elargito da un ente al pari di una certificazione o di un’onorificenza; ne deriva l’idea che le lingue si dividano in due categorie o fasce: da un lato le lingue “vere e proprie”, nominate, abilitate e certificate, dall’altro tutte le rimanenti collocate in un contenitore comune. Un altro aspetto interessante consiste nell’implicita certezza che in questo ambito tutto possa essere risolto d’ufficio, senza un’apposita procedura burocratica. L’idea che il napoletano abbia ricevuto la patente di lingua dall’Unesco circola da svariati anni ed è ripetuta come un dato acquisito. Lo sbandieramento di tali annunci potrebbe celare un implicito non detto, volto a far intendere che il presunto riconoscimento sarebbe stato elargito a favore del napoletano, del siciliano, della lingua lombarda ma non dell’italiano. Altri rilievi critici su certe convinzioni sull’Unesco e il napoletano si leggono nel sito www.bufale.net, mentre una trattazione articolata è proposta dal sito patrimonilinguistici.it. In altri casi invece questo riconoscimento è dato per certo ed è trattato come punto di partenza per altre iniziative. Per esempio, una comunità che annuncia un incontro sul tema «Napule Na’». La stessa sicurezza poi è ostentata anche a proposito di altri dialetti. Un caso recente riguarda il siciliano. In un sito che dispensa informazioni a tutti coloro che lavorano nella scuola è stata pubblicata una notizia che si fonda su presupposizioni infondate, ma presentate come sicure. Si afferma: «il siciliano è una lingua riconosciuta dall’Unesco. Comprende anche i dialetti della Calabria meridionale e quelli salentini, e per questo è di un? importanza unica in tutto il mondo». In queste parole ci sono tre gravi errori: il primo riguarda la solita convinzione che l’inserimento di una varietà linguistica negli elenchi dell’Unesco corrisponda al riconoscimento ufficiale dello status di lingua da parte appunto dell’ente in questione. Il secondo errore consiste nel presupposto che, anche in questo caso, lo status di lingua attribuito a una certa varietà comporti la qualifica di dialetto per altre varietà, anche se queste altre varietà si trovano sullo stesso piano del siciliano. Il terzo errore si evidenza nell’affermazione che il siciliano sarebbe di un’importanza unica al mondo. Sull’importanza del siciliano qualsiasi studioso di dialettologia potrebbe concordare ma è più difficile accettare che una varietà linguistica possa essere di per sé più importante di altre, come se uno studioso di botanica affermasse la maggiore importanza degli abeti rispetto alle querce. L’Unesco pubblica in rete un Atlante delle lingue in pericolo, che segue il criterio di fondo di puntare ad aggregazioni di varietà regionali o sovraregionali, rispetto ad una lingua nazionale. L’implicazione è che le lingue in pericolo si troverebbero in queste condizioni proprio a causa dei parlanti delle lingue dominanti e delle istituzioni che le sostengono. Secondo il sito, sono 28 le lingue parlate in Italia, tra le altre abbiamo: Algherese Catalan, Alpine Provençal, Campidanese, Friulan, Francoprovençal, Lombardo, Sassarese, Sicilian, South italian. Sembra strano che tra le lingue parlate in Italia manchi proprio l’italiano, che però è presente nella lista inclusa nel libro tra le varietà dell’italo-romanzo: «L’Italo romanzo consiste del Corso, l’Italiano (comprendente il Toscano e i gruppi dei dialetti dell’Italia centrale), l’italiano del Sus (che include Campano e Calabrese) e il Siciliano. Da questa lista però risulta che secondo l’Unesco i parlanti che hanno l’italiano come lingua materna si troverebbero solo in alcune zone dell’Italia centrale, Per tale motivo in Italia, da un alto ci sono coloro che parlano l’italiano e dall’altro lato gruppi di parlanti che parlano il South italian e il Sicilian o le altre lingue. In ognuna delle aree geografiche considerate si presuppone che vi sia una varietà linguistica unica e precisa (il lombardo, l’emiliano-romagnolo, l’italiano del Sud), realizzata in modi diversi nei diversi dialetti. L’Unesco però ha una prioritaria esigenza classificatoria, punta ad aggregazioni geografiche tra lingue vicine, perciò per l’Unesco è più semplice che il materano sia considerato dialetto del South italian ed è anche ovvio che ciò corrisponda ad una sorta di difesa rispetto all’avanzata dell’italiano; la conseguenza sul piano concettuale è che il cittadino Materano, in quanto parlante del dialetto di Matera, è considerato appartenente al gruppo dei parlanti dell’italiano del Sud, invece che appartenente al gruppo dei cittadini che parlano l’italiano e anche il materano. Secondo la scheda dedicata al South italian, questa varietà potrebbe anche essere denominata Neapolitan-Calabrese e avrebbe ben sette milioni e mezzo di parlanti. È chiaro che un problema cruciale è rappresentato dalla denominazione del South italian, presentato dall’Unesco come equivalente del Neapolitan o del Neapolitan-Calabrese. Proprio a causa di questa etichetta così estensiva, alcuni lettori del sito Unesco hanno ritenuto che questo avesse “designato” il napoletano come lingua di gran parte dell’Italia meridionale, usato da oltre sette milioni di parlanti. Da tale schedatura dipende la convinzione che l’Unesco avrebbe riconosciuto il napoletano come seconda lingua d’Italia. Proprio consultando il sito e il libro dell’Unesco, risulta chiaro che l’Unesco non ha riconosciuto il napoletano come lingua né come bene dell’Umanità però dall’altro lato, possiamo domandarci come mai l’Unesco riconosce tutti i dialetti meridionali come una lingua unica. Bisogna chiarire che per l’Unesco la distinzione tra lingua e dialetto è diversa da quella che vale per la linguistica romanza e per la dialettologia italiana: per l’Unesco un dialetto (dialect) è, nell’accezione angloamericana, una variante di una lingua (language); per la dialettologia italiana, ogni dialetto italiano è un sistema linguistico autonomo e non una deformazione di una lingua. In questo senso è chiaro che le varietà considerate dall’Unesco sono tutte lingue (language), non dialects. Per la denominazione di un South Italian unico ha avuto peso l’indicazione che appare nella Carta dei dialetti d’Italia di Giovan Battista Pellegrini, che individua l’area dei Dialetti meridionali. Per Pellegrini quest’area è articolata al suo interno, perciò, per la dialettologia italiana l’intera area meridionale è caratterizzata dalla presenza di dialetti diversi (dialetti meridionali, ma non dialetti dell’italiano del Sud). Nella tradizione dialettologica italiana non c’è una varietà meridionale unica; il calabrese, il pugliese, il barese, il materano sono invece dei dialetti italiani (non dell’italiano) a pari titolo rispetto al napoletano. Per l’Unesco la salvaguardia delle lingue in pericolo dovrebbe prevedere necessariamente un accorpamento dei dialetti di ampie aree e per questo, i dialetti di Sora, di Altamura, di Matera sono dialetti che si collocano per genetica e per gerarchia sullo stesso piano del napoletano, mentre per l’Unesco sarebbero invece variazioni locali (dialects) del South Italian, che diventa nel suo insieme una lingua (language) da salvaguardare. Per l’Atlante Unesco, la tutela delle lingue dovrebbe manifestarsi insegnando ai parlanti a scrivere nella propria lingua materna: se si volesse tutelare il South italian insegnandone la scrittura quale lingua verrebbe insegnata ai piccoli parlanti di Matera o di Bari: il materano, il barese oppure il South Italian? Se si optasse per il South Italian, si determinerebbe una strana situazione di conflitto: accanto all’italiano nelle scuole di Matera o di Bari sarebbe insegnato il South Italian, diverso per definizione dall’italiano, ma diverso anche dal dialetto tradizionale di Matera o di Bari. Le differenze tra i diversi dialetti meridionali sono descritte in diversi manuali di dialettologia; volendo fare un esempio possiamo dire che i diversi dialetti si distinguono anche per il tipo di vocalismo tonico variamente derivato dal vocalismo tonico latino. Nella cona in cui si incontrano Campania, Basilicata e Calabria, in una superficie ridotta, si trova «l’unica area romanza nella quale sono presenti tutti i vocalismi tonici originatisi da quello latino»: questa circostanza dovrebbe già generare un dubbio sulla presunta unità del cosiddetto Neapolitan-Calabrese o South Italian. L’intento dell’Unesco probabilmente è quello di rafforzare un accorpamento su scala regionale dei dialetti per far sì che uniti possano meglio fronteggiare l’italiano. In tale prospettiva l’obiettivo sembra quello di dar luogo a un’unione che fa la forza. Ma alcune cose non sono chiare: quale vantaggio avrebbe un parlante meridionale a scrivere il South italian invece dell’italiano o accanto all’italiano. È evidente poi che si determinerebbe un diverso status tra i nuovi standard delle lingue regionali e i singoli negletti dialetti locali che rappresentano varietà linguistiche derivate dal latino. Queste varietà sarebbero trattate solo come variazioni rispetto allo standard regionale. che attualmente non hanno uno standard linguistico, cioè non può essere individuata come sistema linguistico unitario. Secondo la linea espressa dall’articolo di Cociancich, partendo dai dialetti locali sarebbe necessario procedere alla formazione della corrispondente lingua tetto, caratterizzata tra l’altro da una grafia polinomica, cioè da una grafia che possa rendere anche le diverse varianti linguistiche locali di una lingua regionale. Questa questione porrebbe problemi particolari perché presupporrebbe che le varianti linguistiche da una zona all’altra nell’ambito di una stessa regione siano solo di pronuncia. Anche se le differenze fossero solo di pronuncia, sarebbe interessante sapere quale pronuncia verrebbe considerata standard e quali invece sarebbero varianti. In particolare, non si comprende come una grafia polinomica della lingua tetto possa permettere di scrivere tutti i dialetti mantenendo la specificità di ognuno di essi. Se così fosse, cioè se ogni dialetto conservasse le sue specificità anche nella grafia della lingua tetto, in cosa consisterebbe la normalizzazione di uno standard? Si tende a presupporre che tutta la variabilità tra i dialetti locali si riduca in sostanza a differenze di tipo fonetico, per cui in pura teoria ogni parlante potrebbe leggere una sequenza scritta rivestendola della propria fonetica materna. La conclusione di Sciking nell’articolo “Ci preoccupiamo troppo dei dialetti locali?” è questa: ogni dialetto è importante, purché sia inserito all’interno di una grande famiglia di dialetti che è la lingua regionale. È possibile che alla lunga si perda qualche tratto peculiare del dialetto del paese, ma questo è sempre accaduto perché le lingue cambiano continuamente. Ad ogni modo, il punto fermo della questione è uno solo: considerando le lingue d’Italia per quello che sono, cioè lingue e non dialetti, parlate o vernacoli, possiamo agire in modo da salvarle. L’inserimento in una grande famiglia regionale è visto come condizione necessaria per la durata nel tempo dei dialetti locali. Resta da dimostrare che la determinazione di uno standard regionale, in regioni da sempre diversificate al loro interno, rappresenti la modalità più adatta per conservare la variazione all’interno della regione. Lo standard regionale sarebbe il primo obiettivo da raggiungere per affermare un’alternativa all’italiano. La premessa implicita è che l’italiano non sarebbe accettato come lingua-tetto soddisfacente per tutti i parlanti italiani; c’è il rischio che qualcuno, di questo passo, si convinca che l’italiano sia “lingua tetto” soltanto di alcune aree dell’Italia centrale. Tralasciando questo problema, secondo alcuni punti di vista, un dialetto locale potrebbe incontrare la salvezza sottraendosi all’abbraccio con l’italiano, solo attraverso un sacrificio parziale provocato da un intervento di pianificazione consapevole. Tuttavia, nella narrazione presente in vari siti restano in ombra aspetti fondamentali della storia linguistica. La minore diffusione dei dialetti è attribuita direttamente a scelte politiche imposte dall’alto e si dimentica di sottolineare il peso dei consistenti cambiamenti sociali che hanno influito sulla vita quotidiana dei parlanti. Perciò la difesa dei dialetti è impostata contro l’italiano. La storia linguistica però presenta delle sfumature che possono essere tagliate via. Se è vero che tutte le lingue cambiano nel tempo, è anche vero che molte caratteristiche peculiari e specifiche dei dialetti italiani si sono conservate per secoli. Se si osserva la realtà linguistica, al di là delle classificazioni proposte attraverso tabelle e cartine, se si considera la storia con le sue sfumature, si può anche formulare un’ipotesi sulle condizioni che nei secoli hanno permesso la conservazione di caratteri a loro specifici. Non è da escludere che nel tempo proprio la diversificazione sul piano reale abbia favorito la conservazione delle differenze, poiché la percezione delle proprie specificità dipende anche dalla percezione del modo di parlare degli altri. Per il presente è il caso di notare che l’attenzione dei parlanti spesso si concentra nel dimostrare la propria alterità rispetto ai parlanti dei centri vicini, più che rispetto ai parlanti dei centri lontani: gli abitanti di Nocera Inferiore tengono a distinguersi dagli abitanti di Pagani. Per il passato, le radici del sottovalutato campanilismo andrebbero individuate nel processo di incastellamento con il successivo sorgere di piccoli centri abitati intorno a una rocca. In una tale situazione si determina da un lato una discontinuità rispetto alla unità latina, dall’altro il costruirsi di piccole comunità che rafforzano la propria identità rispetto a quelle vicine. Alla vicinanza geografica da un lato si collega un’affinità linguistica di fondo, ma d’altro lato sempre alla vicinanza risale la volontà di differenziarsi; qualcosa accade anche nel contatto con altre lingue. Possiamo pensare al contatto tra il dialetto e l’italiano: proprio la contiguità nell’uso ha favorito la sottolineatura delle differenze, la tendenza dei parlanti a riconoscere il proprio modo tradizionale di parlare come diverso da quello altrui, anche se ciò accade in una situazione di comprensione reciproca, non solo potenziale, ma anche effettiva. La percezione della diversità è stata favorita dallo stesso insegnamento scolastico dell’italiano: nella didattica, la diversità tra i dialetti e l’italiano era continuamente al centro dell’attenzione degli scolari e degli insegnanti. Il parlante del singolo dialetto quando si trovava in contatto con l’italiano, partecipava all’interazione direttamente con la propria individuale competenza linguistica materna, percependo, acquisendo e conservando anche la consapevolezza della propria specificità. Cosa accadrebbe allora con l’affermazione di uno standard regionale? Una possibilità potrebbe essere questa: al parlante di Matera si propone un South italian standard e gli si dice che quello standard è la sua lingua. Se questo South italian fosse di base napoletana, il parlante materano dovrebbe ritenere il proprio dialetto materno come una semplice variante della nuova lingua regionale, cioè in sostanza come la medesima lingua, solo pronunciata in modo diverso. Così la distanza tra materano e il nuovo standard regionale si attenuerebbe anche nella percezione dei parlanti e il materano confluirebbe nell’italiano del Sud oppure perderebbe molto della propria individualità linguistica. Da quello che si legge in alcuni siti, si ha idea che sussisterebbe una radicata uniformità regionale che farebbe sembrare ormai dimenticate alcune connotazioni linguistiche a cui fa cenno anche Manzoni nei Promessi Sposi quando ricorda la qualifica di «baggiano» con cui i bergamaschi etichettavano i milanesi. In tempi più recenti le differenze linguistiche all’interno di una stessa regione sono state ricordate in un’opera di Meneghello, dedicata alla specificità del vicentino. In questi casi la percezione delle differenze diatopiche in un orizzonte dialettale ristretto può abbinarsi anche a considerazioni sociali, come quelle che nel romanzo Il giorno del giudizio di Salvatore Satta sottolineando le differenze tra gli abitanti di Nuoro e gli immigrati provenienti dai vicini paesi della provincia. Sulle norme da proporre eventualmente su scala regionale è possibile fare una riflessione diversa. Tra i pregi della rete c’è quello di permettere ai navigatori di percepire alcune idee diffuse, che un tempo restavano circoscritte nelle conversazioni da bar: si viene a sapere così che tra gli appassionati dia dialetti è diffusa l’esigenza di una norma. Gli studiosi di dialettologia invece hanno come primo e centrale interesse quello di percepire, rilevare, descrivere, osservare come la gente parla, l’osservazione degli usi comunicativi reali delle persone reali, mentre mai penserebbero di dover dettare regole su come le persone debbano scrivere e in un certo senso anche parlare. Invece è proprio questa l’esigenza che viene enunciata in rete. Da un lato abbiamo l’osservazione dell’uso che esiste, dall’altro la fissazione di una norma che invece deve esistere. Va accettato quindi in questo campo si chiede una precisa normativa. Tale normativa, in particolare, è richiesta per i dialetti, forse perché in qualche modo si ritiene che qualcuno pensi impropriamente che sia proprio l’assenza di regole a far sì che un dialetto sia tale e non una lingua. Ma qual è l’idea che i parlanti hanno delle lingue? Veramente si pensa che noi parliamo in italiano solo perché abbiamo studiato le regole della grammatica? La fiducia nella norma si combina anche con una particolare idea della storia linguistica e con la convinzione che la realtà linguistica dipenda direttamente da una serie di regole o di leggi. Alcuni ritengono che l’italiano sia diventato lingua degli italiani solo in seguito ad alcune prescrizioni, rese esplicite attraverso sistemazioni grammaticali e lessicografiche. Tempo fa un esponente politico napoletano affermava che al napoletano toccava la qualifica di lingua in quanto esistono vocabolari del napoletano. Sussiste quindi un problema di carenza di informazione in ambito linguistico. A questo dato va poi sommata la tendenza della rete a valutare la validità dei contenuti scientifici sulla base del consenso che richiamano, laddove l’ambito delle conoscenze scientifiche non è modificabile per scelta maggioritaria. È interessante il caso dell’Accademia d’a Gramigna, che definisce i suoi obiettivi nel sito www.spigaweb.org dove si afferma che bisogna in primo luogo creare una Grammatica Standard per la lingua Cosentina al fine di motivare tutti i cosentini a riscoprire, utilizzare e tramandare la lingua di quella terra. Non vi è nulla di male in questo obiettivo ma, si deve far notare che per il conseguimento di questo si ritiene obbligatoria la formazione di una Grammatica Standard. Cosa può invece accadere quando ai parlanti di una varietà locale viene proposta una norma fissata su scala più ampia? Fiorenzo Toso mette in luce che la ricerca di una norma riferita a un’area linguistica piuttosto ampia comporta dei sacrifici: notevole è l’importanza che viene attribuita all’esistenza, soprattutto per quegli idiomi minoritari che siano caratterizzati da una forte base demografica e di una norma scritta codificata, di una varietà illustre nella quale i locutori si riconoscano indipendentemente dall’uso parlato che fanno delle sottovarietà in cui l’idioma si suddivide: entra quindi in gioco il concetto di “sacrificio linguistico”, cioè di un progressivo abbandono delle peculiarità idiomatiche locali per la ricerca nel contesto di una superiore unità linguistica di un mezzo di espressione che costituisca la norma comunemente accettata. Toso in realtà non si riferisce ai dialetti italiani, ma l’esigenza di affermare una norma superiore di area regionale è sostenuta dal sito patrimoni linguistici.it proprio in rapporto ai dialetti italiani. Alla luce di quanto enunciato dal sito patrimonilinguistici.it, sembra di capire che in nome della norma di una lingua ritenuta di minoranza o considerata regionale, il singolo dialettofono dovrebbe progressivamente abbandonare le caratteristiche idiomatiche locali, cioè dovrebbe cessare di parlare la lingua materna del proprio luogo di nascita, usata semmai accanto all’italiano, per cominciare a parlare un’altra varietà appresa e sostenuta dai difensori delle minoranze. Resta da dimostrare che l’affermazione di una norma di ambito locale ed chiari strumenti legislativi siano davvero sufficienti a salvare una lingua: uno studio condotto da Francesca Stamuli sul grico di Calabria dimostra in verità che nonostante la legge a sostegno delle minoranze linguistiche, la vitalità di questa lingua è ormai gravemente compromessa, poiché di fronte alla diaspora degli abitanti nulla hanno potuto le varie iniziative di salvaguardia promosse a norma di legge. Proprio Fiorenzo Toso insinua un dubbio di fondo quando sottolinea che il consolidamento di una norma non garantisce la definitiva affermazione di una certa varietà; a questo proposito riferisce dati relativi al territorio dei Grigioni dove, insieme con il tedesco e con l’italiano, sono parlate diverse varietà di retoromancio. Gli studi hanno condotto a tale risultato: i parlanti non sono disposti a rinunciare a una lingua materna propria per aderire a una lingua ritenuta più adeguata o comune; tanto meno sono disposti a compiere tale passo quando hanno a disposizione una lingua, già percepita come sopralocale e comune (l’italiano), che garantisce loro una comunicazione di portata più ampia rispetto a quella possibile con una lingua locale o con un’altra un po' meno locale. Il parlante persegue il più delle volte un principio di economia, abbinato a un’istanza in senso lato affettiva.
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