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Storia dell'economia romana: dalla fondazione di Roma alla fine dell'Impero d'Occidente, Sintesi del corso di Storia Romana

Una panoramica della storia economica di roma, dalla sua fondazione fino alla fine dell'impero d'occidente. Argomenti come l'agricoltura, la proprietà terriera, la caduta dei tarquini, la conquista delle baleari, la pirateria, la concessione della cittadinanza agli italici, le guerre mitridatiche, l'accordo di lucca, l'economia romana in età imperiale e la fine dell'impero romano d'occidente. Utile per studiare la storia economica di roma e per comprendere come l'economia della città si è evoluta nel corso dei secoli.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 03/03/2024

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Scarica Storia dell'economia romana: dalla fondazione di Roma alla fine dell'Impero d'Occidente e più Sintesi del corso in PDF di Storia Romana solo su Docsity! 1 “STORIA ROMANA” Di Geraci e Marcone e con la collaborazione di Cristofori e Salvaterra PARTE PRIMA: I POPOLI DELL’ITALIA ANTICA E LE ORIGINI DI ROMA Capitolo 1: L’Italia preromana L’Italia dell’età del bronzo e dell’età del ferro Nella penisola italiana si assiste, dal III al I millennio a.C., a uno sviluppo di notevoli proporzioni. Si passa da una situazione caratterizzata dalla presenza di una miriade di gruppi umani di piccole dimensioni al sorgere di forme complesse di organizzazione protostatale. È probabile che questo sviluppo abbia conosciuto una cesura importante tra l’ultima età del bronzo e la prima età del ferro. L’Italia nell’età del bronzo si contraddistingue per la sua uniformità. I siti risultano dislocati un po’ovunque nella penisola, ma in numero prevalente lungo la dorsale montuosa che la percorre da nord a sud: ecco perché tale cultura è stata denominata “appenninica”. Un fenomeno importante che si realizza è l’incremento demografico, che implica uno sfruttamento più intensivo delle terre disponibili. Questo fenomeno è particolarmente evidente nella cultura “terramaricola” che si sviluppò nella pianura emiliana immediatamente a sud del Po tra il XVIII e il XII secolo a.C. Tale cultura diede vita a insediamenti di capanne che poggiavano su una sorta di impalcatura di legno, che aveva lo scopo di creare una sorta di difesa naturale dagli attacchi di animali selvatici. Tali villaggi avevano una forma per lo più trapezoidale, erano circondati da un argine e da un fossato ed erano attraversati da due strade perpendicolari tra loro. Nel corso dell’età del bronzo è documentata un’intensa circolazione di prodotti e anche di persone. Tali contatti favorirono il formarsi di aggregazioni più consistenti, con differenziazioni al loro interno e poteri politici più forti. Con l’inizio dell’età del ferro l’Italia presenta un quadro differenziato di culture locali. Un primo criterio di differenziazione concerne le modalità di sepoltura: nell’età del ferro in Italia esistono due gruppi di popolazioni che praticano riti diversi: uno ricorre alla cremazione mentre l’altro all’inumazione. Tra le culture che assumono caratteri distintivi si segnalano quella compresa tra i laghi del Piemonte e della Lombardia nota con il nome di “Golasecca” e quella, sviluppatasi nelle vicinanze di Padova, nota come “Cultura di Este”. In Etruria e in Emilia emerge poi un’altra cultura, nota come “villanoviana”. Molti importanti siti villanoviani si trovano nelle città – stato etrusche. Gli uomini villanoviani erano capaci di fabbricare utensili e armi in ferro e abitavano in insediamenti che avevano assunto la forma di villaggi. Il fatto che l’irradiazione di tale cultura coincida con l’area di diffusione della civiltà etrusca ha indotto alcuni studiosi a considerare i Villanoviani come i diretti antenati degli Etruschi. La diversità delle culture presenti in Italia all’inizio del primo millennio a.C ha un riscontro importante in un quadro linguistico assai variegato. Queste lingue si possono ricondurre a due grandi famiglie: quelle indoeuropee e quelle non indoeuropee. Un posto di eccezionale rilievo tra le culture dell’Italia preromana è rivestito dalle colonie della Magna Grecia fondate nell’Italia meridionale. Lungo la costa ionica, quella tirrenica e in Sicilia sorse 2 una serie di città importanti (Taranto, Crotone, Locri, Reggio, Napoli, Siracusa, Agrigento…), che esercitarono un’influenza decisiva sulle popolazioni indigene. In Sicilia giocavano un ruolo importante le colonie fenicie (Monza, Palermo, Solunto). Un posto a parte ha la civiltà dei sardi, nota con il nome di civiltà nuragica, dalla costruzione tipica che la caratterizza, il “nuraghe”, ovvero una torre a forma di tronco di cono. La struttura massiccia di queste costruzioni lascia presupporre che avessero una funzione difensiva. Nel corso del tempo però i nuraghi dovettero svolgere un ruolo più complesso di organizzazione e controllo sulle attività economiche del territorio circostante. La civiltà nuragica fu fortemente influenzata dagli insediamenti fenici lungo le coste. I primi frequentatori dell’Italia meridionale Le fonti letterarie e storiografiche ci forniscono alcune notizie sull’origine dei popoli italici. Allo storico greco Dionigi di Alicarnasso (fine I secolo a.C) dobbiamo questa sintetica presentazione dei più antichi frequentatori dell’Italia meridionale: Gli Arcadi, primi tra gli Elleni, si stanziarono in Italia condotti da Enotro. Enotro giunse all’altro mare, quello che bagna le regioni occidentali d’Italia (il Tirreno). E trovate molte terre adatte sia al pascolo che alle colture agricole, ne liberò alcune dai barbari e fondò sulle alture piccoli centri abitati vicini gli uni agli altri, secondo la forma di insediamento consueta fra gli antichi. La regione occupata fu chiamata Enotria. Le ricerche archeologiche condotte nel tratto di costa calabrese che si affaccia sullo Ionio mostrano come proprio il periodo indicato dallo storico greco fosse effettivamente un momento di importante svolta demografica. All’origine d questo riassetto del territorio e del suo popolamento, tuttavia, difficilmente può esserci l’arrivo di una popolazione dall’Arcadia, come suggerisce Dionigi. Nel racconto c’è tuttavia un residuo di verità storica, perché è in questo periodo che inizia la frequentazione commerciale delle coste del meridione italico da parte di genti di provenienza orientale. La forma di insediamento cui accenna Dionigi è invece accertabile (si piega bene con le caratteristiche del paesaggio del golfo di Sibari). Dopo un’interruzione di quasi quattro secoli, le importazioni di ceramiche prodotte in Grecia riprendono sulle coste calabresi nella prima età del ferro, verso l’VIII secolo a.C. Questa ripresa delle importazioni preannuncia una svolta nell’interesse dei Greci per l’Italia meridionale che si tradurrà in una grande impresa di colonizzazione. Le trasformazioni dell’Italia centrale Tra l’VIII e il V secolo a.C si assiste a un grande fenomeno espansivo delle popolazioni dell’Appennino centro – meridionale. È un fenomeno che conosciamo meglio per quanto riguarda il versante tirrenico, con i Sabini che si intromettono nella Roma dei latini e gli altri gruppi etnici di lingua non latina che occupano il Lazio. Sul versante adriatico una civiltà importante, quella picena, comincia a configurarsi nella prima età del ferro. Nel VII secolo a.C anche nell’area picena comincia ad affermarsi una cultura simile a quella che già da qualche tempo caratterizzava Etruria e Lazio, con una ristretta élite che si distingue dal resto della società. 5 riteneva, quest’influenza raggiunge il Lazio in modo diretto (senza mediazione etrusca): Roma sembra ricevere dei prodotti di importazione greca ancora prima degli etruschi. Sul piano metodologico, il dibattito successivo è rimasto grosso modo in questi termini: da un lato l’ipercritica si è affrancata dal radicalismo negazionista e ha puntato piuttosto a dare evidenza a quanto di controverso ci sia nelle cosiddette “conferme” dell’archeologia, dall’altro l’accettazione della tradizione letteraria non è incondizionata. Le fonti letterarie Le testimonianze delle fonti letterarie rappresentano il primo e fondamentale blocco di informazioni con cui ci si deve confrontare per ricostruire la storia di Roma arcaica. Tuttavia si tratta di opere che risalgono a epoche molto posteriori agli eventi narrati e nelle quali largo spazio hanno elementi leggendari. I primi storici a occuparsi dell’Italia meridionale furono greci, e in greco scrissero i primi storici romani. La comparsa della scrittura a Roma verso la fine del VII secolo a.C non determinò cambiamenti fondamentali, le poche iscrizioni che ci sono pervenute non ci danno grandi informazioni. Nel periodo regio, la tradizione orale deve aver giocato un ruolo di rilievo nella trasmissione dei ricordi storici. La situazione non muta neppure per la prima parte dell’età repubblicana. I primi storici dei quali possiamo tuttora leggere le narrazioni su Roma arcaica vissero nel I secolo a.C. Tito Livio scrisse una grande storia di Roma dalla sua fondazione, molto importante è anche lo storico Dionigi di Alicarnasso, anche lui attivo in età augustea. Le sue Antichità romane coprivano il periodo che andava dalla fondazione di Roma allo scoppio della prima guerra punica. Roma non aveva suscitato, almeno sino alla metà del IV secolo, nessun interesse particolare da parte della storiografia greca. Solo a fronte dell’emergere della potenza romana ci si preoccupò di organizzare le informazioni disponibili. Lo scopo principale di Dionigi è quello di dimostrare che i Romani erano una popolazione di origine ellenica. La versione più nota e diffusa della leggenda delle origini di Roma inserisce la fondazione di Alba Longa e la dinastia dei re albani tra l’arrivo di Enea nel Lazio e il regno di Romolo. Nel primo libro dell’Eneide il poeta Virgilio si ispira a questa tradizione. Secondo la leggenda il fondatore e primo re della città di Roma, Romolo, è figlio addirittura di Marte e di Rea Silvia. Nella tradizione trovava posto anche l’antefatto del conflitto tra Cartagine e Roma. Enea era giunto fino a Cartagine, dove aveva conosciuto la regina Didone. Didone, che si era innamorata di lui, non riuscendo a trattenerlo presso di sé giurò che un odio eterno avrebbe contrapposto Cartagine a quella città che Enea e i suoi discendenti si preparavano a fondare nel Lazio. I sette re di Roma La tradizione fissa in modo preciso il periodo monarchico della storia di Roma, dal 754 al 509 a.C. In questo periodo su Roma avrebbero governato sette re: dopo Romolo, il fondatore, incontriamo i nomi di Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Marcio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo. A Romolo viene attribuita la creazione delle prime istituzioni politiche, a Numa Pompilio i primi istituti religiosi, a Tullio Ostilio le campagne militari di conquista, ad Anco Marcio la fondazione della colonia di Ostia. Nella tradizione, il regno di Tarquinio Prisco segna una seconda fase della monarchia 6 romana. A lui sono attribuite importanti opere pubbliche, mentre a Servio Tullo si fa risalire la costruzione delle prime mura e l’istituzione della più importante assemblea elettorale romana. Tarquinio il Superbo assume infine tratti tipici del tirano che infligge ai cittadini ogni tipo di vessazione. Cerchiamo di vedere quali erano le fonti su cui gli storici romani si basavano per i loro racconti: 1. Altre opere storiche per noi perdute. Livio e Dionigi sono venuti alla fine di una lunga serie di storici, ciascuno dei quali ha trattato la storia di Roma a partire dalla sua fondazione (vengono detti “annalisti”, perché hanno organizzato il materiale in ordine cronologico). 2. La tradizione familiare. La società romana era dominata dalla competizione tra le principali famiglie dell’aristocrazia. Ciascuna di esse cercava di accreditare il proprio titolo di superiorità sulle altre celebrando le glorie degli antenati. Poiché i primi storici erano membri dell’aristocrazia senatoria è probabile che attingessero come fonte anche alle tradizioni preservate all’interno delle varie famiglie. 3. La tradizione orale. La struttura di parecchie leggende legate all’origine di Roma ha caratteristiche tali da rendere credibile che si siano tramandate oralmente. 4. Documenti d’archivio. I primi storici di Roma hanno in comune una medesima struttura narrativa. Tra le possibili fonti a cui attingevano, quella che gode di maggior credito sono gli Annali dei pontefici, ovvero la registrazione sommaria degli avvenimenti fondamentali, tenuta anno per anno dalla suprema autorità religiosa di Roma. Questi annali furono pubblicati dal pontefice Mucio Scevola attorno al 130 a.C, il problema è che neppire questi Annales risalgono sino all’età regia. Si deve ricordare come per la nostra ricostruzione della storica di Roma arcaica, oltre alle fonti annalistiche, sono importanti le informazioni forniteci dai cosiddetti “antiquari”, ovvero quegli studiosi che si dedidcarono a dotte ricerche su vari aspetti del passato romano. La storiografia moderna Il compito degli storici moderni è consistito essenzialmente nel sottoporre a un esame critico i dati della tradizione. Sembra oggi accertato che nel racconto tradizionale devono essere state fuse due versioni di diverso tipo sulle origini di Roma: una greca, che ricollegava la fondazione della città alla legenda di Enea, e una indigena, nella quale Romolo rappresentava un mitico re fondatore autoctono. Il racconto recepisce alcuni elementi che si possono definire sicuramente storici, in particolare la compresenza di popolazioni diverse, i Latini e i Sabini, all’origine della storica di Roma e in secondo luogo la fase di pre – dominio etrusco nel periodo finale della monarchia. La fondazione di Roma I dati più problematici della tradizione riguardano l’episodio leggendario della fondazione della città. È difficile immaginare che Roma sia sorta dall’oggi al domani per una scelta individuale: la nascita della città dovette essere piuttosto il risultato di un processo formativo lento e graduale. Alcuni 7 villaggi situati sullo stesso colle Palatino possono essere considerati come il nucleo originario della futura Roma. Le vicende delle origini di Roma si comprendono meglio se si tiene conto che essa sorgeva a ridosso del basso corso del Tevere, in una posizione di confine tra due aree etnicamente differenti: la zona etrusca e il Lazio antico. Sembra improbabile che Roma abbia preso nome da un fondatore Romolo: se mai è più probabile il contrario, cioè che l’esistenza di una città chiamata Roma fece immaginare che fosse stata fondata da Romolo. Non siamo in grado di stabilire con sicurezza quale sia l’origine del nome “Roma”: tra le possibilità c’è quella che derivi dalla parola ruma (“mammella” nel senso di collina) oppure da Rumon, il termine che indicava il fiume Tevere. Il “muro di Romolo” Negli ultimi anni, gli scavi condotti sulle pendici meridionali del Palatino hanno portato alla luce i resti di una palizzata e di un muro databile all’VIII secolo a.C. Secondo l’ipotesi dello scopritore, nella palizzata si deve vedere la linea dell’originario solco di confine, detto pomerio, e nel muro il “muro di Romolo”. Il racconto tradizionale risulterebbe allora sostanzialmente confermato: verso la metà dell’VIII secolo a.C un re (Romolo) avrebbe celebrato un vero e proprio rito di fondazione tracciando con l’aratro i limiti della città. Il pomerio e i riti di fondazione Il rito di fondazione di una città italica è descritto così da Marco Terenzio Varrone, un antiquario latina attivo nel I secolo a.C.: “Molti fondavano nel Lazio le città secondo il mito etrusco, aggiogando un toro e una vacca e segnando con l’aratro il solco interno impiantando poi il muro e la fossa. Là dove scavavano la terra dicevano fossa e dove la gettavano dicevano muro, il terreno che era al di qua di detta linea era detto pomerio”. Nella fondazione di una città, un’importanza fondamentale dal punto di vista religioso era rivestiva dal pomerio, che era in origine la linea sacra che ne delimitava il perimetro in corrispondenza con le mura. In realtà la coincidenza tra il pomerio e le mura non sembra sussistere neppure nella primitiva città fondata sul Palatino. Lo Stato romano arcaico Alla base dell’organizzazione sociale dei Latini ci fu una struttura in famiglie, alla cui testa ci stava il pater, la figura depositaria di un potere assoluto. Tutte le famiglie che riconoscevano di avere un antenato comune costituivano la gens, un gruppo organizzato politicamente e religiosamente. La popolazione dello Stato romano arcaico era divisa in gruppi religiosi e militari, detti “curie”: le curie comprendevano tutti gli abitanti del territorio, ad esclusione degli schiavi. Non conosciamo la loro funzione in età arcaica e neppure sappiamo se fossero organizzate su base territoriale o su base gentilizia (dal momento che le gentes avevano anch’esse una loro base territoriale). In epoca più tarda ai comizi curiati rimasero attribuite determinate funzioni inerenti il diritto civile. 10 Il nocciolo del problema riguarda il modo in cui è stata operata la selezione del materiale stesso. A Roma la letteratura, la storiografia e il dramma ebbero origine nella seconda metà del III secolo a.C. Solo da questo momento ci furono dei testi scritti che poterono sopravvivere per essere consultati molto tempo dopo l’occasione che era stata alla base della loro redazione. Non si deve pensare che quello che precedeva fosse semplicemente un indistinto confuso: i romani non possono non aver riflettuto anche in precedenza sulle origini della loro comunità. Le fonti scritte non possono fornire elementi di prova per una cultura letteraria. Qualcosa si può inferire da quanto ci dicono le fonti scritte, o almeno da quello che esse implicano o da quello che presuppongono. Niebhur, il fondatore della moderna storiografia su Roma arcaica, elaborò una nota teoria secondo la quale le leggende e le tradizioni di Roma arcaica erano state create nei canti recitati ai banchetti, i cosiddetti carmina convivalia. È dunque ipotizzabile l’esistenza di una sorta di corpus di poesia eroica tradizionale che successivamente sarebbe andato perduto. Noi ora sappiamo che nel VII e anche nell’ VIII secolo a.C. l’uso del sympòsion aristocratico era stato adottato dalle élite locali del Lazio e dell’Etruria. Appare quindi possibile che i canti, le storie ripetute in questi banchetti maschili possano aver contribuito a creare la memoria comune del gruppo, basata sulla celebrazione dei grandi fatti dei suoi membri passati e presenti. La logica di entrambe le culture è che la valorizzazione del passato rafforzava la coesione sociale del presente. Il problema che si è imposto negli ultimi tempi sembra riguardare l’“anello di congiunzione” mancante tra la fase favolistica, mitologica del pensiero romano e quella compiutamente storiografica. Un esempio di rielaborazione storiografica: Servio Tullio C’è un esempio di elaborazione storiografica che si presta bene come verifica del nostro discorso: la figura di Servio Tullio ha un risalto del tutto particolare nella tradizione sui re di Roma. Questo sovrano opera tali trasformazioni nella città, sia a livello monumentale sia a livello politico – istituzionale, da potere essere considerato un rifondatore. Da una parte abbiamo un racconto che appare contenere una base folklorica. Le origini di Servio Tullio sono avvolte nell’incertezza, ma è bene osservare che nella tradizione non si nasconde l’illegalità che è alla base della sua presa al potere. Servio Tullio era nato schiavo e cresciuto al palazzo di Tarquinio Prisco. Un evento prodigioso lo segnala come predestinato a una sorte fuori dal comune: viene avvolto dalle fiamme durante la notte ma non gli causano alcun male. Da allora godette di particolare protezione a corte. Divenuto il più stretto collaboratore di Tarquinio, ne sposa la figlia. Il modo in cui Servio si impossessa del potere è rocambolesco. Due sicari ingaggiati dai figli di Anco Marcio feriscono mortalmente Tarquinio, che viene ricoverato a palazzo dalla moglie che nascondendo la sua morte, annuncia al popolo che il re si sta riprendendo, ma che ha disposto che Servio segnasse la sua vece. Dopo pochi giorni viene annunciata la sua morte, e Servio inizia il suo regno. Su questa base favolistica si innesta l’azione politica di Servio Tullio. Una serie di associazioni di idee contribuirono a valorizzare, nella memoria collettiva, tutto quello che fosse funzionale a far riconoscere in lui un re votato alle esigenze di giustizia sociale. 11 Quanto alle sue riforme istituzionali, va ricordato che quel che per noi è ovvio (cioè che l’organizzazione politico – istituzionale romana si è andata formando nel tempo), non lo era nella prospettiva delle nostre fonti. La ricostruzione del passato istituzionale va quindi letta alla luce degli interessi politici contingenti. Siamo in grado di accertare come nella tradizione si realizzi un caratteristico meccanismo di amplificazione rispetto a un nucleo primitivo. L’organizzazione centuriata, che implicava la valutazione economica e numerica della popolazione, poneva Servio in stretto rapporto con la moneta che di tale valutazione era alla base. Questa operazione era decisiva per introdurre la diversità tra i cittadini e distinguerli così “secondo gli ordini”, ordini definiti con riferimento a dignità e livello di ricchezza. Essa segnava la fine della parità dei comizi curiati voluti da Romolo. Non si tratta solo di amplificazioni narrative. Possiamo rintracciarne anche altre di tipo eziologico, che facevano di Servio l’ideatore di molteplici usi collegati alla moneta, come l’idea di riprodurre sui lingotti bronzei l’effige di un bue o di una pecora. A Servio una tradizione unanime, che ne fa un nuovo Romolo, attribuisce una serie di misure relative all’assetto territoriale e amministrativo di Roma (per articolare la città al suo interno, creò le tribù territoriali in cui i cittadini venivano iscritti sulla base del loro effettivo domicilio. La famiglia La nozione di “famiglia romana” comprendeva un raggruppamento sociale assai più ampio di quello che siamo abituati ad intendere oggi: a Roma facevano parte di una medesima familia tutti coloro che ricadevano sotto l’autorità di uno stesso capofamiglia, il paterfamilias, al quale spettava anche il controllo sui beni. Si può dire che il vincolo di fondo della famiglia romana fosse rappresentato dal potere esercitato dal pater sulle persone che rispettavano la sua autorità. La famiglia romana presentava i caratteri tipici di una società prestatale: era infatti un’unità economica, religiosa e politica. Questi aspetti originari ebbero riflessi anche sull’evoluzione delle norme giuridiche. In età arcaica il primo diritto di un padre rispetto ai figli era quello di rifiutarli al momento della nascita, persino i figli legittimi entravano a fare parte della famiglia mediante un atto formale. Tra i vincoli fondamentali della famiglia romana primitiva c’era quello religioso. I riti familiari si trasmettevano originariamente di padre in figlio e la loro osservanza era ritenuta doverosa. Un aspetto particolare del diritto romano prevedeva che un figlio rimanesse sotto l’autorità del padre sino a quando questo era in vita. Tra i diritti che competevano al pater c’era anche quello di diseredare i figli. La donna Se volessimo riassumere con una frase la posizione femminile nel mondo romano, potremmo citare quest’incisione riportata su un sepolcro: “Fu una donna casta, si prese cura della casa, lavorò la lana). In realtà il ruolo della donna aristocratica non si esauriva nella sola vita domestica. La moglie accompagnava il marito nella vita pubblica e condivideva con lui il compito dell’educazione dei figli. L’autorità di casa però rimase sempre e soltanto quella del marito. Il carattere patriarcale della famiglia si riflette nella netta supremazia dell’uomo sulla donna. Il potere del marito sulla moglie (che si chiama manus) non conosce limiti: la può punire se ha commesso qualche mancanza e addirittura ucciderla in caso di flagrante adulterio. 12 I romani si sposavano presto. Toccava al padre cercare uno sposo per le figlie che spesso venivano promesse in matrimonio ancora bambine. La felicità di una sposa era in gran parte subordinata alla capacità di avere figli. Il matrimonio era fondamentalmente un’istituzione privata, una situazione di fatto più che un diritto (il sistema più comune per sposarsi era quello chiamato usus, cioè l’ininterrotta convivenza dei coniugi per un anno). Il ripudio consisteva nella separazione di fatto dei coniugi e avveniva a seguito di una decisione da parte dell’uomo, al divorzio consensuale si arrivò solo nel corso del tempo. Agricoltura e alimentazione La riorganizzazione dell’economia pastorale è uno dei caratteri fondamentali delle trasformazioni dell’Italia nella prima età del ferro. Questo processo può dirsi compiuto attorno all’VIII secolo a.C e implica il passaggio da un regime di seminomadismo a uno di regolare trasferimento del bestiame in altura. Si deve ricordare la ragione del sorgere di Roma su di un’area frontiera: il Tevere costituiva la linea di demarcazione tra due aree con caratteristiche diverse, quella etrusca a nord del fiume e quella laziale a sud. L’agricoltura di Roma arcaica era limitata dalle condizioni poco favorevoli del terreno, cui si aggiungeva la bassa qualità delle tecniche agricole. Il cereale maggiormente coltivato era il farro: se si tiene conto di come alla scarsa produttività si accompagnasse la modesta estensione di terreno coltivabile, si può capire come per Roma arcaica il soddisfacimento delle necessità alimentari di base rappresentasse un serio problema. Per Roma arcaica si può parlare di un contesto economico nel quale allevamento e agricoltura sono compresenti secondo caratteristiche specifiche dovute alle particolari condizioni del territorio. Agricoltura di sussistenza e allevamento del bestiame stavano tra di loro in un rapporto di interdipendenza: il bestiame serviva a produrre concime per i terreni nel periodo in cui essi non erano lavorati e gli animali di tiro servivano per aiutare l’uomo nel lavoro. Le difficoltà conosciute da Roma nel V secolo a.C., all’indomani dell’instaurazione della Repubblica offrono un riscontro importante nella povertà di risorse agricole dell’area prossima alla città. Una circostanza negativa per Roma nella prima età repubblicana è rappresentata dall’arrivo dei Volsci nel Lazio meridionale. L’agro pontino tornerà sotto il controllo di Roma solo dopo circa un secolo: la calata dei Volsci nell’unico territorio che potesse fornire rifornimenti alimentari adeguati è all’origine di una serie di episodi di carestie e tensioni sociali. La proprietà della terra in Roma arcaica Controversa è la questione della prima forma di proprietà agraria a Roma. Rispetto a un’originaria proprietà collettiva della terra, la tradizione relativa alla prima assegnazione di lotti implica una ricostruzione delle vicende della proprietà terriera in Roma arcaica. La prima forma di proprietà era limitata solo alla casa e all’orto circostante. La complementarietà tra piccola proprietà individuale e forme di appropriazione collettiva della terra risale alle condizioni ambientali delle aree appenniniche, in contesti prevalentemente silvo – pastorali. I primi due secoli della Repubblica romana (V – IV a.C) conobbero un sostanziale assestamento interno che fu progressivamente modificato quando iniziarono le assegnazioni di terreno conquistato. 15 PARTE SECONDA: LA REPUBBLICA DI ROMA DALLE ORIGINI AI GRACCHI Capitolo 1: la nascita della Repubblica La tradizione storiografica sulla nascita della Repubblica La storiografia antica sulla nascita della Repubblica rappresentata per noi principalmente da Tito Livio e Dionigi di Alicarnasso, ci presenta un quadro chiaro: Sesto Tarquinio, respinto dall’aristocratica Lucrezia, violenta la giocane. Lucrezia, prima di suicidarsi, narra il misfatto al padre, al marito e ai loro amici. Guidata da questi aristocratici, scoppia una rivolta che porta alla caduta della monarchia, evento canonicamente fissato nel 510 a.C. Nell’anno successivo, primo della repubblica, i poteri del re passarono a due magistrati eletti dal popolo, i consoli, uno dei quali è lo stesso Bruto. Alcune incoerenze nella narrazione hanno portato gli storici moderni a sottoporre la tradizione sulla fine della monarchia e la nascita della Repubblica a una critica più o meno radicale. L’attenzione degli studiosi si è soffermata su alcune questioni: le ragioni della caduta della monarchia e i caratteri del passaggio al regime repubblicano, la datazione dell’evento e infine la natura dei supremi magistrati della prima Repubblica. I notevoli ritrovamenti archeologici forniscono solo in misura limitata elementi di riscontro: la ricerca storiografica si è dunque dovuta conce ntrare sulla critica interna ai dati della tradizione. Tra questi dati vale la pena soffermarsi sulle liste dei supremi magistrati della Repubblica. I Fasti I Fasti sono le liste dei magistrati eponimi della Repubblica. Essi ci sono giunti sia attraverso la tradizione letteraria, sia attraverso alcuni documenti epigrafici: tra di essi ci sono i cosiddetti Fasti Capitolini. Nei Fasti Capitolini trova riflesso una cronologia elaborata negli ultimi anni della Repubblica, in particolare dall’erudito Marco Terenzio Varrone, che fissava la fondazione di Roma nel 753 a.C. e il primo anno della Repubblica nel 509 a.C. Le datazioni varroniane assunsero nell’antichità un valore quasi canonica, generalmente forniscono anche l’ossatura cronologica degli studi moderni sul primo periodo repubblicano. Alcune incongruenze tra le diverse versioni dei Fasti hanno suscitato diversi dubbi sull’attendibilità delle liste di magistrati, almeno per la fase più antica. La fine della monarchia e la creazione della Repubblica: evento traumatico o passaggio graduale? La storia della violenza subita da Lucrezia contiene elementi di drammatizzazione che ricordano le vicende della caduta di diverse tirannidi greche e ne minano fortemente la credibilità. Anche se la storia fosse autentica, non spiega comunque i motivi profondi della caduta del regime monarchico a Roma. Il ruolo preminente che un ristretto gruppo di aristocratici ebbe nella cacciata dei Tarquini e il dominio che il patriziato sembra aver esercitato sulla prima Repubblica inducono a pensare che la fine della monarchia sia da attribuire a una rivolta del patriziato romano contro un regime che aveva accentuato notevolmente i suoi caratteri autocratici. 16 Alcuni elementi lasciano piuttosto pensare che alla cacciata di Tarquinio il Superbo sia succeduto un breve, ma confuso periodo n cui Roma appare in balia di re e condottieri (come Porsenna di Chiusi, Mastarna e i fratelli Vibenna). La sconfitta inflitta dai latini ad Arrunte, figlio di Porsenna, assestò comunque un duro colpo all’influenza politica degli Etruschi sul Lazio. Fu grazie a questo evento che Roma ebbe occasione di dare sviluppo alle sue nuove istituzioni repubblicane. La data della creazione della Repubblica Gli antichi avevano fissato una curiosa coincidenza cronologica tra la storia di Roma e quella di Atene: il 510 a.C era anche l’anno in cui il tiranno Ippia era stato cacciato da Atene (sospetto che la caduta di Tarquinio il Superbo sia stata adattata per creare un parallelismo con le vicende di Atene). Diversi studiosi hanno proposto di collocare la nascita della Repubblica qualche decennio più tardi, intorno al 470 – 450 a.C. Alcuni elementi inducono però a ritenere che la datazione tradizionale della creazione della Repubblica non sia lontana dalla verità. I supremi magistrati della Repubblica, i loro poteri e i loro limiti La tradizione storiografica antica è concorde nell’affermare che i poteri un tempo propri del re sarebbero passati immediatamente a due consules, o meglio praetores, come si sarebbero chiamati i massimi magistrati della Repubblica. Eletti dai comizi centuriati, ai consoli spettava il comando dell’esercito, il mantenimento dell’ordine all’interno della città, l’esercizio della giurisdizione civile e criminale, il potere di convocare il senato e le assemblee popolari, la cura del censimento e della compilazione delle liste dei senatori; il consolato aveva anche la funzione eponima. I poteri autocratici di cui erano dotati i due consoli erano sottoposti ad alcuni importanti limiti: • Annualità; la durata della loro carica era limitata a un anno; • Collegialità, ciascuno dei magistrati aveva eguali poteri e poteva dunque opporsi all’azione del collega qualora la ritenesse dannosa per lo Stato. Un’ulteriore restrizione era costituita dalla possibilità per ogni cittadino di appellarsi al giudizio dell’assemblea popolare contro le condanne capitali inflitte dal console: si tratta della provocatio ad populum. La versione tradizionale sulla massima magistratura repubblicana è stata messa in dubbio da parte di alcuni studiosi i quali ritengono che, almeno in una prima fase, i poteri del re siano stati trasferiti a un solo magistrato, eventualmente affiancato da alcuni assistenti: soltanto all’indomani del Decemvirato del 450 sarebbe stata creata la magistratura collegiale del consolato. Le altra magistrature Le crescenti esigenze dello Stato indussero alla progressiva creazione di nuove magistrature. Al periodo regio o al primo anno della Repubblica risalirebbero i questori: originariamente in numero di due, assistevano i consoli nella sfera delle attività finanziare. Secondo la tradizione nel 443 a.C. il compito di tenere il censimento sarebbe stato sottratto alle competenze dei consoli e affidato a due nuovi magistrati, i censori. Solo in seguito un provvedimento affidò ai censori anche la redazione delle liste dei membri del senato. 17 La dittatura In caso di necessità, i supremi poteri della Repubblica potevano essere affidati a un dittatore: il dictator non veniva eletto da un’assemblea popolare, ma nominato a propria discrezione da un console. Il dittatore non era affiancato da colleghi con eguali poteri: dati i poteri straordinari di questa magistratura, la sua durata venne limitata ad un massimo di sei mesi. Questo magistrato veniva nominato soprattutto per fronteggiare crisi militari. I sacerdozi e la sfera religiosa È opportuno ricordare anche i più importanti sacerdozi: a Roma non si può tracciare una distinzione netta tra cariche politiche e massime cariche religiose. Costituiscono un’eccezione in questo senso i flamini, i quali rappresentavano la pianificazione terrena del dio stesso, ovvero le tre divinità supreme (Giove, Marte e Quirino), mentre dodici flamini minori erano addetti al culto di altrettante divinità. I tre più importanti collegi religiosi avevano poteri che superavano ampiamente la sfera culturale e coinvolgevano direttamente la politica: • Il collegio dei pontefici costituiva la massima autorità religiosa dello Stato, con una competenza che si estendeva su tutte le materie che non ricadevano nella sfera di azione degli altri collegi sacerdotali; • Il collegio degli Àuguri aveva invece la funzione di assistere i magistrati nel loro compito di trarre gli auspici e di interpretare la volontà degli dei. • Sono da ricordare anche i duoviri sacris faciundis, incaricati di custodire i Libri Sibillini (antichissima raccolta di oracoli in greco). Accanto ai tre collegi sacerdotali maggiori si possono ricordare gli aruspici, al pari degli àuguri incaricati di chiarire la volontà divina mediante l’esame delle viscere delle vittime sacrificali. Una rilevante funzione in politica estera avevano i faziali, anch’essi riuniti in un collegio. La loro funzione era quella di dichiarare guerra, attendendosi scrupolosamente al complesso cerimoniale previsto e assicurando così a Roma il favore degli dei nel conflitto che si stava aprendo. Il senato Il vecchio consiglio regio sopravvisse alla caduta della monarchia, anzi divenne il perno della nuova Repubblica a guida patrizia. Nel corso dell’età repubblicana la composizione del consiglio era sostanzialmente decisa dai consoli prima e dai censori poi. Il principale strumento istituzionale posseduto dal senato era costituito dalla auctoritas patrum, quel diritto di sanzione che vediamo applicarsi in particolare agli atti legislativi e ai risultati delle elezioni usciti dalle assemblee popolari a partire dalla metà del V secolo a.C. A fronte di magistrati la cui carica durava generalmente solo un anno, quella del senatore era vitalizia. Nel senato si concentrò l’esperienza politica della Repubblica e trovò espressione la leadership politica dell’élite sociale ed economica di Roma. La cittadinanza e le assemblee popolari 20 La prima secessione e il tribunato della plebe Il conflitto tra i due ordini si apre nel 494 a.C. La plebe, esasperata dalla crisi economica, attua una sorta di sciopero generale che lascia la città priva della sua forza lavoro e indifesa contro le aggressioni esterno. Questa forma di protesta venne attuata dalla plebe ritirandosi sull’Aventino e prese il nome di secessione. In occasione della prima secessione la plebe si diede propri organismi, ovvero un’assemblea generale. Vennero poi scelti come rappresentanti ed esecutori della volontà dell’assemblea i tribuni della plebe (inizialmente due, poi dieci). Ai propri tribuni la plebe decise di riconoscere diversi poteri: il diritto di venire in soccorso di un cittadino contro un magistrato, il potere di porre il veto a un qualsiasi provvedimento di un magistrato che sembrasse andare a scapito della plebe. La plebe accordò l’inviolabilità personale dei propri tribuni: chi avesse osato commettere violenza contro di loro sarebbe diventato consacrato alle divinità (= poteva essere messo a morte). Di fatto questa forma estrema non venne mai messa in pratica. Nel corso della prima secessione vennero creati anche altri due rappresentanti della plebe: gli edili plebei, che nella tarda età repubblicana si occupavano dell’organizzazione dei giochi, della sorveglianza sui mercati, del controllo sulle strade, i templi, gli edifici pubblici. Le loro funzioni originarie rimangono ignote. La prima secessione approdò a un risultato essenzialmente politico, il riconoscimento dello Stato dell’organizzazione interna della plebe. Il problema dei debiti rimase però insoluto. Della crisi economica cercò di approfittare nel 486 a.C. in console Spurio Cassio, che propose una legge per la redistribuzione delle terre. Venne accusato di aspirare alla tirannide ed eliminato. Le vicende della secessione plebea e del tentativo di rivoluzione di Cassio mettono in luce due caratteristiche del confronto tra patrizi e plebei: 1. La protesta, nata da motivazioni economiche, raggiunge un esito politico → il disagio economico della plebe povera è stato strumentalizzato dalle famiglie plebee più facoltose per raggiungere conquiste politiche. 2. Il fallimento di Cassio ci mostra come la plebe non intendesse raggiungere una rivoluzione dell’assetto economico e istituzionale dello stato, ma aspirava a una riforma dall’interno dell’ordinamento vigente, che riservasse il giusto peso a tutte le componenti della cittadinanza. Il Decemvirato e le leggi delle XII tavole Strappato con la forza il riconoscimento della propria organizzazione interna, la plebe incominciò a premere affinché fosse redatto un codice di leggi scritto. Nel 451 a.C. venne nominata una commissione composta da dieci uomini (decemvirato) scelti dal patriziato, incaricati di stendere in forma scritta un codice giuridico. I decemviri compilarono un complesso di norme che vennero pubblicate su dieci tavole di legno esposte nel Foro (nel 450 a.C. vennero aggiunte altre due tavole). Tra le disposizioni presenti vi era anche quella che impediva i matrimoni misti fra patrizi e plebei. 21 Come ai tempi della caduta della monarchia, è la violenza nei confronti di una giovane a far precipitare la situazione: le insidie di Appio Claudio a Virginia (figlia di un centurione) provocarono una seconda secessione, a seguito della quale i decemviri sono costretti a deporre i propri poteri e viene ripristinato il consolato e i massimi magistrati, M. Orazio e L. Valerio, fanno approvare delle leggi in cui si ribadisce l’inviolabilità dei rappresentanti della plebe, si proibisce la creazione di magistrature contro le quali non valesse il diritto di appello e si rendono i plebisciti votati dall’assemblea della plebe vincolanti per l’intera cittadinanza. La norma che impediva i matrimoni “misti” venne abrogata pochi anni dopo. Tribunali militari con poteri consolari Il plebiscito fatto votare da M. Canuleio, riconoscendo la legittimità dei matrimoni misti, ebbe come conseguenza di rimuovere la principale obiezione che il patriziato aveva opposto all’accesso dei plebei al consolato: solo i patrizi si ritenevano titolari del diritto di prendere gli auspici per accertare la volontà degli dei. Il patriziato, visto minacciato il suo monopolio sul consolato, ricorre a un espediente: a partire dal 444 a.C. il senato decide se alla testa dello stato vi debbano essere due consoli provenienti esclusivamente dal patriziato, oppure un certo numero di tribuni militari con poteri consolari che possono essere anche plebei, ma non hanno il potere di trarre gli auspici (regolamento rimane in vigore fino al 367 a.C.). Tuttavia nessuna riforma istituzionale poteva porre rimedio alle difficoltà economiche della plebe povera, tutt’ora gravi. Spurio Melio, un ricco plebeo, nel 440 a.C. intervenne a proprie spese per rimediare agli effetti di una carestia distribuendo un forte quantitativo di grano ai poveri. Questa misura venne intesa come una mossa per assumere la tirannide e Melio venne giustiziato. Le leggi Licinie Sestie La promulgazione del primo codice di leggi scritte e l’istituzione della nuova carica dei tribuni militari lasciavano aperti i due nodi, politico ed economico, del confronto tra i due ordini. Nel 287 a.C. il territorio di Veio e di Capena viene suddiviso in piccoli appezzamenti e distribuito ai cittadini romani. Pare tuttavia che il provvedimento non sia stato sufficiente ad alleviare la crisi economica: pochi anni dopo, il patrizio M. Manilio Capitolino propose una cancellazione dei debiti e una nuova riforma agraria. Ancora una volta, davanti alla minaccia della tirannide, Capitolino venne liquidato. Qualche anno dopo l’iniziativa ritornò ai riformisti, in particolare ai tribuni della plebe Caio Licinio Stolone e Lucio Sestio Laterano, esponenti di due ricche famiglie plebee. Presentarono un ambizioso pacchetto di proposte concernente il problema dei debiti, la distribuzione delle terre di proprietà statale e l’accesso dei plebei al consolato. I patrizi resistettero, d’altra parte Licinio e Sestio non mostrarono alcuna intenzione di cedere. Dopo una fase di anarchia politica, nel 367 a.C. il vecchio Marco Furio Camillo, eroe della guerra contro Veio, venne chiamato alla dittatura per sciogliere una situazione divenuta ormai insostenibile. Le proposte di Licinio e Sestio assunsero valore di legge, secondo un iter non chiarito alle fonti. Le leges Liciniae Sextiae: 22 • Prevedevano che gli interessi che i debitori avevano già pagato sulle somme avute in prestito potessero essere detratti dal totale del capitale dovuto e che il debito residuo fosse estinguibile in tre rate annuali; • Stabilivano la massima estensione di terreno di proprietà statale che poteva essere occupato da un privato; • Sancivano l’abolizione del tribunato militare con potestà consolare e la reintegrazione alla testa dello Stato dei consoli, uno dei quali avrebbe dovuto essere plebeo. Verso un nuovo equilibrio Le leggi Licinie Sestie segnarono la fine della fase più acuta della contrapposizione tra patrizi e plebei (anche se l’obbligo di scegliere uno dei massimi magistrati dalla plebe risale solo al plebiscito del 342 a.C.). Tuttavia, con queste leggi si era imboccata una strada che andava percorsa fino in fondo: nei decenni successivi i plebei ebbero progressivamente accesso a tutte le altre cariche dello stato. Il diritto di accedere alle magistrature da parte dei plebei comportò anche il loro progressivo ingresso nel senato, reclutato tra gli ex magistrati. Nel 326 a.C., secondo Livio, una legge aboliva la servitù per debiti. Ma la vera risposta ai problemi economici della plebe venne dalle conquiste, che misero a disposizioni vaste estensioni di terre. La censura di Appio Claudio Ceco Un tentativo di imprimere un’accelerazione al processo di riforma venne dalla censura di Appio Claudio Cieco. Claudio, nel compilare la lista di senatori, vi avrebbe infatti incluso persone abbienti che non avevano ancora rivestito alcuna magistratura. Una seconda misura riguardò la composizione delle tribù: il suo scopo era quello di favorire i membri della plebe urbana, consentendo loro di iscriversi in una qualsiasi delle unità esistenti, mentre in precedenza erano obbligati a registrarsi nello solo quattro tribù urbane (quindi il loro peso nei comizi era minoritario). Entrambe le riforme caddero nel vuoto. Un altro provvedimento di portata epocale si inquadra nel medesimo periodo: il censo dei singoli cittadini, fino ad allora calcolato in base ai terreni e ai capi di bestiame posseduti, fu valutato anche in base al capitale mobile in metallo prezioso, consentendo anche a coloro che non erano impegnati nelle tradizionali attività agricole di vedere il proprio peso economico e politico riconosciuto. Direttamente alla censura di Appio Claudio è infine da attribuire la costruzione di due opere pubbliche di importanza epocale per Roma: il primo acquedotto della città e la via che congiungeva Roma a Capua (via Appia). La legge Ortensia Il 287 a.C. venne considerato il punto d’arrivo della lunga lotta tra patrizi e plebei: la legge Ortensia stabilì che i plebisciti votati dall’assemblea della plebe avessero valore per tutta la cittadinanza di Roma. La nobilitas patrizio – plebea Le leggi Licinie Sestie e le grandi conquiste della plebe tra la fine del IV e gli inizi del III secolo a.C. chiusero per sempre l’età del dominio esclusivo dei patrizi sullo Stato. Al posto del patriziato si venne 25 L’esercito romano, frettolosamente arruolato per affrontarli, si dissolse letteralmente al primo contatto avvenuto sull’Allia, un affluente del Tevere, e si rifugiò tra le rovine di Veio. Roma, rimasta priva di difese, venne presa e saccheggiata. Poi i galli scomparvero tanto rapidamente quanto erano comparsi. Parte della tradizione storiografica romana tentò di salvare l’onore immaginando che il Campidoglio avesse resistito agli invasori. Altrettanto poco credibili sono tuttavia i racconti delle immense perdite di vite umani e delle immani distruzioni subite da Roma: la battaglia dell’Allia si risolse in una rotta generale piuttosto che in un massacro. La ripresa La prova migliore che il disastro gaelico fu un evento con conseguenze meno gravi di quelle che le fonti antiche lasciano intendere è costituita dalla rapidità con cui Roma si riprese. A lungo termine gli effetti della conquista e della distruzione del vasto e fertile territorio di Veio si rivelarono più decisivi dell’umiliazione subita dai galli. Negli stessi anni iniziò la costruzione delle mura serviane: la cinta muraria doveva proteggere la città da nuove invasioni ed abbracciava un’estensione vastissima. L’atteggiamento di Roma è comunque improntato a un’azione offensiva, che trova il suo implacabile esecutore in Camillo. Già pochi anni dopo il sacco della città da parte dei galli, gli equi sono annientati. Più lunga e difficile la lotta contro i volsci, che alla fine furono costretti a cedere la piana Pontina, mentre gli ernici parte dei loro territori nella valle del fiume Sacco: in entrambi i territori vennero insediati cittadini romani. Nel 354 a.C. cessò anche la resistenza delle due più potenti città latine, Tivoli e Preneste. Negli stessi anni anche gli etruschi di Tarquinia e Cere, che dopo la caduta di Veio si sentivano direttamente minacciati, furono costretti a siglare una lunga tregua, Approfondimento: i motori dell’espansione I motori che hanno guidato l’espansione di Roma sono stati ricondotti a diverse tipologie del concetto di “imperialismo”. Tre sono le principali chiavi di lettura: 1. “Imperialismo difensivo”. Ha tenuto il campo molto a lungo la teoria che l’espansione di Roma sia avvenuta senza nessun piano preordinato e che Roma sia stata portata in varie direzioni in risposta a singole e spesso casuali “emergenze difensive”. Difficilmente può essere negato che le intenzioni di partenza abbiano avuto caratteristiche offensive e aggressive. 2. “Roma aggressore?”: “Nati per essere lupi?” Alla precedente versione (non più accettabile in quanto semplicistica) ne è stata opposta un’altra, secondo cui all’origine delle guerre che portarono all’espansione di Roma non sarebbe stata una serie di risposte difensive, ma una consapevole e meditata volontà espansionistica, basata sull’accentuato militarismo della città, e il perseguimento di benefici economici. Si avrebbero simultaneamente in atto diversi elementi: a. Fattori intrinseci alla città, orientati verso un far guerra regolarmente; b. Fattori politici; 26 c. Fattori economici, tutti coloro che avevano influenza sulle decisioni politiche traevano per se stessi larghi profitti dallo stato endemico di guerra e dall’espansione dell’impero. Ne deriva una visione unilineare dell’espansione di Roma, definita e perseguita secondo un piano preciso. 3. “Anarchia interstatale multipolare”. È la teoria più recente. La premessa è che tutti gli stati antichi siano stati naturalmente bellicosi. Perciò guardare soltanto all’aggressività di Roma non può che condannare a una visione forzatamente unilaterale. Andrebbero riviste le asserzioni che soltanto Roma fosse uno stato eccezionalmente amante della guerra ed espansionistico. Quest’attitudine fu comune a tutti gli stati mediterranei che entrarono a contatto con essa dal 750 a.C. in poi: etruschi, galli, sanniti, Taranto, cartaginesi. Il militarismo e l’estendersi dello stato romano sono stati analizzati nel più vasto panorama di un’endemica “anarchia interstatale multilaterale” mediterranea, entro cui gli stati lottavano per il potere soprattutto tramite la guerra. Roma ebbe dunque successo non perché sia stata così eccezionale nella sua brutalità, ma piuttosto per la sua superiorità nel creare e nel gestire un’ampia rete di alleati e nella sua capacità di coinvolgere numerosi stranieri nella sua stessa politica. Il primo confronto con i Sanniti La posizione di potere raggiunta da Roma nel Lazio meridionale trova espressione nel trattato che venne concluso con i Sanniti nel 354 a.C., nel quale il confine tra le zone di egemonia delle due potenze veniva fissato al fiume Liri. I Sanniti occupavano un’area più vasta di quella occupata in quegli anni da Roma. Il territorio del Sannio era tuttavia relativamente povero e incapace di sostenere una forte crescita demografica: l’unico rimedio alle carestie era la migrazione verso terre più fertili. Nel corso del IV secolo, alcune popolazioni staccatesi dai Sanniti avevano occupato le ricche regioni costiere della Campania, dove si allontanarono (dal punto di vista culturale e politico) dai loro connazionali rimasti nel Sannio. Nonostante le affinità etniche, i contrasti politici tra Sanniti e Campani si vennero sempre più acuendo. La tensione sfociò in guerra aperta nel 343 a.C., quando i Sanniti attaccarono la città di Teano (Campania settentrionale), occupata dai Sidicini, che si rivolsero per aiuto alla Lega campana e a Capua, la quale a sua volta chiese l’aiuto di Roma. La prima guerra sannitica (343 – 341 a.C.) si risolse rapidamente con un parziale successo dei romani, che già nel primo anno di guerra sconfissero il nemico a Capua. Il trattato rinnovava l’alleanza del 354 a.C., riconoscendo a Roma la Campania e ai Sanniti Teano. La grande guerra latina L’accordo del 341 a.C. portò a un sorprendente ribaltamento delle alleanze, costringendo Roma a fronteggiare i suoi vecchi alleati Latini, Campani e Sidicini, cui si aggiunsero i Volsci e gli Aurunci. La volontà dei Latini di distaccarsi da un’alleanza con Roma era ormai divenuta un abbraccio soffocante e al desiderio dei Volsci di prendersi una rivincita dopo le sconfitte subite. 27 Il conflitto fu durissimo, ma alla fine il successo arrise ai Romani. La Lega latina venne disciolta: alcune delle città che ne avevano fatto parte vennero semplicemente incorporate nell’esercito romano. Altre conservarono la propria indipendenza formale, ma non poterono più intrattenere alcuna relazione tra di loro. Le nuove colonie latine erano composte sia da cittadini romani che da alleati. Lo status di Latino perdette dunque la sua connotazione etnica e venne a designare una condizione giuridica in rapporto ai cittadini romani. I Latini ottennero anche il diritto di voto nelle assemblee popolari di Roma. Al di fuori dell’antico Lazio, Roma attuò la concessione di una forma parziale di cittadinanza romana, la civitas sine suffragio. I titolari erano tenuti agli stessi obblighi dei cittadini romani, ma non avevano diritto di voto nelle assemblee popolari di Roma. Ad Anzio venne creata una piccola colonia i cui abitanti conservarono la piena cittadinanza romana. Alla conclusione della grande guerra latina Roma aveva legato a sé tutte le regioni che andavano dalla sponda sinistra del Tevere a nord, al golfo di Napoli a sud, dal Tirreno a Ovest, ai contrafforti degli Appennini a est. La seconda guerra sannitica La causa concreta della seconda guerra sannitica è da ricordare nelle divisioni interne di Napoli, dove si fronteggiavano le masse popolari, favorevoli ai sanniti, e le classi più agiate, di sentimenti filoromani. I romani riuscirono abbastanza rapidamente a sconfiggere la guarnigione che i sanniti avevano installato a Napoli e a conquistare la città, ma il tentativo di penetrare a fondo nel Sannio si risolse in un fallimento. Per qualche anno vi fu l’interruzione delle attività miliari. Le ostilità si riaccesero nel 316 a.C. per responsabilità dei romani che attaccarono la località di Saticula. Le prime operazioni furono nuovamente favorevoli ai sanniti. Negli anni successivi Roma inizia a recuperare il terreno perduto. Saticula fu conquistata nel 315 a.C., le comunicazioni con la Campania ristabilite e migliorate grazie alla costruzione del primo tratto, tra Roma e Capua, della via Appia, una serie di colonie latine fu fondata. In questi anni Roma procedette a preparare il proprio esercito al confronto finale con i sanniti. Roma fu così in grado di affrontare una minaccia su due fronti: a sud contro i sanniti, a nord contro una coalizione di stati etruschi. Gli eserciti romani poterono concentrare il proprio sforzo contro il Sannio. Il trattato di alleanza tra Roma e i Sanniti nel 354 a.C. venne ancora una volta rinnovato. I vantaggi territoriali più consistenti si ebbero nella regione degli Appennini centrali. Gli ernici, accusati di ribellione, vennero inglobati nello Stato romano come cittadini senza diritti di voto, mentre gli equi furono sterminati. La terza guerra sannitica La sconfitta del 304 a.C. era stata grave, ma non aveva indebolito considerevolmente i sanniti. Lo scontro decisivo con Roma si riaprì nel 298 a.C., quando i Sanniti attaccarono i lucani. I romani accorsero in aiuto degli aggrediti, con i quali conclusero un trattato. Il comandante supremo dei sanniti era riuscito a mettere in piedi una potente coalizione antiromana che comprendeva gli etruschi, i galli e gli umbri. Lo scontro decisivo avvenne nel 195 a.C. a Sentino. Gli eserciti romani riuscirono a prevalere su sanniti e galli, potendo contare su contingenti di alleati 30 Questa decisione aprì la lunghissima prima guerra punica. I primi anni di guerra furono decisivi: i romani riuscirono a respingere da Messina cartaginesi e siracusani. Grazie alla sua netta superiorità nelle forze navali, Cartagine conservava un saldo controllo su molte località costiera della Sicilia: a Roma si decise quindi per la prima volta la creazione di una grande flotta di quinquiremi. Lo sforzo fu premiato nel 260 a.C. da una clamorosa vittoria sulla flotta cartaginese nelle acque di Milazzo. A questo punto Roma pensò di poter assestare un colpo mortale a Cartagine attaccandola direttamente nei suoi possedimenti africani: l’invasione iniziò nel 256 a.C. Le prime operazioni furono favorevoli al console Marco Attilio Regolo, che non seppe sfruttare i successi: fece fallire le trattative di pace che erano state avviate, rafforzando la determinazione dei cartaginesi. Nel 225 a.C. venne battuto da un esercito cartaginese, per completare il disastro la flotta romana incappò in una tempesta e perse buona parte delle sue navi. L’imperizia dei comandanti romani provocò la perdita delle flotte a seguito della sconfitta nella battaglia navale di Trapani. Roma era ormai priva di forze navali e dei mezzi necessari per approntare una nuova flotta. D’altro canto i cartaginesi, anch’essi esausti, non seppero sfruttare la loro superiorità sui mari e sulla terra furono costretti a limitarsi ad azioni di disturbo degli eserciti romani. Solo dopo qualche anno Roma fu in grado di costruire una nuova flotta, inviata a bloccare Trapani e Lilibeo. La flotta che i cartaginesi avevano frettolosamente equipaggiato per spezzare il cerchio attorno alle loro basi fu sconfitta. A Cartagine si domandò la pace: le clausole del trattato prevedevano lo sgombero dell’intera Sicilia, delle isole Lipari e Egadi e il pagamento di un indennizzo di guerra. La prima provincia romana A seguito della prima guerra punica Roma per la prima volta era venuta in possesso di un ampio territorio al di fuori della penisola italiana, costituito dalle regioni della Sicilia centro – occidentale. Il sistema con il quale Roma integrò questi nuovi possedimenti segnò una svolta nella sua storia istituzionale. Solitamente città e popolazioni erano state direttamente incorporate nello stato romano e alle comunità “sociae” veniva lasciata una grande autonomia interna. In Sicilia la strada intrapresa fu diversa: venne imposto il pagamento di un tributo annuale consistente in una parte del raccolto di cereali, di cui la Sicilia era grande produttrice. L’amministrazione della giustizia, il mantenimento dell’ordine interno e la difesa dalle aggressioni nei nuovi possedimenti siciliani vennero affidati a un magistrato romano inviato annualmente nell’isola. Da questo momento il termine provincia viene ad assumere progressivamente il significato di territorio soggetto all’autorità di un magistrato romano. Tra le due guerre Il periodo che va tra la fine della prima (241 a.C) e lo scoppio della seconda guerra punica (218 a.C) vide un consolidamento delle posizioni delle due grandi avversarie, Roma e Cartagine, in vista dello scontro decisivo. Per Cartagine i primi anni dopo la sconfitta furono drammatici: la città non era in grado di assicurare il pagamento delle numerose truppe mercenarie che avevano combattuto contro i romani, i 31 mercenari di ribellarono. Quando i cartaginesi allestirono una spedizione per recuperare la Sardegna, si dovettero scontrare con l’opposizione di Roma. Cartagine fu accusata di prepararsi ad aprire le ostilità contro Roma stessa, che si disse pronta a dichiarare guerra. I cartaginesi si piegarono, accettando di pagare un indennizzo supplementare e cedere la Sardegna. Pochi anni dopo, Roma intervenne direttamente nell’Adriatico. Qui il regno di Illiria aveva esteso verso sud la sua influenza sulla costa dalmata. Le scorrerie dei pirati illiri arrecavano danni alle città greche della costa orientale dell’Adriatico. In risposta alle loro richieste di aiuto, il senato inviò energiche proteste alla regina degli Illiri, Teuta, e davanti al rifiuto della regina di far cessare le azioni ostili dei suoi sudditi decise di dichiarare guerra (229 a.C.). La prima guerra illirica si risolse a favore di Roma. Qualche anno dopo Roma intervenne nuovamente in Illiria a seguito degli atti ostili intrapresi da Demetrio di Faro, di cui si temeva anche l’alleanza con il re di Macedonia Filippo V. In tal modo però si gettarono le premesse per un’ostilità tra Roma e Macedonia. Maggiori sforzi richiese la conquista dell’Italia settentrionale, avviata negli anni tra le due guerre puniche ma portata a conclusione solo nel II secolo a.C. L’attenzione di Roma in questa zona venne richiamata da un’incursione dei galli che si arrestò davanti a Rimini. Quattro anni dopo, il tribuno della plebe Caio Flaminio propose di distribuire ai cittadini romani l’ager Gallicus, ovvero la regione strappata qualche decennio prima ai senoni. Il provvedimento consentiva di sorvegliare meglio il corridoio adriatico attraverso il quale i galli potevano penetrare l’Italia centrale. Questo destò l’allarme dei galli. I galli riuscirono a penetrare in Etruria e a ottenere qualche successo, ma nel 225 a.C. vennero annientati a Telamone. A questo punto a Roma ci si rese conto che la conquista della valle Padana era possibile e necessaria per allontanare definitivamente la minaccia delle incursioni galliche. La breve ma violenta campagna fu coronata dalla vittoria nel 222 a.C. La fondazione di due grandi colonie latine a Piacenza e Cremona doveva consolidare la conquista. All’indomani della vittoria nella seconda guerra punica, Roma procedette alla definitiva sottomissione della pianura padana, che aprì un territorio vasto e fertile. Fondamentale per l’organizzazione e il consolidamento della conquista si rivelò la costruzione di una rete stradale: nel 220 a.C. la via Flaminia da Roma a Rimini, nel 187 a.C. la via Emilia da Rimini a Piacenza. Mentre Roma guadagnava posizioni nell’Adriatico e nell’Italia settentrionale, Cartagine cercava di costruire una nuova base per la sua potenza in Spagna. L’avanzata dei barca destò l’allarme della città greca di Marsiglia, che nella spagna settentrionale aveva interessi economici e aveva impiantato alcuni insediamenti commerciali, e naturalmente di Roma, di cui Marsiglia era fedele alleata. Nel 226 a.C. un’ambasceria del senato concluse con Asdrubale (della famiglia barca) un trattato secondo il quale gli eserciti cartaginesi non potevano oltrepassare a nord il fiume Ebro. Un potenziale elemento di contrasto tra Roma e Cartagine era costituito dal trattato di alleanza stretto da Roma con la città di Sagunto, che si trovava a sud dell’Ebro 32 La seconda guerra punica La sconfitta del 241 a.C. e l’umiliazione subita quatto anni dopo (quando Roma si era impossessata della Sardegna) avevano creato a Cartagine un forte sentimento di rivincita contro Roma, che trova espressione soprattutto nella famiglia dei barca. La questione di Sagunto venne sfruttata da Annibale per far esplodere il conflitto. Alle prime minacce di un attacco cartaginese, i saguntini chiesero l’aiuto di Roma. Il piano di Annibale era rischioso, ma era l’unico che avrebbe potuto assicurare la vittoria di Cartagine. Era necessario colpire il nemico nella base della sua potenza, cercando di staccare da Roma i suoi alleati italici. Dal momento che dopo il trattato di pace i cartaginesi avevano un’assoluta inferiorità nelle forze navali, l’invasione dell’Italia poteva avvenire solo via terra. Annibale partì nella primavera del 218 a.C. dalla base di Nova Carthago con un imponente esercito, rafforzato dalle eccellenti truppe spagnole. L’esercito cartaginese riuscì a attraversare le Alpi, subendo gravi perdite ma riscuotendo l’immediato sostegno dei Boi e degli Insubri. Sul fiume Ticino le superiori forze di cavalleria cartaginese prevalsero su quelle romane. Nell’anno seguente il generale cartaginese riuscì a eludere gli eserciti romani che tentavano di impedirgli il passaggio degli Appennini e a sorprendere le truppe del console Caio Flaminio al lago Trasimeno. L’esercito romano venne annientato, lo stesso Flaminio fu fra le vittime. A Roma iniziò a farsi strada l’idea che fosse impossibile sconfiggere Annibale in campo aperto, secondo quanto sosteneva in particolare l’ex console Quinto Fabio Massimo, che venne nominato dittatore. Secondo la strategia di Fabio Massimo era necessario evitare le battaglie campali e limitarsi a controllare le mosse di Annibale. La strategia di Fabio Massimo alla lunga avrebbe portato alla vittoria, ma a breve termine significava che Roma avrebbe dovuto assistere impotente alla devastazione dell’Italia da parte dell’esercito cartaginese. Scaduti i sei mesi della dittatura di Fabio Massimo, a Roma si decise di passare nuovamente all’offensiva. Nel 216 a.C. Annibale riuscì ad annientare gli eserciti congiunti dei consoli Caio Terenzio Varrone e Lucio Emilio Paolo. La guerra pareva ormai perduta per Roma. Nel 215 a.C. Ierone di Siracusa, fedele alleato di Roma, morì. Il nipote Ieronimo gli successe al trono e decise di schierarsi dalla parte di Cartagine. Nel medesimo anno i romani vennero a conoscenza di un patto di alleanza tra Annibale e Filippo V di Macedonia. Gli alleati dell’Italia centrale rimasero fedeli a Roma e il ritorno alla strategia attendista di Fabio Massimo consentì di guadagnare gradualmente le posizioni perdute. Nel 211 a.C. Capua venne riconquistata dai romani. Anche negli altri teatri di guerra le cose volgevano al meglio per Roma. In Sicilia le forze romane riuscirono nel 212 a.C. a conquistare e saccheggiare Siracusa dopo un lungo assedio; un esercito cartaginese, sbarcato ad Agrigento, fu decimato da un’epidemia. Nell’Adriatico una flotta di 50 35 cessazione degli attacchi contro le città autonome dell’Asia Minore e l’immediata evacuazione dell’Europa furono sostanzialmente sospinte da Antioco. Nonostante Scipione Africano consigliasse di lasciare un presidio in Grecia, e nonostante proprio in quel periodo alla corte di Siria avesse trovato rifugio Annibale, Flaminio riuscì a imporre il rispetto dell’impegno preso ai giochi Istmici. L’esercito romano si era trattenuto fin troppo in Grecia, impegnato in una campagna contro Sparta. Gli Etoli, scontenti di quanto avevano ottenuto in cambio del loro importante aiuto militare nella lotta contro Filippo, andavano sostenendo che la Grecia aveva semplicemente cambiato padrone, dalla Macedonia a Roma. La guerra fredda tra Roma e la Siria si trascinò fino al 192 a.C., quando la Lega etolica invitò espressamente Antioco a liberare la Grecia dai suoi falsi liberatori. Antioco decise di passare con il suo esercito in Tessaglia e venne duramente battuto. Nel 190 a.C. il console Lucio Cornelio Scipione si preparò a invadere l’Asia Minore per la via terrestre, forte del sostegno di Filippo V. Nel frattempo la flotta romana sconfiggeva ripetutamente i siriaci nell’Egeo. Lo scontro decisivo si ebbe nei pressi della città di Magnesia al Sipilo: l’esercito di Antioco venne completamente distrutto. La pace confermò che Roma non aveva al momento intenzione di impegnarsi direttamente nel Mediterraneo orientale. Antioco dovette pagare un’enorme indennità di guerra, affondare tutta la sua flotta tranne 10 navi, consegnare alcuni nemici di Roma che avevano trovato rifugio alla sua corte (tra i quali Annibale) e sgombrare tutti i territori a nord e a ovest del massiccio montuoso del Tauro. I vasti territori strappati da Antioco nell’Asia minore vennero spartiti tra i due più fedeli alleati di Roma, il re di Pergamo Eumene II e la repubblica di Rodi. Le trasformazioni politiche e sociali Il repentino ampliamento degli orizzonti di Roma a seguito delle grandi vittorie militare tra la fine del III e gli inizi del II secolo a.C. non poteva che portare una ventata di cambiamento anche nell’assetto politico e sociale interno. Il “processo degli Scipioni” mostra come l’acuirsi del contrasto all’interno della stessa classe dirigente romana e i nuovi scenari della lotta politica che si andavano aprendo. Nel 187 a.C. alcuni tribuni della plebe accusarono L. Cornelio Scipione di essersi impadronito di parte dell’indennità di guerra versata dal re di Siria. Nel medesimo anno l’attacco venne rinnovato contro Scipione Africano, che rifiutò di rispondere alle accuse limitandosi nelle sue proprietà di Literno, dove morì. Questo processo, ispirato da Marco Porcio Catone, voleva colpire soprattutto una spinta verso l’individualismo che rischiava di mettere in pericolo la gestione collettiva della politica da parte della nobilitas. In questa temperie politica trova spiegazione anche la legge Villia, promulgata nel 180 a.C., che introdusse un obbligo di età minima per rivestire le diverse magistrature e un intervallo di un biennio tra una carica e l’altra. Nei medesimi anni la diffusione in tutt’Italia del culto di Bacco è segno di una tensione religiosa, culturale e sociale. I devoti di Bacco provenivano in buona parte dalle classi sociali inferiori. La reazione a questo movimento fu durissima: il senato diede mandato ai consoli di condurre una severissima inchiesta. I “baccanali” dovevano essere stroncati in ogni modo: negli anni seguenti molti sacerdoti o semplici adepti del culto vennero imprigionati o addirittura messi a morte. Ciò che 36 aveva indotto il senato ad adottare misure drastiche non era tanto la necessità di reprimere le loro pratiche, preoccupava piuttosto il fatto che i devoti di Bacco si fossero dati un’organizzazione interna che poteva configurarsi come una sorta di stato contro lo stato romano. La terza guerra macedonica Il re macedone Filippo V aveva sostenuto con lealtà Roma nella guerra siriaca. Un’ombra nei rapporti tra le due potenze si era addensata già all’indomani di Apamea, quando le ambizioni di Filippo sulle città della costa trace vennero frustrate da Roma. Nei medesimi anni la posizione di Roma in Grecia si faceva delicata: sempre più spesso giungevano in senato ambascerie a sostenere le rispettive ragioni nelle controversie che opponevano le città greche le une alle altre. Roma, nella soluzione di questi contrasti, adottò una linea che privilegiava i gruppi aristocratici, contro il volere delle fazioni democratiche maggiormente legate agli ideali di libertà e autonomia. Nel 179 a.C. la morte aveva messo fine al lunghissimo regno di Filippo V: gli era succeduto il figlio maggiore Perseo. L’elemento democratico e nazionalista all’interno di molte città greche cominciò a volgersi verso Perseo. Agli occhi di Roma questo solo fatto fu sufficiente per fare del re una minaccia per il sistema egemonico del mondo greco: ogni mossa diplomatica di Perseo venne interpretata come un gesto di sfida. I preparativi di guerra iniziarono in quello stesso anno ma le prime operazioni si ebbero solo nel 171 a.C. Nei primi anni di guerra i comandanti romani si distinsero per le rapine commesse ai danni di molte città greche. Il re macedone ottenne un aiuto concreto solo dalla popolazione epirota dei Molossi e dal re d’Illiria Genzio. La svolta si ebbe nel 168 a.C.: Genzio venne sconfitto e Perseo fu costretto ad accettare battaglia campale, il suo esercito fu distrutto. Il re fu portato prigioniero in Italia e la monarchia abolita in Macedonia: la regione venne suddivisa in quattro repubbliche. I quattro Stati dovevano versare un tributo a Roma, pari alla metà di quello un tempo pagato al re. Negli altri stati greci la moderazione di cui Roma aveva dato prova negli ultimi anni di guerra venne messa da parte; la Lega achea fu costretta a consegnare 1000 persone di lealtà sospetta. I molossi furono puniti con la totale devastazione del loro territorio e la riduzione in schiavitù di decine di migliaia di abitanti. Rodi (solo per aver tentato una mediazione tra Roma e Perseo) fu privata delle regioni dell’Asia minore ottenute una ventina di anni prima → perse una quota significativa delle sue entrare doganali. La quarta guerra macedonica e la guerra acaica In appena vent’anni divenne evidente che la sistemazione data da Roma all’area greca era inadeguata. Particolarmente tesi erano i rapporti con la Lega Achea, dopo la deportazione di 1000 achei a Roma. La morte di Callicrate (fedele strumento della politica di Roma) e i tentativi di secessione di Sparta dalla Lega coincisero con una rivolta in Macedonia. Qui un tale Andrisco, facendosi passare per figlio di Perseo, riuscì a riunire le forze macedoni sotto la bandiera monarchica. Andrisco venne eliminato nel 148 a.C. Scongiurata la minaccia di Andrisco, il senato ordinò che fosse staccata dalla Lega achea non solo Sparta, ma anche Argo e Corinto. L’assemblea della Lega decise la guerra, che fu brevissima. Il console Lucio Mummio sconfisse definitivamente l’ultimo esercito acheo. Corinto, principale città 37 Lega, venne saccheggiata e distrutta. La Macedonia venne ridotta a provincia Romana, in Grecia tutte le leghe vennero sciolte o ridotte all’impotenza. La terza guerra punica Nel medesimo anno in cui Corinto era data alle fiamme veniva distrutta Cartagine. Dopo la rovinosa sconfitta nella seconda guerra punica, Cartagine si era ripresa con rapidità, riuscendo a saldare il pagamento della fortissima indennità di guerra e fornendo costantemente grandi quantità di cereali per gli eserciti romani. Anche dal punto di vista politico lo stato cartaginese si era comportato in modo irreprensibile: nel 196 a.C. Annibale fu eletto a uno dei due posti di massimo magistrato. Un’ambasceria giunta da Roma lo accusò di preparare un’alleanza con Antioco III di Siria: Annibale fu costretto alla fuga in Oriente, mentre il nuovo governo cartaginese assicurò lealtà nei confronti di Roma. Il re Massinissa, approfittando del fatto che i limiti del suo Stato non erano stati fissati con precisione, nel corso della prima metà del II secolo a.C. avanzò pretese sempre più ambiziose su territori appartenenti al vicino. Cartagine si rivolse alla potenza egemone, rimanendo delusa. Nel 151 a.C., dopo che Massinissa aveva inglobato alcuni dei territori più ricchi dello stato cartaginese, venne inviato un esercito contro di lui. La mossa si rivelò disastrosa: l’esercito cartaginese venne fatto a pezzi. Nello stesso tempo la violazione della clausola del 201 a.C. diede voce a colore che già da tempo a Roma pregavano per la distruzione di Cartagine. Nella decisione giocarono un ruolo sia l’irrazionale timore che Cartagine potesse diventare ancora una volta un grave pericolo, sia la più realistica constatazione che il conquistatore di Cartagine avrebbe acquistato per sé la gloria e per lo Stato un bottino immenso. Nel 149 a.C. un imponente esercito sbarcò in Africa. I cartaginesi acconsentirono a cedere una notevole quantità di armamenti. Quando i consoli chiesero loro di abbandonare la città decisero di resistere ad oltranza. L’azione militare si trasformò in un lungo e difficile assedio, risolto nel 146 a.C. sotto il comando di Publio Cornelio Scipione Emiliano: la città fu saccheggiata e rasa al suolo, il suo territorio trasformato nella nuova provincia d’Africa. La spagna Roma, nel medesimo lasso di tempo in cui aveva annientato le due potenti monarchie di Macedonia e di Siria, ridotto all’obbedienza tutti gli stati dell’Oriente ellenistico e distrutto la grande Cartagine, non era riuscita a venire a capo della situazione in Spagna. I romani si erano saldamente stabiliti in due zone distinte della penisola iberica: nel meridione intorno alla città di Cadice e nel settentrione nella zona costiera a nord dell’Ebro. Nel 197 a.C. le due 40 Due fazioni dell’aristocrazia: optimates e populares I mutamenti della compagine sociale si ripercuotono anche sulla stabilità della classe dirigente romana. Si delineano 2 fazioni: 1. Gli optimates: si richiamano la tradizione degli avi, cercano di ottenere per la propria politica l'approvazione dei ben pensanti, sostengono le autorità e le prerogative del Senato; 2. I populares: ugualmente scaturiti dei quadri dell’aristocrazia, si considerano difensori dei diritti del popolo e propugnano la necessità di ampie riforme in campo politico e sociale. Un esempio di riforma sono le 3 leggi tabellarie: • La lex Gabina tabellaria (139 a.C) > introduce l’espressione scritta del voto nei comizi popolari; • La lex Cassia tabellaria (137 a.C) > introduce l’espressione scritta del voto nei giudizi popolari; • La lex Papiria tabellaria (131 a.C) > introduce l’espressione scritta del voto nei comizi legislativi. Tiberio Gracco Membro della nobilitas, figlio maggiore dell’omonimo Tiberio Sempronio Gracco e di Corneila (figlia di Scipione l’Africano), è tribuno della plebe nel 133 a.C e decide di riprendere il tentativo di riforma agraria di Lelio. Il progetto di Tiberio, che si rifà a riforme anteriori come le leggi Licinie Sestie, fissava all’occupazione di agro pubblico un limite di 500 iugeri (125 ettari) a persona, con aggiunta di 250 iugeri per ogni figlio fino ad un massimo forse di 1000 (250 ettari) a famiglia. Inoltre, propose l’istituzione di un collegio di triumviri votato dal popolo (composto dallo stesso Tiberio, dal fratello Caio, dal suocero…). Questo collegio avrebbe avuto il compito di ripartire i lotti e recuperare i terreni in eccesso che sarebbero stati dati ai cittadini più poveri (30 iugeri per persona e inalienabili). L’oligarchia dominante si oppose al progetto perché penalizzava troppo i grandi proprietari terrieri e perché Gracco voleva utilizzare per finanziare la riforma i soldi del tesoro che il re Attalo III di Pergamo (morto nel 133 a.C senza eredi) aveva lasciato al popolo romano. Il giorno in cui il progetto doveva essere votato dai comizi tribuni, fu ostacolato dal tribuno della plebe Marco Ottavio (influenzato dai conservatori) che pose il suo veto. Gracco, però, dichiarò che Ottavio era andato contro l’interesse del popolo che avrebbe dovuto difendere e lo fece destituire. Così la legge Sempronia agraria fu approvata nel 133 a.C. I malcontenti verso la politica di Gracco, però, non si placarono e Tiberio venne ucciso da un gruppo di senatori e avversari politici nel 133 a.C. Il malcontento degli alleati La riforma di Tiberio scontentò anche gli alleati latini e italici le cui aristocrazie di ricchi proprietari si videro espropriate di ampie zone di terreno pubblico. Il console del 125 a.C Fluvio Flacco propose di placare i malcontenti concedendo a tutti gli alleati che l’avrebbero richiesta la cittadinanza romana, ma la sua proposta venne respinta. 41 Caio Gracco Nel 123 a.C fu eletto tribuno della plebe Caio Gracco che ampliò l’opera di riforme del fratello. Vennero perfezionate la legge agraria e aumentati i poteri della commissione triumvirale. Inoltre, siccome la maggior parte delle terre erano state distribuite, Caio propose l’istituzione di colonie di cittadini romani (per esempio Iunonia negli ex territori posseduti da Cartagine). Caio promosse una nuova legge giudiziaria che affidava ai soli cavalieri il controllo dei tribunali permanenti cui erano affidati i processi di concussione (istituiti nel 149 a.C e fino ad allora formati da soli senatori). In questo modo i senatori accusati di concussione non venivano giudicati da senatori-giudici, ma esponenti di una classe differente. Un ulteriore importante provvedimento istituito da Caio fu quello che prevedeva che il Senato dovesse decidere prima delle elezioni consolari, con deliberazione sottratto al veto tribunizio, quali tra le province dovessero essere classificate consolari (dunque da assegnare ai futuri consoli); ciò per impedire che una scelta posteriore fosse influenzata da ragioni personali o politiche. Le riforme di Caio minavano i privilegi dell’oligarchia senatoria che approfittò di un suo viaggio in Arica per far decrescere la sua polarità in città. Quando Caio rientrò a Roma, candidatosi nuovamente al tribunato nel 121 a.C, non venne rieletto. Dopo ulteriori rivolte, il senato fece ricorso alla procedura del senatus consultum ultimum che affidava pieni poteri ai consoli. Il console Lucio Opimio allora ordinò il massacro di tutti i sostenitori dei Gracchi che non volevano arrendersi. Caio si fece uccidere nel 121 a.C da un suo schiavo prima di essere preso. Negli anni successivi la riforma agraria fu smantellata: • I lotti attribuiti vennero dichiarati alienabili (trasferibili/vendibili) e pian piano tornarono nelle mani dei più ricchi; • le terre non vennero più riassegnate; • viene abolita la commissione agraria. Infine, le giurie permanenti per i processi di concussione tornarono nelle mani dei senatori. Provincie, espansionismo e nuovi mercati: Asia, Gallia, Baleari, Dalmazia danubia Prima del 133 a.C Roma aveva dedotto 6 provincie: Sicilia, Sardegna, Corsica, Spagna Citeriore, Spagna Ulteriore, Macedonia e Africa. Si ricorda che la deduzione di una provincia è più un atto di guerra che di annessione: Roma assumeva la gestione diretta di un territorio talora solo in piccola parte assoggettato e larghe zone del quale erano comunque ancora al di fuori del suo controllo, spesso perfino di una sua presenza. I magistrati romani di solito preparavano una sorta di prospetto ufficiale che descriveva gli ambiti geografici, gli statuti, gli obblighi, la condizione giuridica e fiscale delle singole comunità della provincia. 42 Le nuove provincie romane: 1. Pergamo e la provincia romana d’Asia: Nel 133 il re di Pergamo Attalo III lascia il suo regno ai romani che, dove aver sconfitto il tentativo di rivolta di un probabile partente di Attalo (Aristonico) che voleva il regno per sé, riorganizzano i territori lasciati da Attalo imponendo definitivamente il loro dominio nella Penisola Anatolica. La provincia romana d’Asia era quindi formata da: Misia, Troade (l’Ellesponto cioè l’attuale stretto dei Dardanelli era ormai tutto romano), parte sud della Frigia e probabilmente una porzione della Caria. 2. La fondazione della provincia narbonese: I romani risposero alla richiesta d’aiuto dell’alleata Marsiglia contro le tribù celto-liguri e galliche e, dopo aver ristabilito l’ordine, fondarono la colonia di Aquae Sextiae controllando così una zona della gallia meridionale. Inoltre nel 118 a.C fu dedotta la città di Narbona che era attraversata dalla via Domizia (congiungeva Italia e Spagna) e si posero così le basi per la nuova provincia narbonese. 3. La conquista delle Baleari: assoggettate nel 123 a.C, a Maiorca vengono fondate due importanti colonie romane (Palma e Pollenzia). Infine, vengono portate avanti varie campagne militari contro le tribù illiriche della Dalmazia danubiana. I commercianti italici e l’Africa; Giugurta e Caio Mario La prospera provincia romana d’Africa (fondata da Scipione l’Emiliano) aveva sempre avuto buoni rapporti con il vicinato. Soprattutto con i re di Numidia (prima Massinissa e poi il figlio Macipsa) con la loro politica filoromana avevano attirato in Africa molti commercianti e uomini d’affari romani (la Numidia era ricca di grano e olio). Alla morte di Micipsa nel 118 a.C, però, iniziò una contesa del regno numidico da parte dei suoi 3 eredi principali. Il più spregiudicato dei 3, Giugurta, si sbarazzò subito di un contendente e l’altro (Aderbale) fu costretto a chiedere aiuto a Roma. Il senato romano decise di assegnare la parte orientale della Numidia a Aderbale e quella occidentale a Giugurta. 45 rivendicavano la cittadinanza romana che garantiva ampi vantaggi. Chi non la aveva non riceveva le distribuzioni agrarie e frumentarie, non aveva parte alcuna nelle decisioni politiche, militari ed economiche ed era relegato ai ranghi più bassi dell’esercito. Dopo l’assassinio di Druso, gli Italici decisero che l’unico modo per far valere le loro rivendicazione era la rivolta armata (comunemente chiamata guerra sociale, cioè dei socii, degli alleati italici). Le ostilità partirono da Ascoli dove nel 90 a.C venne massacrato un pretore e tutti i romani residenti nella città. Ben presto l’insurrezione si estese e vi aderirono molti popoli italici che scelsero come capitale comune Corfinium nel Sannio. Popoli insorti Popoli che non aderiscono alle ostilità • Sul versante adriatico: Piceni, Vestini, Marrucini e Frentani • Nell’appennino centrale: Marsi e Peligni • Nell’appennino meridionale: Sanniti, Irpini e Lucani • In seguito, si aggiungono Apuli e Campani • Etruschi e Umbri • Le città latine • Le città della Magna Grecia I romani schierarono le loro forze migliori e i due consoli si spartirono le aree a nord e sud del Sannio. A nord il console Publio Rutilio Lupo aveva come legato Cneo Pompeo Strabone (padre del futuro Pompeo Magno). A sud l’altro console Lucio Giulio Cesare aveva some suo luogotenente Lucio Cornelio Silla. Sia i romani sia gli italici ottennero vittorie, ma l’incerto andamento delle operazioni portò Roma, già nel 90 a.C, ad optare per una soluzione politica del conflitto (per evitarne l’estensione). Vennero approvate varie proposte: - La lex Iulia de civitate (90 a.C) proposta Lucio Giulio Cesare concedeva la cittadinanza romana agli alleati rimasti fedeli (quelli che non hanno aderito al conflitto) e alle comunità che avessero deposto le armi rapidamente. - La lex Plautia Papira (dai nomi dei tribuni della plebe che la proposero) nell’89 a.C, estendeva la cittadinanza romana a quanti degli Italici si fossero registrati presso il pretore di Roma entro 60 giorni. - La lex Pompeia (dal nome di Cneo Pompeo Strabone divenuto console nell’89) che attribuiva il diritto latino (ius Latii) agli abitanti dei centri urbani della regione a nord del Po (la Transpadana). 46 Queste risoluzioni non bastarono a cessare le rivolte. Ma, importanti successi romani furono la vittoria ad Ascoli di Ceneo Pompeo Strabone (sotto cui prestava servizio il giovane figlio Cneo Pompeo, insieme ai giovani Catilina e Cicerone) e la riconquista della maggior parte del Sannio e dalla Campania nonché l’assedio di Nola (ultima roccaforte degli italici) nell’88 a.C da parte di Lucio Cornelio Silla. Con la concessione della cittadinanza a tutta l'Italia fino alla Transpadana si inaugurava sia un processo di unificazione politica dell’Italia sia una nuova fase della storia delle istituzioni di Roma. Le aristocrazie italiche erano riuscite a fondare i presupposti per un loro accesso alle magistrature e un successivo ingresso in senato. Per esercitare i loro diritti i neocittadini dovevano assolutamente recarsi a Roma che era sempre più una metropoli cosmopolita. Capitolo 2: I primi grandi scontri tra fazioni in armi Mitridate VI Eupatore Approfittando della guerra sociale, il re del Ponto Mitridate VI Eupatore era riuscito a stabilire accordi con la vicina Bitinia per dividersi le zone limitrofe di Paflagonia e Galazia (protettorati romani che Roma non voleva si unificassero perché avrebbero minacciato la provincia romana d’Asia 47 in Anatolia). Dopo che Mitridate fece invadere la Cappadocia dal re d’Armenia Tigrane (suo genero) e spodestò dalla Bitinia il nuovo re Nicomede IV, Roma decise di intervenire (90 a.C). Venne inviata una oriente una delegazione con l’incarico di rimettere sul trono di Bitinia e Cappadocia i rispettivi sovrani. Inoltre, la commissione lasciò che Nicomede IV conducesse scorrerie nel Ponto. Mitridate si ritenne vittima di un’ingiustizia e sfruttò l’occasione per proporsi (attraverso un’abile campagna propagandistica) al mondo greco come sovrano filelleno, protettore delle autonomie locali e vendicatore dei soprusi. Gran parte del mondo greco (ad eccezione di Rodi) si alleò con Mitridate, anche Atene e Delo (caposaldo del commercio romano in oriente). In Cappadocia le forze romane vennero travolte e più di 80.000 tra romani e italici vennero sterminati. Nell’88 a.C l’esercito pontico invadeva la Grecia centrale ottenendo l’adesione della Beozia, di Sparta e del Peloponneso e una flotta veleggiava verso l’Attica. Era iniziata la guerra mitridatica e Roma decise di affidarla al console Lucio Cornelio Silla che però era impegnato nell’assedio di Nola (guerra sociale). Il tribunato di Publio Sulpicio Rufo e il ritorno di Mario; Silla marcia su Roma Mentre Silla si adoperava per concludere le operazioni a Nola, a Roma era tribuno della plebe un suo avversario: Publio Sulpicio Rufo. Visto che le varie guerre (sociale e mitridatica) stavano impoverendo moltissimo Roma e i suoi cittadini, Sulpicio propose una serie di provvedimenti: • L’inserimento dei cittadini italici in tutte e 35 le tribù > inizialmente erano stati inseriti in un numero limitato di tribù per limitare il loro potere all’interno dei comizi tribuni > nei comizi tribuni si votava per tribù (un voto a tribù) ed in questo modo i neocittadini avrebbero influenzato solo il voto di alcune tribù. • Un limite massimo si indebitamento per i senatori oltre il quale venivano espulsi dal senato (le guerre avevano portato moltissimi problemi di debiti). Inoltre, Sulpicio fece approvare il trasferimento del comando della guerra contro Mitridate da Silla a Mario! Silla non esitò a marciare su Roma (prima marcia su Roma) con il suo esercito. Erano così 50 Compiuta la riorganizzazione dello Stato, Silla abdicò dalla dittatura e si ritirò a vita privata in Campania, dove morì nel 79 a.C. Il tentativo di riforma antisillana di Marco Emilio Lepido Già nel 78 a.C uno dei consoli Marco Emilio Lepido tentò di ridimensionare l’ordinamento sillano, ma i suoi progetti furono fortemente ostacolati a Roma. Questo, però, suscitò una rivolta in Etruria dove più pesanti erano state le espropriazioni di terreno. Lepido fece causa comune con i ribelli e marciò su Roma reclamando un nuovo consolato e la restituzione dei poteri ai tribuni della plebe. Il senato, ancora una volta, proclamò il senatus consultum ultimum e, poiché non si erano ancora tenute le elezioni consolari, venne conferito eccezionalmente a Pompeo l’imperium. Pompeo stroncò rapidamente la rivolta. L’ultima resistenza mariana: Sertorio Quinto Sertorio si era distinto tra le file mariane nella guerra sociale e in quella contro Cimbri e Teutoni e a lui era sato assegnato il governo della Spagna Citeriore. Qui aveva creato una sorta di stato mariano in esilio coagulando altri ribelli della sua fazione, Romani e Italici risiedenti in Spagna e parte delle popolazioni indigene. Già Silla aveva provato a rompere il suo potere più di una volta, ma senza successo. Inoltre, nel 77 a.C si unirono alle sue fila le truppe superstiti di Lepido comandate da Marco Perperna. Sertorio oramai controllava tutta la penisola iberica e Roma, sentendosi minacciata, decise di intervenire. Nel 76 venne conferito a Pompeo un nuovo imperium straordinario con l’incarico di sconfiggere Sertorio. Pompeo dopo alcune sconfitte iniziale, riuscì a vincere nel 71 a.C anche grazie al gesto di Perperna che assassinò a tradimento Sertorio (Perperna fu a sua volta giustiziato da Pompeo). La rivolta servile di Spartaco Nel 73 a.C era scoppiata la terza grade ricolta servile (dopo e due siciliane). La scintilla era scoccata in una scuola per gladiatori a Capua. Una settantina di Gladiatori si erano asserragliati sul Vesuvio dove furono raggiunti da molti altri gladiatori, schiavi, uomini liberi ridotti in miseria, espropriati… La rivolta, capeggiata dai due gladiatori Spartaco e Crisso, si estese rapidamente in tutto il sud Italia e i ribelli riuscirono, per un certo periodo, a tener in scacco alcuni pretori ed i due consoli del 72 a.C inviati contro di loro. Il senato allora deciso di affidare le operazioni all’allora pretore Marco Licinio Crasso che sconfisse pesantemente i ribelli in Lucania nel 71 (negli scontri morì anche Spartaco). Migliaia di prigionieri furono fatti crocifiggere da Crasso lungo la via Appia tra Roma e Capua. I superstiti tentarono di scappare verso nord, ma furono annientati da Pompeo di ritorno dalla Spagna. Il consolato di Pompeo e Crasso e lo smantellamento dell’ordinamento sillano (70 a.C) Pompeo e Crasso furono eletti entrambi consoli nel 70 e progressivamente smantellarono l’ordinamento sillano: • Ripristinarono le distribuzioni a prezzo politico del grano; 51 • Restituirono i pieni poteri ai tribuni della plebe (potevano proporre leggi all’assemblea popolare e opporre il veto ad iniziative di altri magistrati); • Furono eletti, dopo un intervallo di 15 anni, i censori che epurano il senato di vari membri giudicati indegni. Infine, nel 75 a.C, il pretore Lucio Aurelio Cotta toglie ai soli senatori la gestione delle giurie dei tribunali permanenti, che furono ripartite in proporzioni uguali tra senatori, cavalieri e tribuni aerarii (categoria mal conosciuta vicina ai cavalieri). Negli stessi anni stava emergendo la figura di Marco Tullio Cicerone che aveva condotto l’accusa per malversazione contro il propretore della Sicilia Verre, denunciando più in generale il malgoverno senatorio delle provincie. Pompeo in oriente; operazioni contro i pirati; nuova guerra mitridatica Negli anni tra l’80 e il 70 a.C in Oriente erano riemerse due gravi minacce: i pirati e Mitridate. I pirati avevano ulteriormente consolidato le loro basi lungo le coste africane, dell’Asia Minore e di Creta e minacciavano i commerci di Roma. I Romani per contrastarli rafforzarono il loro controllo sulla Cilicia ed espugnarono molte roccaforti piratiche nell’Isauria. Dopo la creazione della provincia romana di Cirenaica (di cui si dirà in seguito), si sfruttò la regione come base per attaccare la pirateria cretese. Creta fu riconquistata e divenne provincia romana tra il 69-67 a.C. Nel 67 il tribuno della plebe Aulo Gabinio propose di propose di assumere misure drastiche contro i pirati che minacciavano le forniture di grano a Roma e propose di conferire a Pompeo l’imperium infinitum su tutto il mediterraneo. Anche se i senatori si opposero, l’imperium fu approvato e Pompeo cacciò rapidamente i pirati da tutto il mediterraneo occidentale, sconfiggendoli definitivamente in Cilicia. Intanto nel 74 era morto il re di Bitinia Nicomede IV e aveva lasciato il suo regno ai romani che così si erano garantiti uno sbocco sul Mar Nero. Preoccupato per questa ulteriore espansione romana, Mitridate decise di invadere la Bitinia nel 74 a.C, iniziando la terza guerra mitridatica. L’essenziale delle operazioni contro di lui furono condotte dal console Lucio Licinio Lucullo che, sgomberata la Bitinia, occupò il Ponto, costringendo Mitridate a rifugiarsi in Armenia presso suo genero Tigrane. Lucullo invase l’Armenia e conquistò la nuova capitale Tigranocerta nel 69 a.C. Lucullo avrebbe voluto continuare la sua opera di conquista, ma fu bloccato da un duplice malcontento: - I suoi soldati stremati si rifiutarono di proseguire - I finanzieri romani, sdegnati dai provvedimenti da lui assunti per alleviare la situazione economica d’Asia, fecero pressioni perché fosse destituito. Lucullo perse progressivamente i suoi poteri e nel 66 a.C il tribuno della plebe Caio Manilio, propose di affidare a Pompeo anche la guerra contro Mitridate (a favore di Pompeo si espresse anche Cicerone in una sua famosa orazione). Pompeo portò avanti una serie di operazioni: 1. Convinse il re dei Parti a tener occupato Tigrane che non avrebbe così potuto correre in aiuto del suocero; 2. Marciò indisturbato verso il Ponto e nel 66 costrinse Mitridate alla fuga a nord nelle zone dell’attuale Crimea, dove si fece uccidere nel 63 a.C per non cadere in mani nemiche. 52 3. Pompeo lasciò a Tigrane il trono d’Armenia, ma lo privò della Siria che, dopo che Pompeo ebbe esautorato definitivamente gli ultimi esponenti seleucidi, divenne una provincia romana nel 64 a.C. 4. Poi passo in Palestina dove s’impadronì di Gerusalemme e del suo tempio e dovo creò uno stato autonomo aggregato a quello si Siria. 5. Infine, Pompeo, riorganizzò le sue conquiste delle coste occidentali dell’Asia Minore fino al fiume Eufrate (al di là c’era il regno dei Parti); 6. Riunì la Bitinia e il Ponto in un’unica provincia; 7. Ampliò la Cilicia fino ai confini siriani; 8. Regolò i rapporti con i re vassalli e le città libere; 9. Tornò a Roma nel 62 a.C carico di gloria e bottina e gli venne immediatamente decretato il trionfo! Il consolato di Cicerone e la congiura di Catilina Durante l’assenza di Pompeo a Roma di era verificata una grave situazione causata soprattutto dall’operato di Lucio Sergio Catilina (discendente di una famiglia aristocratica deceduta). Catilina aveva cercato, spendendo ingenti somme di denaro e proponendo varie riforme, di ottenere il consolato per ben 3 volte (65,63,62 a.C), ma non fu mai eletto. Mise allora in atto un’ampia cospirazione concentrando in Etruria un esercito prevalentemente composto di veterani sillani. Ma il suo piano fu scoperto dall’allora console Cicerone. Marco Tullio Cicerone era un homo novus sostenitore di Pompeo, che, eletto console nel 63, aveva già denunciato durante la sua campagna elettorale la corruzione e le collusioni politiche di Catilina. Cicerone indusse il senato a convocare il senatus consultum ultimum e con un attacco durissimo (Prima Catilinaria) costrinse Catilina ad allontanarsi da Roma. Cicerone, usando come prove alcune lettere, potò arrestare 5 fra i capi della cospirazione e il senato (capeggiato dal Parco Porcio Catone che sarà detto l’Uticense e che era il pronipote di Catone il Censore) si pronunziò per la pena di morte. Anche Catilina morì durante un ultimo valoroso combattimento contro l’esercito consolare a Pistoia. Cicerone si vantò per tutta la vita di aver salvato la patria da un pericolo mortale. Cirenaica; Egitto e Cipro 55 Quando Cesare arrivo in Gallia nel 58 a.C: 1. Era in atto una migrazione di Elvezi (stanziati nell’attuale Svizzera) verso le terre degli Edui e forse anche verso la provincia Narbonese. Cesare li sconfisse a Bibracte nel 58 costringendoli a tornare nei loro territori. Cominciava così la lunga conquista cesariana della Gallia. 2. Un gruppo di Svevi condotti da Ariovisto aveva oltrepassato il Reno per aiutare i Sequani contro gli Equi che si erano appellati ai romani. Dopo un primo accordo trovato con Cesare e un ritorno degli Svevi oltre il Reno, Ariovisto, però, ripresa la migrazione verso l’Alsazia (territorio dove stanziavano Sequani ed Equi) e qui fu sconfitto da Cesare Mulhouse sempre nel 58. 3. Dopo la campagna contro gli Svevi Cesare tornò in Cisalpina, ma lasciando le sue truppe accampate a Vesonzio. La presenza romana in Gallia centrale preoccupò i Belgi che, nonostante avessero dispiegato un gran numero di forze, furono a loro volta sconfitti da Cesare nel 57 a.C. 4. Sempre nel 57 un legato di Cesare aveva sottomesso varie tribù in Normandia e Bretagna. I successi di Cesare furono dovuti in larga misura alla disunione delle popolazioni galliche che non riuscivano a condurre azioni unitarie, ma anche alle capacità militari di Cesare al ruolo sempre attivo ed in prima linea che si assumeva e che infondeva coraggio ai suoi soldati. Gli accordi di Lucca Finito il suo tribunato, Clodio continuò ad usare le sue bande per creare scompiglio a Roma ed uno dei suoi bersagli preferiti divenne proprio Pompeo. Quest’ultimo, infatti, pentitosi di non aver fatto niente per evitare l’esilio di Cicerone e preoccupato dei grandi successi di Cesare, decise di far tornare l’oratore (Cicerone) in città nel 57. Cicerone e i consoli di quell’anno decisero di affidare a Pompeo poteri straordinarie per 5 anni perché potesse provvedere all’approvvigionamento della città (cura annonae di Roma): tale mandato fu necessario perché la popolazione di Roma era almeno raddoppiata nell’ultimo anno e le richieste di distribuzioni frumentarie erano sempre più numerose. Mentre Pompeo aumentava la sua popolarità svolgendo egregiamente i suoi compiti; il proconsolato di Cesare era minacciato da un candidato alle elezioni consolari che minacciava, in caso di sua elezione, di revocarlo. Così Cesare si riunì a Lucca nell’aprile del 56 a.C con Crasso e Pompeo dove venne ideato un nuovo progetto (gli accordi di Lucca) che si realizzò proprio come i 3 lo avevano pensato: • Cesare governatore di Gallia per altri 5 anni con un aumento a 10 del numero di legioni che aveva a disposizione; • Grazie all’azione dei loro partigiani, Pompeo e Crasso sarebbero stati eletti consoli nel 55 a.C; • Dopo in consolato, Pompeo sarebbe stato per 5 anni proconsole delle due Spagne e Crasso della Siria. 56 La prosecuzione della conquista della Gallia Cesate, tornato in Gallia, proseguì la sua opera di conquista (tutta la numerazione delle varie campagne militari è indicata nella cartina sopra riportata): 5. Trovò la Bretagna in aperta rivolta, ma, grazie ad un’armata di piccoli e leggeri battelli che fece costruire sulla Loira (il suo legato Decimo Bruto aveva dotato le imbarcazioni di lunghi pali con uncini taglienti alle estremità per recidere le imbarcazioni nemiche, facendole così rallentare e poi abbordandole) e alle sue legioni, ebbe la meglio sia sui poderosi vascelli oceanici sia in terraferma. 6. Nel 55 a.C Cesare annientò, alla confluenza tra la Mosella e il Reno, le tribù germaniche di Usipeti e Tencteri. 7. Nel 54, portò avanti una campagna militare in Britannia arrivando a raggiungere il Tamigi e sottomettendo varie tribù lungo la costa. 8. Il momento di difficoltà per Cesare arrivo quando nel 52 a.C nella Gallia centro-occidentale il re degli Arverni Vercingetorige si sollevò contro i romani invadendo il territorio compreso tra la Loira e la Garonna e sterminando romani e italici presenti residenti a Cenabum. Cesare assediò il grande centro fortificato di Gergovia, ma fu respinto e costretto a dirigersi verso nord per raggiungere un suo legato Tito Labieno che aveva sconfitto alcune tribù nella zona dell’attuale Parigi. I due si misero a inseguire Vercingetorige che, rifiutando ogni battaglia campale, si rinchiuse nella piazzaforte di Alesia. Dopo lunghi e durissimi scontri la piazzaforte fu costretta a capitolare e Vercingetorige fu inviato prigioniero a Roma dove, sei anni dopo (nel 46), fu fatto sfilare davanti al carro trionfale di Cesare e poi decapitato ai piedi del Campidoglio. Frantumati nel corso del 51 a.C gli ultimi centri di resistenza in Gallia, Cesare, senza aspettare indicazioni dal senato, cominciò a dare un primo ordine alla nuova provincia (la Gallia Comata). Crasso e i Parti Giunto in Siria nel 54, Crasso aveva cercato di inserirsi nella contesa dinastica allora in atto nel regno dei Parti. Non si era, però, sufficientemente informato sui luoghi e sul modo di combattere dei nemici ed aveva perciò subito nel 53 a.C una delle più disastrose sconfitte della storia di Roma presso la città di Carre nella Mesopotamia nord-occidentale. Mentre si ritirava, Crasso fu preso e ucciso. Vendicare la sconfitta contro i Parti sarebbe divenuto un imperativo della politica romana tardo- repubblicana. Pompeo console unico; Guerra civile tra Cesare e Pompeo Finito il suo consolato nel 55, Pompeo era rimasto a Roma, lasciando amministrare le sue provincie a luogotenenti. Per ragioni difficili a cogliersi in tutte le loro sfumature, Pompeo iniziò ad accostarsi in misura sempre più accentuata alla fazione ottimate più accesamente anticesariana. Intanto nel 54-53 a.C il caos politico e l’anarchia vessavano Roma: sulla via Appia si scontravano le bande di Clodio che aspirava alla pretura e quelle di Milone candidato al consolato (Clodio rimase ucciso). Per evitare la disgregazione dell’ordine costituito, Pompeo venne eletto console senza collega e fece 57 subito votare delle leggi repressive in materia di violenza e di broglio elettorale. Frattanto Cesare, che era stato via da Roma dal 58, era sempre più aspramente accusato dai suoi nemici per il modo e il metodo con cui aveva condotto la guerra. Inoltre, mentre i suoi avversari sostenevano che il suo proconsolato in Gallia sarebbe dovuto finire nel 50, Cesare voleva l’estensione del suo comando per tutto il 49 per poi potersi candidare al consolato del 48 a.C. “in assenza” (nel 52 i tribuni della plebe avevano concesso a Cesare di poter presentare la sua candidatura anche se assente da Roma). Nel 50 a.C., per cercare di placare le contese interpretative e gli scontri tra Cesare e i suoi avversari politici, il tribuno della plebe Caio Scribonio Curione propose di abolire contemporaneamente tutti i comandi straordinari sia quelli di Cesare sia quelli di Pompeo. Il senato si dischiarò favorevole. In quegli anni, anche Cicerone nei suoi scritti (De repuclica/De legibus) aveva sottolineato la necessità di pacificazione dei contrasti dissolutori della convivenza civile. Nel 49 a.C. Cesare scrisse una lettera al senato in cui si dichiarava disposto a deporre le sue cariche se lo avesse fatto anche Pompeo, ma i suoi avversari riuscirono a convincere il senato che solo Cesare avrebbe dovuto farlo. Due tribuni della plebe minacciarono il veto alla risoluzione e perciò il senato decise di votare il senatus consultum ultimum affidando ai consoli e a Pompeo il compito di difendere lo stato e nominò i successori di Cesare che avrebbero dovuto governare le sue provincie. Appresa questa decisione, Cesare varcò in armi il torrente Rubicone che sagnava il confine tra la Gallia Cisalpina e il territorio civico di Roma, dando così inizio (nel 49 a.C.) alla guerra civile. Pompeo con i consoli e buona parte dei senatori lasciò Roma e riuscì ad imbarcarsi per la Grecia, dove voleva bloccare con le sue flotte i rifornimenti all’Italia e progettare, con l’aiuto delle provincie a lui fedeli, la rivalsa contro Cesare. Quest’ultimo, dopo aver sistemato alcuni affari a Roma, iniziò la sua campagna militare contro i pompeiani: 1. Per prima cosa, Cesare assediò le città neutrale di Marsiglia e poi sconfisse gli eserciti dei pompeiani spagnoli a Ilerda nel 49 a.C. Poi tornò a Roma dove per pochissimo tempo rivestì la carica di dittatore al solo scopo di convocare i comizi elettorali, che lo elessero console per il successivo anno (48 a.C.). 2. Pompeo aveva stabilito il suo quartier generale in Tessalonica e Cesare, dopo aver attraversato in pieno inverno (gennaio 48) l’Adriatico con 7 legioni e preso d’assedio Durazzo (dove però fu respinto), si diresse verso la Tessaglia. Qui avvenne lo scontro decisivo e Pompeo fu sconfitto a Farsalo nell’agosto del 48 a.C. Pompeo cercò di rifugiarsi presso i figli del sovrano d’Egitto Tolomeo XII Aulete che egli aveva aiutato insieme a Cesare (nel 59) a recuperare il suo regno. Ma in Egitto era in corso una contesa dinastica tra i figli dell’Aulete (Tolomeo XIII e sua sorella maggiore Cleopatra VII) e i consiglieri del re, ritenendo compromettente ospitare Pompeo, lo fecero uccidere appena sbarcato (sempre nel 48 a.C). 3. Anche Cesare andò in Egitto risoluto a dirimere le lotte dinastiche e ad assicurarsi l’appoggio di un territorio ricchissimo (soprattutto di grano). Tra il 48 e il 47 a.C. fu assediato dai partigiani di Tolomeo XIII ad Alessandria, ma, dopo aver ricevuto rinforzi, lo sconfisse e il sovrano morì nel Nilo. Cleopatra fu confermata regina e poco dopo diede alla luce un figlio di Cesare. 4. Nel 47 a.C Cesare sconfisse a Zela il re del Ponto Farnace (figlio di Mitridate) che voleva recuperare i territori perduti dal padre. 60 abbienti, in parte in Italia, ma soprattutto nelle provincie (Spagna, Gallia, Africa, Grecia, Asia, Sicilia e Sardegna); - Un’ampia ristrutturazione urbanistica e una serie di lavori pubblici (che diedero lavoro a molte persone) migliorarono l’aspetto di Roma; - Con la lex Iulia municipalis furono riordinate e raccordate le norme di governo e di amministrazione pubblica dei municipi e di Roma; - Venne riformato il calendario civile (che era in ritardo di quasi 3 mesi rispetto a quello astronomico). Questo calendario, con le modificazioni introdotte da papa Gregorio XIII nel 1582, regola ancora oggi l’alternanza tra anni ordinari e bisestili. Le idi di marzo L’eccessiva concentrazione di poteri nelle mani di Cesare insieme a suoi taluni atteggiamenti che facevano pensare a una sua inclinazione verso la regalità, fecero allarmare non solo ex pompeiani e senatori e cavalieri colpiti nei loro interessi, ma anche alcuni sostenitori di Cesare. Ad aumentare l’allarmismo fu oracolo messo in giro a Roma nel 44 (quando Cesare stava preparando una campagna militare per vendicare la sconfitta di Pompeo sui Parti e riprendersi il dominio sull’Asia) che sosteneva che il regno dei Parti potesse essere sconfitto solo da un re. Le voci e i sospetti inerenti alle aspirazioni monarchiche di Cesare aumentarono e contro di lui fu ordina una congiura. Alle idi di Marzo (15 marzo del 44 a.C.) egli fu ucciso nel Campo Marzio dai pugnali dei congiurati (Marco Giunio Bruto, Caio Cassio Longino e Decimo Bruto), alcuni dei quali erano suoi alleati. Svetonio racconta che Cesare morì sotto i colpi di ventitré pugnalate, avvolgendosi compostamente la tunica addosso ed "emettendo un solo gemito al primo colpo, senza una parola". Poi aggiunge: "alcuni però hanno raccontato che, a Bruto (non si sa bene quale Bruto) egli disse anche tu, figlio!". Da qui poi nasce la traduzione più poetica (ma anche la più conosciuta): Tū quoque, Brūte, fīlī mī! ("Anche tu Bruto, figlio mio!"). La parola figlio è da intendersi come persona cara a Cesare. Capitolo 4: Agonia della Repubblica L’eredità di Cesare; la guerra di Modena I cesaricidi non si erano preoccupati di eliminare anche i più stretti collaboratori di Cesare tra cui Marco Emilio Lepido (aveva fatto nominare Cesare dittatore ed era stato console) e Marco Antonio che era console insieme a Cesare nel 44. Antonio riuscì a imporre una politica di compromesso: - L’amnistia per i congiurati e la concessione delle province che gli erano destinate (Decimo Bruto doveva ricevere la Gallia Cisalpina); - L’abolizione della dittatura dalle cariche dello Sato; - La convalida degli atti del defunto dittatore e il consenso ai funerali di Stato che furono trasformati in una grandiosa manifestazione di furore popolare tanto che i cesaricidi preferirono mettersi in salvo abbandonando Roma. 61 - L’assegnazione ad Antonio della Macedonia e all’altro console (Publio Cornelio Dolabella) della Siria. Nel frattempo, si lesse il testamento di Cesare e si scoprì che aveva nominato suo pronipote Caio Ottavio (aveva solo 19 anni) come figlio adottivo ed erede effettivo per i 3/4 dei suoi beni. Ottavio, che si trovava in Oriente pronto a iniziare la campagna partica, rientrò subito a Roma, dove, nonostante l’opposizione di Antonio, rivendicò la sua eredità ed onorò la memoria di Cesare promettendo di vendicare la sua uccisione. I cesariani, ma anche buona parte del senato (tra cui Cicerone) cominciarono a scorgere in lui un mezzo per arginare lo strapotere di Antonio. Quest’ultimo, scaduto il suo consolato, per controllare meglio l’Italia si era fatto assegnare dai comizi al posto della Macedonia la Gallia Cisalpina e Comata. Decimo, però, si rifiutò di concedergli la Cisalpina e si rifugiò a Modena assediato da Antonio. Iniziò così la cosiddetta guerra di Modena (43 a.C.): il senato ordinò ai due consoli di correre in soccorso di Bruto, entrambi i consoli morirono, ma Antonio fu battuto e costretto a ritirarsi verso la Narbonese. Il triumvirato costituente (cosiddetto secondo triumvirato); le proscrizioni; Filippi I consoli erano morti e Ottavio chiese per sé il consolato, ma il senato rifiutò. Allora nel 43 Ottavio marciò su Roma ottenendo il consolato e fregiandosi del nome di Caio Giulio Cesare. Fatto annullare il provvedimento senatorio che dichiarava Antonio nemico pubblico, nel 43 a.C. Ottaviano, Antonio e Lepido si incontrarono nei pressi di Bologna dove stipularono un accordo fatto sancire da una legge votata dai comizi tribuni (lex Titia). Con essa veniva istituito un triumvirato rei publicae constituendae per la durata di 5 anni (fino alla fine del 38 a.C.): i tre potevano convocare il senato e il popolo, promulgare editti e designare i candidati alle magistrature. Inoltre, ad Antonio venne confermato il governo delle Gallie Cisalpina e Comata; a Lepido della Gallia Narbonese e delle due Spagne e ad Ottaviano l’Africa e la Sicilia, la Sardegna e la Corsica. Le 3 isole erano minacciate dal figlio di Pompeo Sesto Pompeo a cui, dopo Modena, era stato conferito il comando delle forze navali che, però, egli ormai gestiva in proprio minacciando addirittura i commerci tra Roma e l’esterno. I triumviri reintrodussero le liste di proscrizione con i nomi degli assassini di Cesare e dei loro nemici: centinaia di senatori e cavalieri furono uccisi (tra loro anche Cicerone) e confiscati i loro beni. Rimpolpate le loro finanze, i tre volsero lo sguardo a Oriente dove i cesaricidi Bruto e Cassio si erano costruiti una solida base di potere. Riunito un grande esercito, Ottaviano e Antonio lasciarono Roma e si diressero in Macedonia dove a Filippi nell’ottobre del 42 a.C. sconfissero definitivamente Bruto e Cassio che si suicidarono. Le proscrizioni e le varie guerre avevano decimato l’opposizione senatoria e molte famiglie dell’antica aristocrazia vennero dissolte. Si creò una nuova aristocrazia, fatta di uomini fedeli ai triumviri e di membri delle classi dirigenti municipali italiche, che non possedeva né la stessa autorità né lo stesso prestigio di quella antica. Anche i più ricchi e influenti esponenti delle comunità locali furono epurati e sostituiti con seguaci dei triumviri spesso provenienti dall’esercito. Mutava così radicalmente la composizione e la mentalità delle élite di governo (assai più inclini a rapporti di dipendenza politica e personale), che costituì la premessa indispensabile dell’evoluzione dalla repubblica al regime imperiale. 62 Consolidamento di Ottaviano in Occidente; la guerra di Perugia; Sesto Pompeo; gli accordi di Brindisi, Miseno e Taranto; Nauloco Dallo scontro con i cesaricidi usciva particolarmente forte Antonio che si riservò il comando sulle Gallie e su tutto l’Oriente. A Lepido fu assegnata l’Africa e a Ottaviano le Spagne e gli ardui compiti di vedersela con Sesto Pompeo (che aveva preso la Sicilia e a cui si erano uniti i superstiti delle proscrizioni e di Filippi) e di assegnare le terre ai veterani delle legioni. Quest’ultimo compito si rivelò particolarmente difficile perché, essendo finito l’agro pubblico, Ottaviano dovette far espropriare alcuni fra i piccoli e medi proprietari terrieri. Quest’ultimi si ribellarono (sostenuti dalla moglie e dal fratello di Antonio) e Ottaviano fu costretto ad affrontarli (avendo la meglio) nella guerra di Perugia (41-40 a.C.). Molti dei superstiti fuggirono a infoltire le fila di Sesto Pompeo che nel frattempo aveva conquistato anche la Sardegna e la Corsica. Ottaviano, preoccupato che Antonio potesse allearsi con Sesto, decise di sposare una parente di quest’ultimo. Preoccupato da questo nuovo legame di parentale Antonio riuscì a vedersi con Ottaviano a Brindisi dove stipularono un accordo nel 40 a.C.: a Ottaviano veniva assegnato l’Occidente (esclusa l’Africa riservata a Lepido) e ad Antonio l’Oriente. Sesto Pompeo rimase profondamento deluso di non essere stato considerato in questi accordi e iniziò a bloccare con le sue navi le forniture di grano verso Roma creando gravi malcontenti nella città. Antonio, allora, si incontrò nuovamente con Ottaviano a Miseno dove nel 39 a.C. venne firmato un nuovo accordo: Ottaviano concedeva a Sesto Sicilia, Sardegna e Corsica e Antonio gli dava il Peloponneso. L’equilibrio durò tuttavia poco, perché nei fatti Antonio si rifiutava di consegnare il Peloponneso a Sesto che, per protesta, riprese le scorrerie e il taglio dei viveri contro l’Italia. A questo punto anche Ottaviano decise di riprendersi la Sicilia (la Sardegna e la Corsica gli erano già state consegnate da un suo luogotenente), ma, dopo un’iniziale sconfitta, fu costretto nuovamente a chiedere il supporto di Antonio. I due strinsero un nuovo accordo a Taranto nel 37 a.C.: Ottaviano avrebbe ricevuto 120 navi per la guerra contro Sesto ed in cambio promise ad Antonio 20.000 legionari per la sua campagna partica; inoltre fu rinnovato per altri 5 anni il triumvirato (fino al 32 a.C.). Nel frattempo, Marco Vipsanio Agrippa, console nel 37 e amico di Ottaviano, con una considerevole opera di ingegneria, aveva fatto collegare i laghi Averno e Lucrino al mare, costruendo così un porto militare presso Pozzuoli. Qui aveva riunito e addestrato una grande flotta. Nel 36 a.C. Agrippa inferse a Sesto una duplice definitiva sconfitta lungo la costa settentrionale della Sicilia (a Milazzo e a Nauloco). Sesto Pompeo fuggi in Oriente dove venne ucciso l’anno dopo. Lepido che aveva preso parte alle operazioni insieme ad Ottaviano rivendicò il possesso della Sicilia, ma le sue truppe lo abbandonarono e Ottaviano lo dichiarò decaduto dai suoi poteri di triumviro (si ritirerà in una villa sul Circeo dove morirà nel 12 a.C.). Ottaviano, ripresosi la Sicilia, tornò a Roma dove fu ricolmato di onori (tra essi l’inviolabilità propria dei tribuni). Antonio in Oriente Dopo la battaglia di Filippi, Antonio concentrò molte delle sue attenzioni sull’Oriente dove si preoccupò di procurarsi alleanze con re e principi orientali. Per esempio, tra il 41 e il 40 a.C. trascorse del tempo alla corte di Cleopatra VII e con lei ebbe 2 gemelli. Nel 40 a.C. i Parti invasero la Siria e, dopo aver travolto i governatori antoniani, dilagarono in Asia Minore e in Giudea, ma Antonio non poté intervenire perché si trovava in Italia per stipulare l’accordo di Brindisi (con questo accordo sposò anche la sorella di Ottaviano, Ottavia). Nel 39 a.C. il generale antoniano Publio Ventidio Basso riuscì a respingere i parti dai territori provinciali romani e nel 38 li ricacciò definitivamente al di là dell’Eufrate. Nel 37 su aprì in Partia una crisi dinastica, ma Antonio non poté approfittarne perché 65 di permanenza nelle provincie e dei periodi biennali di permanenza a Roma. Nel 23 a.C. si verificò una grave crisi perché Augusto si era gravemente ammalato e si sentì in fin di vita. Teoricamente il problema non esisteva perché i poteri di Augusto erano individuali e non trasmissibili ad altri, ma la situazione che si era creata presupponeva ormai che a capo dello stato ci fosse una sola persona. Augusto, però, non morì e poté dunque continua la sua opera di centralizzazione del potere: • Nel 23 depose il consolato che aveva detenuto ininterrottamente dal 31 a.C. e ottenne l’imperium proconsulare maius che gli consentiva di agire con i poteri di un promagistrato su tutte le provincie; • Il senato gli conferì la potestà tribunizia; • Augusto controllava le elezioni attraverso la nominatio (cioè l’accettazione delle candidature alle magistrature) e la commendatio (la raccomandazione dei candidati); • Infine, nel 5 d.C., Augusto realizzò un sistema di compromesso elettorale che teneva conto della nuova realtà politica: i comizi ratificavano i candidati scelti da 10 apposite centurie miste di cavalieri e senatori, e il senato e l’imperatore designavano gli eletti definitivi. Il perfezionamento della posizione di preminenza Nei vari anni successivi al 23, Augusto acquisì ulteriori poteri: • Nel 22, in seguito ad una carestia, assunse l’incarico di provvedere all’approvvigionamento di Roma; • Nel 19 e 18 a.C. esercitò anche i poteri di censore; • Tra il 22 e il 19 a.C. riuscì a recuperare, attraverso un’azione diplomatica con parti e armeni, le insegne delle legioni di Crasso e Antonio; • Nel 12 a.C. morì Lepido che deteneva ancora la carica di pontefice massimo (la carica u assunta da Augusto); • L’ultimo riconoscimento alla sua pozione di preminenza fu il titolo di pater patriae che il senato, i cavalieri e il popolo gli attribuirono nel 2 a.C. Anche Agrippa aumentò il suo potere: • Nel 23 a.C. ottenne un imperium proconsulare grazie al quale si recò in oriente; • Ricevette la potestà tribunizia; • Sposò la figlia di Augusto Giulia da cui ebbe 2 figli che Augusto adottò facendone di fatto i suoi successori designati. I ceti dirigenti (senatori ed equites) Augusto con una serie di provvedimenti aveva ripristinato la dignità e il prestigio dell’assemblea senatoria (il senato aveva superato più di 1000 membri con l’immissione di vari sostenitori di Cesare e dei triumviri). In particolare, durante il consolato del 29/28 a.C. si fece conferire la potestà censoria e procedette alla lectio senatus cioè alla revisione delle liste dei senatori. Nel 18 a.C. riportò il numero dei senatori a 600 e rese la dignità senatoria una prerogativa ereditaria. Augusto stabilì una distinzione netta tra cavalieri e senatori, creando un vero e proprio ordo senatorius differenziato dall’ordo equester. Durante la Repubblica chi possedeva un censo pari a 400.000 sesterzi ed era considerato degno (nascita libera, esercizio di professioni non disonorevoli) apparteneva al ceto equestre. I senatori si differenziavano dagli equites solo per aver intrapreso una carriera politica e potevano mostrarlo attraverso l’uso del laticlavio (una larga striscia color porpora sulla toga). Augusto impose che solo i senatori e i loro figli potessero mostrare questa striscia (in tarda età repubblicana anche molti cavalieri ne avevano fatto sfoggio). Inoltre, separò definitivamente i due ordini innalzando il censo minimo per entrare in senato a 1 milione di sesterzi. 66 Il cursus honorum senatorio in età imperiale In età imperiale il cursus honorum senatorio, cioè la successione delle cariche pubbliche riservate al massimo ordine dello Stato, si sviluppa di regola secondo le seguenti tappe: 1. Vigintivirato (20 uomini) cioè la denominazione collettiva dei diversi collegi magistratuali si compone di: -il decemviro (10 uomini) per il giudizio delle controversie (cause concernenti lo stato civile dei cittadini); -il triumviro per la pena capitale; -il triumviro monetale; -il quattuoviro (4 uomini) per la cura delle vie. 2. Questor > vi erano diversi tipi di questori: tesoriere del senato, amministratore finanziario delle provincie, portavoce dell’imperatore o del console presso il senato. 3. Tribuni della plebe e edili (si dividevano in plebei e curuli cioè edili patrizi). 4. Praetor > ve ne erano di diversi tipi: amministratori di cause giudiziarie dei cittadini romani, amministratore delle cause di quelli non romani, sovraintendenti della cassa di Stato. 5. Ex pretori: solitamente comandavano le legioni o le provincie romane di minor importanza. 6. Consul > in età imperiale si distinguono due tipi di consoli: ordinari (in carica dal 1°gennaio e con funzione eponima) e suffetti (consoli che sostituivano gli ordinari durante l’anno). 7. Ex consoli: uno dei ruoli più importanti che rivestivano era quello di governatori delle più importanti province romane. 8. Censor > un tempo vertice della carriera politica, in età imperiale viene rivestita solamente dagli imperatori (questa carica scomparirà con Domiziano). La carriera equestre in età imperiale Non è semplice da schematizzare come il corsus honorum senatorio (che è stato ritrovato su molta documentazione epigrafica), ma nei primi due secoli si svolgeva di solito seguendo queste tappe: 1. Comandi militari: comando del reparto di fanteria, del reparto legionario o della cavalleria ausiliaria; 2. Le procuratele: le procuratele finanziarie cioè l’amministrazione dei grandi uffici finanziari o la gestione dei beni imperiali in una o più province e le procuratele-governatorati cioè i procuratori-governatori di piccole province o distretti. A partire dall’età degli Antonini saranno classificate in base alla loro retribuzione annua; 3. Le grandi prefetture, in particolare le cariche di: -praefectus Aegypti > governatore della provincia d’Egitto (vertice della carriera equestre poi sostituito dalla guardia pretoria a causa dell’importantissimo peso politico che assumerà quest’ultima); -praefectus praetorio > comandante della guardia pretoria; -praefectus annonae > responsabile dell’approvvigionamento di Roma; -praefectus vigilum > comandate degli addetti alla vigilanza notturna e allo spegnimento degli incendi. 67 Roma, l’Italia, le provincie Roma A Roma, Augusto completò i programmi edilizi di Cesare. Solo per ricordare alcune delle opere più importanti: • nel vecchio Foro repubblicano fece costruire un tempio per Cesare divinizzato; • eresse una basilica per i figli di Giulia e Agrippa prematuramente scomparsi; • Fece costruire un nuovo Foro (Forum Augusti) con statue che celebravano la sua famiglia (gens Giulia) e la loro mitica discendenza da Enea. • trasformò l’aspetto del Campo Marzio edificando il Pantheon dedicato ad Agrippa e il suo mausoleo; • fece costruire l’Ara pacis. L’immagine di Augusto, della sua famiglia e delle sue imprese fu impressa in tutta Roma. Grazie ad Agrippa furono restaurati o costruiti molti edifici pubblici, acquedotti, terme, teatri e mercati. Quando lui morì, la cura dell’approvvigionamento idrico, del mantenimento degli edifici, delle strade…passò ad un collegio di senatori. La cura annonae cioè l’approvvigionamento e la distribuzione di grano fu affidata intorno all’8 d.C. al praefectus annonae (fino ad allora era stata gestita da Agusto stesso che se ne era assunto il compito a partire dalla carestia che colpì Roma nel 22 a.C.). Ad un altro prefetto di ordine equestre fu affidato il comando del corpo dei vigili del fuoco fondato da Augusto. All’ordine senatorio apparteneva, invece, il prefetto incaricato a governare Roma (praefectus Urbi). L’Italia Dopo la legislazione cesariana, già tutti gli abitanti dell’Italia erano diventati cittadini romani. Le circa 400 città italiche godevano di: autonomia interna, un proprio governo municipale e non erano soggette all’imposta fondiaria. Augusto divise l’Italia in 11 regioni che servivano, in primo luogo, per il censimento di persone e proprietà. Si iniziò un programma di rinnovamento edilizio e di costruzione di strade per collegare le varie parti d’Italia. Le province C’erano le province che ricadeva sotto la responsabilità diretta di Augusto cioè quelle avevano una o più legioni. Queste erano le cosiddette province “non pacificate” cioè di frontiera o di recente conquista e crebbero dalle iniziali 5 a 13 (alla fine del principato augusteo). Augusto affidava il loro governo a dei legati scelti tra ex consoli o ex pretori (legati Augusti pro praetore). D’altra parte, i governatori delle province del popolo romano (erano circa 10 nel I secolo d.C.), cioè di quelle “pacificate” (in genere prive di legioni al loro interno), erano scelti a sorte tra i magistrati che avevano ricoperto la pretura o il consolato. Tutti i governatori avevano poteri militari ed appartenevano alla classe senatoria ad eccezione del governatore dell’Egitto che era un prefetto di rango equestre (probabilmente per le particolari situazioni in cui venne creata la provincia e per l’importanza che rivestiva nel fornire grano a Roma). Vi furono poche altre regioni 70 L’organizzazione della cultura La celebrazione della pace e della figura provvidenziale di Augusto non trovò espressione solo nelle arti figurative e nelle opere architettoniche di Roma, ma anche in cerimonie pubbliche (come i ludi saeculares tenuti a Roma nel 17 a.C. per proclamare la rigenerazione della città), nella monetazione, nella letteratura e più in generale in una propaganda culturale che esaltava la figura di Augusto e il suo programma di restaurazione morale. Questi elementi si possono ritrovare nella sua opera biografica (le Res Gestae), ma anche nelle opere di famosi storici e letterati del tempo: Tito Livio, Virgilio (nell’Eneide celebra Enea come antenato di Augusto e ne profetizza il suo dominio universale), Orazio, Properzio, Ovidio…L’adesione degli intellettuali al programma culturale del principe si dovette soprattutto alla figura di Mecenate. Questo personaggio, grazie ad un’opera di persuasione e di aiuti concreti, riuscì a legare poeti e artisti agli ideali della politica augustea e a coniugare il fiorire di una letteratura raffinata ispirata sia a modelli culturali greci sia a modelli italici e romani. Infine, in Oriente si diffuse un vero e proprio culto della persona dell’imperatore che veniva celebrato congiuntamene a quello della dea Roma. Capitolo 2: I Giulio Claudi Una dinastia? Con la morte di Augusto nel 14 d.C. iniziò il governo di quella che viene chiamata la dinastia dei Giulio-Claudi perché Tiberio era: 1. figlio di Tiberio Claudio Nerone (esponente della famiglia dei Claudi e primo marito di Livia che era stata la terza moglie di Augusto) 2. figlio adottivo di Augusto che a sua volta era stato adottato da Cesare e quindi apparteneva alla famiglia di quest’ultimo (gli Iulii). Tiberio inizialmente propose di affidare la cura dello stato a più persone, ma il senato lo spinse ad accettare i poteri e le prerogative di Augusto. Questo gesto rivelò l’incapacità del senato di concepire un ritorno alla Repubblica. I successori di Tiberio (Caligola, Claudio e Nerone) e i loro legami di parentela, si possono vedere evidenziati nell’albero genealogico qui a fianco (tenerlo presente per capire i legami di parentela di tutti i personaggi che si citeranno in seguito). Il progetto di Augusto era quello che, alla morte di Tiberio, sarebbe diventato princeps Germanico (figlio di Druso fratello di Tiberio e di Antonia che era legata ad Augusto in quanto figlia del matrimonio tra sua sorella Ottavia e Marco Antonio). Sia Germanico (nel 19 d.C.) sia il figlio naturale di Tiberio Druso minore (nel 23 d.C.), però, morirono. Fu scelto come successore Caligola figlio di Germanico e Agrippina che non era stato adottato dalla famiglia Giulia e non aveva alle spalle nessuna carriera politica-militare e nessuna preparazione istituzionale. Caligola decise di dare più rilevo al ramo antoniano della famiglia piuttosto che a quello “augusteo”: fece deporre le ceneri 71 della nonna Antonia (figlia di Marco Antonio) insieme ad Augusto nel suo mausoleo nel Campo Marzio e riprese alcune suggestioni della regalità orientale di tradizione antoniana. Il successore di Caligola fu Claudio (fratello di Germanico) che prese il nome di Cesare senza averne il sangue e senza essere stato adottato nella famiglia Giulia, ma solo in quanto erede della casata. Infine, l’ultimo esponente della “dinastia” fu Nerone, con lui entrò nella storia della domus principis una famiglia nobiliare diversa, quella dei Domizi. Egli era infatti figlio dell’aristocratico Cneo Domizio Enobarbo e in seguito figlio adottivo di Claudio. Tiberio (14-37 d.C.) Il regno di Tiberio fu tendenzialmente una positiva prosecuzione di quello di Augusto: la sua volontà era di rispettare le forme di governo repubblicane già valorizzate da Augusto e di rifiutare ogni tipo di onori divini (spirito tradizionalista). Come evidenziano le fonti e come spesso succederà in epoca imperiale, Tiberio si trovò a fronteggiare un’opposizione che rivendicava l’autonomia decisionale e la libertas del senato. Egli mirò anche a stabilizzare i confini e a terminare i continui scontri in Germania. Per questo motivo decise di mandare Germanico (suo successore designato) in Siria, evitando così che proseguisse nel suo progetto di conquista della Germania (nel 16 d.C. era riuscito a sconfiggere Arminio vendicando così il disastro di Varo). In Siria Germanico perse la vita nel 19 a.C. probabilmente vittima di un delitto politico: fu forse avvelenato dal proconsole di Siria Pisone con il quale non andava per niente d’accordo. Alla morte di Germanico, si aprì un conflitto tra Tiberio e la madre di Germanico Agrippina che avrebbe voluto come successori al regno i suoi figli e non quello di Tiberio. Intanto nel 26 d.C. Tiberio aveva deciso di lasciare Roma e di rifugiarsi nella sua villa a Capri, lasciando il controllo della città al prefetto pretorio Seiano che iniziò a crearsi un forte potere personale. Seiano accuso Agrippina e suoi due figli di tramare contro l’imperatore e fece dichiarare nemico pubblico la donna e imprigionare i figli. A questo punto, però, Tiberio si insospettì e fece processare e giustiziare Seiano. Si aprì un periodo di terrore segnato da suicidi, processi e condanne per lesa maestà: vennero uccisi molti senatori, sostenitori di Seiano, i due figli maggiori di Agrippina (Agrippina si suicidò) … Quando l’imperatore morì venne riconosciuto come suo erede e successore l’unico figlio di Agrippina rimasto vivo: Gaio, detto Caligola. Caligola (37-41 a.C.) L’Impero di Caligola fu breve e viene soprattutto ricordato per le sue stravaganze senza limiti, amplificate da una storiografia ostile. Lo storio di sentimenti filosenatori Svetonio scrisse di lui: “un folle tiranno scarsamente interessato al governo dell’Impero e preoccupato solamente di rafforzare il suo potere personale”. Oltre a questo, viene soprattutto ricordato: - Per la guerra in Mauretania (verrà risolta da Claudio) dove Caligola aveva fatto assassinare il sovrano che era l’ultimo discendente di Antonio oltre a lui. - Per aver rispristinato in Oriente, seguendo la tradizione di Antonio, una serie di stati cuscinetto e di rapporti di amicizia e clientele con i sovrani orientali (per esempio al re della Giudea Erode concesse ampi territori della Galilea). - Per aver fatto scoppiare, proprio in Giudea, gravi malcontenti perché aveva chiesto che la sua statua venisse posta nel Tempio di Gerusalemme (la popolazione lo considerava un atto sacrilego). La richiesta di Caligola aveva fatto scoppiare vari scontri tra le comunità ebraiche e quelle greche. La morte del sovrano nel 41 d.C., ad opera di una congiura di pretoriani, evitò che scoppiasse il conflitto con la Giudea. Erano ormai evidenti, nonostante la prudente organizzazione augustea, i rischi di involuzioni autocratiche e assolutistiche. 72 Claudio (41-54 d.C.) Zio di Caligola, nonostante le fonti non ce lo presentino bene, realizzò una serie di importanti opere sia in politica interna sia estera: • Opera di razionalizzazione del governo > riformò l’amministrazione centrale dividendola in 4 grandi uffici: il segretario generale, per le finanze, per le suppliche e per l’istruzione dei processi da tenersi di fronte all’imperatore (a capo di questi dipartimenti furono messi liberti e perciò il suo è definito “regno dei liberti”). • Assegnò il compito delle distribuzioni granarie al prefetto dell’annona e non più al senato e costruì il porto di Ostia per l’arrivo delle navi granarie. • Costruì un nuovo acquedotto e bonificò delle terre in Abruzzo. • Promosse una politica di integrazione con i popoli provinciali: concesse ai notabili della Gallia Comata di entrare a far parte del senato e concesse la cittadinanza ad alcune popolazioni alpine (quest’ultimo fatto è confermato da un’iscrizione sulla Tabula Clesiana > trovata a Cles a fine 1800). • Risolse la guerra in Mauretania dividendola in 2 province affidate a procuratori equestri. • Furono ristabiliti i privilegi delle comunità ebraiche orientali e allo stesso tempo vennero tutelate, per evitare scontri, le istituzioni delle polis greche. Sempre per evitare disordini, nel 49 d.C. gli Ebrei vennero espulsi da Roma. • L’impresa militare più rilevante fu infine, nel 43 d.C., la conquista della Britannia meridionale (all’incirca l’attuale Inghilterra), che fu ridotta a provincia. Claudio fu ucciso dalla nipote Agrippina (minore) che, dopo averlo sposato e dopo aver ottenuto che adottasse il figlio che lei aveva avuto da un precedente matrimonio (Nerone), non esitò ad avvelenarlo per garantire al figlio la successione al trono. La società imperiale È caratterizzata, come del resto l’intera società antica romana, da una differenza formale riconosciuta dello stato giuridico delle persone. Augusto si era principalmente occupato di differenziare le condizioni di cavalieri e senatori, ma erano ormai sempre più numerosi e importanti gli esponenti di 3 classi sociali in particolare: 1. Gli schiavi: -sempre più presenti a partire dalla tarda Repubblica; -si è stimato fossero il 40% della popolazione in Italia; -erano occupati in agricoltura, nei lavori domestici, nell’ambito dei servizi (istruttori, medici, segretari, amministratori…> soprattutto schiavi greci), a partire da Claudio nella gestione finanziaria e amministrativa del patrimonio imperiale (schiavi imperiali che spesso si arricchivano moltissimi riuscendo a conquistarsi lo status di liberti). 2. I liberti: Schiavi che riuscivano ad acquistare la libertà grazie al patrimonio che accumulavano o alle disposizioni testamentarie dei loro patroni, ai quali spesso rimanevano legati anche da liberi come clienti o continuando a lavorare per loro. Nel I secolo d.C., i liberti erano il ceto economicamente più attivo in vari settori (commercio, artigianato, servizi). Potevano raggiungere forme di promozione sociale come nel caso dei liberti utilizzati da Claudio nei nuovi servizi amministrativi. 3. I provinciali liberi: Categoria articolata che comprendeva molti degli abitanti delle provincie. Il principe poteva concedere a individui singoli oppure a gruppi o comunità la cittadinanza romana (chi la possedeva poteva ambire a far parte dei due ceti dirigenti cioè cavalieri e senatori). Questo avveniva soprattutto per quelle persone che si erano distinte per le loro azioni militari. L’esercito, accanto al denaro, fu dunque uno dei fattori più importanti di promozione sociale in età imperiale. 75 - Il princeps avrà diritto a concludere trattati con chi voglia; - avrà il diritto di convocare il senato, di avanzare o respingere proposte…di raccomandare candidati alle magistrature; - potrà fare qualsiasi cosa divina, pubblica o privata egli pensi utile allo Stato! Vespasiano riuscì a risanare con diversi provvedimenti il bilancio dello Stato e fece fronte alla crisi di reclutamento favorendo l’estensione della cittadinanza ai provinciali e reclutando sempre più spesso i legionari delle provincie. Nel 70 d.C. Tito si impadronì di Gerusalemme e ne distrusse il famoso Tempio. Con parte del bottino di guerra furono costruiti il Colosseo e il Foro della Pace. Ristabilì definitivamente l’ordine nelle zone di confine (sul Danubio e in Britannia) lasciate sguarnite dalle truppe che avevano partecipato alle guerre civili. In Germani annetté l’aerea dei cosiddetti agri decumates, lungo il corso superiore del Reno e del Danubio, che servirono poi a Domiziano come base per la costruzione delle fortificazioni del limes germanico. In oriente abbandonò definitivamente la politica dei re clienti e creò nuove provincie. Tito (79-81 d.C.) Prima della morte del padre nel 79 d.C., Tito aveva già ricoperto molte cariche e ricevuto l’imperium proconsolare e la potestà tribunizia, quindi l’avvicendamento avvenne senza problemi. Il suo regno fu molto breve e segnato da catastrofi naturali (l’eruzione del Vesuvio che distrusse Pompei ed Ercolano). Forse proprio per queste tragedie, Tito portò avanti una politica generosa (di munificenza) che lo rese molto popolare, tanto da essere definito dagli antichi: “amore e delizia del genere umano”. Domiziano (81-96 d.C.) Nonostante il suo stile di governo autocratico gli costerà la vita, la sua azione politica fu efficace e benefica per l’Impero: • Represse gli abusi dei governatori delle provincie e promosse l’impiego di cavalieri nello svolgimento di compiti burocratici; • Rinunciò a ulteriori conquiste militari a favore di operazioni di consolidamento della frontiera sul Reno, sul Danubio e in Britannia. Fu segnata la linea esterna di confine oltre il Reno attraverso la costruzione di imponenti opere difensive costruite da torri di guardia in legno e terrapieni che collegavano tra loro gli accampamenti auxiliarii. La linea avanzata (il limes) aveva alle spalle la serie dei castra cioè gli accampamenti fortificati in cui stazionavano le legioni. A sud di questa linea si insediò una popolazione mista di Celti e Germani. Il sistema di confini iniziato da Domiziano sarà adattato e impiegato in tutto l’impero a partire da Andriano. In alcune zone, specialmente in Oriente e in Africa, l’articolazione delle strade militari e dei forti che costituivano il limes fu tracciata a rete, così da potere controllare sia le vie carovaniere, sia le aree agricole e le oasi del deserto, sia le popolazioni nomadi…In altri casi, come per il Vallo di Adriano e il vallo di Antonio in Britannia, il limes fu costituito da una linea di castra fortificati. Infine, come si è già inteso, la parola limes, che nel I secolo designava le strade che si inoltravano in territori non ancora conquistati, passo a designare la linea di separazione (il confine) tra l’Impero e i territori esterni. 76 Nel 85 d.C. Domiziano dovette affrontare il problema della Dacia, una regione corrispondente all’attuale Romania dove il re Decebalo era riuscito ad unificare le varie tribù e a guidarle contro i romani. Domiziano non riuscì a vincere e fu costretto a firmare un trattato in cui Decebalo accettava di dipendere dall’Impero, ma in cambio veniva ricompensato con denaro. Il fallimento della campagna contro la Dacia fu anche causato dalla rivola del governatore della Germania Superiore Saturnino e delle sue legioni, che si rifiutarono di aiutare Domiziano. Questa rivolta inaugurò un periodo di persecuzione ed eliminazione di persone sospette di tramare contro l’imperatore, tra cui molti senatori, cristiani ed ebrei. Queste azioni provocarono vari malcontenti verso Domiziano che cadde vittima di una congiura nel 96 d.C. Il senato, dopo la sua morte, proclamò addirittura la damnatio memoriae cioè la distruzione di ogni ricordo dell’imperatore (statue, iscrizioni…). Il sorgere del cristianesimo Il Cristianesimo, nato nell’ambito dell’ebraismo dalle predicazioni del suo fondatore Gesù Cristo (nato a Nazareth in Galilea al tempo di Augusto e morto crocifisso sotto Tiberio), inizia a formarsi come religione strutturata nel corso dei primi due secoli d.C. Il cristianesimo primitivo nacque come un movimento all’interno del giudaismo, in un periodo in cui gli Ebrei erano già da tempo sottomessi alla dominazione romana (la Giudea era protettorato romano dal 63 a.C.). La diffusione della parola di Gesù avvenne grazie ai suoi seguaci (gli apostoli) che portarono il suo messaggio (l’evangelio, cioè la buona novella) tra le varie comunità ebraiche di Palestina, ma anche nelle grandi città dell’Impero. Uno degli Apostoli più importanti fu Paolo di Tarso che, nelle sue lettere, dà una prima testimonianza della differenza tra giudaismo e cristianesimo. Il primo era chiuso nella difesa delle idee e dei costumi delle diverse sette; il secondo, invece, ruotava intorno ad un’idea di una missione universale della Chiesa rivolta all’umanità intera. Come si comportano i vari imperatori di fronte al diffondersi di ebrei e cristiani: 1. Augusto affrontò la questione giudaica senza distinguere tra i vari movimenti e consentì a tutte le comunità di praticare i propri culti e preservare i propri costumi; 77 2. Tiberio espulse per la prima volta gli Ebrei da Roma perché i loro culti erano in contrasto con il mos maiorum; 3. Caligola saccheggiò il Tempio di Gerusalemme e, diffondendo il culto dell’imperatore vivente, causò gravi scontri tra comunità ebraiche e greche; 4. Claudio ristabilì la tolleranza inaugurata da Augusto, ma anche lui nel 49 d.C. cacciò gli Ebrei da Roma a causa probabilmente (come riporta Svetonio) di vari disordini causati da un certo Chrestus. Questa fu forse la prima volta in cui ebrei e cristiani vennero assimilati, anzi probabilmente gli Ebrei vennero puniti a causa del proselitismo cristiano; 5. Con Nerone divenne evidente il contrasto tra la nuova religione cristiana (considerata pericolosa e sovversiva) e quella tradizionale. I cristiani vennero incolpati del grande incendio di Roma del 64 d.C. ed iniziò contro di loro una cruenta persecuzione (persero la vita Pietro e Paolo). 6. Vespasiano e Tito sedarono varie rivolte in Palestina e distrussero il Tempio di Gerusalemme, ma non posero limitazioni al culto cristiano; 7. Domiziano fu, invece, particolarmente avverso ad Ebrei e Cristiani accusandoli di ateismo e promuovendo un’opera di legittimazione religiosa del potere imperiale (imperatore come rappresentante di Giove in terra). Nel corso del II secolo il cristianesimo mise salde radici in tutto l’Impero. Nonostante l’atteggiamento moderato degli imperatori Antonini, le denunce, i processi e le persecuzioni contro singoli o comunità cristiane continuarono. Nacquero anche i primi scritti (come l’opera dell’intellettuale cristiano Tertulliano) che puntavano a far conoscere la nuova religione all’opinione pubblica. Capitolo 4: Il II secolo È tradizionalmente considerato come l’età più prospera dell’Impero Romano che, sicuro nei suoi confini, poté godere di un notevole sviluppo economico e culturale. Nerva (96-98 d.C.) Per questo periodo le fonti sono molto limitate: non disponiamo più di biografie (le Vite dei dodici Cesari di Svetonio termina con la dinastia Flavia). Molto importanti furono le monete con i loro messaggi propagandistici, che ci forniscono, in taluni casi, l’unica documentazione da cui conosciamo i provvedimenti di Nerva. Nerva era un anziano senatore che aveva ricoperto varie magistrature, tra cui il consolato sia sotto Vespasiano sia sotto Domiziano e che, dopo la morte di quest’ultimo, fu acclamato dal senato come nuovo imperatore. La sua prima preoccupazione fu quella di ristabilire l’ordine interno e scongiurare una nuova guerra sociale: richiamò gli esiliati da Domiziano e sospese le accuse di lesa maestà. In seguito, promosse una politica finanziaria e sociale a favore di Roma e dell’Italia: - Fu votata una legge agraria per assegnare terreni ai nullatenenti; - Si iniziò probabilmente il programma di “istituzioni alimentari” poi portato avanti da Traiano. Tale programma prevedeva che lo Stato concedesse dei prestiti agli agricoltori in cambio dell’ipoteca dei loro terreni. L’interesse dell’ipoteca veniva versato a municipi locali o ad appositi funzionari e serviva per sostenere i bambini bisognosi: era un sostegno alle famiglie per contrastare il calo demografico in atto; - Infine, venne riorganizzato il sistema di approvvigionamento idrico di Roma. I problemi per Nerva iniziarono quando i pretoriani, rimasti fedeli a Domiziano, chiesero la punizione degli assassini dell’imperatore che erano quelle stesse persone che avevano portato Nerva al 80 - Riorganizzò la carriera equestre attraverso tappe di promozione prefissate e affidò ai cavalieri (piuttosto che agli schiavi o ai liberi) buona parte dell’amministrazione finanziaria (gestione del patrimonio imperiale, delle miniere, delle proprietà fondiarie, delle tasse…). Il pericolo più grande che Adriano dovette fronteggiare durante il suo regno fu una violenta rivolta della Palestina, dove gli Ebrei si erano ribellati alla fondazione sul suolo di Gerusalemme della colonia di Aelia Capitolina e alla volontà del princeps di essere oggetto di culto. Gli Ebrei furono spietatamente repressi: persero la vita più di mezzo milione di persone. Adriano scelse come suo successore il console del 136 d.C. Lucio Elio Cesare che, però, morì e allora la sua scelta ricadde sul governatore della Gallia Narbonese Arrio Antonino. Quest’ultimo adottò a sua volta il figlio di Lucio Elio (Lucio Vero) e uno dei nipoti di sua moglie (Marco Aurelio). I due saranno entrambi imperatori alla morte di Antonino. Antonino Pio (138-161 d.C.) Il suo principato fu privo di particolari avvenimenti. Egli ebbe buoni rapporti con il sentato e fu un coscienzioso e parsimonioso amministratore. Per sua volontà il vallo di Adriano fu avanzato nella scozia meridionale (vallo di Antonino). Lo statuto delle città Nell’età di Antonino Pio l’Impero raggiunse l’apogeo del proprio sviluppo e del consenso presso le élite delle provincie e della città. Furono particolarmente importanti due elementi che caratterizzavano la natura dell’Impero: 1. Il processo di integrazione dei ceti dirigenti provinciali attraverso il conferimento della cittadinanza romana; 2. Il valore attribuito alla vita cittadina nella quale la cultura greca trovava la sua più computa espressione. Nell’Impero Romano vi era dunque una grande varietà di tipologie cittadine e soprattutto una grande diversità di statuti. Civitates in occidente poleis in Oriente erano organizzate secondo tre tipologie fondamentali a seconda del loro grado di integrazione nello stato romano: 81 Le città costituivano inoltre il punto di riferimento delle attività economiche e i nuclei della vita culturale, anche se bisognava considerare che le condizioni della vita urbana e il rapporto tra le città e il territorio erano molto diversi da provincia a provincia. Per esempio, in Germania non vi era alcuna cultura di tipo urbano, il che rese la penetrazione romana ancora più difficoltosa. La complessità delle situazioni giuridiche delle città è dunque solo un piccolo riflesso della molteplicità di culture, tradizioni, lingue, religioni e identità che convivevano nell'impero. Roma, diffondendo la cultura urbana e promuovendo la collaborazione e l'ascesa economica e sociale delle élite, perno della struttura cittadina, si assicurava in primo luogo il controllo dell'ordine e della stabilità su tutto l'impero e sulle popolazioni comprese nel suo sistema di potere. Marco Aurelio (161-180 d.C.) Marco Aurelio decise di condividere il potere con il fratello adottivo Lucio Vero. Questo fu il primo caso di “doppio Principato” nella storia imperiale di Roma, vale a dire della piena condivisione collegiale del potere da parte di due imperatori. All'inizio del Regno di Marco si riaprì la questione partitica e Vero ottenne un'importante vittoria nel 166 d.C. L'esercito tornato dall'oriente, però, portò con sé la peste che causò lutti e devastazioni in varie regioni, con gravi conseguenze demografiche ed economiche. Inoltre, l'impegno delle truppe sul fronte orientale provocò lo sguarnimento della frontiera settentrionale e creò le condizioni perché i barbari del nord (Quadi e Marcomanni) invadessero la pannonia e giungessero persino a minacciare l'Italia. Morto vero, Marco Aurelio riuscì a ristabilire la situazione preesistente e a respingere i barbari a nord del Danubio solo nel 175 d.C., dopo una campagna difficile che si protrasse per quasi 10 anni. Durante il regno di Marco, nel 177 d.C., a Lione avvenne un episodio di cruenta persecuzione contro i cristiani (i “martiri di Lione”) che vennero impiegati nei giochi gladiatori. Infine, possiamo ricordare che Marco Aurelio era seguace della dottrina stoica e per questo passò alla storia con l'immagine di imperatore-filosofo. Inoltre, con lui si ritornò alla prassi della successione dinastica quando alla sua morte, nel 180 d.C., divenne imperatore suo figlio Commodo. Commodo (180-192 d.C.) 82 Divenuto imperatore a 19 anni, si dimostrò la perfetta antitesi del padre rinunciando alla pace con le popolazioni che premevano sul Danubio. La sua natura dispotica e stravagante, anche in campo religioso, portò alla rottura con il senato. Essendo l’imperatore molto giovane, dal 182-185 d.C. il governo fu di fatto in mano al prefetto del pretorio Tigidio Perenne. Quando quest’ultimo morì, il ruolo di prefetto del pretorio passo in mano a Cleandro che sfruttò il disinteresse di Commodo verso le istituzioni, governando a Roma secondo i propri fini (vendette i titoli di console e altre magistrature, promosse l’ingresso di liberti in senato…). Una grave carestia colpì Roma nel 190 d.C. e Cleandro venne offerto come capo espiatorio alle ire della plebe. Inoltre, per rimpinguare le casse dell’imperatore, furono sospesi numerosi sussidi (quelli alimentari e i donativi ai soldati). Il dissesto delle finanze venne completato dal 190 al 192 dal cortigiano Eclecto a cui l’imperatore aveva di fatto lasciato il governo e che, insieme al prefetto del pretorio Leto, ordinò la congiura che pose fine al governo di Commodo nel 192 d.C. Commodo non mostrò cura per le provincie né per l’esercito. Nonostante il discontento economico, ci fu, però, una rilevante integrazione della cultura provinciale: vennero, per esempio, accolte divinità straniere. Si creò un carisma divino intorno a Commodo. Volendosi autoproclamare un dio in terra attirò il malcontento del senato tanto che alla sua morte ne venne condannata la memoria e cancellato il nome da ogni monumento. L’economia romana in età imperiale La crescita della popolazione dell’impero e soprattutto di Roma (un milione di abitanti contro i 25.000 abitanti che di solito popolavano le città “medie”) rese centrale per l’economia lo sviluppo dell’agricoltura. Non a caso, alla gestione del vettovagliamento di Roma era affidata una magistratura apposita chiamata “Annona”. Prodotti di grande consumo furono il vino e il grano. Ad esempio, il vino prodotto sulla penisola italica non soddisfava il fabbisogno e quindi veniva prodotto in altre aree come la Gallia. Dati gli elevati costi del trasporto, si dovette tener presente dal punto di vista logistico della distinzione tra beni più o meno essenziali. Il trasporto marittimo era preferito a quello a terra perché meno costoso e si preferiva, in ogni caso, una produzione locale per i prodotti essenziali onde evitarne il trasporto. L’apparato militare che assorbiva buona parte del bilancio imperiale veniva pagato anche in natura (annona militare). Quest’ultima, unita alla necessità di approvvigionamento alimentare da parte di Roma, diede un forte impulso al commercio in età imperiale. Inoltre, il risultato sull’economia delle provincie (contribuirono a rendere l’economia più forte) fu evidente. A partire dalla seconda metà del I secolo d.C. la presenza delle provincie fu rilevante e si sta studiando se il loro ruolo abbia determinato, almeno in parte, una crisi del settore agricolo in Italia. Alcuni studiosi associano a questa crisi una certa negligenza da parte dei proprietari terrieri italici, altri studi non evidenziano crisi. Date le sue proporzioni, l’economia di questo periodo può essere considerata come una “peculiare economia preindustriale”. Infine, furono utilizzate alcune “innovazioni volte al miglioramento produttivo, come, ad esempio, la rotazione delle culture. 85 pretorio Macrino. Era la prima volta che un appartenente all’ordine equestre veniva proclamato imperatore. La progressiva sfiducia nell’aristocrazia muove gli imperatori a potenziare il ruolo dei cavalieri. Tuttavia, l’opposizione del senato e la scontentezza dello stesso esercito che lo aveva portato al potere fecero si che il regno di Macrino durasse un solo anno (217 – 218). Durante la dinastia dei Severi emerge l’importanza del ruolo svolto da alcune figure femminili di rilievo quali la moglie di Settimio (Giulia Domna) e la sorella Giulia Mesa, che fece sì che l’esercito acclamasse nel 218 a.C. imperatore suo nipote, noto come Elagabalo. Il regno di questo ragazzino (aveva 14 anni) segna uno dei momenti più oscuri della storia imperiale del III secolo d.C: Elagabalo è ricordato soprattutto per il suo misticismo e per il tentativo di imporre come religione di Stato un culto esotico e stravagante, quello del dio Sole venerato in Siria. Di fronte al risentimento generale suscitato a Roma, Giulia Mesa impose al nipote di associare al potere il cugino Bassiano. Nel 222 d.C. Elagabalo fu assassinato dai pretoriani e il cugino Bassiano gli successe con il nome di Severo Alessandro. Anche lui non era che un ragazzino al momento in cui assunse il potere imperiale. Il suo regno trasse profitto dal fatto che l’azione di governo fu in mano al grande giurista Ulpiano. All’azione di quest’ultimo si deve se, dopo un lungo periodo di conflittualità, i rapporti tra imperatore e senato tornarono a essere improntati a uno spirito di collaborazione. Nel 224 d.C. i persiani scatenarono un’offensiva contro la Mesopotamia romana arrivando a minacciare anche la Siria. L’intervento di Severo in Oriente riuscì a bloccare l’offensiva nemica. L’imperatore poi fu chiamato in Gallia, mentre era impegnato a fronteggiare questa nuova situazione di crisi fu assassinato. Finiva così in modo brusco e violento la storia della dinastia dei Severi che aveva provocato un indebolimento della classe dirigente tradizionale e accentuato la forza dell’esercito. L’anarchia militare L’esercito proclamò imperatore un ufficiale di origine tracia, Massimino. Con il suo regno inizia l’epoca considerata di massima crisi: questo periodo è comunemente definito come la fase dell’”anarchia militare”. Massimino ottenne, comunque, dei successi nelle sue campagne contro i barbari, in particolare contro gli Alamanni. La durezza del suo regime, che impose una fortissima pressione fiscale per far fronte alla grave situazione militare in cui si trovava l’impero, spiega la ritrovata forza di coesione del senato, che giunse a dichiararlo nemico dello stato. Il senato aderì alla proclamazione dell’anziano Gordiano. Quando la rivolta fu repressa affidò il governo dello Stato a venti consolari, all’interno di cui furono prescelti come augusti Pupieno e Balbino. 86 Nel 238 d.C. Massimino cadde assassinato dai suoi stessi soldati. A Roma Pupieno e Balbino furono uccisi pretoriani, che proclamarono Augusto Gordiano III (nipote di Gordiano I). Alla sua morte fu proclamato imperatore Filippo, detto l’Arabo, anche il suo regno terminò in modo cruento. L’esercito acclamò imperatore il senatore Messio Decio. Il suo breve regno è caratterizzato da un’evidente volontà di rafforzare l’osservanza dei culti tradizionali: questo significava per i cristiani una forte discriminazione. Chi non accettava di sacrificare agli dèi e al Genio dell’imperatore veniva condannato a morte (per questo Decio ci è stato presentato dalle fonti cristiane come un mostro). Morì nel 251 a.C. combattendo contro i Goti. Sul confine gallico e su quello germanico premevano le popolazioni degli Alamanni e dei Franchi; la frontiera del Basso Danubio era attaccata dai Goti mentre in Oriente i persiani si stavano impadronendo della Siria. Valeriano arrivò al trono imperale. Data la gravità e l’incertezza della situazione, ebbe l’accortezza di associare al potere il figlio Gallieno e gli affidò il compito di difendere le provincie occidentali. La sua campagna contro i Persiani finì tragicamente: Valeriano fu sconfitto e fatto prigionieri del re. Gallieno, rimasto solo a reggere l’Impero, riuscì a bloccare l’avanzata degli Alamanni e dei Goti. Introdusse una diversa strategia di difesa dei confini: invece di dislocare tutte le truppe lungo la frontiera, privilegiò la concentrazione di alcuni contingenti all’interno del territorio con la funzione di unità mobili di difesa. Gli imperatori illirici L’uccisione di Gallieno portò al potere il suo comandante della cavalleria. Claudio II è il primo di una serie di imperatori detti “illirici” perché originari di quella regione. Claudio conseguì due importanti successi, uno contro gli Alamanni (che avevano invaso la pianura padana) e uno contro i Goti (che avevano occupato Atene). Morto di peste, la sua opera fu completata da Aureliano. L’imponente cinta con la quale Aureliano fece circondare Roma dà un’idea della pericolosità della situazione. Aureliano riuscì a sottomettere i due stati autonomi che si erano costituiti negli anni precedenti, nel 272 a.C. si impadronì in Siria della città di Palmira, che fu punita con la distruzione per aver osato ribellarsi. Due anni dopo fu sconfitto anche l’ultimo sovrano del regno separatista delle Gallie, Tetrico: l’unità dell’impero risultava così ricostituita. Aureliano ebbe il merito di restituire un certo prestigio alla figura del sovrano: promosse una decisa riorganizzazione dello Stato in tutti i settori della vita economica e diede impulso al processo di divinizzazione del monarca. Ucciso nel 275 d.C., fu succeduto da Tacito, che ebbe un regno molto breve. Durante il successivo regno di Probo (sempre di origine illirica) si ebbe una rinnovata pressione barbarica sulla frontiera renana e danubiana. Probo riuscì ad ottenere significativi successi su questi fronti, ma fu ucciso. Il suo successore, Caro, conquistò la capitale nemica (Ctesifonte) e morì. Stessa sorte toccò ai figli. Alla fine solo detentore del potere si trovò a essere, nel 285 d.C., Diocleziano: il suo regno durò circa un ventennio. Diocleziano L’avvento al trono di Diocleziano segna una delle cesure più nette in tutta la storia dell’Impero Romano. Con il suo regno (284 – 305 d.C) si chiude definitivamente l’età buia che va sotto il nome di crisi del II secolo. Si tratta di un’età di riforme e novità, a partire da quelle riguardanti la diversa 87 organizzazione del potere imperiale: in questo momento si fa iniziare la fase del cosiddetto “Dominato” rispetto a quella precedente detta “Principato” → momento iniziale di un’età di rinnovamento della storia dell’Impero romano detta Tarda antichità. Il regno di Diocleziano è contraddistinto da una forte volontà restauratrice dello Stato a tutti i livelli: politico – militare, amministrativo ed economico. Per garantire una migliore difesa alle regioni più minacciate, Diocleziano stabilì la propria sede in oriente, a Nicomedia. La tetrarchia. L’ideologia fondamentalmente conservatrice che ispirò le sue riforme ebbe come esito una serie di misure che riorganizzarono la compagine imperiale su basi diverse rispetto a quelle originarie. Concepì un sistema in base al quale al vertice dell’Impero c’era un collegio imperiale composto da quattro monarchi, detti tetrarchi, due dei quali (detti Augusti) erano di rango superiore ai secondi (Cesari). Tale sistema aveva come fine quello di fronteggiare meglio le varie crisi regionali attraverso una ripartizione territoriale del potere. Questa riforma, tuttavia, fu realizzata attraverso tappe graduali. Una delle conseguenze dell’introduzione del regime tetrarchico fu che ciascun Augusto, affiancato da un Cesare, esercitava il suo governo alternativamente sull’Oriente e sull’Occidente. Lo sforzo nel riordino dell’amministrazione fece crescere la burocrazia statale, consistente in uomini al diretto servizio del sovrano, le cui funzioni erano distinte da quelle militari. Anche il numero delle province aumentò, mentre si riduceva l’estensione del loro territorio: si voleva evitare che i vari governatori diventassero troppo influenti. Diocleziano si impegnò a fondo anche nella riorganizzazione del sistema economico e nel riordino del sistema fiscale, con l’introduzione di una nuova forma di tassazione (l’imposta fondamentala gravava sul reddito agricolo). Il sistema di calcolo si fondava su una particolare base imponibile che teneva conto del rapporto tra terra coltivabile e numero di coltivatori. L’impero fu suddiviso in dodici unità regionali, dette diocesi: anche l’Italia fu equiparata alle altre regioni dell’Impero. Quanto alla riforma monetaria, prima si utilizzava una moneta di bronzo rivestita d’argento il cui valore veniva imposto per legge. Diocleziano coniò monete d’oro e d’argento di ottima qualità, che 90 soldati di second’ordine. L’esercito mancava di soldati. Per sopperire alle sue esigenze si ridusse l’altezza richiesta alle reclute, si incrementò la caccia ai disertori, si rafforzò l’ereditarietà della professione militare. I soldati finirono per essere reclutati sempre più tra i barbari che premevano alle frontiere piuttosto che tra i contadini. La minaccia barbarica era così grave da non consentire soluzioni definitive. Lo Stato la fronteggiò come poteva: da un lato combattendo i barbari con l’impiego di tutte le risorse di un apparato militare che Diocleziano e Costantino avevano ristrutturato profondamente, dall’altro mediante una politica di assorbimento nei quadri dell’organismo imperiale → “barbarizzazione della società”. La morte di Costantino e la fine della dinastia costantiniana Costantino ricevette il battesimo solo in punto di morte, a battezzarlo fu il vescovo della città. Assai significative appaiono le disposizioni date da Costantino per la sua sepoltura. Nella chiesa dedicata ai Santi Apostoli aveva fatto collocare dodici cenotafi, al centro c’era un sarcofago destinato a lui, l’imperatore “isoapostolo”. Sorprende che, a fronte di un’opera di riforma così sistematica dello Stato, Costantino non abbia affrontato in modo coerente il problema della successione: si può supporre che, con la creazione di più prefetture del pretorio, egli prevedesse per ciascuna il governo di uno dei suoi figli e forse anche dei due nipoti. Tuttavia, una simile soluzione poteva essere valida per l’immediato e lasciava insoluti problemi di fondo. La partecipazione dei figli alla dignità imperiale lascia intravvedere il possibile ritorno a un potere retto da una pluralità di sovrani, tuttavia non è chiaro quale forma di sistemazione concreta l’impero dovesse assumere. I soldati non si dimostrarono sensibili alle sottigliezze della politica: la loro scelta era a favore del principio di una rigida successione dinastica. Alla morte di Costantino, forse con la complicità dei figli, i suoi nipoti furono assassinati in quanto potevano rappresentare un’alternativa alla successione. Costantino II, Costante e Costanzo raggiunsero un accordo per il governo congiunto dell’impero, che però si rivelò precario: già nel 340 d.C. Costantino pagava con la vita l’incursione compiuta nei territori di Costante, che a sua volta moriva pochi anni dopo per mano di un usurpatore dopo anni di conflittualità con Costanzo, che rimase unico imperatore e nominò Cesare il cugino Giuliano nel 360. Un anno dopo Costanzo morì. Giuliano regnò per 18 mesi e morì nel corso di una campagna contro i persiani. Il suo regno è ricordato soprattutto per un effimero tentativo di reintrodurre la religione pagana. Giuliano aveva elaborato un programma di ampio respiro che aveva i propri capisaldi in un’amministrazione efficiente e onesta nella rivitalizzazione delle città. Questo progetto si scontrò con due difficoltà: la guerra contro i persiani e le tensioni determinate dal suo progetto di restaurare il paganesimo. Tale progetto determinò resistenze e attriti. Giuliano, che era uomo di cultura e scrittore valente, è 91 passato alla storia con l’epiteto infamante di Apostata, cioè di “rinnegato”, che gli fu affibbiato dai cristiani, che ebbero a temere che potesse tornare il tempo delle persecuzioni. Dalla morte di Giuliano a Teodosio Magno Per quanto riguarda la storia politica, l’Impero Romano nel IV secolo a.C. presenta una relativa stabilità. Anche il problema barbarico fu a lungo tenuto sotto controllo, sebbene le esigenze dell’esercito incontrassero resistenze sempre maggiori. Dopo il breve regno di transizione di Gioviano, che stipulò una pace poco onorevole con i persiani, nel 364 d.C. fu acclamato imperatore Valentiniano, che si associò al potere il fratello Valente, a cui affidò il governo di Oriente. Tale decisione può considerarsi un passo importante lungo la via che portò alla separazione della parte occidentale da quella orientale dell’impero. Valentiniano scelse di risiedere a Treviri, mentre Valente risiedeva a Costantinopoli. Valentiniano si segnala per una politica di tolleranza religiosa e di sostegno per le classi più umili. Il suo regno è però importante soprattutto per un efficace contenimento dei barbari. Alla sua morte, avvenuta per cause naturali, gli successe il figlio Graziano. Fu proclamato Augusto anche il fratello minore Valentiniano II anche se aveva solo 4 anni. Nel frattempo, a Valente toccò affrontare una situazione molto difficile: l’Europa centro – orientale si trovava sconvolta dall’invasione di una popolazione nomade, gli Unni, che sottoponevano a una pressione molto forte i Goti, che a loro volta premevano sulla frontiera danubiana. Quando irruppero in Tracia Valente li affrontò in una battaglia campale: la sconfitta da lui subita ad Adrianopoli nel 378 d.C. rappresenta uno degli episodi che annunciano la fine dell’impero romano d’Occidente. La disastrosa sconfitta ad Adrianopoli segna una cesura di gravi proporzioni. L’inesperto Graziano, rimasto imperatore da solo con il piccolo Valentiniano II, chiamò un generale spagnolo, Teodosio, a condividere con lui l’impero. Teodosio, consapevole dell’impossibilità di ricacciare i goti al di là del Danubio, concluse nel 382 d.C. un accordo con il loro capo, secondo cui i Goti avrebbero ricevuto delle terre all’interno dell’impero come popolazione autonoma (erano detti foederati), e mantenevano i loro capi e le loro leggi. Intanto in Occidente le cose si andavano inasprendo. Nel 383 d.C. ci fu un’usurpazione in Britannia da parte di un ufficiale spagnolo, Magno Massimo. Quando questi invase la Gallia Graziano, abbandonato dall’esercito, si tolse la vita. Teodosio alla fine sconfisse Massimo. La situazione si era appena ristabilita quando Arbogaste fece assassinare Valentiniano II che era stato affidato alla sua tutela e fece nominare imperatore Eugenio, Teodosio sconfisse anche Eugenio. Teodosio manifestò una particolare attenzione per il problema religioso. Fondamentale è l’editto del 380 d.C., con il quale la religione cristiana veniva elevata al rango di religione ufficiale dell’Impero. L’anno seguente promulgò una legislazione sempre più severa nei confronti dei seguaci del paganesimo. La vittoria del cristianesimo e la risposta pagana Abbiamo già visto che il IV secolo è un’età di cambiamenti soprattutto in campo religioso. La svolta costantiniana a favore del cristianesimo è corroborata dalla legislazione antipagana degli imperatori successivi che culmina in quella di Teodosio. Il trionfo del cristianesimo porta con sé novità 92 fondamentali nella politica e nella società: il vescovo, l’uomo santo e la donna diventano i protagonisti di un mondo rinnovato. La risposta pagana si situa su un piano prevalentemente culturale: a Roma l’aristocrazia senatoria difende il paganesimo anche per tutelare la propria identità politica. La crisi economica Tra il II e il III secolo a.C. la trasformazione nei sistemi delle aziende agrarie cui si assiste può essere una svolta considerata manifestazione di una crisi in atto. La villa schiavistica aveva ormai esaurito il suo ciclo come centro produttivo autonomo. Molte ville venivano abbandonate, la produzione tendeva a essere decentrata su varie unità minori. Le incursioni barbariche che colpirono l’Italia determinarono, con la rottura delle frontiere, la chiusura dei circuiti commerciali mediterranei, a loro volta tendenti a circoscriversi progressivamente in aree più ristrette. Le ripercussioni della crisi che si hanno sull’economia del III secolo a.C. hanno poco riscontro nelle nostre fonti. Il tipo di stato che alla fine ne emerge è caratterizzato da una maggiore pressione coercitiva sulla società e da un irrigidimento dell’articolazione sociale. Conseguenze importanti per l’economia ebbe anche l’istituzione di più capitali che corrispondevano alle aree strategicamente più importanti. Sin dalla fine del III secolo d.C. Roma cessò di essere residenza dell’imperatore quando Massimiano trasferì la sua residenza a Milano → Su Milano si indirizzerà buona parte delle risorse prodotte nell’Italia settentrionale. Le esigenze fiscali producevano distorsioni anche nelle relazioni sociali. Una circolazione limitata di beni fu garantita dall’emergere di nuove classi sociali, che mantenevano un alto livello di potere d’acquisto. La frammentazione politica seguita alle invasioni barbariche provocò nel V secolo d.C. la definitiva rottura delle relazioni commerciali all’interno del Mediterraneo, che determinarono un rapido abbassamento delle condizioni di vita e un netto declino demografico. Che cosa si intende per “Tarda antichità” Un cambiamento profondo si è registrato negli ultimi decenni della nostra considerazione del mondo antico, ovvero della delicata linea di demarcazione tra Antichità e Medioevo. Il limite cronologico tra queste due epoche è venuto indebolendosi, mentre sempre maggiore considerazione hanno avuto gli elementi di continuità. Si è venuta considerando nella coscienza storiografica l’idea di una Tarda antichità con caratteri originali e distintivi, tali da farle meritare una piena autonomia come periodo storico: con il nome “tarda antichità” si riflette l’immagine di un’epoca portatrice di valori positivi. Come momento conclusivo dell’età tardoantica si è accettata in genere l’invasione longobarda per l’Occidente (568 d.C.) e la fine del regno di Giustiniano per l’oriente (565 d.C.). Più controversa era invece la fissazione del momento iniziale: la tetrarchia, il regno di Costantiniano o l’età severiana erano visti come spartiacque di due epoche accostabili tra loro, seppure caratterizzate da elementi distintivi. 95 PARTE SESTA: LA FINE DELL’IMPERO ROMANO D’OCCIDENTE E BISANZIO La fine dell’Impero Teodosio non solo fu in grado di riunire l’impero sotto la guida della sua persona, ma fu l’ultimo imperatore a regnare sull’Impero Romano così com’era ai tempi di Augusto, unito dall’estremo Occidente (Europa occidentale, Britannia, Spagna, Gallie) fino all’estremo Oriente (Siria, Palestina, Nord Africa, Europa orientale). Fu anche l’imperatore che proibì del tutto i culti pagani, ovvero la religione politeista romana tradizionale: secondo alcuni il suo regno segna la fine dell’Antichità classica. Si inizia a formare la nuova società di tipo cristiano, con l’imperatore protettore della cristianità e poi tutto il popolo, la nobiltà e i sudditi: è un’anticipazione di ciò che accadrà nel Medioevo. Quindi vediamo come il passaggio dall’epoca classica a quella medioevale non avviene tutto in un colpo, anche se agli storici piace mettere date “fisse” per separare le epoche. Alcuni storici pongono la fine dell’Antichità classica con Costantino, anche se Costantino emanò un editto di tolleranza per quanto riguardava la liberà di culto dei cristiani ma non arrivò mai a proibire i culti tradizionali, anzi continuò a essere Pontefice massimo fino alla morte, quando si fece battezzare. Graziano fu il primo imperatore che rifiutò la carica di Pontefice massimo, ma già Costanzo II aveva proibito i culti pagani: c’è un grosso e lungo periodo di transizione che culmina con Teodosio, che decreta la fine dei culti pagani. Teodosio regna poco, ma è presente sulla scena militare e politica per molto tempo. Nel 393 rimane l’unico detentore del potere supremo ma due anni dopo muore e lascia in eredità l’impero ai due figli Onorio e Arcadio. Da questo momento l’Impero romano d’Occidente sotto Onorio e quello d’Oriente sotto Arcadio diventano due entità di fatto indipendenti e separate, e non verranno mai più riunite. Non è detto che questa fosse l’intenzione di Teodosio, probabilmente lui voleva semplicemente ricostituire la diarchia (come quella che c’era stata ai tempi di Diocleziano e Massimino). Dopo la morte di Teodosio i suoi due figli, che erano piccoli, caddero nelle mani dei vari generali politici delle rispettive corti. Questo travaso di potere dall’imperatore verso la corte era una cosa che era in atto già da tempo ed era una logica conseguenza della spartizione dei poteri con la creazione delle varie corti separate che era iniziata sotto Diocleziano. Al tempo di Diocleziano la creazione di varie corti con gli Augusti e i Cesari aveva avuto l’effetto di arginare tutti i problemi che c’erano, però nel lungo periodo diventò un problema. La divisione dell’impero, Flavio Stilicone La morte di Teodosio nel 395 a.C. segnò un momento di svolta decisivo nella storia dell’Impero Romano tardo. Per la prima volta esso fu diviso di fatto in due parti tra i due figli di Teodosio: Arcadio, cui toccò l’Oriente e Onorio, cui toccò l’Occidente. Si crearono due corti, due amministrazioni, due eserciti del tutto autonomi. L’esito di tale smembramento risultò particolarmente rovinoso per l’Occidente, minacciato dalle sempre più frequenti invasioni barbariche, mentre l’Oriente doveva fronteggiare il tradizionale nemico persiano. 96 Nelle intenzioni di Teodosio, il principio unitario doveva essere mantenuto vivo dal generale di origine vandalica Stilicone, cui affidò in tutela i due figli. Onorio e Arcadio vennero lasciati sotto la guida di qualcuno più grande ed esperto, ovvero uno dei generali di Teodosio, Flavio Stilicone, personaggio di origine vandala. Il problema è che Stilicone cercò di imporsi subito come il reggente dell’impero, ma poi Arcadio in Oriente cadde ostaggio della sua corte, che fece di tutto per emarginare Stilicone e estrometterlo dal potere. Stilicone divenne di fatto il tutore di Onorio in Occidente, e l’Oriente prese una sua strada anche per questo motivo, ovvero perché i ministri di Arcadio non volevano spartire il loro potere con la corte dell’Occidente. Stilicone si trovò subito occupato a combattere contro le varie popolazioni che sconfinavano in nord e in centro Europa. Si rivelò un generale molto capace, infatti fu in grado di sconfiggere i franchi, che stavano entrando nei confini dell’impero, combatté anche contro i goti nei Balcani. I goti avevano incominciato a insediarsi nell’ est Europa dopo la battaglia di Adrianopoli del 378, dove è morto l’imperatore Valente. Da quel momento erano stati integrati con più o meno successo nei confini dell’Impero, molti di loro erano anche entrati al servizio dei romani. Uno di questi, Alarico, era stato anche un generale di Teodosio, però poi si era proclamato re dei goti e aveva invaso l’Italia diverse volte. Viene sempre “tenuto a bada” da Stilicone, che lo sconfigge in una battaglia combattuta presso Verona, costringendolo poi a ritirarsi e a ritornare nei Balcani. Nel 405 Stilicone sconfisse anche un’altra invasione di goti provenienti da nord, guidati dal re Radagaiso che venne ucciso. Questo determinò un nuovo travaso di germanici nell’esercito romano guidato da Stilicone. Il problema era che per sostenere tutte queste campagne contro i goti Stilicone era stato costretto a trasferire diverse truppe dal confine del Reno in nord Italia. Nel 406 il Reno gela durante l’inverno. I vandali, gli alani e gli svevi lo attraversarono e invasero la Gallia: momento in cui il limes (confine romano occidentale) crolla. Stilicone non potette intervenire immediatamente, in quanto ancora occupato in nord Italia con l’invasione di Radagaiso. Le truppe della Britannia, nel frattempo, nominarono un proprio imperatore, ovvero il generale Costantino III, che abbandonò la Britannia e andò in Gallia per cercare di fermare l’invasione di questi popoli ottenendo anche qualche successo. Il problema è che in questo momento la Britannia venne completamente abbandonata, tutte le truppe seguirono Costantino in Gallia. La situazione si mette male per Stilicone, che anche a causa delle sue origini barbare non era mai stato amato alla corte imperiale dell’Occidente, che nel frattempo si era trasferita a Ravenna in quanto città più difendibile. Cadde in disgrazia, nel 408 venne deposto e ucciso. Onorio provava un grande disprezzo per i barbari e per i germani e ordinò anche una purga, un massacro di germani nell’esercito dell’Occidente, ottenendo come risultato che molti germani disertarono e scapparono 97 nei Balcani raggiungendo Alarico in Tracia. Quindi le truppe di Stilicone si unirono ad Alarico che, essendosi accorto che l’Italia non era più difesa, decise di invaderla. Il sacco di Roma (410 d.C.) Erano quasi 800 anni che Roma non veniva presa da una forza non romana: l’ultima volta era stato nel 390 a.C. quando i Galli di Brenno avevano occupato Roma per qualche momento, e poi erano stati fatti andare via con il pagamento di un riscatto. Nella pittura del Sacco di Roma vediamo i barbari seminudi: l’incarnazione del selvaggio che distrugge i monumenti romani. Questa era la versione ottocentesca dei fatti, epoca in cui era molto popolare la contrapposizione tra civiltà/inciviltà. In realtà le cose non andarono esattamente così: Alarico non era venuto in Italia con lo scopo di saccheggiare Roma, ma era venuto per farsi nominare “Magister militum”, ovvero maestro dei soldati, cioè la carica che aveva occupato Stilicone. Onorio non ne volle sapere, nonostante il senato a Roma fosse abbastanza incline non voleva avere un altro barbaro alla guida del suo esercito. Quindi Alarico nell’agosto del 410 entrò a Roma e la saccheggiò. In realtà questo saccheggio fu abbastanza pacifico, però ben programmato. In ogni caso l’evento fu traumatico per l’epoca, in quanto come detto prima erano più di 800 anni che Roma non veniva invasa. Neppure così Alarico riuscì a farsi nominare ministro dell’Imperatore, quindi, dovette lasciare Roma e si spostò in sud Italia, dove forse voleva imbarcarsi per raggiungere l’Africa, ma di lì a poco morì di malattia. La leggenda narra che sia ancora sepolto da qualche parte in Basilicata insieme ai suoi tesori. Questa era la situazione dei primi anni del V secolo d.C.
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