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Sintesi del testo: La Resistenza in Italia: storia e critica, Santo Peli, Sintesi del corso di Storia Contemporanea

Riassunto del testo di Santo Peli sulla Resistenza italiana. Il testo è sintetico ma esaustivo, è diviso in paragrafi per rendere più agevole la lettura. Le parti più importanti sono sottolineate, eventi e nomi più significativi sono riportati in grassetto.

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

In vendita dal 21/07/2022

PaolaFnt
PaolaFnt 🇮🇹

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Scarica Sintesi del testo: La Resistenza in Italia: storia e critica, Santo Peli e più Sintesi del corso in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! PARTE PRIMA I confini del discorso A partire dall’8 settembre 1943 per gli italiani la guerra fa il suo ingresso nel territorio nazionale. In questo contesto si inserisce il fallimento del regime fascista e della classe dirigente, che lasciano il posto ai partiti antifascisti, protagonisti della resistenza politica. Oltre alla resistenza politica, vi è una forma più diffusa di resistenza, animata dalla stanchezza della guerra e che si traduce soprattutto in rifiuto di collaborare con il nemico piuttosto che nell’attiva partecipazione alla guerra partigiana. A tal proposito bisogna ricordare che le aspirazioni politiche erano state totalmente annientate da vent’anni di fascismo. I partiti antifascisti devono fare i conti con questo analfabetismo politico. La guerra partigiana richiede infatti, oltre alla preparazione militare, una forte motivazione etica e politica, che non era facile trovare. Questa motivazione si esprimeva anche nel rifiuto della retorica fascista: eccessivo era lo scarto tra le parole del regime e l’esperienza concreta della popolazione. La ribellione al fascismo però avviene solo dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia nel luglio del ’43. Un aspetto importante della ricostruzione della Resistenza è tenere conto del più ampio quadro in cui essa si colloca, ovvero il conflitto mondiale, e dei suoi effetti sulla società italiana. Viene svolto un lavoro in due parti: la ricostruzione dei fatti e l’indagine delle interpretazioni. Intento della prima parte è fornire delle conoscenze circa il contesto in cui la Resistenza si svolge. Nella seconda vengono affrontati alcuni problemi storiografici, questioni interpretative emerse nel corso degli anni. I fase: le origini (dall’8 settembre alla fine del ‘43) 3 settembre 1943: viene firmato l’Armistizio di Cassibile, che stabilisce che lo Stato italiano non è più in guerra con gli anglo-americani. Cinque giorni dopo, l’8 settembre 1943, il testo dell’armistizio viene diffuso per radio. Il maresciallo Badoglio non dà indicazioni sul comportamento da tenere nei confronti dei tedeschi, che fino a quel momento erano stati alleati, e ciò genera confusione. In più, in quei giorni il re fugge verso Pescara, e poi verso Bari, in territorio occupato dagli americani. La classe politica si astiene così dal prendere una decisione in questo momento difficile, alimentando il senso di incertezza. 1. La dissoluzione dell’esercito La dissoluzione dell’esercito è la conseguenza dell’assenza di indicazioni e di un punto di riferimento (dopo la fuga del re!). I soldati italiani – in Italia e all’estero, in Francia, Jugoslavia, Grecia e isole Ioniche – si disperdono e cercano di sfuggire ai tedeschi, che danno loro la caccia dopo la fine dell’alleanza con l’Italia. Molti di loro (650 000) vengono catturati e spediti in Germania, dove rimarranno come internati militari. Con l’8 settembre si entra in una nuova fase della guerra: da questo momento il luogo del conflitto sarà il territorio nazionale e i tedeschi il nuovo nemico. Drammatica è la frammentazione istituzionale: da una parte il regno del Sud, dall’altra la Repubblica sociale italiana (Rsi) governata dai fascisti. A sud la presenza degli americani, nel centro-nord l’occupazione dei tedeschi. In questo contesto, sono rari gli episodi di ribellione ai tedeschi da parte dei soldati – si registrano solo singoli episodi di eroismo, come quello della divisione Acqui sull’isola di Cefalonia. Si esclude anche il coinvolgimento della popolazione civile nella resistenza ai tedeschi, poiché molti temono che la convergenza tra soldati e civili, in particolare gli operai, porti a uno scenario simile a quello dell’Unione Sovietica. In Piemonte, Friuli, Veneto e Lombardia vi sono grandi concentrazioni di soldati, che progressivamente si smembrano. Alla fine di questi grandi raggruppamenti segue la formazione di piccole bande. I primi scontri con i tedeschi finiscono in modo drammatico. Un motivo è la debolezza di questi gruppi. Le bande non si formano infatti con una selezione di soldati qualificati, ma in modo casuale: spesso il motivo è solo la fuga dai tedeschi e la necessità di fare gruppo. Il secondo motivo è l’abilità dei soldati tedeschi. 2. I militari e le prime bande Componenti delle bande militari: ex-ufficiali e sotto-ufficiali. Si possono dividere in due gruppi: da una parte quelli legati alla monarchia, che vogliono combattere i tedeschi tramite un esercito regolare e vogliono escludere il popolo. La guerra per loro è affare dei militari. Molti intellettuali e antifascisti sostennero questa posizione, un esempio è Ferruccio Parri, il più importante esponente del Partito d’Azione (PdA). Diversa è la posizione di quegli ufficiali e sottoufficiali che vogliono dissociarsi dalla monarchia e dalle tradizioni militari. Motivazioni dei soldati: astio per i fascisti e i tedeschi e desiderio di vendetta nei loro confronti. Le terribili esperienze di guerra hanno creato un malcontento tra i soldati, in particolare la campagna di Russia. L’inadeguatezza delle armi determina una tragedia. I tedeschi poi, sono spietati anche da alleati. 3. Resistenza politica Le bande iniziano a insediarsi nelle vallate piemontesi, sulla dorsale appenninica, lungo i confini nord-orientali e nell’alto Lazio. All’inizio le attività principali sono saccheggi e sabotaggi, tentativi di procurarsi armi. Contadini e montanari soccorrono ex prigionieri, a fine ottobre del 1943 ci sono già circa 5000 prigionieri anglosassoni o di altre nazionalità che sono riusciti a scappare oltre la frontiera o hanno trovato rifugio presso delle famiglie locali. Protagoniste di questa prima fase della resistenza sono iniziative spontanee, individuali. 3.1 I partiti politici. Nel corso del ventennio fascista l’attività dei partiti si era estinta. Una ripresa si ebbe solo durante la guerra, quando le condizioni di vita divennero troppo dure e alimentarono il malcontento della popolazione. Questa disillusione è la premessa per una riorganizzazione. -Il partito comunista (Pci) è il più attivo da questo punto di vista: gli scioperi del marzo del ’43 di Torino e Milano sono il risultato dell’organizzazione comunista. -Nel luglio del ’42 nasce il Partito d’Azione (PdA), di cui faranno parte importanti esponenti dell’antifascismo, come Ferruccio Parri, ma che non raccoglie molti consensi. -Altro importante partito di sinistra è Psiup, erede del Psi, di cui fanno parte ad esempio Sandro Pertini e Pietro Nenni. Sarà penalizzato da una struttura organizzativa debole. -Tra il ’42 e il ‘43 nasce anche la Democrazia cristiana, che avrà un ruolo di primo piano nel dopoguerra ma non contribuirà in modo sostanziale alla Resistenza. -Il partito liberale aveva esponenti appartenenti alla classe liberale del periodo prefascista, ma scarso seguito. - Il partito democratico del lavoro, come il precedente, non godeva di ampio consenso. 3.2 I Comitati di liberazione nazionale. Il 9 settembre a Roma si costituisce il Comitato di liberazione nazionale, di cui fanno parte sei rappresentanti di partiti antifascisti. Si tratta del Cln centrale (Ccln). Vengono presto istituiti altri Cln nelle principali città italiane, come a Torino, Firenze, Milano. Nel gennaio del ’44 si forma il Clnai, Comitato di liberazione nazionale dell’Alta Italia, a dirigere la lotta armata nell’Italia occupata. Nella fase iniziale però, il tentativo dei Cln di supportare e dare una direzione all’attività militare non ebbe molto successo. In più, il governo del Sud e gli Alleati non si dimostrarono disponibili. Nei Cln convivevano progetti politici differenti, e per questo era difficile conservare l’unità. Vi era chi auspicava una radicale rottura con il passato e chi non escludeva di conservare i rapporti con la monarchia. di questo periodo: si crede che gli Alleati siano a un passo dal vincere la guerra e che questa stia dunque per terminare. In Italia i tedeschi si ritirano lungo la linea Gotica, formata sfruttando i contrafforti appenninici, da Massa Carrara a Pesaro, compiendo stragi lungo il percorso: attaccavano partigiani e civili. L’estate del ’44 vede un’intensificazione di queste operazioni contro la popolazione civile. La propaganda dei partiti, che incitano a mobilitarsi, trova qualche resistenza: le masse operaie sono poco inclini a battersi perché l’esito della guerra è ormai scontato, i tedeschi si ritirano, e le vittime di eventuali operazioni sarebbero inutili. 1. Espansione e nuove strutture della Resistenza A giugno si contano circa 50.000 uomini impegnati nella resistenza. Le bande però continuano ad aumentare ed entro settembre si raggiungono i 100.000 uomini. Non solo un incremento quantitativo, ma un miglioramento complessivo: la Resistenza a questo punto non è più solo un fenomeno spontaneo, ma ben organizzato. Migliori sono il coordinamento e le strutture organizzative, come richiesto dalla necessità di controllare un territorio sempre più vasto. Azionisti e comunisti in questa fase hanno superato i contrasti, nonostante qualche tensione tra le formazioni di diverso orientamento politico. È soprattutto la prospettiva dell’insurrezione finale, che avrebbe concluso la Resistenza, a consentire il superamento di queste tensioni. Nell’estate del ’44 i partiti antifascisti assumono un ruolo ancora più importante nella direzione della lotta armata. Si forma il primo governo Bonomi che, dopo la liberazione di Roma, sostituisce quello di Badoglio. L’antifascismo arriva così a occupare importanti posti di responsabilità. Importante in questa fase è il carattere politico della Resistenza. Il problema è sentito soprattutto dalle formazioni legate ai partiti, meno da quelle autonome. Tuttavia queste ultime sembrano aver acquisito, in questa fase, una maggiore consapevolezza politica, che va oltre i soli obiettivi militari e patriottici. In questa fase inoltre si pensa soprattutto alla situazione del dopoguerra. Essenziale era ottenere la partecipazione popolare, guadagnarsi il consenso. La liberazione di Firenze, ad agosto, è un successo da questo punto di vista: il Cln locale incoraggia l’insurrezione in modo da contribuire alla liberazione. Questo contributo colloca il Cln in una posizione di maggiore credibilità di fronte agli Alleati. A Firenze si realizza una convergenza tra liberazione e insurrezione, e il Cln diventa il principale interlocutore degli Alleati. Questa fase della Resistenza è inoltre caratterizzata dalla formazione di zone libere dall’occupazione tedesca. 2. Zone libere e repubbliche partigiane In questa fase i tedeschi si concentrano sulla difesa della linea Gotica, occupandosi poco dei partigiani. A giugno si registra una importante ritirata dalle vallate e dalle zone dell’Appennino ligure e tosco-emiliano. Fascisti e comandi tedeschi sono principalmente insediati nelle città. Anche le formazioni partigiane cominciano ad aumentare nelle città e diventano sempre più efficienti, come mostra l’assalto alle carceri in diverse città, come Verona, Padova. Non tutte le zone libere possono essere considerate ‘repubbliche’, termine più impegnativo sul piano politico e istituzionale. Esempi significativi di repubbliche partigiane sono quella di Montefiorino e l’Ossola. Il successo delle repubbliche, che godono di ampio consenso a livello popolare, segnala dall’altra parte lo scarso appoggio popolare della Rsi. La formazione di queste aree libere mostra quanto poco efficaci fossero le strutture militari fasciste. Il fenomeno della defezione diventa sempre più imponente, e a nulla servono misure come il sequestro dei beni e le impiccagioni. L’estate del ’44 tuttavia non fu del tutto positiva per i partigiani. Il reclutamento di nuovi partigiani e la conquista di solide basi per continuare la guerriglia erano risultati positivi solo nella prospettiva di una imminente insurrezione che avrebbe posto fine alla guerra di liberazione. Presto divennero evidenti le difficoltà, i limiti di formazioni che non avevano le risorse e la preparazione di un esercito regolare. In particolare, è difficile garantire la difesa delle zone libere, e ciò espone la popolazione agli attacchi del nemico, alle ritorsioni, alle stragi. 3. I rastrellamenti: agosto-dicembre 1944. A partire da agosto i tedeschi mettono in atto importanti controffensive per recuperare i territori liberati dai partigiani. La repubblica di Montefiorino è la prima a subire gli effetti di questa iniziativa, poiché pericolosamente vicina alla Linea Gotica. Gli attacchi dei tedeschi rivelano la scarsa organizzazione e l’impreparazione di molti partigiani. Particolarmente violenti sono gli attacchi nelle vallate piemontesi, importanti per garantire una comunicazione con la Francia. Rastrellamenti importanti in questo periodo vengono effettuati anche nel Veneto. Un episodio significativo è quello del massiccio del Grappa, particolarmente tragico. Tra caduti in combattimento e impiccagioni, i morti sono numerosissimi, difficilmente quantificabili. Inoltre, i tedeschi non sembrano discriminare tra partigiani e popolazione civile, poiché li considerano tutti ribelli. Intanto, le operazioni degli Alleati sono ridotte. I tedeschi procedono alla rioccupazione delle zone libere, delle quali non vi sarà più traccia a dicembre. L’ottimismo dell’estate lascia il posto alla disillusione dell’autunno. Riemergono inoltre i contrasti e i dibattiti. Le armi non adeguate, la difficoltà di mantenere i collegamenti e il confronto con un nemico molto più preparato e con maggiori risorse hanno un ruolo determinante nelle sconfitte subite dai partigiani. Un problema significativo erano i nuovi membri delle formazioni che si erano aggiunti ai combattenti nel corso dell’estate. Nelle guerre difensive questi giovani rappresentano un peso. A questa situazione sconfortante si aggiungono le indicazioni date il 13 novembre dal generale Alexander: in questa nuova fase della guerra, quella invernale, bisogna stare in difesa. Sono sconsigliate le operazioni su vasta scala. Questo messaggio scoraggia fortemente i partigiani, che si sentono traditi, poiché viene interpretato come una mancanza di sostegno degli Alleati alla Resistenza. IV Fase: la crisi (dicembre 1944-febbraio 1945) L’inverno è particolarmente duro per i partigiani, sia per le condizioni climatiche sia per le operazioni sempre più brutali dei nazifascisti, che mettono in crisi le stesse condizioni di sopravvivenza dei resistenti. Impiccagioni, razzie e rastrellamenti si fanno più frequenti e più violenti. Tuttavia, gli occupanti avevano subito un gran numero di perdite nel corso dell’estate. Vi sono inoltre alcuni episodi in cui i partigiani agiscono con successo a danno degli occupanti, in collaborazione con gli Alleati, soprattutto nelle zone della Romagna. Si tratta però di casi isolati. 1. La crisi In questo contesto già drammatico giunge la notizia dell’offensiva tedesca delle Ardenne, che contribuisce ad alimentare lo scoramento dei partigiani. In questo periodo sono frequenti anche gli abbandoni delle bande partigiane. Alcuni, non molti, tra coloro che lasciano le formazioni si consegnano ai nazifascisti. In molte zone tedeschi e fascisti riescono a recuperare il controllo delle città, dove non ci sono molti rifugi per i partigiani, e quelli che vi sono possono essere facilmente identificati. Ma la situazione in montagna non è migliore, soprattutto per via del freddo e delle difficili condizioni di sopravvivenza. Anche la popolazione, prima collaborativa, adesso, dopo i pesanti rastrellamenti dei tedeschi, è poco disposta a supportare i partigiani. Ha dunque luogo un processo di «pianurizzazione», uno spostamento dei partigiani verso la pianura, dettato dalle difficili condizioni della montagna. La guerra viene dunque portata nelle città. l’impossibilità di mantenere la guerra in montagna viene tradotta in termini propositivi, ottimistici (nonostante la situazione poco incoraggiante): la guerra al nemico si sarebbe spostata in pianura. Caratteristiche di questa fase della Resistenza sono le buche, rifugi creati nel terreno dai resistenti. Rintanarsi in questi nascondigli sottopone a delle condizioni particolarmente dure, ma è una scelta obbligata. Un aspetto particolarmente angosciante di questa fase è la cattura di comandanti, figure di spicco della lotta partigiana. È un momento di particolare vulnerabilità: spostarsi in pianura significa esporsi. Il tentativo di mantenere i collegamenti tra le formazioni, lo spostamento in pianura e continuare la mobilitazione funziona, e il movimento partigiano supera questo momento di crisi. Tuttavia era necessario reperire delle risorse finanziarie. 2. La prima missione al Sud Tra novembre e dicembre del 1944 alcuni esponenti del Clnai incontrano gli Alleati. È la missione al Sud, a cui partecipa, tra gli altri, Ferruccio Parri. Con il governo Bonomi viene stabilito un accordo in cui il Clnai viene considerato come delegato del governo italiano. Questo evento è importante non solo perché è previsto un finanziamento consistente, ma anche perché comporta un riconoscimento a livello nazionale del movimento partigiano. Bisogna tuttavia notare che interesse degli Alleati era quella di limitare tale movimento e di stabilire i confini della sua azione entro la direzione degli Alleati stessi. A generare la diffidenza degli Alleati sono soprattutto i comunisti. L’aiuto degli Alleati in questo momento è prezioso: i partigiani non dispongono di molte armi, a causa soprattutto dei danni subiti dagli attacchi fascisti. Grazie alla missione del Sud, nel febbraio del ’45 le formazioni saranno molto meglio equipaggiate, dati i finanziamenti degli Alleati. 3. La ripresa Dopo i mesi di dicembre e gennaio, la situazione ricomincia ad essere favorevole per i partigiani. L’atto finale è ormai vicino, e i partigiani vedono le proprie formazioni ampliarsi e le anche l’alleanza tra fascisti e nazisti comincia a vacillare. Vengono istituite delle zone franche, soprattutto per evitare che impianti industriali importanti vengano danneggiati nel combattimento, anche considerato che i tedeschi avrebbero potuto infierire nel corso della loro ritirata. L’offensiva finale è vicina, e questo rende gli Alleati più propensi a offrire sostegno ai partigiani, che ricevono così finanziamenti più cospicui. Lo stesso vale per la popolazione, che diventa sempre più disponibile nei confronti dei resistenti. In questo contesto si lavora per ricostituire le formazioni in montagna. V fase: l’insurrezione Il miglioramento delle condizioni atmosferiche e l’avanzamento delle truppe anglo-americane danno una nuova spinta al movimento partigiano. Nei tre mesi precedenti la liberazione si verifica un consistente ampliamento delle formazioni: da 20.000-30.000 uomini si sale a 80.000. Nella primavera del 1945 l’azione dei resistenti risulta ben organizzata ed efficiente. In questi mesi il tentativo è quello di coordinare le formazioni in montagna e in città in modo tale da organizzare l’insurrezione finale in concomitanza con l’attacco alleato. 1. L’unificazione delle formazioni Il tentativo che si mette in atto in questa fase è inoltre quello dell’unificazione: le truppe devono avere una direzione militare unitaria e deve inoltre esserci una motivazione patriottica che unisca le i resistenti, oltrepassando la divisione in formazioni. Si tratta di un modo per guadagnarsi la fiducia degli Alleati e del governo italiano. In realtà gli Alleati non prestavano particolare attenzione all’aspetto dell’unificazione, né i partigiani erano molto disposti a superare le proprie differenze, dato che si trattava di posizioni politiche differenti. L’unificazione è dunque un’iniziativa della direzione centrale. 2. Di fronte all’insurrezione Il movimento di liberazione si pone come un atto di rinnovamento politico, di rottura con il passato, ma si tratta di un’idea non condivisa dai più moderati. La Dc e il partito liberale non fanno menzione di un’insurrezione, non suggeriscono nessun cambiamento radicale. I comunisti al contrario, considerano il momento dell’insurrezione come il culmine della resistenza. Gli Alleati, che temono l’affermarsi del comunismo in seguito alla fine della guerra di liberazione, tentano anch’essi di limitare l’insurrezione. 3. Gli Alleati e l’insurrezione PARTE SECONDA Prologo Nella prima parte è stato posto l’accento sulla guerra partigiana come elemento di profonda discontinuità con il passato nazionale. Si trattò infatti di una guerra condotta al di fuori dell’autorità statale. Non solo i resistenti partecipano alla liberazione dal nazifascismo, ma anche la monarchia. Eppure è la lotta partigiana ad essere l’elemento dirompente che merita più attenzione. Questa lotta ha una portata politica importante: ha determinato le vicende successive alla guerra, senza di essa l’Italia sarebbe una monarchia. Obiettivo di questa parte è trattare alcuni aspetti problematici della resistenza, come l’atteggiamento della popolazione civile, la vicenda degli internati militari in Germania, il tema della resistenza civile. La resistenza degli internati militari italiani (Imi) I soldati e gli ufficiali nei campi di concentramento in Polonia sono sottoposti a trattamenti durissimi da parte dei nazisti. La loro resistenza consiste nel rifiuto di collaborare con il nemico: essi non prendono parte alle organizzazioni militari tedesche, e per questo vengono torturati in ogni modo. Si tratta di una parte dimenticata della resistenza, e persino gli storici hanno tardato a prenderla in esame. 1. I fatti In seguito all’8 settembre, 800.000 soldati italiani vengono catturati dai tedeschi. Alcuni di essi si alleano con i tedeschi in seguito alla cattura. I soldati vengono continuamente trasferiti, diventano presto lavoratori coatti, coloro che non aderiscono alla Rsi non ricevono soccorso dai fascisti, ma nemmeno gli Alleati si interessano a loro. L’atteggiamento della Germania è contradditorio: la tentazione è quella di rivolgere ai traditori un trattamento disumano, ma allo stesso tempo il loro sfruttamento come lavoratori sarebbe molto utile. Date le condizioni di lavoro terribili, la fame, il clima, il trattamento dei lavoratori tedeschi a loro ostili, le adesioni alla Rsi da parte degli internati aumentarono. Tuttavia questo non sempre portava all’uscita dal lager, e il tentativo di Mussolini di reclutare soldati tra gli internati fallì, visto che per i tedeschi era molto più vantaggioso impiegarli come lavoratori. Data l’impossibilità di far rientrare i militari, Mussolini tentò di migliorare le loro condizioni, per fini propagandistici, insistendo per farli diventare lavoratori civili e farli uscire dal Lager. Mentre le bande partigiane in Italia stanno contrastando i fascisti e molti si sottraggono al lavoro coatto, molti internati militari fanno lo stesso. C’è una forte tendenza alla disobbedienza che si afferma nei confronti dei nazifascisti. Anche quando Himmler emanò una direttiva per costringere gli internati a diventare lavoratori civili, la maggior parte si oppose. Tuttavia, nell’inverno del ’44-’45 alcuni cedettero e accettarono questo cambiamento di status, che però non portò molti vantaggi. 2. Motivazioni Sicuramente non c’era una nuova cultura politica che animava la scelta di non adesione degli internati militari. Questi avevano infatti passato gli ultimi anni al fronte, lontano dalla vita civile. Erano assenti mezzi e tempo per la formazione di una consapevolezza politica. Molto più decisivo era l’astio nei confronti dei tedeschi e dei fascisti, ritenuti responsabili della loro condizione. L’umiliazione era il fattore determinante per molti. Non solo le campagne militari precedenti l’8 settembre avevano già intaccato la fiducia nel regime, ma adesso si aggiungeva la cattura da parte dei tedeschi e il trasporto forzato in Germania. Sia i trasporti, condotti senza alcun riguardo per la sicurezza, sia l’accoglienza nei Lager, alimentarono notevolmente l’astio nei confronti dei tedeschi. Per questo motivo, nel momento dell’arruolamento, le adesioni non furono molte, soprattutto tra i soldati. Alcuni, provati dalla fame, furono tentati dalle migliori condizioni promesse, e accettarono, si trattava soprattutto di ufficiali, o di uomini di estrazione sociale più alta, meno abituati a patire la fame. Chi non aderì lo fece per motivi etici, oppure perché consapevole dell’esito che la guerra stava per avere. L’esperienza degli internati militari fu politicamente significativa, poiché essi manifestarono la loro opposizione, la loro capacità di dire di no al regime. Anche se non fu elaborato un progetto politico ben preciso, anche se questa forma di resistenza era lontana dai Cln, il rifiuto di collaborazione contribuì a screditare e quindi a indebolire la Rsi, pertanto gli internati svolsero un ruolo importante nella liberazione. 3. La storiografia della Resistenza e gli Imi. La storiografia fa solo dei cenni agli Imi. Le storie della resistenza di Roberto Battaglia e Giorgio Bocca ad esempio, si concentrano sulla guerra partigiana, trascurando le vicende degli internati militari italiani. Solo negli anni ’90 si avrà una pubblicazione in cui alla loro esperienza viene dedicato un certo spazio. Una delle ragioni è che non ci sono connessione tra l’esperienza degli Imi e la guerra partigiana. Il fatto che essa si svolga fuori dal territorio nazionale ne determina l’esclusione. Questa esclusione li accomuna ai deportati politici, per molto tempo collocati a un livello inferiore rispetto ai partigiani combattenti. Inoltre, gli Imi avevano combattuto la guerra fascista, ne erano i resti. Fare luce sulla loro vicenda avrebbe significato mostrare che questa guerra era stata portata avanti nell’obbedienza passiva, almeno fino all’8 settembre. Nessuno guarda con favore agli internati, poiché simboli di questa guerra, richiamano un passato da cui ci si voleva liberare. Negli anni immediatamente successivi alla liberazione, gli storici cercano di valorizzare la lotta armata come strumento di rinnovamento e di rottura, di ribellione, piuttosto che indagare le forme di resistenza passiva, come quella degli internati. Un’ulteriore ragione è la mancanza di fonti. Solo a partire dagli anni Ottanta infatti vengono avviate delle ricerche rigorose per far luce sulla vicenda degli internati e dei deportati. Anche la memorialistica è piuttosto esigua, soprattutto se si confronta con quella sulla guerra partigiana e sulla campagna di Russia. La differenza determinante è la disponibilità di un pubblico che sia attento. Sicuramente i partigiani combattenti destano più attenzione, perché evocano l’immagine della vittoria, contrariamente ai prigionieri che invece si associano più alla sconfitta. Resistenza armata e resistenza disarmata 1. Un «vero» esercito? La Resistenza non è stata solamente una resistenza armata. Tuttavia, i contributi sulla storia della resistenza non hanno concesso più di un semplice riconoscimento alla resistenza disarmata. Il motivo è, ancora una volta, la centralità della guerra partigiana. Tutte le forme di opposizione al fascismo vengono prese in esame in misura maggiore o minore a seconda della distanza dalla guerra partigiana. L’intento della storiografia era nobilitare la Resistenza dal punto di vista etico-politico. Ma in questo tentativo si afferma il paradigma dell’impegno militare, che esclude coloro che, pur contribuendo dal punto di vista politico – bisogna tenere conto che la politica non è solo quella organizzata – non sono combattenti. A partire dalla seconda metà degli anni Settanta, la storiografia conosce una svolta in questo senso, determinata dall’affermarsi della storia sociale. In quel periodo si rivolge inoltre l’attenzione anche al contributo delle donne, che rivendicano un riconoscimento del loro operato. In questo nuovo contesto, si ricorre a nuove fonti: la storia orale ma anche lettere, autobiografie, diari. Oggi si dispone di una quantità maggiore di dati, si possiede un’immagine molto più articolata, complessa, ricca di sfumature della vicenda resistenziale. Eppure è ancora difficile stabilire in modo certo quanti furono i combattenti. Lo è perché è non è facile distinguere tra combattenti e collaboratori, che correvano enormi rischi, spesso più alti di chi portava le armi. La fluidità è una caratteristica intrinseca di questa vicenda. La crisi istituzionale di quegli anni è uno dei motivi per cui è difficile ottenere dati certi. Per questo motivo è difficile stabilire quanti siano stati i partigiani, quanti i renitenti alla leva, quanti hanno occupato le industrie ecc. Il progetto iniziale di costituire un esercito – portato avanti da Parri ad esempio – alla fine ebbe successo. Ma non bisogna dimenticare il divario tra questo progetto iniziale e quella che fu la sua realizzazione effettiva. Il rischio è quello di una mitizzazione che sacrificherebbe l’accuratezza storiografica. Il mito opposto a quello dell’esercito è quello della banda partigiana, una novità della resistenza. La banda viene presentata come nucleo organizzativo caratterizzato da una forte impronta democratica. Tuttavia, è difficile credere che in un contesto nuovo e precario come quello della Resistenza i principi democratici siano stati accuratamente osservati, piuttosto che semplicemente evocati (se non addirittura trascurati). Si registrano esempi di democrazia, ma anche modalità autoritarie di esercizio del potere, se non addirittura pratiche anarchiche. Difficile definire un unico modello di banda. Insomma, il clima di indefinitezza e fluidità che caratterizzava l’esperienza della Resistenza ha subito un’idealizzazione da parte degli storici che per primi se ne sono occupati. Eppure è stato il loro impegno a rendere possibile una conoscenza approfondita di questa vicenda. 2. Donne e Resistenza Alla resistenza femminile è stato a lungo riconosciuto solo un ruolo ancillare rispetto a quella maschile. Sicuramente il fatto che molte donne, così come gli uomini, lascino la propria casa e si impegnino nella guerra di liberazione è un elemento di rottura con la tradizione e con la morale. Tuttavia, la Resistenza non è stata un momento di emancipazione. Le donne vengono viste come madri, spose, subordinate agli uomini. Il momento di ribellione si esaurisce con la liberazione. Nessun cambiamento nel dopoguerra per la condizione femminile, quella della resistenza è una breve parentesi. Nonostante la promiscuità delle bande, che si presentava come un fenomeno nuovo, i rapporti tra i sessi non sarebbero cambiati. L’impegno delle donne fu misconosciuto, sacrificato alla morale del tempo. Ciò risulta evidente nella loro esclusione dalle sfilate dei combattenti durante i giorni dell’insurrezione. I comandanti proibiscono alle donne di sfilare insieme agli altri combattenti, poiché questo comprometterebbe la credibilità delle formazioni. La società italiana e con essa i partigiani condividono una mentalità profondamente maschilista che il fascismo aveva alimentato e che pertanto era molto difficile da sradicare. Il timore inoltre è il danno all’immagine dell’esercito. Per legittimare l’azione partigiana, era infatti necessario promuovere l’immagine di un esercito non solo democratico e volontario, ma anche ordinato e organizzato. L’esigenza di rinnovamento di cui il movimento partigiano era espressione doveva scontrarsi con schemi culturali tradizionali difficili da rimuovere. 3. La Resistenza civile La ricerca sulla Resistenza civile è tesa a valorizzare il contributo nella lotta al nazifascismo apportato da chi non disponeva di armi. Secondo Sémelin, per poter parlare di resistenza civile è necessario che vi sia un’azione collettiva, che mostri l’integrità della società civile.
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