Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Sintesi di "la marca" per Brand Communication, Sintesi del corso di Brand Marketing

Sintesi del libro "La marca. Costruzione, sviluppo, valutazione" (capitoli da 1 a 4), usato per l'esame in Brand Communication con la professoressa Laura Grazzini e la professoressa Matilde Milanesi, laurea magistrale in Strategie della comunicazione pubblica e politica.

Tipologia: Sintesi del corso

2023/2024

In vendita dal 02/07/2024

elisa-lizza
elisa-lizza 🇮🇹

4.4

(14)

77 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Sintesi di "la marca" per Brand Communication e più Sintesi del corso in PDF di Brand Marketing solo su Docsity! LA MARCA. Costruzione, sviluppo, valutazione Nel nuovo millennio, l'evoluzione dell'ambiente economico e sociale ha riproposto con grande evidenza la rilevanza della marca nell'ambito del processo di creazione di valore. I consumatori, assistiti nelle loro scelte da piattaforme intelligenti, manifestano oggi le proprie preferenze verso brand che, oltre a nuove priorità valoriali, evidenziano una crescente sensibilità all'etica, al rispetto delle persone e dell'ambiente, all'autenticità e al reale value for money di beni e servizi. La marca rappresenta una risorsa sempre più importante nella gestione delle relazioni di mercato data la trasformazione del rapporto fra domanda e offerta innescata dalle nuove tecnologie e dai nuovi ambienti comunicativi digitali. La creazione di valore per il cliente appare infatti sempre più subordinata all’interazione fra sistema della produzione e sistema del consumo, evidenziando nuovi ambiti di azione per la marca, che in parte derivano dall’ampliamento delle funzioni da essa tradizionalmente svolte sul piano relazionale e in parte rappresentano uno stacco significativo rispetto alla consolidata traiettoria evolutiva. Ci affidiamo ad una marca per le esperienze pregresse positive, questo ci aiuta a fare scelte più semplici e ci orienta nelle scelte. La base per costruire la fiducia tra marca e consumatore parte dalla brand awareness, quindi essere conosciuti dai consumatori (essere presenti nelle menti dei consumatori). Essere fedeli ad un brand vuol dire preferirlo rispetto ai competitor e continui a sceglierlo rispetto a tutte le alternative. La fiducia è il punto di partenza per poi creare la fedeltà e il brand love. Il brand deve creare associazioni positive per far si che il consumatore abbia una buona opinione e finisca con scegliere proprio quella marca. 1. LA MARCA: RILEVANZA E SFIDE STRATEGICHE L'ampliamento delle funzioni tradizionali scaturisce dai crescenti contenuti immateriali che caratterizzano le relazioni di mercato, enfatizzando il ruolo della marca quale «risorsa di fiducia» fondamentale per collegare domanda e offerta. In quest'ottica, la marca diviene sempre più un «facilitatore di conversazioni» sulle nuove istanze legate all'autenticità, alla sostenibilità ambientale, alla solidarietà sociale, alla ricerca di benessere fisico e psicologico. La marca impatta in modo rilevante sulle percezioni e sulle decisioni di acquisto dei clienti. La marca possiede una serie di funzioni di utilità sia per i clienti che per il produttore. PER I PRODUTTORI 1. Protezione 2. Posizionamento: la marca deve differenziare rispetto ai concorrenti e quindi crea posizionamento competitivo (immagine che abbiamo nella nostra mente della marca, l’idea che abbiamo paragonata ai competitor) 3. Capitalizzazione: brand extention, capacità di entrare in business più o meno correlati PER I CLIENTI 1. Di orientamento 2. Di garanzia 3. Di personalizzazione 4. Di praticità 5. Ludiche Il significato della marca Il termine «brand», di derivazione nordica (brandr), significa «bruciare», avendo quale riferimento l'operazione di marchiatura necessaria per contrassegnare e riconoscere i capi di bestiame. Il termine «marca» deriva, invece, dal germanico marka, che significa «limite», «termine», «confine». Ferraresi: “è un dispositivo commerciale e comunicativo la cui funzione principale consiste nel distinguere il prodotto che essa riveste. La marca delimita, confina e pone un termine, una distinzione tra quello che appartiene al suo territorio e quello che invece è territorio di pertinenza di altre marche”. MARCA è “un nome, termine, segno, simbolo o disegno, o una combinazione di questi elementi, che identifica i beni e servizi di un venditore, differenziandoli da quelli della concorrenza” (American Marketing Association). Costituisce inoltre una fondamentale risorsa intangibile basata sulla fiducia, in grado di contribuire in modo determinante allo sviluppo del capitale relazionale dell’impresa. La marca sintetizza gli aspetti distintivi (segni di riconoscimento) che la differenziano rispetto ai competitor. Le 3 componenti principali di una marca. Con particolare riferimento alle relazioni di mercato, tale contributo deriva da specifici segni di riconoscimento (dimensione identificativa: la marca è in grado di differenziarsi da quella dei concorrenti), capaci di evocare alla mente dell'individuo un insieme di associazioni (dimensione percettiva: la marca è in grado di creare associazioni cognitive e percezioni), di aspettative e convinzioni (dimensione fiduciaria: la marca è in grado di confermare le aspettative) a cui i consumatori attribuiscono un valore differenziale, che influenza la relazione fra prezzo e quantità, traducendosi per l'impresa in vantaggi di prezzo (premium price) e/o di quota (share premium). Da un lato vi è un effetto di «traslazione», che comporta uno spostamento verso destra della curva di domanda, il che significa un livello di vendite più elevato a parità di prezzo. Dall'altro lato, vi è un effetto di irrigidimento, ossia una maggiore inclinazione della curva che consente dunque l'applicazione di prezzi più elevati a parità di volumi venduti (da P0 al prezzo P1, a parità di quantità Q0). L'effetto d'irrigidimento è misurabile basandosi sul differenziale di prezzo (il cosiddetto premium price) che il prodotto contraddistinto dalla marca riesce a ottenere rispetto a prodotti sostanzialmente simili per qualità, ma non contraddistinti da marche parimenti affermate. L'analisi deve però considerare tutti gli elementi differenziali rilevanti, poiché i maggiori prezzi di vendita conseguibili dal prodotto contraddistinto dalla marca considerata possono essere parzialmente compensati da maggiori flussi in uscita (per esempio, per l'utilizzo di materie prime di qualità più elevata). Irrigidimento della curva di domanda nelle marche del lusso Un tipico caso di marche la cui politica di mercato è finalizzata all'irrigidimento della curva di domanda riguarda i prodotti di lusso, attraverso strategie per: distinguere i consumatori appartenenti al proprio target dai non consumatori, soddisfacendo in tal modo il bisogno di appartenenza; e creare l'impressione di scarsità/unicità del prodotto, soddisfacendo il bisogno di differenziazione/espressione della propria individualità. Questo attraverso il de-marketing «selettivo», che è volto alla riduzione della domanda proveniente da consumatori indesiderati per proteggere la clientela principale che rifiuta di essere affiancata da clienti non appartenenti al target della marca. A tale scopo, l'impresa riduce le disponibilità di prodotto, rendendone più ardui la ricerca e l'ottenimento. Il de-marketing selettivo diviene poi «ostentativo» quando l'impresa comunica esternamente l'unicità e l'esclusività del prodotto, in maniera tale da renderlo ancora più desiderabile. I beni di lusso infatti devono essere desiderati da tutti ma consumati soltanto da pochi eletti (the happy few). La non sovrabbondanza dell'offerta è caratteristica essenziale per il successo a lungo termine delle marche di moda che tendono all'irrigidimento della curva di domanda: infatti, anche se nel breve periodo può risultare altamente redditizio moltiplicare i punti di vendita e gli sconti promozionali, la banalizzazione del brand che ne deriva nel medio-lungo periodo si ritorce negativamente sul posizionamento nel mercato, facendo venire meno l'effetto di irrigidimento della curva di domanda. In quest'ottica, vengono affrontate due decisioni di rilevanza essenziale per la politica di mercato dell'impresa: i prezzi del prodotto e la sua distribuzione al dettaglio. Ricorrendo ancora alle parole di Kapferer: «La principale strategia per le marche che possiedono elementi simbolici è proteggere i propri consumatori dai non consumatori, creando barriere all'entrata per coloro che non sono "invitati". Tale strategia è realizzata per mezzo della variabile prezzo e con una scelta distributiva esclusiva, oltre che per mezzo delle dimensioni estetiche del prodotto». L'effetto di traslazione, comportando uno spostamento verso destra della curva di domanda, determina invece un aumento delle quantità vendute (da Q0, a Q’0 a parità di prezzo (P0)). In questo caso, al fine d'individuare i flussi di risultato generati dalla marca, occorre considerare il margine lordo rapportato in termini percentuali ai ricavi di vendita. La marca aggiunge dunque all'offerta una dimensione identificativa, percettiva e fiduciaria, differenziandola da altre proposte concepite per soddisfare la stessa esigenza. Questa differenziazione può essere razionale e tangibile - connessa cioè alle funzionalità e alle prestazioni del prodotto - o simbolica, emotiva e sperimentazione, stimolando l'introduzione di nuovi prodotti e servizi identificati dalla marca, ne estende ulteriormente i significati e la proposta di valore. Lo stadio di accreditamento del ciclo evolutivo del valore della marca implica, la generazione delle sue componenti cognitive, dalle quali dipende l'effetto differenziale che la conoscenza della marca stessa (brand knowledge) è in grado di determinare sulle risposte dei consumatori ai suoi segni di riconoscimento e alle politiche di marketing a essa relative. In questo stadio, agisce il vettore identificazione, attraverso il quale viene alimentato il potenziale di orientamento della marca. Lo stadio successivo, relativo all'accumulazione del valore, si basa sul vettore valorizzazione e rende operante il potenziale di differenziazione mediante la generazione nei consumatori di stabili convinzioni in merito: alla capacità della marca di garantire un soddisfacente rapporto benefici/sacrifici; all'equità dei suoi comportamenti di mercato. Il terzo stadio, concernente l'ampliamento del valore, implica invece il presidio del vettore astrazione, che, comportando un progressivo arricchimento del significato della marca e della proposta di valore offerta ai clienti, favorisce la nascita del potenziale di estensione. Infine, l'ultimo stadio si riferisce all'attivazione del valore della marca attraverso il vettore sperimentazione, che, stimolando lo sviluppo di innovazioni volte a consolidare e a estendere il network di relazioni di mercato, favorisce l'accumulazione di un potenziale di apprendimento, sul quale basare la reiterazione dei cicli evolutivi. Il modello della customer-based brand equity: chiarisce come il potere di una marca risieda in quello che i consumatori hanno appreso in merito alla stessa, attraverso esperienze dirette e indirette, sottolineando in tal modo che il potere di una marca risiede nella mente dei consumatori. In questa prospettiva, il valore della marca (customer-based brand equity) è l'effetto differenziale che la brand knowledge esercita sulla risposta del consumatore alle attività di marketing realizzate dalla marca stessa. Questo effetto è positivo se i consumatori reagiscono in maniera più favorevole al marketing di un bene/servizio quando ne identificano il brand rispetto a quando non lo conoscono (per esempio, se il prodotto non ha nome o ne possiede uno fittizio). In questo caso, i consumatori potrebbero essere più propensi ad accettare un'innovazione introdotta dalla marca, meno sensibili a un aumento del prezzo e alla riduzione degli investimenti pubblicitari, o più inclini a cercare quella marca. Viceversa, l'effetto è negativo se l'attività di marketing di un brand determina nei consumatori una reazione meno favorevole rispetto a quella di un medesimo prodotto anonimo o con un nome fittizio. La definizione proposta si basa su tre elementi chiave: - l’effetto differenziale, proprio perché il valore della marca deriva dall'esistenza di differenze nelle reazioni dei consumatori. Laddove non vi siano queste differenze, il prodotto di marca si può classificare come semplice merce o versione generica, in questo caso, la concorrenza si baserà in larga prevalenza sul prezzo; - la conoscenza della marca, che si esprime attraverso diverse componenti, per cui le differenze suddette sono il risultato della conoscenza della marca, articolata nella notorietà (brand awareness) e nelle associazioni mentali (brand image); - la risposta del consumatore alle politiche di marketing, perché la risposta differenziale dei consumatori - che determina il valore della marca - si riflette nelle percezioni, nelle preferenze e nei comportamenti legati a tutte le attività di marketing poste in essere dalla marca (la scelta di un brand, il ricordo di parti di un messaggio pubblicitario, la reazione a una promozione, il giudizio su una possibile estensione del brand, il commento sui social network). Nella prospettiva del modello in esame, la brand knowledge è la chiave per creare valore, in quanto determina l'effetto differenziale che è all'origine di importanti risultati per l’impresa. Branded world: la pervasività della marca La marca è divenuta parte integrante della vita quotidiana di pressoché tutti gli individui, perché in grado di: semplificare le scelte, promettere un particolare beneficio (funzionale, psico-sociale, esperienziale), limitare il rischio e/o generare fiducia. In buona sostanza, ogni volta che il consumatore si trova a dover scegliere fra due o più prodotti in concorrenza, la marca viene a svolgere un ruolo importante. La marca non è più riducibile a semplice segno di riconoscimento ma è uno degli asset tra i più preziosi e, al contempo, un rilevante strumento di business. Questo spiega la scelta di un numero crescente di aziende di dotarsi di una marca, anche in settori nei quali tradizionalmente i prodotti erano unbranded: non per il semplice gusto di possederla, ma per riuscire, attraverso questa, a sviluppare il proprio business in modo redditizio, misurandosi continuamente con la concorrenza. Il branding è divenuto strategico per molti altri settori e/o categorie di prodotti anche non di largo consumo. Principali ambiti applicativi della marca: prodotti, servizi e Industry; luoghi; persone; contenuti e comunicazione; ecosistemi e piattaforme. Marche connesse a prodotti, servizi e industry In relazione a questo primo ambito di applicazione della marca, è utile distinguere tra mercati di consumo (business to consumer) e mercati industriali (business to business), servizi, insegne commerciali, industria del lusso e dello sport, business digitali. Consumer brand vs business to business brand Molti prodotti considerati un tempo essenzialmente come merci, sono divenute marche, e questo è stato determinato dal fatto che i consumatori si sono persuasi che non tutte le offerte nell'ambito della medesima categoria sono equivalenti. Nel contesto B2B, la marca deve orientarsi alla creazione di un'immagine e di una reputazione positive per l'impresa nel suo complesso, nell'ipotesi che una marca forte possa rappresentare un rilevante vantaggio competitivo. Service brand Una delle principali sfide che la politica di marca incontra nei settori dei servizi è connessa ad alcuni elementi ritenuti rilevanti e più frequentemente citati quali specifici: l'immaterialità e l'inseparabilità tra produzione e consumo, cui si aggiungono l'eterogeneità e la deperibilità. L’immaterialità è stata collegata sia all'impossibilità di mostrare o toccare il servizio sia alla sua impalpabilità. Mentre l'inseparabilità sottolinea la necessità di un contatto diretto e una presenza simultanea tra il personale dell'impresa e il cliente, per poter erogare il servizio e consentirne il relativo impiego. Tali principali caratteristiche hanno evidenziato sia la necessità di enfatizzare le componenti tangibili dell'offerta di marca sia di presidiare e gestirne continuamente la comunicazione all'interno del customer journey, dando forte rilevanza all'immagine di marca e anche esaltando gli elementi visivi di quest'ultima. Per cui, anche per il branding dei servizi, nomi, loghi, simboli, personaggi e slogan devono creare consapevolezza e immagine per fornire maggiore concretezza ai vantaggi offerti. Retail e store brand Anche le aziende commerciali, facendo leva sulla loro capacità di influenzare le scelte di consumo, hanno elaborato strategie di marca sempre più efficaci. Basti pensare a Esselunga e Coop in Italia che, pur presentando strutture organizzative e proprietarie assolutamente differenti (impresa privata e familiare la prima, azienda cooperativa la seconda), hanno sviluppato attività di branding convergenti, ricercando elementi di differenziazione di marca in: localizzazione dei punti di vendita, tipologia dei punti di distribuzione, portafoglio di marche, merchandising e così via. Attraverso le sue campagne pubblicitarie, Decathlon si propone come retailer in grado di rispondere a tutte le esigenze degli sportivi mediante articoli a prezzi convenienti e un'assistenza professionale; Lidl è diventato famoso per la sua offerta a prezzi bassi; Esselunga, con Esselunga, ha sempre curato la qualità dei suoi prodotti. Luxury brand È noto che quello del lusso è un settore in costante crescita sia nei Paesi avanzati sia in quelli emergenti. Questo è particolarmente significativo per l'Italia, in cui tale settore è un fondamentale elemento di differenziazione dell'industria nazionale dei prodotti di consumo e, più in generale, un simbolo della propria country image. La stragrande maggioranza delle imprese del lusso - soprattutto nella moda, nei gioielli, ma anche nei settori dei prodotti per la casa, dell'architettura, della cosmesi, dell'automotive e di altri a elevato contenuto simbolico - adottano politiche di marca che, seppur diverse, sono prevalentemente finalizzate a perseguire un posizionamento distintivo che enfatizza quel savoir faire in linea con gli archetipi di life style solitamente proposti dal settore. Non vi è univocità di pensiero in merito a che cosa debba intendersi per «marca di lusso». Un tentativo definitorio è stato condotto da Ko: è un luxury brand quel bene o servizio di marca che: i consumatori percepiscono essere di elevata qualità; offre valore autentico attraverso un insieme di benefici funzionali e/o psico-sociali e/o esperienziali desiderati da parte di chi lo acquista e lo utilizza; è associato/associabile a un'immagine di prestigio riconosciuta nel mercato di riferimento costruita su qualità specifiche fra le quali l'artigianalità, la maestria esecutiva, la qualità intrinseca, la distribuzione altamente selettiva; si caratterizza per praticare un prezzo sensibilmente superiore rispetto a quello medio di mercato per la stessa categoria merceologica; è in grado di instaurare una profonda connessione con il consumatore (resonance). Sport brand L'idea di gestire una squadra come una marca appare ormai ampiamente diffusa nel mondo dello sport, come dimostra l'esperienza di diverse squadre professionistiche (Paris Saint-Germain, Real Madrid, Manchester United, Bayern Monaco ecc.) e organizzazioni sportive (CIO, NBA, FIFA, UEFA ecc.) divenute ormai brand a tutti gli effetti. Per esempio, le società calcistiche appena citate sono diventate protagoniste nello sport management, combinando comunicazione, sponsorizzazioni, place e content management. Grazie alla propria immagine, alla notorietà acquisita e alla fedeltà dei tifosi, oggi i gruppi sportivi riescono a raggiungere gli obiettivi di revenue, indipendentemente dalla performance ottenuta dalla squadra sul campo. Simboli e loghi dei rispettivi brand hanno assunto importanza fondamentale dal punto di vista finanziario anche attraverso il licensing e il merchandising. Il branding non è tuttavia limitato alle squadre e alle organizzazioni, anche il singolo evento può costituire uno sport brand. Basti pensare ai Mondiali di calcio, alla Champions League o alla Formula 1 disputati in diverse località. Tutti questi eventi rappresentano dei brand che hanno il compito di trasferire un'esperienza di consumo unica, irripetibile e difficile da controllare: per esempio, una partita di calcio o una prestazione di Lewis Hamilton sul circuito di Montecarlo saranno diversi dalla partita e dal Gran Premio della settimana precedente o successiva, anche se avversari, clima e tutti gli altri elementi rimangono invariati. Questo implica un'accresciuta competizione, non solo reciproca all'interno di squadre, giocatori, circuiti, campionati, leghe e federazioni e tra queste ultime, ma anche con le molte altre scelte di svago e di intrattenimento che il consumatore/spettatore ha a disposizione e verso le quali destina le proprie risorse, oltretutto essendo raggiunto e coccolato dalle sempre più raffinate attività di marketing ormai essenziali per reclutare e trattenere clienti e fan. Digital brand Per le imprese pure player - operanti esclusivamente online (o «e-brand») - la marca si manifesta attraverso un processo virtuale, interattivo e basato sulla relazione online con la clientela. Google, eBay e Amazon, pur identificando servizi o prodotti differenti, rappresentano marche che hanno realizzato con successo strategie di digital branding. Inizialmente, si è cercato semplicemente di replicare gli sforzi di branding offline negli ambienti digitali, ma questa semplice «trasposizione logica» non riusciva a catturare pienamente i potenziali vantaggi offerti dal web e, in generale, dalle nuove tecnologie: interattività, partecipazione, collaborazione, condivisione, engaging, real- time e personalizzazione. Infatti, al monologo o alla univocità relazionale vengono oggi sostituite modalità di interazione e condivisione non solo fra marca e consumatore, ma anche fra gli stessi consumatori, come avviene nel caso delle brand community. Il digital brand, quindi, deve racchiudere al suo interno sia i due concetti chiave di partecipazione e co-creazione di significato, sia una regola fondamentale del brand management: la gestione di relazioni di mercato volta a creare valore per i clienti e a ottenere e accrescere la brand equity. Marche connesse ai luoghi In quest'ambito, il potere della marca consiste nel creare consapevolezza intorno al luogo e nel renderlo desiderabile. L'aumentata mobilità sia delle persone sia delle imprese ha contribuito allo sviluppo di questa tipologia di marca, nell'ambito di più ampie strategie di marketing territoriale. Place brand Questa tipologia di marca è stata definita come «nome, simbolo, logo, parola o un altro elemento grafico che identifica e differenzia sia la destinazione, sia la promessa di un'esperienza di viaggio memorabile, nonché ciò che consolida e rafforza il ricordo di momenti piacevoli dell'esperienza turistica». Il place brand - rappresentando la rete di associazioni di caratteristiche e valori, presenti nella mente dei consumatori e relative alla percezione del luogo - può differire in funzione di gruppi target che, solitamente, vengono distinti in: visitatori e/o turisti; residenti e lavoratori; imprese e industria o investitori/stakeholder, contravvenendo così alla convinzione che la marca di un luogo «si adatti a tutti». I luoghi devono essere distintivi e valorizzare la propria immagine, devono divenire vere e proprie marche, perché l'immagine di un luogo è il fattore chiave per qualsiasi processo decisionale. Nation brand e city brand Marche più attive su questo fronte: Coca-Cola, BMW e Ford. Marche connesse a piattaforme ed ecosistemi Negli ultimi anni, termini come «platform» ed «ecosystem» hanno trovato crescente diffusione in ambiti diversi. Usati per descrivere particolari contesti nei quali gli artefatti tecnici, tecnologici e digitali risultano centrali per rimodellare e riconfigurare una vasta gamma di attività e relazioni. In questa prospettiva, un numero crescente di marche, attive in settori differenti, ha riconosciuto la possibilità di offrire valore al cliente attraverso tali piattaforme ed ecosistemi. Branded platform Oggi si parla sempre più spesso di «società delle piattaforme», dove l'utilizzo delle piattaforme influenza in maniera sempre più rilevante settori della società molto importanti, guidati da algoritmi e alimentati dai dati. Questa definizione evidenzia i 4 principali elementi su cui si fondano le piattaforme. Esse, infatti, risultano: alimentate dai dati; organizzate da algoritmi; governate da relazioni proprietarie caratterizzate da specifici modelli di business; contraddistinte da particolari accordi con l’utente. Le piattaforme vengono così a configurarsi come la base «tecnologica» per le interazioni tra i partecipanti, sanciscono quindi il modo in cui le marche possono effettuare transazioni e interagire con i consumatori. Solitamente, oltre al proprietario della piattaforma, che abilita e governa l'interazione, sono coinvolte almeno altre due parti i produttori e i consumatori. I primi sono i creatori delle offerte veicolate dalla piattaforma, i secondi sono gli acquirenti di tali offerte. Le piattaforme possono dunque contribuire in misura significativa all'affermazione della marca. Di fatto, numerosi brand hanno iniziato a realizzare e gestire piattaforme multi-sided, che accolgono al loro interno molteplici interlocutori, consentendo così la realizzazione di network, relazioni, interazioni atti ad agevolare e realizzare gli scambi aumentando il valore delle piattaforme per tutti coloro che vi partecipano (produttori diversi) e acquistano (consumatori). A ben vedere, nell'odierno contesto gran parte della vita quotidiana dei consumatori passa attraverso le piattaforme. È tramite queste che si accede alle informazioni, si guardano film, si ascolta musica, si leggono libri, si archiviano documenti, si conosce che cosa fanno e pensano le persone vicine, si incontrano partner e, naturalmente, si acquistano numerose tipologie di prodotti. In effetti, sono sempre più numerosi i consumatori che ricorrono alle piattaforme per ottenere un passaggio in auto, prenotare un viaggio, sostenere una causa, finanziare un progetto, ordinare la spesa e la consegna di cibo e bevande a domicilio, vedere un film, ricercare un servizio specifico (dalle pulizie alle riparazioni) o una consulenza (medica, legale, contabile ecc.) e così via. Per descrive le nuove dinamiche di interazione tra proprietari, produttori e consumatori prendiamo come esempio le piattaforme televisive. La tradizionale programmazione televisiva era basata sul palinsesto. Tale strumento scandiva la giornata del consumatore: «Accendendo la televisione dovresti essere in grado di dire che ore sono basandoti su quello che stanno trasmettendo». L'accesso ai media è svincolato non solo dal tempo ma anche dallo spazio, ed è quindi possibile raggiungere i contenuti anche al di fuori delle mura domestiche. La programmazione on-demand, similmente a un catalogo, possiede la struttura di un database consultabile dal consumatore alla ricerca di un contenuto specifico. Interessante è stato l'approccio di Apple nel descriversi come un ecosistema composto da sub- brand, prodotti, tecnologie e servizi rivolti al segmento business. La piattaforma Apple (costituita da Mac, iPad e iPhone) viene presentata come sicura e performante. I prodotti Apple mostrano funzioni e app comuni che consentono di iniziare un lavoro su un device e continuarlo su un altro. Una sinergia di risorse che fa risparmiare tempo ed energie, ottimizzando i flussi di lavoro e la condivisione di informazioni. All'interno del sito di Apple si evince come «i dispositivi Apple sono pensati per migliorare la vita degli utenti così come quella professionale. Branded ecosystem È possibile individuare due tipologie predominanti di piattaforme: interne ed esterne. Le prime, realizzate da un unico soggetto (azienda o marca), sono in grado di sviluppare e produrre, in modo efficiente, un flusso di offerte basandosi su un insieme di risorse organizzate all'interno di una struttura comune: la propria piattaforma di marca. Così come evidenziato in precedenza, con Mac, iPhone e iPad, Apple è un chiaro esempio di piattaforma interna. Le piattaforme esterne, invece, possono essere formate da un insieme di prodotti, servizi o tecnologie diverse, provenienti da diversi soggetti e la cui struttura è organizzata in un ecosistema in grado di sviluppare e offrire prodotti, tecnologie o servizi. Le piattaforme esterne, organizzate in ecosistema, possono essere formate da un numero elevato di imprese/marche che realizzano innovazioni - sotto forma di prodotti specifici, servizi correlati o tecnologie aggiuntive e complementari - da sommarsi, via via, a quelle esistenti. All'interno delle piattaforme esterne possono esistere una o più «keystone-firm» ossia aziende e/o marche che guidano l'innovazione di un sistema in continua evoluzione, composto da componenti sviluppate separatamente ma che ricadono all'interno dell’ecosistema. Ancora una volta, è utile riferirsi ad Apple e, nello specifico, al suo App Store quale evidenza di piattaforma esterna dedicata alle app acquisibili e scaricabili all'interno di questo specifico store, creato da Apple sul sistema iOS. Uno studio ha evidenziato come il sostegno offerto dall'App Store alle piccole imprese ha fatto sì che, in poco tempo, molte di esse diventassero un motore fiorente e inclusivo di opportunità per le economie di tutto il mondo. La sfida della complessità Al crescere della strategicità assunta dalla marca in tutti i comparti economici, anche la sua gestione è divenuta più difficile sul piano competitivo, relazionale e tecnologico. La rivoluzione digitale ha ridefinito la struttura e i meccanismi competitivi di molti settori, ha abbattuto le barriere geografiche e attivato processi di convergenza intersettoriale, parallelamente, l'incremento esponenziale delle informazioni disponibili, la condivisione delle esperienze di consumo e la progressiva riduzione delle asimmetrie informative hanno sensibilmente accresciuto l'empowerment dei consumatori, generando un'esplosione di dati in ordine a preferenze, interessi, atteggiamenti, scelte e comportamenti individuali. Questi dati possiedono un enorme potenziale di creazione di valore. La complessità competitiva Molti beni e servizi sono ormai entrati nella fase di maturità, se non addirittura di declino, del loro ciclo di vita, con la conseguenza che l'aumento delle vendite di una marca può avvenire solo sottraendo quote di mercato ai concorrenti. Peraltro, l'accresciuta consapevolezza e la capacità di scelta dei consumatori si sono spesso tradotte in una minore fedeltà alla singola marca, costringendo le imprese a investire continuamente nel miglioramento del rapporto fra qualità e prezzo dei prodotti. Per ricercare opportunità di crescita, le imprese hanno sovente utilizzato i brand esistenti per lanciare nuovi prodotti in altre categorie. Processi di deregolamentazione hanno poi interessato vari settori (basti pensare all’energia, alle telecomunicazioni, ai trasporti) favorendo l'ingresso di nuovi concorrenti, mentre la crescente globalizzazione dei mercati ha inevitabilmente comportato una crescita del numero di competitor, che mette a rischio le attuali fonti di ricavi. Anche la penetrazione dei prodotti generici, dei cloni a basso prezzo delle marche leader e delle marche dei distributori è aumentata su scala mondiale. I distributori, in particolare, investono sempre di più sulle proprie marche, mentre esigono maggiori compensi per dare adeguata visibilità ai brand nazionali. La crescente complessità competitiva nasce dunque dalla coesistenza di meccanismi competitivi indiretti, che si affiancano alla tradizionale concorrenza settoriale, quella cioè che ha luogo fra le imprese operanti nel medesimo settore. Questi meccanismi si sostanziano in: - possibilità per le imprese di entrare in nuovi settori avvalendosi delle competenze tecnologiche e dei vantaggi concorrenziali acquisiti negli ambiti originari di attività (concorrenza trasversale); - aumento dell'interdipendenza tra imprese appartenenti a settori diversi (concorrenza intersettoriale) che, pur utilizzando tecnologie differenti, soddisfano gli stessi bisogni; - consolidamento di relazioni competitive indirette, riconducibili alla diffusione di strategie di diversificazione, che rende assai probabile la comunanza di concorrenti tra imprese operanti in contesti differenti (concorrenza a catena). Con riferimento alla concorrenza settoriale, l'intensificarsi della rivalità fra le imprese implica il continuo potenziamento del sistema di offerta per alimentare la differenziazione rispetto ai concorrenti diretti. In termini di brand management, ciò pone in primo piano la continua ricerca di elementi di differenza (point of difference) forti, favorevoli e unici. La trasformazione digitale ha aperto innumerevoli opportunità di differenziazione, poiché innumerevoli sono le modalità creative con cui le imprese possono utilizzare questo «enabler tecnologico» per creare valore. In primo luogo, è possibile utilizzare il nuovo paradigma per aumentare l'efficienza dei processi, ovvero l'impatto sui costi, volti: - alla comprensione di ciò che ha valore per i clienti (ridurre i costi di una ricerca); - alla creazione del valore per i clienti target (si pensi ai minori costi per la compagnia aerea se il check-in del cliente viene effettuato in taxi); - alla comunicazione del valore (utilizzo di brochure elettroniche o di video virali); - al trasferimento di tale valore (tema della disintermediazione distributiva, con un risparmio sui margini del canale). In secondo luogo, è possibile utilizzare le tecnologie digitali per migliorare l'efficacia (ovvero l'impatto sui risultati) di questi stessi processi: - per la comprensione di ciò che ha valore per i clienti (si pensi alla cosiddetta netnografia o all'analisi dei big data per il miglioramento dei modelli comportamentali e previsionali); - per la creazione di nuovo valore da offrire ai clienti target (si pensi al controllo in remoto dell'aria condizionata di casa, per trovare un ambiente già rinfrescato al proprio rientro); - per la comunicazione del valore (si pensi ai social media per sviluppare interazioni più ricche e legami più stretti con il proprio target); - per il trasferimento di tale valore (si pensi alla comodità di seguire una lezione personalizzata di inglese utilizzando una webcam da casa propria). Per prevenire la minaccia di entrate laterali nel proprio ambito di attività, è fondamentale adottare strategie di «difesa mobile», basate cioè sulla copertura anticipata di vuoti di offerta, sviluppando la profondità della strategia di marca. Uno straordinario esempio in tal senso è rappresentato da Perfetti, che grazie a un ampio portafoglio di marche presidia, di fatto, tutti i principali segmenti del mercato italiano dei chewing-gum, occupando da tempo un'incontrastata posizione di leadership. In ottica offensiva - ossia per fare il proprio ingresso in nuovi settori - assume invece importanza centrale la realizzazione di interrelazioni critiche tra differenti ambiti di attività. Per cogliere le opportunità derivanti dalla concorrenza trasversale, infatti, è necessario definire l'orizzonte competitivo aziendale alla luce delle molteplici interrelazioni esistenti fra i settori, attivando line e category extension, che possono fare leva: - sulla comunanza esistente a livello di clienti e di canali distributivi, nonché sui rapporti di complementarità fra prodotti eterogenei nell'appagamento di «grappoli di bisogni» interconnessi. Per esempio, Poste Italiane ha sfruttato con successo le interrelazioni di clienti e di canali facendo ingresso nei business della gestione del risparmio e della telefonia mobile; - sul potenziale di diffusività del capitale di conoscenza e di reputazione della marca, che consente sensibili risparmi nei costi di comunicazione e rilevanti benefici in termini di time to market. Si pensi all'ampiezza del brand mix presidiato da Armani, Bulgari ed Hermès, solo per citare alcuni fra i casi più noti. La competizione intersettoriale è una concorrenza sul valore percepito dal cliente, in quanto la scelta fra prodotti eterogenei sul piano tecnologico, ma in grado di soddisfare i medesimi bisogni, non può che fondarsi sull'analisi dei loro benefici e dei loro sacrifici. La concorrenza a catena opera in modo ancora meno visibile, in quanto prescinde dall'esistenza di un rapporto di sostituzione nella prospettiva del cliente. L'interdipendenza competitiva nasce infatti dalla condivisione da parte di imprese operanti in settori anche molto distanti di un concorrente attivo in entrambi gli ambiti. Un esempio è rappresentato da IBM e Sony, che - pur operando in core business differenti - risultano collegate dalla condivisione di un importante concorrente (Microsoft), i cui comportamenti nel business del software per la gestione delle relazioni con i clienti potrebbero modificarsi non a causa di cambiamenti intervenuti in tale contesto, ma in seguito a un inasprimento della competizione nel settore dei videogiochi. In casi simili, assume importanza ancora più centrale la costruzione di un rapporto di fedeltà alla marca. Solo in presenza di un'effettiva brand loyalty, fondata cioè su solide percezioni di valore, può infatti essere circoscritta la minaccia derivante da forme di concorrenza indirette. La complessità relazionale Gli stakeholder con i quali la marca interagisce (consumatori, distributori, fornitori, dipendenti, azionisti, comunità sociale) esprimono aspettative caratterizzate da elevata varietà e variabilità. Per esempio, per quanto riguarda i distributori, quanto più un settore può contare su clienti finali disponibili a utilizzare nuovi canali digitali (in funzione del target, dell'occasione e della tipologia di prodotto) tanto più il potere contrattuale degli intermediari tradizionali si riduce. Non è detto, però, che ciò si traduca automaticamente in benefici per la marca: il potere contrattuale potrebbe semplicemente trasferirsi, passando a nuovi intermediari elettronici (es: Amazon o Apple Store) o al cliente finale. Allo stesso modo, se le imprese a monte non riescono a differenziarsi sul fronte del valore per il cliente, allora internet accentua la pressione sui loro margini, a vantaggio dei settori a valle. È quanto accaduto ai produttori di contenuti audio e video: i loro margini si sono spostati a favore dei vari iTunes, Netflix o Amazon. Al contrario, quando internet sancisce il successo di una o poche imprese a monte, che grazie alla rete hanno saputo sviluppare una proposta di valore unica (si pensi a Google o Facebook come fornitori di pubblicità online), allora il potere contrattuale dei fornitori si accresce proporzionalmente, a discapito dell'impresa a valle. Le fasi della trasformazione La trasformazione inizia con la diffusione dei primi domini commerciali su internet e dei primi browser per navigare, ovvero all'inizio degli anni ‘90. Questa trasformazione, in ottica aziendale e di marketing, ha finora attraversato 4 fasi: - Fase 1: tra ignoranza e curiosità. Questo stadio, in Italia, si protrae fino al 1998 circa (negli Stati Uniti fino alla metà degli anni ‘90). Partono i primi progetti pionieristici, fra quelli che decollano vi sono Amazon, eBay, Expedia. Gli italiani che hanno accesso a internet nel 1998 sono meno di un milione. È l'era di Netscape, Real Player; - Fase 2: tra hype e negazionismo. Alla fine degli anni ‘90, in Italia si raggiunge il cosiddetto tipping-point (o salto dell'abisso), ossia il decollo della domanda presso il grande pubblico. In questo stadio, si contrappongono i visionari più fanatici, pronti a giurare che anche la nostra anima diventerà digitale, e gli scettici conservatori, ancora convinti che tutto si sgonfierà come in una moda passeggera. Molte aziende osservano ancora con curiosità, sempre più provano e sperimentano, generalmente senza grossi risultati. È l'era di Yahoo! e di Virgilio; è la fase dei primi siti aziendali e dei primi tentativi di e-commerce. Questa fase durerà fino allo scoppio della prima bolla di internet, nel 2001; - Fase 3: si riparte dal web 2.0. Lo scoppio della bolla aiuta tutti a tornare con i piedi per terra. Gli scettici radicali, tuttavia, sono sempre meno, poiché il cambiamento è ormai tangibile, costante e inesorabile. È la fase in cui cresce la partecipazione attiva degli utenti, crescono le comunità di marca, i blog, gli «user genereted contents» e la «wikinomics», la collaborazione di massa. Per descrivere tutto ciò, l'espressione «web 2.0» è coniata nel 2004. Emergono, myspace, Blogger e Second Life. Molte aziende continuano a sperimentare e ad apprendere, gli investimenti sono crescenti. I profitti, tuttavia, sono ancora per pochi. Si inizia a parlare di big data, di analytics; - Fase 4: social media, mobile e geolocalizzazione. L'avvento di Facebook, degli smartphone e dei tablet accelera la rivoluzione. Arrivano le app e gli ecosistemi digitali di Apple, Google, Microsoft e Amazon. Nel 2009 Zuckerberg pubblica un celebre post: «If Facebook were a country, it would be the fifth largest country in the world». Dopo solo pochi mesi sarebbe diventata la terza nazione al mondo (oggi è la prima). Da Facebook a Twitter, da Airbnb a Uber, il cambiamento è ormai radicale e attiene tanto alla sfera sociale quanto a quella di business. Quasi tutte le aziende, ormai, investono nel paradigma digitale con convinzione crescente. Oggi siamo entrati in una quinta fase, quella dell'intelligenza artificiale e degli agenti intelligenti, del machine learning e del marketing abduttivo (ragionamento attraverso il quale, partendo da alcuni fatti che si vogliono spiegare (premesse), si cerca di individuare una possibile ipotesi che li spieghi (conclusione)): big data, analytics, software e algoritmi sempre più sofisticati vengono utilizzati dalle aziende a fini descrittivi, diagnostici, predittivi e prescrittivi per affinare al meglio la propria azione commerciale. Per esempio, questi strumenti hanno migliorato l'operatività del marketing per il lancio di una nuova assicurazione auto, a vantaggio sia dell'azienda sia dei suoi clienti. Elaborando opportunamente dati interni ed esterni, l'azienda può segmentare in modo più preciso i suoi prospect e comunicare loro in modo più efficiente ed efficace: può pianificare in modo personalizzato l'uso dei canali migliori (televisione, email, social media ecc.), tenendo anche conto delle preferenze di interazione dei singoli. Tutto questo, in generale, determina un incremento di efficacia del messaggio e una minore invadenza della comunicazione. Contestualmente, comporta una diminuzione dei costi della campagna, consentendo di disinvestire dai mezzi più costosi, quando non risultino necessari, e di adattare man mano il piano media in funzione dei feedback ricevuti in tempo reale sull'andamento delle proprie azioni, utilizzando la cosiddetta logica A/B testing (trial and error) e dell'apprendimento continuo. Analogamente, il gigante dell'online shopping Alibaba non potrebbe offrire i servizi personalizzati di cui oggi godono i propri clienti senza l'utilizzo di sofisticati software basati su «intelligent agent technologies». Tali sistemi gli consentono di analizzare in tempo reale dati relativi a 175.000 transazioni al secondo per i suoi 500 milioni di clienti. Simili algoritmi sono progettati con lo scopo di trovare relazioni fra i dati senza ipotesi di partenza. Questo è possibile utilizzando le tecniche di machine learning. Un altro caso che illustra come i big data e l'intelligenza artificiale abbiano trasformato il modo di affinare le decisioni di marketing è quello di l'Oréal Paris per il lancio di un prodotto per la tintura fai da te. L'azienda ha deciso quale versione lanciare e come lanciarla a partire da quanto ha appreso dall'analisi etnografica delle comunità di consumo in rete e dall'analisi delle attività di ricerca online da parte dei consumatori attraverso strumenti cosiddetti di «search analytics». Attraverso queste analisi, diventa possibile effettuare indagini sui comportamenti dei consumatori, delle loro comunità o di altri stakeholder rilevanti (dipendenti, business partner, policy maker ecc.), ma anche analisi sui processi di passaparola e di influenza, che possono far emergere opportunità relazionali preziose nelle fasi di comunicazione e promozione. I dati raccolti, infine, consentono di effettuare l'analisi del cosiddetto «customer journey» (i percorsi di avvicinamento del cliente alla marca) e una conseguente valutazione delle potenzialità di «augmentation», ovvero di arricchimento del valore per il cliente tramite servizi digitali anche quando ci si trovi in ambienti fisici, come un punto di vendita o la filiale di una banca. Strumenti e tecniche di raccolta dati e web analytics Per il brand management, la sfida della trasformazione digitale si declina oggi in almeno 3 livelli di integrazione: fra canali (tradizionali e digitali); fra device (dal computer al mobile, fino all'internet of things); fra piattaforme (da Facebook a YouTube, da Instagram a Twitter). Questo implica la necessità di ridisegnare l'intero customer journey e la user experience, facendo leva su una conoscenza sempre più approfondita della domanda, ottenuta utilizzando le straordinarie potenzialità della tecnologia. Per esempio, grazie agli algoritmi di collaborative filtering, da tempo sperimentati da Amazon, Booking, Ikea e molte altre imprese attive nell'e-commerce, è possibile confrontare gli acquisti recenti di un individuo con le sue scelte passate e quelle di altri consumatori e dedurre su questa base informazioni predittive sui futuri pattern di acquisto, attivando quindi comunicazioni e promozioni mirate. Un'ulteriore frontiera è rappresentata dalla georeferenziazione e dal marketing contestuale: la connessione alla rete via mobile permette ai sistemi di customer relationship management di fare un salto di qualità, tracciando gli spostamenti del consumatore e segnalando promozioni dedicate fruibili lungo i percorsi. Allo stesso modo, mediante la tecnologia beacon, piccoli sensori dialogano con device digitali presenti nelle vicinanze tramite segnale bluetooth, permettendo di riconoscere i clienti presenti nel punto vendita e di inviare loro promozioni dedicate, di ricostruire lo storico degli acquisti, di mostrare nei negozi fisici prodotti inseriti in carrelli virtuali ma poi non acquistati. Anche la tecnologia blockchain può generare significative opportunità nel settore delle ricerche di mercato, relativamente alla qualità e alla gestione dei dati, alle piattaforme di raccolta, al rispetto delle sempre più stringenti normative sulla privacy. In generale, i contesti digitali consentono di utilizzare un ampio spettro di strumenti e tecniche di raccolta dati: - netnografia e social media monitoring: osservazione dei pattern di interazione all'interno delle comunità di utenti. Il social media monitoring consente, grazie a tecniche di intelligenza artificiale di comprendere il linguaggio naturale utilizzato dai consumatori; - sentiment analysis (o opinion mining): permette di isolare parti di testo che contengono parole chiave associate a elementi valutativi (apprezzamento o disappunto). Si definiscono in questo modo indicatori del mood della domanda verso particolari marche e/o prodotti; - clickstream analysis e log file analysis: ricostruisce con vari strumenti i flussi e i comportamenti di navigazione nel tempo. A livello di singolo sito web, le richieste di file da parte dell'utente vengono memorizzate per migliorare le funzionalità e l'esperienza di navigazione; - neuromarketing: impiega le neuroscienze per indagare in profondità sistema motivante, sistema percettivo e orientamenti comportamentali dei consumatori, utilizzando strumenti come: - la Functional Magnetic Resonance Imaging (FMRI) e l'elettroencefalografia (EEG) per rilevare il grado di attivazione, lo sforzo cognitivo e la valenza (positiva/negativa) dei soggetti rispetto a un task oggetto di analisi; - l'oculometria (o eye tracking), per individuare gli elementi di interesse e di attenzione; - i sensori biometrici per rilevare le espressioni facciali e le variazioni del battito cardiaco e della sudorazione; - research blog ad accesso protetto, volti a favorire interazioni orizzontali di natura quanto più possibile spontanea nell'ambito di un gruppo di utenti opportunamente selezionato; - usability testing per ottimizzare il disegno e le funzionalità sviluppati all'interno di uno specifico sito, confrontando l'efficienza nei percorsi di navigazione e verificando le differenze nelle esperienze di fruizione; - web survey con contenuti multimediali; - computer-simulated test per valutare nuove caratteristiche di prodotto, che sfruttano le potenzialità della grafica in 3D e delle simulazioni virtuali; - conversational survey chatbot, software in grado di simulare una conversazione con un essere umano attraverso un sistema di messaggistica per porre in modo più informale domande. La collisione tra marketing strategy, digital strategy e business strategy Per chiarire al meglio il significato di «digital business strategy» occorre però distinguere fra due situazioni differenti. Una prima situazione riguarda le imprese in cui tale strategia diviene essa stessa la strategia aziendale. È questo sicuramente il caso di tutte le cosiddette «digital company» come Amazon o Google. In questo senso, si parla di «digital business strategy» allorché il vantaggio competitivo sostenibile di un'impresa venga generato da risorse e capacità distintive nel trasformare le opportunità tecnologiche della rete in valore per il cliente prima e per l'impresa poi. Condizione necessaria per la sostenibilità è la rigenerazione continua e dinamica di tali risorse, per mantenere e sviluppare relazioni di fiducia nel tempo. Una seconda situazione riguarda, invece, imprese nelle quali la digital business strategy è interpretata come una declinazione della strategia aziendale, definita a un livello superiore. In quanto tale, verrà integrata con altre azioni competitive. Rispetto al caso precedente, non sarà più strettamente necessario il requisito della sostenibilità finanziaria, poiché già incorporato nella strategia generale. Quest'ultima dovrà essere sostenuta dalla digital business strategy attraverso una precisa definizione della presenza in rete dell'impresa o della marca. Tale presenza, in particolare, dovrà essere parte integrante della strategia di comunicazione e di marketing dell'azienda. Alcuni autori hanno sottolineato come le strategie digitali siano peculiari su almeno 4 dimensioni: raggio d’azione; scala; velocità; fonti del valore generato. Il raggio d'azione (scope) di una digital business strategy, spesso attraversa i tradizionali confini settoriali. Tra i casi relativamente più semplici vi è quello di Nike e delle sue applicazioni per il running, che aggiungono valore funzionale, psico-sociale ed esperienziale per fondere sportwear, fashion, healthcare e social entertainment. In aggiunta, si può affermare che il raggio d'azione delle strategie digitali è più ampio perché coinvolge veri e propri ecosistemi di valore, ovvero costellazioni di partner e fornitori provenienti dai più svariati ambiti competitivi. La scala di una strategia digitale, in molti casi, è più modulabile rispetto a quelle tradizionali. Così come tutto il mondo digitale è più liquido, la stessa struttura a rete del sistema di offerta (intesa come costellazione di partner e alleanze) garantisce flessibilità alla strategia, poiché consente di integrare, eliminare o sostituire interi rami o singoli nodi dell'ecosistema di valore. Non va comunque sottovalutata l'esistenza di una scala minima che, in alcuni casi, può essere elevata: investimenti up-front in logistica, per lo sviluppo di software proprietari o per la costruzione di una social brand identity, per esempio, possono rappresentare costi fissi non trascurabili. Il paradigma digitale consente strategie modulari, ma non è (necessariamente) cheap, come talvolta frainteso: richiede commitment e investimenti adeguati. Un elemento chiave delle strategie digitali è la velocità o, meglio, l’istantaneità e pervade tutti gli ambiti: dallo sviluppo del prodotto al supply chain management, dalla comunicazione con i clienti al pricing, fino a tutti i processi decisionali in generale. La parola d'ordine diviene sempre più spesso «real time». È stato osservato un passaggio dal «first mover advantage» al «fast mover advantage»: non conta chi sia il primo a muoversi o a identificare una nuova strada vincente, ma chi il primo a percorrerla. Fonti primarie di valore nel paradigma digitale sono l'informazione e la comunicazione, che l'impresa deve saper trasformare in valore per il cliente e in relazioni. È fondamentale il concetto di «appropriabilità», la cui fonte, oggi, risiede nel grado di controllo sulla costellazione del valore di cui si fa parte. La differenza tra Apple e Samsung, da questo punto di vista, è eclatante: l'azienda di Cupertino detiene minori quote di mercato, ma il maggior controllo che esercita sulla propria architettura di offerta (insieme ad altri fattori) si traduce in una maggior capacità di estrarre valore economico da tali quote, con risultati finanziari superiori rispetto al produttore coreano. Parlando di fonti del valore, si sottolinea che le digital business strategy sono spesso «multilayer», multistrato. Per chiarire il concetto, si pensi nuovamente ad Apple. Il primo successo della sua rinascita digitale è stato l'iPod. A differenza di altri concorrenti, iPod era un sistema d'offerta che si articolava su due layer: la vendita di hardware (primo strato) e la vendita di musica liquida (secondo strato). Lo sviluppo di questi modelli può seguire diverse logiche: si può decidere di creare un layer per generare valore su un altro (vendo musica a 99 centesimi per trainare i guadagni sulla vendita di hardware); oppure per creare effetti sinergici e moltiplicativi del valore, sia in ottica di customer acquisition che di customer retention (se il cliente iPhone acquisterà anche iPad otterrà valore sinergico per la sincronizzazione dei dati, delle applicazioni, della musica acquistata, delle foto scattate e così via, patrimonio che perderebbe passando a un altro brand); o, ancora, per creare asimmetrie rispetto a concorrenti che potrebbero imitarci su alcuni layer ma non su altri (nell'esempio precedente, Samsung può imitare Apple sui layer hardware, ma per quelli software si appoggia ad Android, ovvero la piattaforma controllata da Google) e così via. A modelli multilayer si associano, in genere, strategie altrettanto diversificabili in termini di generazione dei ricavi (multi-source revenue models). Vendita di hardware, di software, di spazi pubblicitari, di licenze, di abbonamenti, di servizi aggiuntivi, con logiche pay-per-use, flat fee, commission-based e quant'altro: la ricchezza e la fluidità delle opportunità adiacenti nel mondo digitale si rispecchiano in modelli economico-finanziari altrettanto ricchi e variegati. - il valore che il management della marca si prefigge di offrire al cliente (valore pianificato); - il valore che il cliente aspira a ottenere dall'offerta del brand (valore desiderato); - gli obiettivi di valore per il cliente compresi e assimilati dall'organizzazione aziendale preposta alla gestione della marca (valore recepito); - il valore realmente offerto al mercato del brand (valore offerto); - il valore riconosciuto dal cliente (valore percepito). In particolare, come si vede nella Figura 1.10, il divario fra valore desiderato e valore percepito dal cliente definisce il cosiddetto «gap di valore», interpretabile quale indicatore di sintesi da monitorare costantemente ai fini di una corretta gestione della soddisfazione dei clienti. Il manifestarsi di tale gap impone ai responsabili della marca di attivare un approfondito processo di analisi, che coinvolge le altre configurazioni di valore, secondo il percorso logico illustrato nella Figura 1.11. Tale percorso è volto ad accertare la possibile esistenza di altri scostamenti, tra i quali: - gap di sintonia, definito dalla differenza fra il valore desiderato dal cliente e quello pianificato dal management preposto alla gestione della marca; - gap di allineamento e/o di coinvolgimento, risultanti dalla divergenza fra il valore pianificato dal management e quello recepito dall'organizzazione aziendale; - gap di progettazione e/o di realizzazione, conseguenza del divario fra il valore recepito dall'organizzazione e quello offerto al mercato; - gap di percezione, definito dallo scostamento fra il valore offerto dalla marca e quello percepito dal cliente. Il gap di sintonia e il gap di percezione hanno natura prevalentemente esterna e sono ascrivibili a carenze di marketing, riguardanti in particolare l'analisi dei clienti e i processi di comunicazione posti in atto dalla marca. I gap di allineamento/coinvolgimento e di progettazione/realizzazione possono invece essere classificati come interni, in quanto ascrivibili a carenze di tipo organizzativo, che coinvolgono, da un lato, i meccanismi operativi e i sistemi di gestione delle risorse umane, dall'altro, il processo di sviluppo e di erogazione dell'offerta contraddistinta dalla marca. Questa semplice classificazione consente di evidenziare la prospettiva interfunzionale alla base dell'analisi e della gestione della soddisfazione dei clienti. La misurazione dei gap rappresenta un preliminare passaggio obbligato per la gestione della soddisfazione dei clienti. Ogni scostamento deve poi essere interpretato attraverso l'individuazione delle cause che lo determinano e rimosso. La misurazione dei gap di customer satisfaction che ostacolano la customer centricity La misurazione dei gap di soddisfazione consente il controllo dell'efficacia delle azioni attuate dalla marca ai fini dell'accrescimento del valore per i clienti. L'utilizzo dei modelli multiattributo implica la raccolta, attraverso ricerche svolte all'interno e all'esterno dell'impresa, di dati relativi a: - l’importanza annessa dai clienti, dal management aziendale e dal personale operativo agli attributi della marca considerata; - la performance percepita dai clienti, pianificata dal management e perseguita dal personale con riferimento a detti attributi. Tali dati di importanza e di performance possono essere quindi elaborati ricorrendo a delle formule. Valore desiderato dal cliente (WDC); Valore percepito dal cliente (WPC); ICi = importanza attribuita dal cliente all'i-esimo attributo della marca; PDCi = performance desiderata dal cliente in ordine al i-esimo attributo; PPCi = performance percepita dal cliente su tale i-esimo attributo; n = numero di attributi considerati. A questo punto è possibile definire il valore pianificato dal management al quale compete la responsabilità della marca (WPM): IMi = importanza attribuita dal management all'i-esimo attributo dell'offerta aziendale; PPMi = performance pianificata dal management con riferimento all'i-esimo attributo dell'offerta aziendale; n = numero di attributi considerati. Come si è visto, il valore pianificato dal management deve essere recepito dal personale operativo dell'impresa (WRP): IPi = importanza attribuita dal personale all'i-esimo attributo della marca; PRPi = obiettivo di performance recepito dal personale con riferimento a tale i- esimo attributo; n = numero di attributi considerati. Infine, il valore offerto dalla marca (WOM) viene espresso nei termini seguenti: ICi = importanza attribuita dal cliente all'i-esimo attributo della marca; POi = performance oggettiva della marca con riferimento a tale i-esimo attributo; n = numero di attributi considerati. Quindi, il gap di valore - definito dalla differenza fra il valore desiderato dal cliente e il valore percepito - può essere calcolato come funzione additiva dei gap di sintonia, di allineamento e/o coinvolgimento, di progettazione e/o realizzazione, di percezione. Esso è pertanto definito dalla sommatoria dei 4 gap sopra indicati. Esempio: marca di pneumatici. Il brand occupa una posizione rilevante nel business, che nel corso del tempo è stato interessato da importanti cambiamenti tecnologici, competitivi e di mercato. Il management decide di svolgere una serie di ricerche all'interno e all'esterno dell'impresa, al fine di quantificare eventuali gap di soddisfazione e di attuare le necessarie strategie di rimozione. 1. Una ricerca estensiva condotta su un campione di clienti, volta a determinare l'importanza annessa ai più significativi attributi differenzianti. Da tale ricerca emerge che i fattori in grado di orientare il processo di scelta sono rappresentati da: il rapporto durata/prezzo; la facilità di reperimento e di assistenza; la sicurezza; la silenziosità. 2. Una ricerca condotta all'interno dell'impresa, attraverso la quale rilevare, l'importanza dei fattori di differenziazione ricercati dai clienti e in quale misura la marca abbia pianificato di presidiarli. 3. Un'analisi tecnica dei prodotti offerti dai principali concorrenti, finalizzata alla rilevazione dell'effettiva capacità della marca di presidiare i fattori rilevanti per la soddisfazione dei clienti. Il gap di valore dipende in larga misura da problemi di marketing, riconducibili a un'inadeguata comprensione da parte del management dei criteri di scelta dei clienti (gap di sintonia) e a un'insoddisfacente politica di comunicazione (gap di percezione). Non sono comunque trascurabili i gap di allineamento e di coinvolgimento, che chiamano in causa problemi di natura organizzativa. A questo punto, i vertici aziendali dispongono di informazioni sufficienti per stabilire le linee di azione prioritarie, al fine di migliorare la customer satisfaction. 2. PRIORITÀ CONSOLIDATE E NUOVE FRONTIERE I cambiamenti e le sfide assumono molteplici implicazioni per quanto concerne la gestione della marca, conducendo verso un progressivo abbandono degli approcci di mass-marketing. Una prima priorità fa riferimento alla ricerca di autenticità da parte dei consumatori. Da qui l'impegno di molte marche nel tentare di affermare fra i consumatori la percezione di brand authenticity, per affermare la propria autenticità. Una seconda priorità si connette alla crescente richiesta di interazione, scambio, partecipazione e co-creazione da parte dei consumatori. Dal punto di vista della marca, tale richiesta può trovare soddisfazione nella realizzazione di brand experience di successo. Una terza priorità trae origine dalla considerazione che, nell'odierno contesto, le marche interessate a rafforzare le relazioni con i consumatori devono sempre più spesso considerare la tendenza da parte di questi ultimi a «essere omnichannel», ossia a interagire con il brand mediante una molteplicità di canali (online e offline), in contemporanea e in modo intercambiabile, ritrovando in ciascuno di essi la medesima brand experience. Una quarta priorità alla quale le marche devono fare fronte riguarda l'importanza dello scambio emotivo realizzabile attraverso storie in grado di suscitare engagement da parte del consumatore. I contenuti di marca devono sempre più essere trasferiti attraverso brand story con mezzi, canali, veicoli e touchpoint diversissimi (cartacei, digitali, vocali) e sempre più transmediali perché in grado di sfruttare appieno le capacità comunicative di ciascuno di essi per il brand storytelling. Infine, la marca deve far fronte alla maggiore sensibilità, da parte di un numero crescente di consumatori, per gli aspetti etici e sociali. È andato così affermandosi un approccio incentrato sul cosiddetto «brand purpose», per il quale le marche sono chiamate a impegnarsi per perseguire una causa rilevante, uno scopo di ordine superiore nei confronti della collettività. BRAND AUTHENTICITY La ricerca di autenticità da parte dei consumatori ha da tempo assunto un ruolo di rilievo, tanto da essere stata ritenuta «one of the cornerstones of contemporary marketing». Manca un’interpretazione univoca del concetto di autenticità. Con una libertà di scelta senza precedenti e con un'estrema abbondanza di alternative di offerta percepite come standardizzate, artificiali e irreali, gli individui ricercano con crescente interesse qualcosa di «genuino», «reale», «fedele all’originale». Autenticità è una parola antica sia nell’origine etimologica sia nel significato; essa deriva dal latino “authenticus” riferendosi a qualcosa “che è fatto da sé”, “reale”, “fedele all’originale”, “dall’origine indiscussa” e, di conseguenza, “genuino” ed “affidabile”. Volendo andare più nello specifico, si può risalire ad un significato più pregnante della parola in questione: autentico è ciò che fa riferimento alla nostra propria interiorità. La brand authenticity deve quindi svolgere un ruolo di primaria rilevanza nel differenziare la posizione della marca, dell’impresa, di un place e di un Paese rispetto ai principali concorrenti attraverso la promozione di nuovi significati che, all’interno delle strutture cognitive dei consumatori, vengono legati alla marca stessa, influenzandone relazione, risposta e unicità rispetto alle attività di branding intraprese. Le prospettive interpretative dell’«autenticità» - oggettiva/modernista, connessa all'oggetto e alla sua veridicità storica, qualitativa o artistica; - soggettiva/costruttivista, derivante dall'attribuzione individuale di uno status autentico agli oggetti; - esistenzialista/post-modernista, legata cioè alla manifestazione genuina della propria individualità, che viene veicolata dal consumo di determinati oggetti. Prendendo avvio dalla prima prospettiva, l'origine del termine «autenticità» è riconducibile al contesto museale, questa prospettiva, successivamente estesa ad ambiti diversi da quello dei musei, interpreta l'autenticità come una caratteristica inerente agli oggetti, assegnata a questi in base al giudizio degli esperti, i quali fondano la propria valutazione sulle proprietà intrinseche di tali oggetti. L'autenticità può essere appurata determinandone la conformità e l'aderenza rispetto a determinati standard di riferimento. In questo senso, essa si configura come una caratteristica reale degli oggetti, oggettivamente misurabile e indicata con l'espressione «autenticità indicale». Questa prospettiva è stata messa in discussione, in quanto ometterebbe di considerare che individui diversi interpretino in modo differente il concetto di autenticità, in funzione delle competenze e delle esperienze diverse dovute al capitale culturale. È andata così sviluppandosi la prospettiva costruttivista, per la quale l'autenticità deve essere intesa quale fenomeno socialmente costruito. L'autenticità è definita da un giudizio che dipende da un'interpretazione dei loro significati, costruita individualmente e che potrebbe anche non essere ricondotta a riferimenti reali e oggettivi. L'autenticità è dunque intesa quale proiezione di credenze, aspettative e percezioni individuali. L'autenticità così intesa viene anche indicata con i termini «simbolica» o «iconica». Si è poi sviluppata la prospettiva esistenzialista, la quale prende avvio dalla considerazione che, per gli individui, essere autentici significa essere veri nei confronti di se stessi. L'autenticità della marca può derivare dalla capacità di quest'ultima di legarsi all'immagine e alla concezione che i consumatori hanno del proprio sé. I consumatori possono sentirsi autentici poiché determinate marche li aiutano a esprimere la propria identità; o, ancora, un brand può caricarsi di un'aura autentica in quanto permette agli individui di vivere un'esperienza percepita come tale. Una marca può poi essere intesa come autentica anche per la sua capacità di far sentire i consumatori parte di una comunità sociale o territoriale cui sentirsi legati. E infine, per le persone che attribuiscono un particolare valore ai principi morali l'autenticità è associata a ideali e virtù che la marca persegue mediante comportamenti e standard etici che permettono agli individui di sentirsi più onesti. Gli attributi alla base della percezione dell'autenticità della marca È andata affermandosi la nozione di «consumer based brand authenticity», o di «perceived brand authenticity», intesa come «una valutazione soggettiva della genuinità attribuita a un marchio dai consumatori». Nel suo pionieristico contributo, Beverland, analizzando le strategie dei produttori e le percezioni dei consumatori riguardo ai vini pregiati, individua 6 attributi di autenticità: - l’heritage e il lignaggio, relativi al legame della marca con le proprie radici storiche e con la tradizione; Nella pratica manageriale, l’autenticità è spesso vista come una fonte chiave di vantaggio competitivo per le marche. L’autenticità deve apparire come non commercializzata e distante da considerazioni di mercato, aspetto paradossale se si considera che le marche sono agenti che operano sul mercato per soddisfare i bisogni e i desideri dei propri consumatori target. Il 90% dei consumatori ritiene importante che il marchio che utilizza sia autentico I settori più importanti affinché un marchio sia autentico sono: 85% tecnologia 84% Salute e Benessere 83% Servizi finanziari 82% Vendita al dettaglio/alimentari 81% farmaceutico L'AUTENTICITÀ FAVORISCE IL BUSINESS Il 77% dei consumatori acquisterebbe probabilmente da un marchio autentico più costoso rispetto a un concorrente diretto Il 76% dei consumatori afferma che sarebbe più propenso a diventare fedele a un marchio che percepisce come autentico La Gen Z e i Millennial sono più propensi a volere che i brand prendano posizione su una serie di questioni rispetto alla Gen X e ai Boomer, affermano che avrebbero un'opinione più favorevole di un marchio se prendesse posizione su una questione con cui sono d'accordo I MARCHI AUTENTICI SONO: onesti, trasparenti, coerenti, raccontano la loro storia, si allineano ai miei valori, si preoccupano delle persone come me (under armour, levi’s, samsung, nintendo, converse, gatorade). 1. Brand attributes: personalità e le caratteristiche del brand 2. Key audience: a chi raccontiamo la storia? 3. Feelings: quali sentimenti stiamo cercando di evocare? 4. Make it believable: quali sono gli elementi che supportano la storia? Ad esempio la testimonianza di consumatori 5. Tone and manner 6. Funcionality: l’obiettivo della storia è suscitare emozioni Le strategie per costruire marche autentiche La brand authenticity è stata interpretata come una componente chiave dell'immagine di marca e come un elemento in grado di rendere unica e difficilmente imitabile la brand identity. Per un brand, riuscire ad affermare fra i consumatori la percezione di autenticità non è semplice. Nelle strategie di branding, l'ancoraggio all'autenticità deve essere perseguito in modo indiretto, più che in maniera esplicita, e questo affinché la marca venga percepita come disinteressata, genuina e indipendente da interessi commerciali. Sintetizzando, lo sviluppo della percezione di autenticità della marca richiede che essa: - sia legata alle proprie radici: heritage, tradizione e storia che circondano le marche sono spesso fondamentali per evidenziarne l'autenticità. Rimanere fedeli alle proprie radici non significa, però, ripetere le pratiche del passato. Ogni nuovo prodotto rilasciato da Apple rafforza la sua missione originale di creare prodotti innovativi, incredibili e amichevoli. L'aspetto cruciale è mantenere lo spirito originale del brand. Si devono sposare valori duraturi, divenuti parte dell'eredita culturale della marca. - racconti storie e narrazioni: l'autenticità va esibita, evidenziata, raccontata, lo storytelling deve essere quanto mai aperto e ricco, dando evidenza di come il brand si sia impegnato sul fronte della qualità, facendosi guidare da integrità, rispetto dei fondatori e del mercato, amore sincero per ciò che fa ed è (con riguardo al prodotto, al territorio, ai metodi produttivi, alle persone). L'autenticità di marca diviene preziosa presidiandone i valori fondanti, radicati, collegati alla tradizione e rafforzandoli con prove, evidenze e fatti che dimostrino la capacità di perpetuarli nel tempo. L'impegno sul fronte dell'autenticità induce a considerare la marca come un «documento storico» da conservare e valorizzare, fornendone evidenza anche attraverso musei e archivi, come nel caso del Museo Ferragamo, di quello Gucci. Creare un'immagine di autenticità che incida sulle percezioni del consumatore richiede dunque la creazione di storie e narrazioni di marca. Anche brand di nascita recente possono raccontare storie sincere. Per rendersene conto, è sufficiente pensare al caso di Innocent, una marca di bevande a base di frutta (denominate «smoothie») «non solo buone ma anche sane». Lanciata in Inghilterra nell'estate del 1998 da tre compagni di università in occasione di un festival musicale, la marca ha mostrato la propria autenticità sin dal primo giorno. Attraverso molteplici storie i consumatori ne hanno riconosciuto le tecniche artigianali, l'unicità, il rapporto con il territorio, la passione per la produzione. - sia espressione dell'amore per la produzione: le marche autentiche sono solitamente circondate da persone appassionate al prodotto, oppure sono create o gestite da leader fortemente coinvolti in numerosi aspetti organizzativi e manageriali. Basti pensare a Giorgio Armani sorpreso, in piena notte, a riordinare i suoi capi all'interno di una vetrina della boutique in centro a Milano. Le persone che lavorano per marche autentiche adorano dedicarsi a questo con passione. - incoraggi il contributo di tutti i collaboratori aziendali: l'autenticità di marca non deriva solo dal lavoro sapiente dei fondatori, ma stimolando il contributo di tutti i collaboratori aziendali. Infatti, è la connessione quotidiana con coloro che realizzano la marca o che rendono l'esperienza di marca unica ad alimentarne l'autenticità. Quando all'interno dell'azienda condivisione e devozione coincidono, ciascuno percepirà, attraverso il proprio lavoro, di partecipare alla costruzione di qualcosa di grande e importante. Steve Jobs era ben noto per girare tra gli uffici Apple e fermarsi a lavorare con i dipendenti quotidianamente. - sia immersa nei propri mercati: le marche autentiche devono essere assimilate al luogo, alla cultura o alla sub-cultura da cui provengono da parte dei consumatori, perché immerse in toto nei propri mercati. Immersione significa: conoscere, capire, essere ansiosi di seguire sempre più da vicino il proprio mercato e i propri consumatori. Nel management dei brand autentici, l'attitudine a conoscere, raccogliere e analizzare le informazioni provenienti dal mercato permea quotidianamente l'attività di fondatori, imprenditori e management. Bernard Arnault (LVMH) e Renzo Rosso (Diesel) hanno sempre incoraggiato designer, stilisti, creativi e manager a viaggiare molto, affinché anche il più piccolo dettaglio fosse in grado di fornire ispirazione, suggerire nuove tendenze e, quindi, riuscisse a conferire esclusività nelle idee e nelle forme. - contribuisca a qualcosa di grande: cercano continuamente di evolvere, credendo fermamente nelle innovazioni. La vera sfida risiede nel fare qualcosa di grande, che spesso è insita nel rifiuto di dare le cose per scontate o di accettare possibili compromessi.Quindi, credere, seguire e contribuire a qualcosa che appare una sfida impossibile, significa cercare il modo migliore per essere autentici. BRAND EXPERIENCE Da un lato, la customer experience è divenuta una potenziale fonte di vantaggio competitivo, soprattutto per quelle marche che intendono differenziarsi dai concorrenti. Esperienza quale fattore di collegamento e interazione fra marca e consumatori. Dall'altro lato, i brand stanno investendo risorse non solo per configurare esperienze efficaci di customer experience: «Costrutto multidimensionale, focalizzato sulle risposte di natura cognitiva, emotiva (capacità del brand di creare associazioni positive rispetto al prodotto), comportamentale (finalità: far comprare il prodotto), sensoriale (come consumatori usiamo i sensi per percepire il mondo esterno, la capacità dell’impresa di influenzare i nostri sensi rende l’esperienza più o meno piacevole (luce, arredamento dello store), deve rendere l’esperienza sempre più memorabile e soddisfacente) e sociale che il consumatore può fornire all’impresa durante l’intero journey». Per progettare esperienze di valore occorre comprendere il viaggio che il cliente compie per entrare in contatto con la marca in modo da individuare gli strumenti con cui i 2 possono interagire: - le piattaforme tecnologiche, che permettono di realizzare interazioni immersive per il consumatore grazie ai loro ambienti «adattivi e flessibili». A questo contesto fa riferimento la cosiddetta «User Experience-UX»; - gli ambienti fisici, quale elemento centrale per le interazioni marca-consumatore, in grado di stimolare emozioni positive. Posto che le ricerche sullo shopping esperienziale hanno ampiamente evidenziato la rilevanza del punto di vendita quale elemento centrale per le interazioni marca-consumatore, in grado di stimolare emozioni positive (c’è stato un enorme incremento dell’e-commerce, ma lo store fisico rimane comunque essenziale dove si ha un’esperienza a 360°, si entra in contatto non solo con il prodotto, ma anche con il personale di vendita, grande attenzione al design dello store); - gli ambienti sociali (casa, famiglia, luogo di lavoro, eventi, punti di vendita, gruppi di riferimento ecc.), dato che numerosi studi sui comportamenti dei consumatori hanno permesso di comprendere il ruolo delle influenze che hanno sui processi d’acquisto e di consumo degli individui (ambienti in cui il consumatore può entrare in contatto con la marca, siamo influenzati dai contesto sociali che influenzano il modo in cui entriamo in contatto con la marca e come la valutiamo, word of mouth: una delle principali modalità con cui veniamo a conoscenza con un brand, attraverso il racconto dell’esperienza di un amico, parente ecc…). Attraverso questi strumenti, gli individui - oltre a elaborare informazioni e scegliere le marche da acquistare - sognano, fantasticano e sperimentano, vivendo emozioni e divenendo partecipanti attivi e protagonisti della realizzazione di brand experience di successo. Dallo shopping esperienziale all'esperienza di consumo Da anni ormai, l'esperienza di consumo ha assunto rilievo avendo come riferimento il comportamento ricreativo del consumatore all'interno dei punti di vendita. Basti pensare ai centri commerciali, dove si alternano punti di contatto con il consumatore molto diversi tra loro, adibiti allo shopping (punti di vendita grocery) o più focalizzati all'entertainment (bar, ristoranti, fast food, cinema, aree giochi per bambini), assumendo anche il ruolo di luoghi di aggregazione tra persone. L'attività di acquisto ha così assunto, in molti casi, la connotazione di shopping esperienziale. Nell'ambito della visione esperienziale (experiential view), si possono individuare due approcci: il marketing dell'esperienza e il marketing esperienziale. Il primo vede l'esperienza quale categoria di offerta, cioè una nuova forma di offerta economica. Il secondo approccio, sottolinea l'importanza dell'esperienza quale episodio soggettivo di risposta dell'individuo alle caratteristiche dei beni e dei servizi. Questi ultimi vanno «esperienzializzati» e la marca svolge, in tal senso, un ruolo rilevante quale vettore, appunto, di esperienze. Con riferimento al primo approccio, Pine e Gilmore pongono in evidenza come nelle società post- moderne l'esperienza sia divenuta il pilastro di un nuovo tipo di economia: l'«economia dell’esperienza». Essa è presentata come uno stadio dell’evoluzione economica della società, in cui le aziende concentrano la propria offerta attorno alla creazione di esperienze che risultino memorabili e divertenti per i propri clienti. Le esperienze sono considerate come «eventi» in grado di coinvolgere, intrigare e immergere il consumatore. Per un'impresa, questo significa indagare come i prodotti possano rientrare negli stili di vita degli individui, quali significati siano in grado di comunicare e come possano contribuire all'affermazione del sé. Il secondo approccio, quello del marketing esperienziale, parte dal presupposto che la maggiore fonte di valore per i consumatori risieda nelle esperienze che essi possono vivere tramite i beni e i servizi scelti, di fatto, il consumo sembrerebbe esser divenuto un mezzo tramite cui gli individui modellano la propria identità e comunicano immagini di sé. Secondo Schmitt, le esperienze non vengono auto-generate, ma sono il risultato di stimoli esterni, che inducono determinate reazioni ed emozioni nell'individuo. Diversi sono gli elementi che contribuiscono alla creazione di un'esperienza: l'ambiente, i colori, i suoni, l'interazione con altri individui e così via. Il modello proposto dallo studioso evidenzia come le imprese, tramite l'utilizzo degli experience provider, possano far leva su diverse sfere sensoriali, per indurre determinati comportamenti e reazioni da parte del consumatore. Ogni esperienza risulta totalmente individuale, in quanto plasmata da comportamento, motivazioni e convinzioni personali. Customer experience, customer journey e user experience Il consumatore partecipa in modo attivo divenendo co-creatore delle proprie esperienze. La customer experience, quindi, è il primo passo necessario affinché si sia in grado di realizzare un'offerta capace di stimolare determinati comportamenti e suscitare precisi stati d'animo ed In questo caso, la creazione di esperienze deve attenersi a un determinato modo di vivere dell'individuo, scaturito dalla combinazione di azioni, interessi, valori e opinioni. Relate. Posto che i consumatori, quali esseri sociali, assumono decisioni basate non solo su motivazioni individuali, ma influenzate anche dal contesto in cui vivono, la costruzione dell'esperienza di marca può far leva sulla capacità di mettere in relazione l'individuo con altri soggetti, al fine di creare gruppi o vere e proprie comunità attorno a brand e prodotti. Gli individui, infatti, costruiscono la propria identità anche sulla base delle persone a cui desiderano essere collegati e di coloro da cui, invece, intendono distinguersi. Il modello aiuta a comprendere le diverse modalità attraverso cui il consumatore può avere esperienza con la marca. La concretizzazione di questo modello richiede l'utilizzo di appositi experience provider, quali: le comunicazioni interne ed esterne; le identità visivo-verbali (quali combinazione di nomi, loghi e simboli; prodotti, confezioni e i design); gli spazi e le ambientazioni (punti di vendita, uffici); il sito web, le comunità virtuali, i social media e gli stessi dipendenti. La marca deve essere in grado di gestire al meglio tutti i punti di contatto con il consumatore, in modo da garantire ogni volta un'esperienza positiva e coerente con le strategie implementate nel corso del tempo. Il concetto di experience provider si connette a quello di touchpoint, definiti come «momenti di verità» o «micro-momenti» (momenti di interazione) di interazione e coinvolgimento potenziale o effettivo tra marca e consumatore. (Possono essere in parte gestiti dall’impresa come pagine social e sito web, l’impresa ha quindi il controllo sui messaggi veicolati, ci sono touchpoint invece che sono gestiti direttamente dai consumatori oppure da soggetti terzi come opinion leader, influencer. L’obbiettivo dell’impresa è che la comunicazione di consumatori e influencer sia coerente con quella dell’impresa. Es: Starbucks, gode di una community molto supportive ) La «brand touchpoint wheel» aiuta a identificare le possibili interazioni necessarie per dar vita alle fasi della customer experience. Identifica per ciascuna fase i punti di contatto principali. Una più recente classificazione dei touchpoint ne ha illustrato le specificità, considerandone anche l'effettiva proprietà/appartenenza alla marca (il cosiddetto «governo»), nonché il potenziale controllo esercitato o esercitabile da quest'ultima. In questa prospettiva, si distinguono: - touchpoint governati dalla marca (brand-owned touchpoint) che, derivano dall'attenta definizione, pianificazione e controllo delle attività e degli strumenti di marca (pubblicità, programmi fedeltà, customer service ecc.); - touchpoint governati dai partner (partner-owned touchpoint) che rientrano solo parzialmente nella sfera di azione e di controllo della marca, ma che sono frutto anche di attività e pianificazione dei partner (punti di vendita indipendenti, service provider, iniziative di co- marketing); - touchpoint governati dal consumatore (customer-owned touchpoint) che vengono organizzati e gestiti direttamente dal consumatore in autonomia. Esempi tipici sono i post sui social media, gli hashtag impiegati per taggare, immagini. Tali contenuti vengono poi scambiati e condivisi con la propria cerchia di contatti senza che il brand assuma alcun ruolo attivo o di controllo; - touchpoint governati da altre fonti (other-owned touchpoint), il cui controllo compete a fonti esterne che assumono un ruolo rilevante quali opinion leader (specialisti di specifici ambiti, critici cinematografici o agenzie di rating), nonché i social influencer e così via. Mappa rappresentativa dei punti di contatto collocati tra consumatore e organizzazione. Il viaggio del cliente inizia ancor prima del momento di interazione con la marca o di acquisto, e continua anche nei momenti successivi, influenzandone così l'intera brand experience. Per la costruzione di un'esperienza di marca efficace, occorre dunque utilizzare i molteplici touchpoint in maniera ottimale. Il viaggio del cliente deve quindi essere continuamente monitorato e migliorato, progettando continui aggiornamenti dell’esperienza. Customer journey: viaggio del cliente dal momento che il consumatore avverte un bisogno e quindi comincia a cercare info su prodotti che lo possono soddisfare, fino a quando non solo il consumatore utilizza il prodotto, ma anche in chiave di fedeltà nel prodotto. OMNICHANNEL BRANDING Nell'odierno contesto, le marche interessate a rafforzare le relazioni con i clienti devono considerare la tendenza di questi ultimi a «essere omnichannel», ossia a interagire con il brand mediante una molteplicità di canali (offline e online) in contemporanea e in modo intercambiabile, ritrovando in ciascuno di essi la medesima brand experience. (Gestire in maniera coordinata e coerente i diversi canali vendita e dare lo stesso tipo di esperienza nei diversi canali, attraverso la coerenza dei prodotti esposti, visual, design. Es. Zara, è possibile acquistare il brand solo nei negozi e sui canali digitali Zara. La differenza tra passare dal negozio all’app è poca perché il tipo di servizio e l’esperienza è simile). Per le marche, è necessario realizzare 3 livelli di integrazione: - il primo livello è costituito dall'integrazione tra canali, intendendo la coesistenza e il coordinamento tra canali fisici e digitali al fine di costruire esperienze integrate concepite in maniera completamente integrata (seamless) (continuità tra digitale e fisico); - il secondo livello si riferisce all'integrazione tra device, dalla vetrina allo scaffale, dal computer al mobile, predisponendo e gestendo una costellazione di touchpoint in grado di riconoscere l'utente a prescindere dalla modalità di accesso al brand scelta per ciascuna singola interazione; -il terzo livello si riferisce all'integrazione tra piattaforme (Facebook, YouTube, TikTok, Twitter), venendo a creare i cosiddetti «ecosistemi» in cui l'univocità del contenuto dei messaggi rispecchia le specificità di canali, device e piattaforme impiegati, rimandando però gli uni agli altri, in una logica coerente con lo storytelling che la marca si prefigge di raccontare. Luisa Via Roma: un pioniere dell’omnicanalità Luisa Via Roma (LVR) nasce a Firenze, negli anni ‘30, con l'apertura di un negozio che offre articoli delle prime linee di collezioni realizzate da sarti di fama internazionale. Sul finire degli anni ‘90, alle vendite in negozio sono andate affiancandosi quelle tramite l'e-commerce, che hanno avuto un'accentuata accelerazione a partire dal 2008. Nel punto vendita si danno informazioni sui prodotti iconici, indicando come si possa fare esperienza di questi anche online e provvedere al loro acquisto via e-commerce. I prodotti selezionati, poi, si rivelano più facilmente una scelta di successo se adeguatamente supportati da una comunicazione in store e sui social network da parte del team di marketing. L'ambiente dello store, di conseguenza, è andato trasformandosi: a uno spazio occupato da un ampio assortimento di prodotti, ne è subentrato uno che accoglie un merchandising minimalista insieme a tecnologie interattive di nuova generazione in grado di alimentare la forza connettiva del negozio. Entrambi gli ambienti sono fruibili anche congiuntamente: in store, tramite le tecnologie touch screen, il cliente può accedere agli altri e fare acquisti anche dalla piattaforma e-commerce. La politica distributiva e la multicanalità Il presupposto per la gestione della multicanalità è rappresentato dalla consapevolezza che i diversi canali e format distributivi offrono specifici servizi per la domanda. Questa acquista sempre una combinazione costituita da merci e servizi di tipo logistico (prossimità, orario di apertura e ampiezza assortimentale), informativo (pre-selezione, profondità assortimentale e consulenza) e accessorio (servizi post-acquisto, garanzie, servizi finanziari). Per esempio, un'edicola può soddisfare un'esigenza di prossimità; un negozio specializzato una di tipo informativo e di pre- selezione dell'offerta; una vending machine può fornire utilità di tempo e di luogo; una grande superficie specializzata è in grado di offrire ampiezza e profondità di assortimento rispondendo così all'esigenza di maggiore possibilità di scelta; un e-tailer è in grado di offrire profondità di assortimento, velocità nella consegna e massimo livello di prossimità. Insomma, ciascun format distributivo produce servizi differenziati. La multicanalità ha fatto leva sulla capacità di servire contemporaneamente una pluralità di segmenti con canali/format diversi e tra loro indipendenti. Con il tempo, però, specie con l'avvento e la diffusione del digitale, le distinzioni tra i segmenti di clientela in funzione dell'opzione distributiva frequentata sono andate sempre più sfumando: lo shopper del retail e lo user dell'e- commerce, così come il fruitore del mobile (con la relativa app) o del pc (con il collegamento al sito web preferito), a lungo considerati target distinti e non comunicanti, sono ormai sempre più sovrapponibili. È frequente, in effetti, che la stessa persona decida di frequentare, utilizzare, acquistare e utilizzare all'interno del proprio customer journey canali/format diversi, passando dall'uno agli altri con estrema facilità, determinando ciò che oggi viene denominata «seamless experience» o, dal punto di vista manageriale, omnicanalità. Dalla multicanalità all’omnichannel All'approccio competitivo, tipico della multicanalità, si sostituisce quello collaborativo - in cui i canali concorrono alla produzione di valore per il cliente. Nell'era dell'intermediazione digitale, i brand devono conciliare i nuovi canali con quelli più tradizionali. La necessità di integrare i diversi canali è divenuta ancora più impellente a seguito della pandemia da Covid-19, che ha indotto anche i consumatori più restii a utilizzare il canale digitale. La ridotta mobilità e l'impossibilità di raggiungere di persona i punti di vendita fisici e la volontà di minimizzare le occasioni di assembramento, hanno favorito 3 categorie: - i punti di vendita più vicini a casa a discapito dei grandi centri commerciali; - i cosiddetti «one-stop-shop», store con assortimenti ampi e profondi; - le piattaforme e-commerce e digitali. Al di là della limitazione agli spostamenti fisici legata alla contingenza sanitaria, tale utilizzo è trainato essenzialmente da 2 fattori: - la percezione di convenienza dei prezzi rispetto a quelli praticati nei canali di vendita fisici; - la possibilità di beneficiare di una serie di servizi in grado non solo di semplificare e velocizzare l'attività di acquisto, ma anche di arricchire la proposta (ampiezza dell’assortimento, consegna a domicilio dei prodotti, possibilità di acquistare in qualsiasi luogo e momento, e di personalizzare i contenuti del servizio commerciale ecc.). Ovviamente ci sono anche alcuni svantaggi, come la sicurezza dei pagamenti, la tutela della privacy e l'assenza di interazione umana. L'acquisto digitale, inoltre, può coinvolgere direttamente solo due dei cinque sensi (vista e udito), mentre non permette di esaminare fisicamente i prodotti, di verificare il gusto, l'odore e la qualità. Ne consegue che la fiducia nei confronti della marca risulta assolutamente essenziale per ridurre la sensazione di incertezza avvertita dal consumatore e in grado di inibire l'acquisto. - un tocco decorativo per rendere più accattivante un contenuto già deciso; - un rimedio ad hoc per migliorare una tantum le performance di un singolo canale o contenuto; - content marketing o content curation. Brand story e brand storytelling: tra storia, narrazione e marca Circoscrivendo l'attenzione all'ambito del branding, la storia (messaggio in termini di valore che la marca vuole narrare ai propri consumatori) è una narrazione che ritrae il cuore e l'anima della marca collegandola emotivamente al consumatore. Questo significa che si utilizza la brand story per comunicare ciò che la marca desidera rappresentare, ciò che promette e ciò che i consumatori possono provare e sperimentare. Le brand story devono identificare i modi in cui collegare emotivamente i clienti alla marca. Essa dev'essere intesa come un contenuto narrativo che ritrae eventi che abbiano un inizio, uno sviluppo e una fine e che, al contempo, non siano una mera descrizione di un insieme di fatti o caratteristiche. Per essere efficaci, tali eventi devono essere inseriti, incorporati e comunicati all'interno di un contesto narrativo ricco di contenuti emozionali e informativi (anche di natura sensoriale), in grado di condurre verso una deduzione e una partecipazione affettiva dell'audience. Le storie di marca, quindi, devono essere in grado di trasmettere valori ed emozioni, essendo un mezzo per comunicare, ricreare e aiutare a preservare i ricordi, costruendo immaginari, e traducendoli, in un modo più concreto, in ciò che può essere tramandato verbalmente, visivamente o in forma scritta. Attraverso la condivisione delle storie (e delle esperienze), si costruisce un racconto narrativo che esprime conoscenza o pensiero, si interagisce o si coinvolge l'audience, ovvero si agevola l'interazione e lo scambio del pubblico. Una storia deve essere raccontata con uno scopo, deve affermare cosa si verifica e quando, mostrando i comportamenti umani e fornendo una prospettiva di partenza connessa alla figura e al ruolo del narratore. Essa presuppone un approccio di costruzione o design della storia: lo storymaking, con cui trasferire e creare negli individui l'impegno a seguire, capire, interpretare e partecipare emotivamente, facendo propri i contenuti della storia. Secondo Miller, la storia appare come una dinamica escalation di eventi, spesso guidati da conflitti, che causano un cambiamento significativo nella vita dei personaggi della storia stessa. Brand narrative La brand story richiede processi di creazione delle storie di marca (storymaking) e processi persuasivi rivolti a un destinatario, in funzione degli obiettivi perseguiti dalla marca. Le persone, di fatto, comprendono, vivono, interagiscono e si relazionano tra loro in termini di storie e, al loro interno, le marche spesso giocano un ruolo centrale. Una storia di marca deve consentire la crescita del brand e favorire la relazione con i suoi clienti. La brand narrative - per essere «intrigante, autentica, coinvolgente e dotata di un messaggio strategico» - deve considerare i propri consumatori e il tipo di risposta ottenibile, in funzione degli obiettivi prefissati e del livello di coinvolgimento da raggiungere, portando l'audience all'interno della trama e rendendo il viaggio davvero immersivo. È possibile distinguere le risposte ottenibili a seconda della loro natura: - cognitiva, allorché l'audience processi la storia e i suoi temi, ne comprenda e ne accetti i suoi punti cardine; - emozionale, quando la storia diviene coinvolgente e suscita sentimenti tali da indurre a immergersi, partecipandovi affettivamente. Il coinvolgimento è ottenibile attraverso la condivisione dei sentimenti profondi dei personaggi, che inducono a voler seguire ciò che si racconta dall'inizio e sino alla fine della storia (impiego della figura retorica del climax); - comportamentale, quando si motiva l'audience a compiere un'azione (attraverso una call to action) o a propagare l'esperienza vissuta raccontandone i contenuti ad amici o colleghi, sviluppando così le comunicazioni interpersonali e la viralità in modo transmediale. Customer funnel e obiettivi di comunicazione di marca Modello della integrated marketing communication: evidenzia come, ai fini di una corretta gestione della brand communication, sia necessaria la concomitanza simultanea di approcci di natura top down e bottom up. Le considerazioni attinenti al customer journey, la pervasività e la propagazione di modalità di comunicazione e relazione fra marca e consumatore, nonché fra consumatori, volte a ottenere specifiche risposte, hanno portato allo sviluppo di un framework chiamato customer funnel, che semplifica il noto modello AIDA (Attenzione, Interesse, Desiderio, Azione), a lungo utilizzato nel mondo della comunicazione e concernente la gerarchia degli effetti esercitabili sul comportamento del consumatore. La marca, volendo spingere il consumatore da una risposta cognitiva a una affettiva, per poi giungere a una di tipo comportamentale, persegue obiettivi che dall'awareness giungono prima alla retention (relazione consumatore-marca reiterata nel tempo), per poi arrivare all'advocacy (relazione consumatore-altri consumatori, che incentivi la connessione marca-consumatore). Il cliente, nel passare da uno stadio a un altro, sviluppa conoscenza, giunge alla familiarità per far sì che la marca entri a far parte del suo insieme evocato e, attraverso l'acquisto e il consumo, sedimenti la fedeltà e il coinvolgimento sino al punto di trasferire il suo entusiasmo e la sua advocacy ad altri. Per lo storytelling di marca, il funnel non è sufficiente. Di fatto, attraverso il telling della marca è necessario seguire un percorso di persuasione narrativa indirizzato a colui che riceve la brand story, considerando gli effetti generati dal trasporto narrativo, che si manifesta nelle risposte affettive e/o cognitive, come riuscire a sviluppare credenze e atteggiamenti, che si concretizzano in intenzioni e comportamenti d'acquisto, nonché in condivisioni e scambi di sensazioni. Il trasporto narrativo La teoria del trasporto narrativo propone che i consumatori si «perdano in una storia», modificando gli atteggiamenti e/o le intenzioni, o facendo propria la storia e gli accadimenti narrati e portandoli nella propria intimità. È in grado di ottenere un effetto persuasivo poiché avviene ogniqualvolta il consumatore prova la sensazione di entrare in un mondo evocato dalla narrazione della marca a causa dell'empatia per i suoi personaggi e attraverso l'immaginario richiamato dalla trama. Il trasporto narrativo richiede che i consumatori elaborino ed interpretino le storie. Il trasporto narrativo deve consentire al consumatore di: entrare in empatia con i personaggi della storia, attivare la propria immaginazione attraverso la trama, sperimentare la realtà durante e dopo la ricezione della storia. Chi entra in contatto con la brand story non è quindi semplicemente uno spettatore di questa, ma ne deve divenire un interprete attivo oltre che il destinatario della stessa. In estrema sintesi, ogniqualvolta si intendano sviluppare strategie di brand storytelling, al fine di incidere sui processi decisionali dei consumatori così come sulle esperienze di consumo, è fondamentale che si compia il trasporto narrativo impiegando le componenti inserite all'interno dello storymaking. Lo storymaking Le marche possono raccontare una molteplicità di storie mediante linguaggi e registri narrativi e visivi diversi. Il punto fondamentale sul quale focalizzarsi è proprio lo storymaking. Pertanto, nella visione delle storie di marca, il consumatore può raggiungere il cosiddetto «piacere appropriato» (o «catarsi») che permette di sperimentare, ritrovarsi e immedesimarsi. In una storia vi sono: i personaggi (denominati «archetipi» e descritti come eroi), l'ambiente, il set nel quale la storia si svolge, nonché una trama (identificata con un viaggio intrapreso dai personaggi), che cerca di stimolare l'immaginazione, con la chiara consapevolezza di voler creare emozioni e sentimenti nel pubblico. Per lo storymaking si è giunti a suggerire una particolare struttura che, a prescindere dalla tipologia di storia di marca e dei contenuti che si intendono trasferire, possieda almeno i seguenti 4 elementi fondamentali: il personaggio (o i personaggi), la trama, il climax e una morale (o outcome) connessa alla storia raccontata. Il personaggio che interpreta la storia potrà incarnare i valori della marca, la sua personalità, le sue caratteristiche identitarie allineate con gli obiettivi che si intendono perseguire e protraendone nel tempo gli effetti. Attraverso i suoi personaggi, il brand consente al pubblico di riconoscersi, immedesimarsi e provare l'emozione di una vita diversa (simile a quella desiderata come a quella reale). La trama deve essere organizzata nel tempo e nello spazio. Essa rappresenta una sequenza di azioni di uno o più personaggi, di nessi causali e dei punti fermi (o indici) della storia. Gli archetipi, sviluppati dallo psichiatra Carl Gustav Jung, si riferiscono al cosiddetto inconscio collettivo, ovvero un sogno condiviso da tutti gli esseri umani. Il loro significato assume la connotazione di «immagine primordiale o idea innata» contenuta nell'inconscio umano collettivo e, pertanto, va a costituire gli elementi-simbolo di storie, favole, sogni e leggende. Attraverso gli archetipi, il pubblico riesce a identificarsi e a immedesimarsi con 12 specifiche categorie: l'innocente, l'uomo comune, l'eroe, l'angelo custode, l'esploratore, il ribelle, l'amante, il creatore, il giullare, il saggio, il mago, il sovrano. Gli archetipi sono quindi i tipici protagonisti a cui affezionarsi, che rappresentano un «io» nascosto e presente in ciascuno e che, spesso, portano a legarsi a un brand riconoscendosi in tali personaggi, immedesimandosi nelle loro caratteristiche, condividendone racconti, contenuti, valori, obiettivi e molto altro attraverso i viaggio, l'avventura e l'esperienza vissuta da tali personaggi. Raggiungere la catarsi è un processo complesso, che comporta un immedesimazione tra protagonista, testo, autore/fonte (marca) e spettatore/destinatario. È il processo stesso dell'immedesimarsi che porta alla realizzazione e alla comprensione profonda ed effettiva della storia nonché al riconoscere o riconoscersi in essa. La trama deve essere organizzata nel tempo e nello spazio, anche attraverso sotto-trame. Essa rappresenta una sequenza di azioni di uno o più personaggi, di nessi causali e dei punti fermi della storia, che permettono al lettore/spettatore/consumatore di comprendere e attribuire senso e significato al contenuto trasmesso, nonché di farla ricordare ed essere assorbita per poi essere ritrasferita. L'obiettivo insito nella trama è di creare consapevolezza implicita e/o esplicita, connessione e comprensione emotiva negli interlocutori. Pertanto, una storia di marca deve rispettare i principi chiave di una trama ben strutturata in cui si cominci con una situazione di relativo equilibrio, come la routine quotidiana, seguita da un evento, che getta la vita fuori dall'equilibrio. Dunque, la storia prosegue descrivendo come, nel tentativo di ristabilire l'equilibrio, le aspettative del protagonista raggiungano un punto di climax (massima tensione emotiva). Affinché, dunque, la trama di una brand story risulti efficace, interessante e convincente, deve possedere un inizio, una parte centrale e un finale che conduca il pubblico lungo un viaggio e può presentarsi in 5 fasi sequenziali: equilibrio e rottura; reazione e lotta (il suddetto confronto) e risoluzione (Figura 2.11). Questo viaggio (fatto di idiomi, metafore, artifici retorici e archetipici, morfemi e narratemi, quali sotto-trame in un racconto) dovrebbe descrivere una serie di eventi logicamente e cronologicamente causati, collegati e correlati, anche attraverso continui rimandi degli uni agli altri, nonché vissuti dai personaggi e introiettati dal pubblico con trasporto narrativo per generare gli effetti desiderati dalla marca. Il climax, inteso come vertice emotivo, è usato come espediente per accrescere il pàthos che costringe il pubblico a una crescente partecipazione. Il climax, viene abitualmente impiegato nello storytelling, interpretandone le diverse sfaccettature sul piano: - retorico, che si realizza usando più vocaboli o locuzioni che possiedono una crescente intensità; - letterario, quale descrizione di tanti eventi imprevedibili creati per aumentare l'intensità della trama e arrivare al climax della narrazione; - scientifico, in quanto concetto impiegato per definire la fine di un processo d'evoluzione di un ecosistema, quando questo raggiunge l'equilibrio migliore mai raggiunto prima. Infatti, nelle storie di marca si raccontano accadimenti, eventi e azioni, seguendo una gradazione crescente per intensità e forza che hanno lo scopo di trascinare verso una crescente adesione/ partecipazione sino a giungere a un culmine finale. Nella letteratura sullo storymaking, l'outcome indica ciò che il pubblico o l'individuo è in grado di imparare dalla storia, ossia la morale alla quale ciascuna storia deve tendere per lasciare il segno. Ciò significa che quest'ultima non coinciderà necessariamente con gli obiettivi della marca, ma certamente con quanto la storia di marca intende far capire, insegnare e far sentire nel profondo al suo pubblico. Nello storymaking è possibile realizzare due principali tipologie di strutture narrative: apertamente commerciali o velatamente commerciali. La prima tipologia fornisce un messaggio razionale, che accompagna il destinatario nel trasporto narrativo. Per esempio, con «L'Odyssée de Cartier», la nota maison ha mostrato l'incarnazione della marca attraverso una pantera (simbolo del brand) che, in un viaggio in giro per il mondo, incontra innumerevoli prodotti iconici di Cartier. La storia, apertamente connessa al brand, fa leva sull'autenticità della marca in termini di heritage e iconicità completamente francesi, a testimonianza della sua lunga tradizione, del prestigio e dell'unicità trasferiti quali validi motivi per indurre il cliente all’acquisto. Google, con l'intento di divenire il narratore del mondo digitale, ha indicato al suo pubblico come il brand può supportare le persone durante le fasi della loro vita: trovando sempre informazioni pertinenti e tempestive per realizzare i propri sogni (e le proprie storie). Il cortometraggio realizzato narra di un uomo che si trasferisce nella capitale francese, si innamora di una donna parigina e, di conseguenza, decide di stabilirsi in questa città e di cercarvi attraverso punti di contatto diversi: il sito web, un articolo, un blog e così via. Clienti diversi attivano funnel diversi: alcuni possono rimanere nella fase iniziale per un periodo di tempo più lungo di altri e richiedere più punti di contatto per procedere all'interno del proprio percorso. Fase 2. Middle of Funnel (MOFU): engagement. La ricerca, da parte dei clienti, di qualcosa in più rispetto alle semplici informazioni implica un impegno maggiore che avvicina maggiormente la marca al cliente: per esempio, partecipando a un webinar che offra dimostrazioni su funzionalità di prodotto, scaricando un ebook o visualizzando una scheda tecnica relativa all'offerta del brand. Il potenziale cliente, avendo identificato una soluzione adeguata al suo problema, si avvicina a una decisione finale e si sposta lungo il funnel. Fase 3. Bottom of Funnel (BOFU): conversion. Per portare i clienti potenziali nella fase di conversione, possono essere necessari una settimana, un mese, un anno o anche più anni. Tuttavia, a un certo punto, essi sono pronti ad agire, manifestando la necessità di un ulteriore contatto per richiedere una demo, un preventivo, oppure maggiori indicazioni circa le modalità di pagamento e/o di consegna. Con riferimento a ciascuna delle tre fasi, la marca può individuare numerose modalità e possibili canali, specificamente digitali, utilizzabili per incoraggiare l'azione desiderata nel customer journey del cliente. È importante garantire che ciascun touchpoint trasmetta messaggi in linea con l'azione dell'utente che si intende incoraggiare. Le innovazioni nella realtà virtuale e l'ascesa dell'intelligenza artificiale rappresentano una rilevante opportunità per il coinvolgimento dei clienti. La realtà virtuale, infatti, viene definita come «un'esperienza interattiva e immersiva generata dal computer». Quest'ultima assume dunque un importante ruolo per la narrazione, poiché lo storytelling virtuale è in grado di trasportare i destinatari della storia nella realtà virtuale della narrazione che, per la sua capacità immersiva e la sua natura multisensoriale, è potenzialmente in grado di rafforzare il potere coinvolgente delle brand story muovendosi all'interno degli stimoli tipici della brand experience. Per esempio, tramite Google Arts & Culture il pubblico può accedere, da qualsiasi parte del mondo, a immagini di opere d'arte ad alta risoluzione, ospitate nei musei aderenti all'iniziativa, e godere di tali immagini. Etihad Airways, nel 2016 ha sviluppato un film in realtà virtuale chiamato Re-immagina con Nicole Kidman, che conduce gli spettatori (dotati di cuffie Google) da New York ad Abu Dhabi, invitandoli a condividere il lusso dell'esperienza con diversi personaggi che viaggiano in prima classe. Oggigiorno le storie di marca vengono raccontate e scambiate attraverso i social media, risultando disponibili in tempo reale essendo dinamiche, onnipresenti e anche facilmente visibili e fruibili. Per il pubblico si facilita la capacità di generare contenuti e le marche sembrerebbero vedere affievolito il ruolo di fonte unica alla quale spetta il controllo completo della storia. Lo sviluppo tecnologico connesso ai diversi device richiede alcune considerazioni inerenti a fruizione e interazione. Per esempio, nel caso dei dispositivi mobile, è difficile non considerarne la fruizione personale e altamente individualizzata e, quale conseguenza, è naturale inserirli all'interno di un piano di digital storytelling fortemente personalizzato, nel rispetto ovviamente delle normative sulla privacy. Anche le app, divenute ormai insostituibile e veloce punto di contatto, sono strettamente legate al mobile e, sovente, basate sulla posizione del consumatore. In tal caso, esse consentono a un utente di ricevere informazioni pertinenti mentre è lontano da casa (per esempio gli orari dei film al cinema locale, così come il confronto dei prezzi tra i negozi locali oppure indicazioni per un punto vendita localizzato vicino alla posizione). Per esempio, Yves Saint Laurent ha adattato la sua narrazione per la fragranza Black Opium realizzando storie di prodotto e indirizzandosi a cinque diversi profili di clienti/personas, segmentati in base ai loro specifici bisogni narrativi (avventura, romanticismo, connessione sociale). Riquadro 2.7 Personas, user-personas e buyer-personas Il concetto di «personas» è stato sviluppato da Cooper nella progettazione e nel design di nuovi prodotti, quale procedura informativa riguardante gli utenti target. Cooper ha definito le personas come «ipotetici archetipi di utenti reali» allo scopo di fornire una descrizione di persone che, sebbene immaginarie, vengano rappresentate con rigore e precisione nelle loro caratteristiche personali, nelle abitudini e negli obiettivi perseguiti. Si tratta, quindi, di concentrarsi su di un utente fittizio che incarni e rappresenti le caratteristiche predominanti dell'utilizzatore-tipo a cui indirizzare la nuova o potenziale proposta di valore. Kotler e Keller hanno ampliato il concetto, definendo le personas come dei profili dettagliati di uno o pochi ipotetici consumatori-target, arricchiti da informazioni attitudinali o comportamentali, demografiche, psicografiche, geografiche o di altro tipo descrittivo. Si è andata affermando la distinzione, tra personas, user-personas e buyer-personas (piramide al contrario). Di fatto, mentre le informazioni da inserire in una scheda descrittiva del primo livello (relativa cioè alle personas) potranno contenere i risultati di ricerche, interviste e analisi diverse, distillati in uno o più caratteri fittizi, generali e corrispondenti a un determinato tipo di persona/profilo, le altre schede dovranno contenere una maggiore profondità informativa, che connoti quantitativamente e qualitativamente le user e le buyer personas, rispettivamente con obiettivi, motivazioni e comportamenti online o di acquisto, al fine di fornire una sintesi e un ritratto più preciso e puntuale. Il transmedia storytelling L'ascesa della narrazione transmediale è stata alimentata dalla capacità dei canali digitali e dei social media di connettersi con un pubblico ampio e diversificato, fedele e infedele, giovane o di età più avanzata, in tutto il mondo. Il transmedia storytelling fa quindi leva sulle nuove opportunità di comunicazione offerte dall'evoluzione continua dei media e si rivela un efficace strumento per il brand storytelling. Chiamato anche «transmedia narrative», va inteso come un metodo per raccontare una o più storie in modo differente: la prima quale origine e le altre agganciate a essa; tante micro-storie tutte simili; un’unica macro-storia a cui altri agganciano contenuti diversi e così via. Secondo Jenkins, «transmediale» significa «attraverso i media», poiché l'intento è di sviluppare storie tramite diverse forme e differenti media, i cui contenuti possiedono una sincronia narrativa ma non il medesimo contenuto ripetuto nei diversi mezzi, al fine di creare un'esperienza di consumo e di intrattenimento. La trilogia di Matrix è stata illustrata quale evidenza dello storytelling transmediale, composto da: una serie di cortometraggi animati, fumetti e diversi videogiochi che, sebbene tutti legati a una storia di origine, si presentano attraverso micro-storie diverse e fruibili su mezzi differenti. Solo la sperimentazione di tutti questi diversi mezzi e dei numerosi touchpoint permette effettivamente di «afferrare l'intero universo di Matrix». Nel transmedia storytelling, il racconto delle storie non si basa sulla riproposizione di un medesimo contenuto attraverso canali diversi (approccio cross-mediale), ma valorizza la prospettiva che ciascun mezzo può apportare. Ciascun medium, infatti, ha il compito di raccontare o approfondire una parte, anche minima, della storia, facendo leva sulle sue caratteristiche uniche. È la transmedialità che consente al pubblico di essere più partecipe e di perdere il ruolo di semplice spettatore, poiché si tratta di «connessione e collaborazione» in cui la narrazione transmediale è completamente basata sul pubblico e sulla sua partecipazione. Inoltre, all'interno della narrazione, ogni pezzo multimediale (si tratti di fumetti, romanzi, videogiochi, app per dispositivi mobili oppure di film) può funzionare da solo. Si potrebbe quindi rappresentare come un puzzle gigantesco, in cui ogni singolo pezzo contribuisce alla sua realizzazione. Il processo è cumulativo e ogni pezzo aggiunge ricchezza e dettaglio alla storia. Per creare e gestire uno storytelling transmediale di successo, la marca deve rispettare: - pervasività, perché man mano che la trama e le sub-trame si evolvono e acquisiscono maggiore profondità devono rimanere coerenti e connesse alla trama complessiva-centrale; - persistenza, in quanto qualsiasi campagna di storytelling deve persistere attraverso molteplici canali (social, digitali e tradizionali) per stimolare la partecipazione del pubblico target; - partecipazione, poiché il pubblico deve essere incoraggiato a partecipare attivamente alla campagna attraverso la creazione di contenuti (foto, video, storie ecc.) e la condivisione sui social media, garantendo l'interconnessione tra i messaggi di media e social media per unirsi all'esperienza narrativa; - personalizzazione, dettata da quegli elementi della trama/contenuto che consentono agli spettatori e ai fan di co-creare la propria esperienza e contribuire a modellare la storia aumentandone il coinvolgimento. BRAND PURPOSE Fra le tendenze emerse in tempi recenti e alle quali le marche sono sempre più chiamate a far fronte vi è quella dell'assunzione di un modello gestionale orientato alla produzione di un valore non più solo economico, ma anche etico e sociale. E andato così affermandosi un approccio incentrato sul cosiddetto «brand purpose», per il quale le marche, andando oltre la funzionalità e il simbolismo che sono loro caratteristici, devono perseguire una causa rilevante, uno scopo di ordine superiore nei confronti della collettività. Alle marche si chiede che “facciano ciò che è giusto per dipendenti, fornitori, clienti e società in generale, senza considerarne il costo”. Le aziende e le loro marche sono anche chiamate ad assumere posizioni su questioni sociali e politiche rilevanti per la comunità di riferimento. La crisi pandemica ha accelerato una tendenza che gli osservatori più attenti avevano già avuto modo di evidenziare, rilevando come un numero crescente di consumatori andava sempre più convincendosi che la dimensione etica e responsabile dell'offerta aziendale fosse un elemento meritevole di attenta considerazione nelle decisioni d’acquisto. Questo conduce alla scelta di utilizzare strumenti di marketing in grado di arricchire «socialmente» l'offerta aziendale e di comunicare l'orientamento etico-responsabile della marca e dei suoi prodotti. I consumatori si attendono sempre più che un prodotto responsabile offra benefici addizionali suscettibili di generare un impatto positivo non solo sulla loro soddisfazione individuale, ma anche sulla società nel suo insieme, in quanto, per esempio, rispondente a requisiti di eco-compatibilità o perché genera un impatto sociale positivo sulla collettività (prodotti equo-solidali) o è volto ad appagare esigenze specifiche di particolari categorie di persone, quali anziani, disabili, o individui in condizioni di disagio economico. In merito al prezzo, i consumatori percepiscono negativamente politiche di pricing collusive, discriminatorie o non trasparenti. Particolarmente critiche sono poi le scelte in termini di comunicazione. Al di là dell'ovvio rifiuto di qualsivoglia messaggio anche solo lontanamente ingannevole, i consumatori più sensibili si attendono che l’impresa operi anche quale «educatore alla responsabilità», sviluppando iniziative atte a favorire la consapevolezza del ruolo che ogni individuo è chiamato a ricoprire per concorrere ad accrescere il benessere della collettività, mediante campagne di prevenzione, di sensibilizzazione, di solidarietà sociale. Fino a tempi recenti, le aspettative in questione riguardavano spesso la riduzione dell'impatto ambientale, l'eliminazione di condizioni lavorative compromesse e, in generale, pratiche aziendali in grado di generare esternalità negative. Tuttavia, negli ultimi anni, alle aziende viene sempre più spesso chiesto non solo di ridurre tali esternalità, ma anche di crearne di positive attraverso progetti nel campo dell'istruzione, del rispetto dei diritti delle minoranze, della riduzione delle diseguaglianze, della promozione dei diritti delle donne, del benessere dei loro collaboratori. Ecco così che imprese quali Tiffany e Ikea hanno dichiarato il loro supporto alle rivendicazioni dei diritti della comunità gay, Apple ha rilasciato dichiarazioni a favore di quella transgender, Pfizer a supporto dell'abolizione della pena di morte, Facebook sull'immigrazione, Starbucks contro il razzismo. È andato così affermandosi il concetto di «brand activism», inteso come volontà, da parte dell'azienda, di assumersi responsabilità in ambito sociale e di partecipare al raggiungimento del bene comune. Indicativa è la campagna pubblicitaria realizzata da Nike per celebrare i 30 anni del suo celebre pay-off Just Do It. L'azienda ha coinvolto l'ex giocatore dei San Francisco 49ers Colin Kaepernick, estromesso dalla National Football League per essersi inginocchiato durante l'esecuzione dell'inno nazionale in segno di protesta contro l'ingiustizia razziale negli Stati Uniti. Alcuni consumatori hanno avuto reazioni negative alla campagna pubblicitaria, ma la marca ha registrato un rilevante incremento delle vendite. Come emerge da questo esempio, i temi sui quali le marche possono assumere posizioni sono anche socialmente divisivi e, come tali, non privi di rischi in termini di impatto sull'immagine e le vendite aziendali (secondo alcuni, sarebbe individuabile la sottile distinzione fra «brand activism» e «corporate social responsibility». Mentre infatti il primo comporta che la marca assuma una pubblica posizione su questioni anche divisive nell'ambito della pubblica opinione, la seconda è meno complessa in quanto comporta il sostegno a cause ampiamente condivise (aiutare i poveri, sostenere la ricerca sul cancro, migliorare l'alfabetizzazione dei bambini, contrastare la siccità). Il brand activism sarebbe «una naturale evoluzione dei programmi di responsabilità sociale d’impresa (CSR) e ambientale, sociale e di governance (ESG) che stanno trasformando le aziende in tutto il mondo. Secondo Kotler, invece, il brand activism sarebbe «un’agenda basata sui valori per le aziende che hanno a cuore il futuro della società e la salute del pianeta. La forza alla base del progresso è un senso di giustizia ed equità per tutti»). Brand purpose e brand equity «Brand purpose»: obiettivo che la marca si propone di perseguire sul piano sociale, ossia l'impatto che essa si prefigge di esercitare sulla collettività, al di là dei benefici funzionali, psico- sociali ed emozionali da essa offerti. Oltre che per la marca, il brand purpose è fattore di sviluppo anche per gli individui, intesi quali consumatori e lavoratori. Per i primi, un brand purpose adeguato è in grado di rafforzare l'orientamento sociale, l'autostima e quindi il benessere psicologico. Nella prospettiva dei collaboratori aziendali, un purpose stimolante e coinvolgente è un formidabile fattore di motivazione delle persone e di attrazione di nuovi talenti. Il brand purpose è fattore di risultato di un percorso analitico articolato in quattro stadi fondamentali, rispettivamente finalizzati alla verifica dei seguenti aspetti: - brand knowledge: occorre in primo luogo ricostruire l'insieme delle associazioni evocate dalla marca nella memoria dei consumatori. Tali associazioni definiscono il significato della marca e, possono riflettere benefici di natura funzionale, psico-sociale o esperienziale, tratti valoriali; - perceptual fit: è fondamentale verificare il grado di consonanza percettiva fra l'identità della marca e i temi sociali che potrebbero caratterizzare il brand purpose. Tale consonanza va verificata in relazione ai valori condivisi dai consumatori (self-knowledge), ma deve investire anche l'area della product knowledge considerando la sua rilevanza nella definizione dell'autenticità e dell'heritage della marca. A questo riguardo, è possibile ricordare l'esempio della già citata National Football League, per osservare come la posizione da essa manifestata in passato sul tema della giustizia razziale abbia reso più difficile per il pubblico accettare la sua dichiarata e recente inversione di tendenza. - stakeholder reaction: la definizione di un brand purpose espone la marca al rischio di critiche, per cui è importante sondare le reazioni degli stakeholder chiave. Tali critiche sono in genere fondate sull'incoerenza fra il purpose selezionato dalla marca e le azioni dell'impresa, ma anche su dubbi in merito alle reali motivazioni della marca e sulla «politicizzazione» del tema sociale considerato. Le marche sono dunque chiamate a comunicare uno scopo e un senso, non solo attraverso la tradizionale azione di comunicazione, ma anche attivando progetti e partnership percepiti come in grado di fare la differenza. Questo deve avvenire senza che tale impegno venga percepito come artificioso o, peggio ancora, strumentale. Se così fosse, la marca sarebbe oggetto di rifiuto o addirittura di boicottaggio. Il web ha infatti notevolmente accresciuto la consapevolezza critica del consumatore. 3. IDENTITÀ DI MARCA E SEGNI DI RICONOSCIMENTO Piramide del valore della marca (Figura 3.1), il quale interpreta la costruzione del brand come una serie ascendente di fasi sequenziali. Tali fasi risultano rispettivamente finalizzate a: - assicurare che i consumatori identifichino la marca e l'associno con una specifica categoria di prodotto o a una definita necessità di consumo, affinché si abbia una consapevolezza ampia e profonda; - imprimere nei consumatori il significato della marca, tramite il collegamento con una serie di associazioni mentali, che agiscano attraverso punti di differenza e/o di parità competitiva sulle strategie di posizionamento del brand; - suscitare risposte adeguate da parte degli individui in termini di giudizi e sensazioni correlate alla marca; - convertire queste risposte in una relazione fra cliente e brand fondata su un’intensa e attiva fedeltà. L'applicazione delle quattro fasi del processo richiede la creazione di sei mattoni (building blocks). La forma della piramide è particolarmente appropriata poiché, di norma, nel passaggio dalla base all'apice si riduce il numero di soggetti che hanno sviluppato un certo livello di coinvolgimento nei confronti della marca. A questa lettura in senso verticale della piramide, se ne accompagna una in senso orizzontale: sul versante sinistro si riscontrano i blocchi attinenti alla sfera razionale del soggetto, mentre sul versante destro si lambisce la sfera emotiva. Questa distinzione, che opera solamente per i blocchi presenti nella parte centrale della figura, evidenzia la cosiddetta «dualità della marca», ossia la sua capacità di parlare alla mente ma anche al cuore del consumatore, di coinvolgerlo e di creare commitment. La piramide del valore della marca Il modello in esame sintetizza il processo di costruzione del valore di una marca, proponendo una serie ascendente di fasi sequenziali, a ciascuna delle quali corrisponde un diverso grado di coinvolgimento del consumatore. Alla base della piramide risiede la prominenza della marca, la quale fa riferimento alla consapevolezza che i consumatori ne hanno, ossia alla capacità di richiamarla alla mente in situazioni opportune. La consapevolezza (o notorietà) può essere descritta secondo due dimensioni: la profondità e l'ampiezza. La prima attiene alla rapidità con cui la marca viene richiamata alla memoria dal consumatore rispetto a marche concorrenti (per esempio, Mulino Bianco è la prima marca di biscotti che molti individui ricordano spontaneamente). È quindi sinonimo di notorietà spontanea della marca. L'ampiezza identifica invece la varietà di contesti a cui la marca è associata (per esempio, per un consumatore Mulino Bianco può significare non solo biscotti, ma anche dolcetti, fette biscottate, merendine, torte, pani, piadine, cracker e, da ultimo, pure confetture). Al secondo livello di coinvolgimento del consumatore, questi è chiamato a qualificare la marca ascrivendole un significato. Questo primo mattone della costruzione del brand è essenziale e risponde idealmente al quesito «Chi sei?», poiché è indicativo solamente del fatto che il consumatore è a conoscenza dell'esistenza della marca, a prescindere dai significati che le associa. Come si vede nella Figura 3.1, la superficie del mattone è ampia, in quanto la prominenza costituisce un prerequisito per giungere a instaurare una relazione con la marca. A tale livello può però arrestarsi una quota più o meno rilevante degli individui: quelli informati dell'esistenza del brand, ma a esso non interessati. Scalando la piramide, si arriva al secondo livello di coinvolgimento del consumatore, in cui questi è chiamato a qualificare la marca ascrivendole un significato, rispondendo così idealmente al quesito «Che cosa sei?». La marca comincia dunque a prendere forma nella mente del soggetto, mediante il riferimento alle prestazioni e all’immaginario. Le prime si riferiscono alla capacità del prodotto identificato dalla marca di soddisfare i bisogni di natura funzionale dei consumatori e dunque sono collocate sul versante razionale della piramide. Qual è il giudizio sulla qualità oggettiva di tale prodotto? In che misura è in grado di soddisfare le esigenze del cliente in riferimento alla categoria alla quale appartiene? Anche se tali esigenze variano profondamente a seconda della categoria merceologica, i consumatori basano sovente le loro valutazioni su alcuni aspetti fondamentali del prodotto: attributi strutturali, esterni e di supporto del prodotto; affidabilità, durata e funzionalità; efficacia, efficienza ed empatia del servizio; prezzo. Sul versante emotivo del secondo livello si trova, invece, il blocco dell'immaginario, inteso come insieme di significati intangibili che il consumatore associa mentalmente alla marca, incluso il modo in cui essa cerca di soddisfare i suoi bisogni psico-sociali. Tali associazioni possono formarsi direttamente (con la sperimentazione del prodotto) o indirettamente (tramite la mediazione della comunicazione di marketing o di altre fonti informative, quali le comunicazioni interpersonali). In linea di massima, le associazioni in questione sono riconducibili al profilo degli utilizzatori della marca; alle tipiche situazioni di acquisto e di consumo; alla personalità e ai valori della marca; alla storia, all'eredità e alle esperienze della marca e dei consumatori. Le prestazioni e l'immaginario concorrono a generare la risposta dei consumatori, ossia la loro reazione alle iniziative poste in essere dalla marca. A questo livello della piramide, si assiste dunque al passaggio da una conoscenza del brand che si limita a rilevarne le caratteristiche a una in cui queste vengono interiorizzate dall'individuo e combinate con le proprie variabili soggettive, fino a suscitare dei riflessi a livello personale. Il consumatore risponde dunque idealmente alla domanda «Che cosa penso di te?». La Figura 3.1 evidenzia 2 tipi di risposta, distinti a seconda che provengano dalla sfera cognitiva o emotiva: i giudizi e le sensazioni. I primi sono incentrati su opinioni e valutazioni personali dei singoli clienti e riguardano sostanzialmente i seguenti aspetti riferibili alla sfera della razionalità (qualità percepita del prodotto, credibilità, rilevanza, superiorità rispetto ai concorrenti): 1. qualità percepita del prodotto, desunta dalla valutazione degli attributi che lo compongono e dai benefici che se ne possono trarre; 2. credibilità, valutata sulla base dell'esperienza e dell'affidabilità della marca; 3. rilevanza, in termini di importanza del brand per l’individuo; 4. superiorità rispetto ai concorrenti, derivante dalla percezione della capacità della marca di garantire vantaggi che i rivali non sono in grado di offrire (quantomeno nella stessa misura). Le sensazioni legate alla marca attengono invece alle risposte emotive dei clienti (calore, divertimento, eccitazione, sicurezza, approvazione sociale, autostima). A questo riguardo, si possono indicare le seguenti: - il calore, ossia la sensazione di calma o di pace suscitata dal brand; - il divertimento, inteso come allegria, giocosità, spensieratezza, gioia emanate dalla - l'eccitazione, vale a dire l'euforia trasmessa da alcune marche, in grado di far sentire i consumatori pieni di energie, affascinanti, desiderabili, protagonisti di un’esperienza speciale, vivi; - la sicurezza, nel senso che la marca genera sensazioni di tranquillità, incolumità, benessere e fiducia; - l'approvazione sociale, che il brand suscita nei consumatori in ordine alle reazioni altrui rispetto al loro aspetto o comportamento; - l'autostima, in quanto la marca induce nei clienti una migliore opinione di sé, un senso di orgoglio, di realizzazione o di appagamento. Infine, il vertice della piramide è rappresentato dalla risonanza della marca, la quale fa riferimento alla relazione che si instaura fra i consumatori e la marca e alla misura in cui i primi si sentono in sintonia con la seconda. A questo livello, il consumatore risponde idealmente alla domanda «Che cosa può esserci fra me e te?». Come si vedrà nel par. 4.6, la risonanza si manifesta in termini di intensità del legame psicologico fra i clienti e la marca e nel livello di attività generato da tale legame. L'IDENTITÀ DI MARCA Sono molti i buoni prodotti presenti sui mercati e moltissime le aziende che si contendono le preferenze del consumatore.«È l'identità della marca - se forte ed unica, soggetta ad un costante processo di manutenzione ed implementazione - a rendere improponibile qualsiasi tentativo di clonazione». Tra l'identità progettata dal management aziendale e l'immagine della marca che si genera presso il pubblico non vi è sempre coincidenza. I fattori che determinano questo divario sono molteplici, alcuni sotto la possibilità di controllo dell'azienda, altri decisamente meno. Fra i primi, va ricordato il modo in cui viene concepita l'identità di marca all'interno dell'organizzazione. Proprio per l'importanza che riveste, essa dovrebbe infatti essere frutto non di azioni che si succedono nel tempo in maniera più o meno coordinata, ma di un ben preciso disegno di fondo, risultato di scelte condivise alle quali possano concorrere tutte le funzioni aziendali, ognuna apportando il proprio contributo e con i medesimo rigore analitico riservato, di norma, alle scelte strategiche. L’identità racchiude la visione della marca e guida la creazione dei prodotti da offrire al mercato, la scelta dei segni di riconoscimento nonché la comunicazione e le altre scelte di brand management. L'identità di marca, infatti, oltre a sintetizzare la storia dell'azienda, la sua cultura e i suoi valori, deve anche poter dar conto della personalità del brand, dei suoi attributi e dei benefici che è in grado di fornire, in modo da evidenziarne la performance. Tra le cause all'origine del divario fra identità e immagine che invece risultano più difficilmente controllabili dal management va rammentato che i consumatori tendono a costruirsi, a livello individuale, una propria immagine della marca, solo in parte riconducibile ai messaggi veicolati dall'azienda. Tale immagine è infatti influenzata anche dalle comunicazioni interpersonali, specialmente quando la marca è presente da tempo sul mercato, nonché dalle esperienze dirette che i consumatori hanno avuto con la stessa. Tutto questo si sovrappone all'identità originaria della marca e, in una certa misura, ne modifica i tratti. Nelle situazioni migliori, il brand si carica di significati migliorativi. Nei casi peggiori, vi è invece il rischio di una compromissione dell'identità. Questo accade per esempio quando: - essere facilmente memorizzabile, quindi essere breve e vivace. Un mantra di tre parole è sotto molti aspetti il modo ideale, sul piano della sintesi, di comunicare il posizionamento, anche se talvolta può essere necessario ricorrere a un maggior numero di parole atte a chiarire le funzioni dell'attività o la natura dei modificatori; risultare rilevante per il maggior numero possibile di dipendenti, in modo da non limitarsi a informarli, ma anche a ispirarli. Occorre pertanto spiegare in modo dettagliato il significato di ogni termine. Valori principali e mantra sono, insomma, articolazioni del cuore e dell'anima del brand. Si evince, pertanto, che l'essenza di marca deve: a) fornire un contributo determinante alla creazione di valore; b) essere protetta dai tentativi di appropriazione da parte della concorrenza e differenziarsi nel tempo; c) risultare abbastanza coinvolgente in modo da motivare e ispirare l'intera organizzazione. Dopo aver stabilito i tre livelli dell'identità di marca, eventualmente sintetizzati nel brand mantra, è necessario fornire al consumatore elementi concreti, in modo da conformare nella sua mente una certa immagine della marca in questione. Gli elementi in discorso sono i seguenti: imperativi strategici; spunti di prova; modelli di ruolo. Gli «imperativi strategici» sono orientamenti di medio-lungo periodo a cui l'impresa dichiara di ispirarsi per realizzare la promessa su cui si basa nell'identità di marca. Tali orientamenti rappresentano anche una specie di test di fattibilità attraverso il quale si specificano gli investimenti necessari e si valuta se la strategia per la realizzazione della promessa possa essere attuata. Le questioni da affrontare sono le seguenti: vi è un vero impegno da parte dell'organizzazione? Esistono le risorse per gli investimenti? L'organizzazione possiede la capacità di adottare le iniziative necessarie? Se la risposta a una di queste domande è negativa, la marca non sarà in grado, o non avrà la volontà, di tenere fede alla promessa, che quindi si ridurrà a un mero slogan. Un esempio può meglio chiarire il concetto. The Body Shop, impresa di cosmetici, cura della pelle e profumi, si definisce come «un'impresa animata da valori, che crede nel rispetto della persona». Questa essenza è declinata in alcuni valori che costituiscono la sua identità di fondo, fra cui il rispetto dell'ambiente, la difesa dei diritti umani, il rifiuto dei test sugli animali. Affinché tutto questo non rimanga una mera affermazione di principio, la marca indica sul proprio sito precisi obiettivi. Per esempio, riguardo al rispetto dell'ambiente, The Body Shop s'impegna a far sì che il 70 per cento del packaging dei prodotti finali non contenga combustibile fossile. Gli «spunti di prova» si definiscono come azioni concrete, già in atto da parte dell'impresa, che contribuiscono in modo puntuale a rendere operativi gli imperativi strategici. L'espressione deriva dal fatto che il consumatore dovrebbe ravvisare in questi comportamenti una prova della veridicità degli obiettivi dichiarati da parte dell'impresa. Se gli imperativi strategici sono in genere pochi, spesso costosi e tali da presentare rischi, gli spunti di prova possono essere molti e avere natura operativa. Per esempio, nel caso in cui una marca abbia definito come imperativo strategico la soddisfazione dei clienti, gli spunti di prova sono costituiti dalle risorse destinate, dalle capacità dimostrate, dai programmi e dalle iniziative in grado di provare che già la marca si prende cura dei suoi clienti, come, per esempio: - una buona reputazione per il servizio offerto alla clientela; - una politica di rimborsi ai clienti insoddisfatti, ben conosciuta e credibile; - un programma di incentivazione dei dipendenti che tenga conto del servizio reso ai clienti; - la qualità dei dipendenti e del programma di reclutamento; - una politica di empowerment che permetta di reagire in modo innovativo alle esigenze dei clienti. Riuscire a individuare dei modelli di ruolo, ossia aneddoti, persone o eventi che rappresentino la brand identity può invece contribuire a rendere espliciti il significato e la valenza emotiva della marca. I «modelli di ruolo» sotto forma di persone possono essere ritrovati sia nell'utilizzo di testimonial sia nell'esibizione di un individuo a cui la marca è fortemente legata, come per esempio il fondatore dell'impresa (si pensi a Giovanni Rana) o un collaboratore aziendale o perfino un personaggio inventato. Infine, il modello di ruolo può essere un evento o una qualsiasi altra attività di comunicazione gestita dalla marca che sia così strettamente legata alla sua immagine e talmente distintiva rispetto alle condotte dei rivali da divenire un simbolo del brand in questione. Algida, per esempio, organizza da anni il Cornetto FreeMusic Festival, divenuto per un sempre maggior numero di giovani un appuntamento importante, un momento di aggregazione, di incontro e di divertimento in cui l'azienda offre la possibilità di assistere gratuitamente alle esibizioni di alcuni dei più noti artisti del panorama musicale nazionale e internazionale. In questo modo, la famosa marca di gelato manifesta la propria personalità gioiosa, la vicinanza al mondo della musica dei giovani, realizzando una massiccia azione di visibilità sul territorio italiano. L’identità e i segni di riconoscimento della marca L'espressione dell'identità di una marca viene attuata attraverso la progettazione e l'utilizzo di uno specifico sistema di segni. Questi rappresentano lo strumento più elementare alla base di qualsiasi forma di comunicazione e sono caratterizzati «dalla relazione tra due piani: il piano dell'espressione (il significante, di tipo linguistico, figurativo ecc.) e quello del contenuto (il significato o concetto sottostante)». Tali segni, denominati «segni di riconoscimento» della marca (o brand element), ne definiscono in primo luogo l'«identità visiva» (visual identity). L’identità visiva rappresenta il primo elemento di comunicazione che collega la marca con il mondo esterno e interno all’azienda. I segni assicurano il riconoscimento distintivo della marca. Prezzo, confezione, pubblicità si possono cambiare molto più facilmente dei segni di riconoscimento, specie del nome, il quale dovrebbe essere pressoché intoccabile. Gli elementi costitutivi dell’identità sono destinati a essere declinati su tutti i supporti grafici e digitali atti a veicolare e amplificare la presenza della marca in ogni circostanza di potenziale visibilità (sito, gadget, arredi, insegne, volantini). In linea di principio, la scelta dei segni di riconoscimento della marca dovrebbe rispondere ad alcuni criteri di base: - memorizzabilità, devono poter essere ricordati e riconosciuti con facilità; - capacità di significazione, devono evocare significati coerenti con le associazioni cognitive e affettive che la marca intende sviluppare, per contribuire alla definizione della sua immagine; - piacevolezza, devono essere ricchi di immagini visuali e verbali, divertenti e interessanti suscitare l'interesse del consumatore; - trasferibilità, perché la marca è sempre più chiamata a estendersi verso nuovi mercati, evitando di adottare segni di riconoscimento tali da pregiudicarne la commercializzazione in altri contesti; - adattabilità, al fine di evitare l'obsolescenza funzionale e simbolica della marca conseguente ai cambiamenti ambientali e/o negli schemi cognitivi dei consumatori, nel corso del tempo è necessario poter apportare modifiche ai suoi segni di riconoscimento; - tutelabilità, è essenziale che gli elementi identificativi della marca siano scelti nel rispetto dei criteri previsti dall'ordinamento giuridico, al fine di ottenerne la registrazione tanto in sede nazionale quanto internazionale. È opportuno ricordare che in base all'art. 7 del Codice della proprietà industriale, possono costituire marchio registrato «tutti i segni suscettibili di essere rappresentati graficamente, in particolare le parole, compresi i nomi di persone, i disegni, le lettere, le cifre, i suoni, la forma del prodotto o della confezione di esso, le combinazioni e le tonalità cromatiche, purché atti a distinguere i prodotti o servizi di un un'impresa da quelli di altre imprese». Il titolare di un marchio registrato ha il diritto di vietare ai terzi l'uso di: - un segno identico al marchio per beni o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato; - un segno identico o simile al marchio registrato, per beni o servizi identici o affini, se a causa della somiglianza possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico; - un segno identico o simile al marchio registrato per beni o servizi anche non affini, se il marchio registrato gode di rinomanza e se l'uso del segno consente di trarre vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio. Per poter essere giuridicamente tutelati, i segni di riconoscimento sopra elencati devono possedere determinati requisiti di validità, in mancanza dei quali il marchio è nullo, ovvero: distintività, novità, liceità. Il primo attiene alla «capacità distintiva», la cui mancanza può individuarsi in quei segni che sono divenuti di uso comune nel linguaggio corrente o negli usi costanti del commercio, come le parole «standard», «extra», «super», «universal». Il secondo requisito consiste nella cosiddetta «novità», intesa quale diversità del marchio rispetto ad altri segni distintivi. Il terzo requisito è rappresentato dalla «liceità». Di esso sono da ritenersi privi - oltre ai segni contrari alla legge, all'ordine pubblico e al buon costume - i segni decettivi, vale a dire idonei a ingannare il pubblico, «in particolare sulla provenienza geografica, sulla natura o sulla qualità dei prodotti o servizi». Per quanto riguarda la provenienza geografica, fatti salvi i marchi collettivi, viene esclusa la validità dei marchi costituiti dal solo nome geografico nel caso in cui questo indichi la reale provenienza del prodotto. La norma non esclude tuttavia la validità dei nomi geografici «assunti in funzione palesemente fantastica». L’altra ipotesi di ingannevolezza attiene alla natura o qualità dei prodotti o servizi e va affrontata nella prospettiva del rapporto fra il valore semantico del marchio e i prodotti a cui è applicato. Per esempio, il marchio Cotonelle, registrato per contraddistinguere prodotti cartacei, è stato ritenuto nullo dalla giurisprudenza in quanto evocativo della presenza del cotone e, quindi, ingannevole per i consumatori. In base alla normativa i segni possono essere costituiti da tutti i segni suscettibili di rappresentazione grafica, dunque da parole o da figure (disegni, dice la legge). Nel primo caso si parla di «marchi denominativi», nel secondo di «marchi figurativi» o «loghi». Non di rado, parole e figure sono abbinate e compongono quelli che vengono detti «marchi misti». Possono costituire validi marchi anche i numeri e le lettere dell'alfabeto, nonché i suoni e le combinazioni o tonalità cromatiche, come pure le forme del prodotto o della confezione. Riquadro 3.1 I marchi collettivi Esempi sono i noti Pura lana vergine, Vetro artistico di Murano, Aceto balsamico tradizionale di Modena, Brunello di Montalcino. Caratteristica dei marchi collettivi è quella di esser destinati a venir impiegati da una pluralità di imprenditori diversi dal titolare. Questi marchi svolgono soprattutto una funzione di garanzia qualitativa, in quanto secondo la legge garantiscono che il bene o il servizio contrassegnati possiedano determinati requisiti che si riflettono sulla loro qualità. I marchi collettivi possono essere registrati dai soggetti (di norma, i consorzi che svolgono la funzione di garantire tale qualità). Molti marchi collettivi concernono la garanzia dell'origine geografica di determinati prodotti. Il marchio collettivo, dunque, può consistere anche soltanto in indicazioni della provenienza geografica dei prodotti o servizi. Il nome della marca La definizione del brand name, ossia del marchio denominativo, rappresenta un passo essenziale per la costruzione del valore della marca. Il nome di marca cattura il tema centrale o le associazioni chiave di un prodotto in modo conciso ed economico. È dunque un efficace strumento di comunicazione, un elemento allusivo e fondativo dell’immagine del prodotto, dei suoi attributi nonché della sua personalità. È un efficace strumento di comunicazione, un elemento allusivo e fondativo dell'immagine del prodotto, dei suoi attributi nonché della sua personalità. Si pensi, per esempio, a un olio dietetico che si chiama Cuore: il brand name allude esplicitamente agli effetti del prodotto sul sistema cardiovascolare, «ma anche la dimensione del volersi bene, ecco allora il cuore, simbolo universale dell'amore. I nomi stimolano, permangono, ricordano e fidelizzano la memorizzazione, la penetrazione e la diffusione di un prodotto sul mercato. Un brand name di successo dovrebbe essere: - semplice da pronunciare, scrivere e ricordare; - distintivo, significativo e suggestivo; - diverso, insolito e difficile da dimenticare; - in grado di comunicare in maniera rapida e immediata al consumatore informazioni rilevanti riguardo agli attributi di prodotto e/o ai bisogni soddisfatti. In alcuni casi, il nome dell’azienda («marca corporate») viene utilizzato per tutti i prodotti (è il caso di General Electric o di Hewlett-Packard o di Dyson); in altri, si assegnano ai singoli prodotti nomi non collegati a quello dell'impresa (Bolton Group opera con le marche Omino Bianco, Merito, Deox, Rio Mare ecc.); in altri casi ancora, il brand prevede una qualche forma di collegamento con la marca corporate (si pensi a Giorgio Armani, Armani Jeans, Emporio Armani, Armani Exchange, Armani Casa ecc.). Il brand name può essere scelto in modo da trasmettere esplicitamente informazioni in merito al prodotto; oppure allontanarsi da qualsiasi riferimento relativo a quest’ultimo. I marchi del primo tipo sono denominati «espressivi», mentre quelli del secondo tipo «di fantasia». I nomi espressivi Prendendo avvio dai marchi espressivi, l'idea è quella che il nome possa indicare la categoria in cui esso si inserisce, i suoi attributi, i benefici funzionali, psico-sociali ed esperienziali da esso ottenibili o i valori evocati (Sognid’oro, Pan e Cioc, Vita Snella). Nomi comuni, aggettivi, verbi e avverbi operano come precisi indicatori, facendo sì che il brand name suggerisca il posizionamento del prodotto. Si pensi, per esempio, a marche quali: Condiriso, Pesoforma, Scaldasonno, Sognid'oro o Vitasnella. La capacità distintiva viene ritenuta sussistere se la denominazione generica o l'indicazione descrittiva contenuta nel marchio è accompagnata da elementi di differenziazione, costituiti da aggiunte di prefissi o suffissi, da distorsioni della parola, da particolari combinazioni. Sono così ritenuti validi marchi quali: Amplifon per apparecchi acustici; Benagol, per un medicinale contro il mal di gola; Scarpe&Scarpe, per una catena di negozi di calzature; Melinda, per le mele. Sono stati invece dichiarati nulli, perché ritenuti meramente descrittivi, i marchi Bitter (per aperitivi), Jeans (per pantaloni), Mojito (per bevande alcoliche). Il marchio espressivo viene definito «marchio debole», in quanto la sua protezione si limita a impedire l'imitazione da parte di terzi di quegli elementi che agiscono sul suo contenuto descrittivo, restando a disposizione di chiunque l'uso dell'elemento espressivo che ne costituisce il nucleo (così si è affermato che il marchio Carcioghiotto usato da Peperlizia Ponti per carciofi sott'olio non costituisce contraffazione del marchio Carciofotto di proprietà di Berni). Ai marchi deboli si contrappongono i «marchi forti», vale a dire privi di attinenza con i beni o i servizi da essi contraddistinti. Si può trattare tanto di segni dotati di un proprio valore semantico, che nulla abbiano a che fare con ciò che contraddistinguono prospettiva del marketing, da quanto affermato discende che, essendo i suoni portatori di un significato proprio, è possibile influenzare le percezioni dei consumatori con riguardo a un particolare bene o servizio massimizzando la coerenza fra il simbolismo sonoro del nome di marca e gli attributi del prodotto che si intendono evidenziare. Un secondo filone di ricerca che ha approfondito il tema della sonorità è quello, più recente, della «sound repetition», in presenza di suoni energici e ripetitivi, gli individui evidenziano maggiori livelli di stimolazione e di piacere. Da qui l'idea che l'ascolto di un nome di marca contenente una ripetizione fonetica dei suoni è in grado di suscitare una positiva risposta affettiva in chi lo ascolta, tale da influenzarne le percezioni (Coca- Cola, Chupa Chups, KitKat, Tic Tac, Yamamay). I consumatori valutano più favorevolmente nomi di marca caratterizzati da ripetizione fonetica e da un suono vocalico coerente con gli attributi del prodotto. Inoltre, in caso di incoerenza dei due stimoli, il simbolismo fonetico prevale sulla ripetizione del suono. I loghi e i simboli Se il nome è il cuore della marca, gli elementi visivi, quali appunto i loghi, giocano spesso un ruolo critico nella costruzione dell'identità del brand posto che «quasi due terzi degli stimoli che arrivano al cervello passano attraverso il sistema visivo». Quando uno stimolo visivo è in grado, a prima vista, di richiamare univocamente una certa marca, significa che ha saputo imprimersi con forza nella mente degli individui generando un'associazione di primaria importanza, come nel caso del colore lilla scelto da Milka. I loghi sono la prima forma di comunicazione della marca e ne consentono una rapida identificazione. Naturalmente, per tutti i beni e servizi è importante essere immediatamente riconoscibili, ma per alcuni lo è maggiormente. Si pensi, per esempio, a quanto la riconoscibilità è rilevante per quei prodotti che ambiscono a essere oggetto d'acquisto d'impulso, come pure per tutte le marche presenti nella grande distribuzione. Il logo personalizza e conferisce un supplemento di identità alle marche e ai loro prodotti, creando così associazioni e sensazioni in grado – a loro volta – di incidere sulla qualità percepita e sulla fedeltà della clientela. Il termine «logo», o «logotipo», deriva dal greco logos, che significa proprio «parola». Per esempio, il logo di Facebook è costituito dal nome completo reso distintivo a livello visivo dal particolare lettering, ossia dai caratteri editoriali impiegati per scrivere il nome con il quale viene graficamente rappresentato. Il logo è dunque la traduzione del nome della marca in una forma leggibile e pronunciabile, resa unica e ben riconoscibile in funzione della sua rappresentazione grafica (in termini di disegno delle lettere e/o di colori utilizzati). Basti pensare al lettering di Google per rendersi conto che è sufficiente la semplice visione di quei caratteri, anche senza leggerli, per ricondurli alla marca. La leggibilità è il principale requisito di un buon lettering, ma non deve essere trascurata la sua capacità di esprimere il carattere della marca e alcune sue peculiarità. Un carattere maiuscolo, a bastone ed essenziale tende a esprimere modernità, mentre un carattere corsivo, minuscolo, calligrafico rinvia a un'idea di classicità, di recupero del passato, di vintage. Un carattere sottile e leggero è femminile, mentre il grassetto appare più mascolino. Fra i lettering più famosi si annovera quello di Coca-Cola, col suo corsivo calligrafico che da un lato sembra alludere alle origini ottocentesche della bevanda, dall'altro conserva una grande modernità, anche grazie a costanti e impercettibili restyling. Altri lettering distintivi sono quelli di Ray-Ban, di Disney o di Salvatore Ferragamo. Il lettering può essere incluso in una forma oppure insistere su uno sfondo. La prima opzione è quella adottata, per esempio, per il logo di The Body Shop, con i suoi caratteri classici inscritti in una sorta di cerchio che termina con del fogliame stilizzato, oppure per quello di Visa, al centro di due binari blu e gialli. La seconda opzione è adottata per il logo di Lego, bombato e giocoso su fondo rosso. In alcuni casi, il logo è rappresentato unicamente dal lettering (Coca- Cola o Google), mentre in altri casi è accompagnato da ulteriori elementi (spesso denominati «simboli») i quali possono essere costituiti da: - monogrammi, risultanti dalla combinazione o dalla sovrapposizione di due o più lettere alfabetiche presenti nel brand name (Yves Saint Laurent, Chanel, Louis Vuitton o Gucci); - acronimi, costituiti dalle prime lettere del nome dell'azienda o del prodotto, come per PT che sta per Pantaloni Torino; - pittogrammi, i quali rappresentano la parte puramente simbolica della marca, ossia l'emblema non leggibile e pronunciabile che riconduce all'azienda o al prodotto. Possono essere ideogrammi se rappresentano segni astratti (Mercedes, Nike, Mitsubishi), oppure iconografici se invece riproducono segni assomiglianti al concetto che intendono esprimere (come l'icona del mulino per Mulino Bianco, la testa di levriero di Trussardi). A meno che l'azienda non goda di elevata notorietà presso il pubblico, è raro trovare marchi composti unicamente dal pittogramma non accompagnato anche dal logotipo. Le persone potrebbero infatti attribuire significati differenti al pittogramma, con il rischio di confusione sulla reale attività svolta dall'azienda. Nella maggioranza dei casi, la marca possiede un logo composto dall'articolazione alfabetica del nome più un simbolo stilizzato. Per esempio: McDonald's più gli archi dorati; Autogrill più la A stilizzata e barrata; BMW più il cerchio suddiviso in quattro quadranti blu e neri; Conad più la margherita; Versace più la testa della medusa. Tuttavia, sempre più spesso, alcuni simboli si stanno conquistando una propria autonomia. E così, a un primo sguardo, lo swoosh significa Nike, il coccodrillo Lacoste, l'icona rotonda dipinta di rosso, bianco e blu è Pepsi, il cavallino rampante e quello di Ferrari, la macchina fotografica in stile anni ‘50 è Instagram. Come i nomi, i loghi possono essere espressivi o di fantasia («astratti») e connotarsi altresì come marchi forti o deboli. Quelli citati poc'anzi sono evidentemente marchi forti. Marchi deboli sono quelli in cui prevale la componente descrittiva, come potrebbe essere per un ramo d'ulivo con annesse olive per contraddistinguere un olio, o per l'immagine di un pollo per un omogeneizzato a base di carne. I loghi astratti possono essere particolarmente distintivi e quindi ben riconoscibili e quelli privi di forti associazioni product related, possono essere utilizzati per diverse categorie di prodotti. Tuttavia, possono essere privi del significato denotativo evidente in un logo più descrittivo: di conseguenza - a meno di marchi molto noti - i consumatori potrebbero non capire che cosa rappresentano. Da qui l'importanza di sostenerli con adeguate iniziative di marketing. La realizzazione del logo implica anche la selezione dei colori, con i quali raffigurarne gli elementi costitutivi. Si tratta di un aspetto importante, posto che i colori sono identificativi di attributi, qualità e proprietà. La psicologia del colore sostiene che il colore è una sensazione che viene recepita dal nostro cervello e che provoca determinati sentimenti ed emozioni. La relazione delle persone con i colori è legata al modo in cui li hanno percepiti nel corso della loro vita. Determinati colori trasmettono specifiche sensazioni perché il cervello umano, in automatico, le associa alle esperienze a questi collegate. Il rosso, per esempio, esprime eccitazione, forza, vitalità e coraggio, stimola il sistema nervoso e aumenta la frequenza cardiaca. Il giallo, invece, è il colore del sole, richiama la socialità, l'appartenenza a un gruppo ed è usato per attirare l'attenzione. Il verde esprime il concetto di freschezza, è il colore della natura per eccellenza e rilassa il sistema nervoso. Il celeste evoca sensazioni di leggerezza. Al di là del significato dei colori, che risente anche del Paese al quale appartengono i consumatori, qui interessa osservare come le scelte delle aziende si articolino lungo un continuum ai cui estremi vi sono, da un lato, le soluzioni monocromatiche (Nike, Adidas o Zara) e, dall'altro, un numero maggiore di colori (Google, Enel). Una soluzione intermedia è quella di utilizzare pochi colori (Eni, Facebook, TIM). Nella scelta dei colori, tuttavia, non basta indicare, per esempio, il verde o il giallo, ma è necessario scegliere a quale tonalità di verde o di giallo si intende fare riferimento (verde di Starbucks, di Greenpace o di WhatsApp). A tal fine, i colori devono essere espressi nei rispettivi codici pantone, un sistema di identificazione di colori per la grafica riconosciuto come standard internazionale. Un altro vantaggio dei loghi è la loro versatilità, nel senso che si prestano più facilmente che non il brand name a essere aggiornati nel tempo e trasferiti da una cultura all’altra. I loghi tendono a invecchiare, ad apparire datati, per cui non è raro che, dopo qualche tempo, debbano essere sottoposti a un intervento di restyling. Riquadro 3.2 Il restyling del logo Fra i restyling del logo più intelligentemente condotti, merita di essere ricordato il caso Barilla. Dalle prime rappresentazioni di inizio ‘900, in cui spiccano caratteri solidi e squadrati, si è passati attraverso una serie di variazioni in linea con il gusto estetico delle varie epoche, per giungere ai primi tentativi di inscrivere il logo in un ovale. Il logo del Dopoguerra, nella solida cornice rossa, ha subito successive trasformazioni sino alla realizzazione di un tipico motivo ovale, in negativo con la caratteristica unghia bianca, un'estrema sintesi della forma dell’uovo. Un altro esempio è quello di Apple, che nel 1998 ha rimosso dal proprio logo le linee orizzontali colorate a favore di un unico colore bianco, allo scopo di semplificare il logo rendendo la mela morsicata più sobria ed elegante Il logo, dunque, evolve. Si tratta, tuttavia, di un'evoluzione normalmente diluita nel tempo. Inoltre, nella maggior parte dei casi l'evoluzione si realizza mediante ritocchi progressivi, senza stravolgere i lineamenti essenziali che definiscono l'identità del logo stesso e che ne agevolano il riconoscimento. Nel caso di Starbucks, per esempio, il logo attuale, con l'intento di rappresentare il carattere seducente del caffè, continua a porre al centro la sirena, protagonista sin dal 1971, ma in più tappe gli altri elementi hanno subito trasformazioni. Si tratta dunque di piccole varianti atte a realizzare un upgrading capace di conservare il patrimonio valoriale ed emozionale della marca e di mantenere le associazioni simboliche che quel segno ha sempre suscitato nel pubblico. Cambiare il logo ex abrupto è un'operazione rischiosa e onerosa. Rischiosa in quanto impone al consumatore un nuovo processo di identificazione, il cui esito non è scontato; onerosa perché implica la distruzione di un patrimonio di oggetti o la sostituzione della veste grafica: dalle confezioni ai moduli contrattuali, dalle insegne dei negozi ai biglietti da visita, dalle uniformi al decoro della flotta aziendale. Il logo è spesso l'immagine che il consumatore tende a collegare più facilmente a una marca e perciò non può ridursi a un simbolo esteticamente gradevole. Esso deve saper condensare l'identità, la personalità e l'essenza della marca. Il presupposto da cui partire, dunque, è che un logo non deve essere necessariamente bello o brutto, quello che conta è l'efficacia, la funzionalità alla marca e la riconoscibilità. Da qui una serie di requisiti in termini di: originalità, attrattiva, visibilità, leggibilità, correttezza morale, riproducibilità grafica, adattabilità all'animazione e al web, tutelabilità in sede legale. L'evoluzione tecnologica rende oggi disponibili alle imprese nuove possibilità, come l’oculometria (o eye tracking), la quale permette di rilevare il puntamento e il movimento dello sguardo evidenziando quali sono gli elementi dell’immagine su cui si focalizza l'attenzione del soggetto. Sono possibili anche applicazioni dei sensori biometrici, per rilevare le espressioni facciali, le variazioni del battito cardiaco o delle caratteristiche della pelle in presenza di determinate immagini. Riquadro 3.3 I sistemi di eye tracking L'oculometria può essere definita come la tecnologia in grado di misurare il comportamento visivo, può evidenziare dove il soggetto focalizza la propria attenzione. Dal punto di vista anatomico, i movimenti oculari possono essere distinti in movimenti di fissazione (quando il movimento si ferma in una certa posizione) e di saccade (quando vi è un cambio verso un'altra posizione). Gli output forniti dall'oculometria sono di tipo qualitativo e/o quantitativo, a seconda che si basino sulla visualizzazione grafica del comportamento visivo o sull'analisi di dati numerici. Fra gli output del primo tipo, è possibile citare l'Heat Map (mappa di calore), una mappa colorata, per l'appunto, in base a numero o durata delle fissazioni sugli elementi che compongono lo stimolo visivo sotto indagine. I colori restituiti dalla mappa sono ordinati secondo una scala che va dal verde (durata minima delle fissazioni) al rosso (durata massima). Strettamente correlato a questo output è la Focus Map, la quale ha l'obiettivo di restituire il dato sulle aree non osservate, denominate perciò «aree fredde», che non colgono minimamente l'attenzione dell’utente. Non meno rilevante è l'output denominato Scan Path («percorso di esplorazione»), il quale restituisce il tracciato oculare compiuto da una singola persona tramite i cerchi (rappresentazioni delle citate fissazioni), la cui dimensione varia in base alla durata della singola fissazione, e le linee di collegamento (rappresentano le saccadi o spostamenti oculari). L'analisi permette di comprendere le modalità di esplorazione e le aree di maggior interesse di un logo, un packaging, un prodotto o un sito internet. La confezione La confezione rappresenta oggi uno degli elementi fondativi dell'identità della marca poiché contribuisce in modo significativo allo sviluppo dell’immagine riassumendone i valori portanti in un unico supporto caratterizzato da un numero particolarmente elevato di codici. La confezione può diventare un importante strumento di riconoscimento del brand. Inoltre, l’informazione comunicata o suggerita dall’involucro può aiutare la creazione o il rafforzamento di preziose associazioni mentali alla marca. La normativa include la forma della confezione (analogamente a quella del prodotto) fra i segni suscettibili di formare oggetto di valido marchio registrato. Si parla, a questo riguardo, di «marchi di forma» (o «tridimensionali»), come avviene per la bottiglia di Coca- Cola, per quella dell'amaro Disaronno, o per il contenitore del cioccolato Toblerone. Kotler definisce il packaging come l’insieme delle attività volte a progettare e realizzare il contenitore o l’involucro del prodotto. Il packaging è anche inteso come una delle caratteristiche del prodotto necessarie alla produzione del mix composito di benefici funzionali e simbolici ricercati dall’acquirente consumatore. Il packaging è parte integrante del sistema prodotto con doppia natura: - Oggettuale (protegge il prodotto, ne esalta le caratteristiche e lo mostra nella luce migliore) - Comunicativa (si rivolge al consumatore e comunica con lui) Si possono individuare 3 tipologie di confezione: - il package primario, ossia l'involucro (sacchetto, scatola, bottiglia ecc.) a diretto contatto con il contenuto (per esempio, la carta dorata che avvolge il cioccolatino Ferrero Rocher); - il package secondario, che avvolge la confezione primaria fornendo ulteriore protezione (la scatola contenente 16 o 30 Ferrero Rocher); - il package terziario (o imballaggio), costituito da tutti i materiali impiegati per l'espletamento delle funzioni logistiche (per esempio, il cartone contente le confezioni dei suddetti cioccolatini). Innanzitutto il packaging ha lo scopo di proteggere il prodotto dai vari rischi di danneggiamento, che possono verificarsi nei luoghi di stoccaggio, durante il trasporto o a causa di cambiamenti di temperatura e umidità o per il contatto con organismi dannosi. La confezione è inoltre l'elemento che consente l'esposizione del prodotto. Il packaging è ravvisabile alla stregua di un oggetto che denota e connota il prodotto, realizzando una funzione di comunicazione multi-sensoriale e del detersivo Ava o dell'omino con i baffi delle caffettiere Bialetti. Altri personaggi corrispondono invece a figure umane in carne e ossa, sia pure non famose. Fra gli esempi di maggior successo, è possibile ricordare: l«uomo del monte», il cowboy di Marlboro, il capitan Findus, il gringo della carne Montana. Di solito, i personaggi in questione vengono introdotti attraverso la pubblicità e possono svolgere un ruolo di rilievo sia nella campagna di lancio della marca e in quelle successive sia nel design della confezione del prodotto. Tendono a catturare l'attenzione del pubblico, il loro impiego aiuta a comunicare attributi e/o benefici del prodotto che la marca intende evidenziare. L'orsetto di Coccolino, per esempio, trasmette con efficacia il beneficio della morbidezza connesso all'impiego dell’ammorbidente. Svantaggi: rischio che l'attenzione nei confronti del personaggio risulti assolutamente predominante, finendo così per ridurre la consapevolezza della marca. Un simile problema si è presentato quando Energizer, un noto produttore statunitense di batterie e prodotti per l'igiene personale, ha introdotto nelle pubblicità delle sue pile un coniglietto rosa. Molti consumatori, del tutto colpiti dal personaggio, finivano per prestare scarsissima attenzione al nome del prodotto, al punto che non pochi ritenevano trattarsi della pubblicità del concorrente Duracell. L'azienda ha dovuto aggiungere il consiglietto rosa sulle confezioni, sul materiale promozionale e nella comunicazione di marketing per rafforzare l'associazione con la marca e facilitarne il ricordo. Anche i personaggi devono non di rado essere sostituiti (come avvenuto per la famosa nonnina, utilizzata per decenni da candeggina Ace, recentemente sostituita con i personaggi di casa Surace), o comunque aggiornati nel corso del tempo (come nel caso di Capitan Findus), se si desidera che la loro immagine e la loro personalità rimangano rilevanti per i segmenti di domanda che la marca intende raggiungere. In generale, quanto più realistico è il personaggio tanto maggiore risulta la necessità del suo sistematico aggiornamento. Gli avatar Al passo con i progressi della tecnologia informatica e con la crescente rilevanza delle user experience da parte dei consumatori nelle attività online (par. 2.3.2), fra i segni di riconoscimento che le marche hanno iniziato a utilizzare in tempi recenti si pongono anche gli avatar, impiegati allo scopo di umanizzare il brand e coinvolgere sempre più i consumatori. Riquadro 3.4 Un esempio di avatar «Quando si utilizzano i social network, la prima impressione che si offre è data dai pixel che si impiegano per l'immagine del proprio avatar. Dicembre 2018: il brand YOOX svela YOOXMIRROR con l'avatar Daisy. «Fino al 1999, prima di YOOX i capi di abbigliamento e gli accessori potevano essere provati soltanto nei camerini dei negozi. Con YOOX, migliaia di clienti hanno fatto della propria casa il loro camerino. Con YOOXMIRROR, potranno provare gli abiti virtualmente. YOOXMIRROR permette loro di esplorare il meglio del catalogo YOOX, divenendo essi stessi "ashion stylist" perché in grado di abbinare virtualmente abiti, accessori, borse e scarpe. Daisy è uno dei modelli tra cui scegliere per dare vita agli outfit; gli utenti possono affiancarsi a Daisy per diventare, a loro volta, i modelli digitali all'interno di un'app che diventa personalizzata, giungendo quindi a sviluppare il proprio avatar digitale, scegliendone volto (inserendo perfino il proprio), forma fisica e colore della pelle, scattandosi un selfie o caricando una propria fotografia. Una volta creato l'avatar, gli utenti possono divertirsi a creare i propri outfit, abbinando abiti e accessori e, infine, condividere i look personali e preferiti sui social media. Da taluni erroneamente confusi con i chatboot, gli avatar sono entità digitali dall'aspetto antropomorfo, controllate da un essere umano o da un software, e dotate di capacità di interazione. L'aspetto antropomorfo è comunemente considerato condizione necessaria affinché un avatar possa essere percepito come credibile e competente, influenzando le aspettative e la volontà di interazione delle persone. Gli avatar variano moltissimo sia per quanto concerne l'aspetto visivo sia riguardo ai comportamenti nelle interazioni con le persone. Si distingue tra realismo nella forma (ossia la misura in cui la forma dell’avatar appare umana) e realismo comportamentale (cioè il grado in cui l’entità digitale si comporta come un essere umano). Sintetizzando al massimo, si suole distinguere tra realismo nella forma (ossia la misura in cui la forma dell'avatar appare umana) e realismo comportamentale (cioè il grado in cui l'entità digitale si comporta come un essere umano). Combinando i due, si individuano quattro tipologie di avatar: 1. semplicistico, il quale possiede un aspetto molto poco antropomorfo (per esempio in 2D, immagine statica o anche di cartone animato), veicola comunicazioni basate su script e svolge attività in base a specifici compiti. L'aspetto irrealistico non alimenta aspettative nei consumatori riguardo a comportamenti interattivi, realizzando qualsiasi tipo di attività in modo rapido e ripetitivo (informazioni di viaggio 24/7, esplorazione di contenuti online ecc.). Tale avatar risulta efficace per le transazioni a basso rischio, con un ovvio vantaggio connesso a efficienza e possibilità di offrire ai clienti un servizio on-demand (basso realismo nella forma e basso realismo comportamentale); 2. superficiale, che è dotato di un aspetto antropomorfo realistico (per esempio in 3D immagine dinamica e per certi aspetti quasi reale) ma sfrutta poco intelligenza e interattività (soluzioni- script non personalizzate). La forma alimenta aspettative sul piano relazionale, che nei fatti vengono però disattese da quanto l'avatar è realmente in grado di fare. Esso risulta efficiente, poiché in grado di migliorare la produttività delle transazioni a basso rischio (richieste di informazioni sui conti bancari), ma scarsamente efficace ai fini dell'esperienza del cliente nelle transazioni ad alto rischio (acquisto di azioni), mancando quel livello di intelligenza necessario affinché all'aspetto (antropomorfo realistico) corrisponda il reale comportamento alimentato nelle aspettative degli utenti (elevato realismo nella forma e basso realismo comportamentale); 3. non realistico e intelligente, il quale presenta intelligenza cognitiva o emotiva, ma è carente nell'aspetto antropomorfo impiegando, per esempio, immagini di cartone animato che inevitabilmente riducono le aspettative riguardo al livello di intelligenza dell'avatar. Quest'ultima è invece piuttosto elevata e trova espressione in forme di comunicazione autonoma con linguaggi naturali (verbali e non verbali) e con contenuti e informazioni che richiedono scambio, interazione e, sovente, sensibilità su argomenti personali, come per esempio la salute (basso realismo nella forma ed elevato realismo comportamentale); 4. umano e digitale, che abbina un aspetto antropomorfo realistico (per esempio in 3D, dinamico, immagini vere e reali raffiguranti le persone) a un livello avanzato di intelligenza cognitiva ed emotiva, reso possibile dall'impiego dell'intelligenza artificiale e che consente elevati livelli esperienziali al cliente. L'avatar risulta capace di una comunicazione autonoma con linguaggi naturali (verbali e non verbali) e con contenuti relazionali e personali. Questo consente transazioni complesse che richiedono un servizio altamente personalizzato e focalizzato come, per esempio, consigli per la cura della pelle, per il trucco e così via (elevato realismo nella forma e elevato realismo comportamentale). L'interattività è il secondo requisito critico per gli avatar digitali; essa indica la capacità di impegnarsi in interazioni bidirezionali, di natura verbale (voce) o non verbale (testo, animazione), attraverso (1) un controllo attivo o la capacità di partecipare e influenzare la comunicazione da parte dell’utente; (2) interazioni bilaterali e (3) sincronicità. Infine, il controllo o le modalità di controllo: persona vs. programma software, agente-umano vs. agente-macchina sono in grado di incidere su percezioni e comportamenti degli utenti, riflettendo le diverse euristiche evocate dalla macchina e/o dalle controparti umane e influenzando i criteri valutativi della qualità dell’interazione. Gli slogan Lo slogan è costituito da una speciale combinazione di parole in grado di riassumere l’essenza della marca e atta a trasformarsi in messaggio pubblicitario a tutti gli effetti. Lo slogan, che taluni confondono con il «pay-off» è utile per sintetizzare o rinforzare il messaggio o l'idea che la marca intende veicolare attraverso la sua comunicazione. Quando accompagna il logo, può inoltre servire da chiave interpretativa, promuovendo associazioni specifiche alla marca o dichiarando/ garantendo l'appartenenza di un brand o di un prodotto al portafoglio aziendale. Anche in questo caso, infatti, non sono rari i casi in cui il cosiddetto «codino» dell'advertising televisivo o il pay-off della comunicazione su stampa o sul web richiami lo slogan del corporate brand, è costituito da una speciale combinazione di parole in grado di riassumere l'essenza della marca e atta a trasformarsi in messaggio pubblicitario a tutti gli effetti, come nel caso dello slogan di Divella («Passione mediterranea») o di Adidas («Impossible is nothing») o di LG («Life's good»). Nei casi più riusciti, queste poche parole sono in grado di entrare nel linguaggio corrente. Si pensi, per esempio, al fortunato slogan di Nike («Just do it») o a quello di Coop («La Coop sei tu») o di Unieuro («Batte. Forte. Sempre»). Lo slogan è quindi un testo, più o meno breve, che dispiega la sua forza nel tempo, accompagnando o meno le campagne pubblicitarie della marca, come nel caso di Barilla che a lungo ha puntato sullo slogan «Dove c'è Barilla c'è casa». Come si nota chiaramente dagli esempi appena citati, lo slogan è caratterizzato da brevità dei testi unita alla potenza espressiva, nel senso che si connota per essere un testo denso e d'impatto, ma al contempo immediato, facile da leggere e da pronunciare; di conseguenza, è di agevole memorizzazione. Quindi, nella pratica, a volte lo slogan si fonde con il pay-off chiudendo il messaggio veicolato dalla campagna di comunicazione sui mezzi di massa o sulla confezione del prodotto; a volte è visibile accanto al logo, fino a divenirne parte (come nel caso di HP Invent), a volte no. Aiuta i consumatori a catturare l'essenza della marca e a comprendere che cosa la caratterizza rispetto alle alternative. Alcuni aiutano a creare consapevolezza della marca scandendone il nome (come in «Brrr... Brancamenta» o in «Ah, Aperol!»), altri incrementano la notorietà in modo ancora più esplicito, stabilendo un legame forte fra la marca e la categoria di prodotto (fra gli slogan più famosi al riguardo, possiamo ricordare «O così. O Pomì», oppure «Lavazza. Più lo mandi giù, più ti tira su» o «Chinò. L'altro modo di bere scuro»). Lo slogan, inoltre, può evidenziare il posizionamento desiderato dall’azienda, come nel caso di «Liscia, gassata o Ferrarelle?» o di «Yogurt Müller. Fate l'amore con il sapore» o, ancora, di «Altissima. Purissima. Levissima». Talora, il successo dello slogan è tale che la marca ne risulta totalmente sovrastata, finendo relegata in sott'ordine; nei casi peggiori senza che vi sia più consapevolezza del messaggio che lo slogan intende veicolare a proposito del brand. Inoltre, non deve essere sottovalutato il fatto che talvolta lo slogan può continuare a comunicare un significato che la marca non intende più sottolineare, puntando invece a sviluppare nuove associazioni mentali. In questi casi, il successo dello slogan finisce con il diventare un limite, rendendo difficile riposizionare o rivitalizzare il brand secondo le linee di sviluppo che l'azienda ritiene di intraprendere. I jingle Motivi musicali (letteralmente, jingle significa «tintinnio») che accompagnano la marca, di solito nell'ambito delle comunicazioni pubblicitarie trasmesse dai mezzi di comunicazione di massa. Del resto, da sempre la musica è considerata un mezzo efficace per suggestionare, per comunicare, per influenzare le percezioni e le emozioni umane. La musica ha più potere delle immagini, perché queste ultime a volte si perdono se non si riesce a mantenere l'attenzione, ma alla musica è più difficile sfuggire, quale che sia l'attività in cui la persona è impegnata. Per esempio, a partire dalla constatazione che le persone tendono a trascorrere più tempo all'interno di un punto di vendita quando il volume della musica di sottofondo non è troppo elevato, si è rilevato che una musica di sottofondo contraddistinta da tempo lento (in contrapposizione a uno veloce) tende a rallentare la circolazione dei clienti all'interno di un supermercato, con conseguente incremento dell'importo dello scontrino medio. Riquadro 3.5 L'influenza della musica Come provato anche da studi nel campo della neurofisiologia, la musica è in grado di esercitare un impatto consistente sul sistema nervoso dell'ascoltatore, attivando nel cervello specifici processi ai quali corrispondono precise reazioni emotive. Al riguardo, un'importante distinzione è fra i concetti di «embodied meaning» e di «referential meaning». Il primo viene definito come quel valore e quella sensazione positiva che sono intrinseci alla musica e che nascono dai suoni che la compongono. Per esempio, una musica energica, vivace, eccitante e frenetica è caratterizzata da un tempo veloce e un ritmo veloce e concitato, dall'utilizzo di percussioni che creano suoni che si rincorrono in modo assiduo, rapido e regolare e che accrescono l'impatto dello stimolo e il suo valore edonistico. Il «referential meaning», pur coesistendo con il precedente, è indipendente da esso e può essere definito come l'insieme delle associazioni semantiche e concettuali evocate e portate alla mente dallo stimolo (la musica), che però possono essere suscitate da fattori propri del contesto esterno (il musicista, il luogo in cui la musica viene trasmessa) o da altre relazioni fra essa e alcuni specifici avvenimenti, situazioni e inclinazioni. Il «referential meaning» può essere trasferito al prodotto, i cui attributi vengono sottolineati dalle caratteristiche della musica. Di conseguenza è di fondamentale importanza, affinché la percezione del prodotto risulti favorevole, che tra i due vi sia coerenza. Per restare ai jingle, si tratta di brevi brani musicali (canzoni o motivetti strumentali) solitamente allegri e dalla linea melodica semplice, idonei ad attirare l'attenzione verso il messaggio pubblicitario in cui sono inseriti o a richiamare alla memoria la marca comunicata. Spesso sono appositamente composti da autori professionisti, in grado di ideare brani contenenti parole che catturano l'attenzione e musiche che si imprimono nella mente degli ascoltatori, nei casi più fortunati in modo quasi permanente. Non mancano casi di brani o di musicisti divenuti famosi proprio in seguito del loro coinvolgimento negli spot pubblicitari (come successe agli inizi del Duemila con i Gazosa, il cui brano «www.mipiacitu» venne impiegato in una fortunata pubblicità di Vodafone). Quale che ne sia l'origine, il jingle - oltre che breve - dev'essere accattivante, possedere una sonorità vicina ai gusti del target al quale la marca si indirizza, in armonia con lo slogan e il messaggio da comunicare (che dev'essere il più possibile univoco). Se riesce a imprimersi nella mente dell'ascoltatore, fin da subito può svolgere una funzione di richiamo dell'attenzione e di stimolo dell'interesse. Non sono pochi i casi in cui alle persone rimangono impressi i brani musicali utilizzati negli spot, senza che ne conoscano il titolo, l'autore e sovente neppure l'interprete, ma semplicemente identificando tale brano come «è quello della pubblicità del…” In questi casi, si ottiene un effetto di grande rilievo: quello di generare un richiamo alla L'autenticità di ogni NFT e delle relative proprietà è verificata dal meccanismo del registro blockchain, che attraverso la tracciabilità dei NFT parte dal creatore originale, verifica chi l'ha scambiato e persino a quanto e stato venduto in ogni operazione. Questo meccanismo evita l'acquisto di falsi NFT da truffatori che, per esem-pio, salvano i JPEG (creati da altri) e li rivendono come originali ad acquirenti inconsapevoli. I NFT sono saliti alla ribalta quando Jack Dorsey, il co- fondatore e CEO di Twitter, ha messo all'asta il suo primo tweet (di 15 anni fa) proprio come NFT attraverso la piattaforma Valuables by Cent, che ne ha accolto le offerte raggiungendo la cifra di 2,9 milioni di dollari da colui che se l'è aggiudicato. Un NFT può essere costituito da: opere d'arte, brani musicali, identità digitali, biglietti per giochi e spettacoli, giochi, meme, GIF animate, tweet di personaggi famosi e così via. Tale token può quindi contenere qualsiasi oggetto digitale: dai disegni (copertine dei giornali) alle etichette (le zuppe Campbell), fino alle canzoni di celebrity. I creatori dei NFT non cedono la proprietà dei propri contenuti, ma mantengono il diritto di proprietà integrato nel contenuto stesso. La tokenizzazione del contenuto consente all'artista di ricevere direttamente il compenso, in forma di royalties, ogniqualvolta un nuovo proprietario (tracciato) venderà il NFT contenente l'indirizzo digitale del creatore quale uno dei dati immodificabili del token. I NFT: - rappresentano un nuovo modo per connettersi con i consumatori e curare la relazione con essi, anche attraverso le brand community. Per esempio, Taco Bell - catena fast-food specializzata in tacos - ha deciso di non servire più i semplici tacos, twittando ai suoi clienti di essere pronta a consegnare anche GIF e immagini (a tema taco!) sul marketplace NFT Rarible; - monetizzando i contenuti digitali. Per esempio, nel settore dell'editoria il New York Times ha coniato e venduto articoli come NFT; l'NBA, attraverso la piattaforma Top Shot, ha venduto i video degli highlights delle migliori giocate dei protagonisti della lega; - consentono di svolgere un'importante funzione sociale attraverso le donazioni dei proventi. 4. NOTORIETÀ, IMMAGINE E RISONANZA Secondo il modello della «memoria associativa» la mente delle persone è organizzata come un reticolato, ossia come una rete di nodi e di legami connettivi: i nodi rappresentano le informazioni (di natura verbale, visiva, astratta o contestuale) sedimentate, mentre i legami indicano i nessi logici fra queste informazioni. Immaginiamo di chiedere a una persona: «Se le dico Algida, che cosa le viene in mente?». Se questa persona rispondesse semplicemente «un gelato», ciò significherebbe che questo nome è stato memorizzato, ma che la sua utilità per l'impresa Unilever, a cui il marchio fa capo, è minima. Se invece la stessa persona alla domanda rispondesse citando una nutrita serie di parole spontaneamente collegate a tale marca, allora significherebbe che questa è riuscita a lasciare un'impronta nella mente di quella persona. Questa potrebbe per esempio affermare: «Mi vengono in mente il Cornetto e il Cremino; l'estate; le vacanze; il mare e la spiaggia; la libertà e la spensieratezza; gli amici; la giovinezza; il cuore di panna». Queste parole vengono definite «associazioni mentali alla marca» e sono concepibili quali nodi di significato che si collegano, più o meno direttamente, al nucleo centrale rappresentato dal brand?. Alla luce del citato modello della memoria associativa, è possibile immaginare che, nella mente delle persone, vi sia un reticolato di parole che si collegano tra di loro e che ruotano attorno al nome Algida. Questo reticolato definisce l'immagine di tale marca. Quanto più il reticolato è fitto (nel senso che i collegamenti fra le associazioni sono numerosi e vicini) tanto più l’immagine della marca risulta densa. La densità è un attributo molto rilevante dell’immagine di marca, poiché consente che quest'ultima sia richiamata alla mente con facilità, ogniqualvolta si tocchino alcuni dei nodi di significato coinvolti nell'immagine stessa. Una sorta di effetto domino, che consente di sollecitare il ricordo di quella marca attraverso uno o più stimoli a essa collegati. Ai fini della costruzione del valore del brand la conoscenza della marca (brand knowledge) svolge un ruolo essenziale, in quanto determina l’effetto differenziale. La conoscenza della marca viene concettualizzata in termini di presenza nella memoria del consumatore di un nodo – la marca, per l’appunto – e di molteplici associazioni mentali a esso collegate. La conoscenza si può caratterizzare attraverso due componenti: notorietà (brand awareness) e immagine (brand image). Mentre la notorietà non ha alcun attributo e può perciò essere definita solo in termini di intensità, l'immagine può possedere più valenze, tante quante sono le possibili percezioni dei vari stakeholder. In ogni caso, l'immagine può essere positiva - quando la percezione maturata dal mercato nei confronti della marca è complessivamente favorevole - o, in caso contrario, negativa. Brand identity: il modo in cui vuoi che gli altri riconoscano te (baseline, logo, colori, font, tone of voice, immagini). Brand image: il modo in cui ti riconoscono gli altri (reputazione, emozioni, qualità percepita, fedeltà, impressioni) La notorietà La brand awareness attiene alla forza del nodo rappresentato dalla marca nella memoria del consumatore e si riflette sulla sua capacità di identificare il brand in condizioni diverse. Più precisamente, la notorietà si articola nelle dimensioni del riconoscimento (brand recognition - notorietà indotta) e del ricordo (brand recall - notorietà spontanea), le quali fanno rispettivamente riferimento alla probabilita/velocità con cui il consumatore identifica la marca se esposto a stimoli rappresentati da: uno o più segni di riconoscimento della stessa (brand element); la categoria di prodotto, i bisogni soddisfatti da tale categoria, le occasioni d'uso, gli utilizzatori tipici. Come si vede nella Figura 4.1, la notorietà si sviluppa lungo un continuum, che parte dalla non consapevolezza della marca fino ad arrivare alla convinzione che essa sia l'unica presente in una determinata categoria di prodotto. Il riconoscimento costituisce il livello minimo di notorietà della marca ed è normalmente misurato mediante un test di ricordo aiutato: ai soggetti coinvolti nell'indagine vengono sottoposti uno o più elementi visivi o verbali legati al brand (logo o simbolo, parole, immagini, video ecc.) e, utilizzando eventualmente alcune accortezze (per esempio, includendo oggetti che i consumatori non possono aver già visto o sentito), si verifica se, e in che percentuale, gli intervistati sono in grado di ricondurli correttamente a esso. Al fine di ottenere una rappresentazione più indicativa della capacità di riconoscimento, si può anche scegliere di sottoporre ai rispondenti un'informazione distorta tale da rendere più tortuoso il percorso di associazione alla marca: per esempio, riducendo il tempo di esposizione allo stimolo, oppure sottoponendo agli intervistati un elenco di nomi di marche con elementi mancanti, che devono essere correttamente completati. Il livello successivo della notorietà - ossia il ricordo - può invece essere misurato, per esempio, mediante la richiesta ai soggetti coinvolti nell'indagine di menzionare le marche presenti in una determinata categoria di prodotto o che essi associano a una certa esigenza o a una specifica tipologia di utilizzatori. Il ricordo del brand implica, dunque, un esercizio mnemonico più impegnativo rispetto a quello del riconoscimento, in cui l’elemento è dato e all’individuo viene semplicemente richiesto di identificarlo in quanto già noto. Il ricordo viene denominato anche «notorietà spontanea» in quanto, a differenza del riconoscimento («notorietà indotta»), ai soggetti intervistati non vengono suggeriti nomi, sicché esso viene associato a una posizione più forte della marca. Ogni individuo, infatti, può ricordare più brand, ma molto probabilmente in numero inferiore a quelli che è in grado di riconoscere dopo averne sentito il nome. La misurazione del ricordo si basa prevalentemente sull'impiego di domande dirette, per esempio: «Quando pensa all'acquisto di un materasso, quali marche le vengono in mente?». Questo ricordo, denominato «non aiutato», consente di individuare soprattutto le marche più forti. Il ricordo «aiutato» prevede invece il ricorso a vari elementi in grado di favorire l'identificazione. È possibile, per esempio, fornire in sequenza informazioni sempre più circoscritte per far luce sull'organizzazione delle strutture cognitive dei consumatori. Se si chiedesse a una consumatrice di indicare la prima marca di calzature memorizzata, probabilmente la sua risposta varierà a seconda che si faccia riferimento a tutte le marche conosciute, a quelle dei modelli casual oppure a quelli formali. Per acquisire informazioni utili sul ricordo spontaneo, è quindi necessaria un'attenta contestualizzazione, che può avvenire definendo: - la categoria merceologica (biscotti, cosmetici, vetro ecc.); - la funzione d'uso prevalente della marca, nell'ambito di tale categoria (per esempio, vetro per uso industriale o residenziale o domestico); - il luogo di origine (marche locali, nazionali, estere, internazionali); - i luoghi d'acquisto (marche di acqua minerale che si comprano solo in farmacia) e di consumo (a casa, a scuola, al ristorante); - le occasioni d'acquisto (caramelle che si acquistano per consumo proprio o come regalo) e di consumo (biscotti per la prima colazione o da consumare come snack); - i tempi di acquisto e di consumo (diversi momenti della giornata, giorni della settimana o stagioni dell’anno) Sia per il riconoscimento sia per il ricordo, non è infrequente che i soggetti coinvolti nell'indagine forniscano risposte non veritiere. Anche se non è possibile fissare un valore minimo di notorietà che debba essere raggiunto dalla marca per considerarla affermata - stante il fatto che il dato si modifica nel tempo anche in relazione al ciclo di vita della categoria merceologica e al numero di prodotti in concorrenza - «solitamente le marche leader nei rispettivi settori acquisiscono livelli molto elevati, spesso prossimi al 100 per cento se si somma il ricordo spontaneo a quello sollecitato». La prima marca citata in un'indagine sulla notorietà spontanea occupa una posizione privilegiata nella mente degli individui (share of mind). Essa è denominata «top of mind», poiché precede le altre marche nella mente dell'intervistato nel vero senso della parola (sebbene possa essere seguita da vicino da un altro brand). Vari studi hanno individuato una forte correlazione fra top of mind awareness e quota di mercato detenuta dalla marca. Una posizione ancora più forte, non rappresentata nella Figura 4.1, è quella della «marca dominante», ossia l'unica marca ricordata da una significativa percentuale di consumatori. Si pensi al bicarbonato Solvay, alle solette in gel Scholl, ai sistemi di fissaggio per l'edilizia Fisher, al nastro adesivo Scotch, al panno cattura polvere di Swiffer o agli apparecchi acustici Amplifon. In ognuna di queste categorie, è probabile che un numero consistente di consumatori non sia in grado di citare altre marche. Quando un brand diventa dominante, possiede certamente un forte vantaggio competitivo, essendo altamente probabile che nessun'altra marca verrà considerata al momento dell’acquisto. L'importanza relativa del riconoscimento e del richiamo dipende tuttavia dalla presenza o meno del brand al momento della scelta del prodotto. Per esempio, se le decisioni di acquisto vengono assunte nel punto di vendita, potrebbe essere più rilevante il riconoscimento della marca, dove presente nell'assortimento, mentre fuori dal negozio o in qualunque altra situazione di assenza di questa sarà probabilmente più importante che il consumatore sia in grado di richiamarne alla mente il nome. Per questo motivo, il ricordo è molto critico quando gli individui devono effettuare una ricerca attiva della marca, come avviene allorché debbano chiederla espressamente a un addetto alla vendita o digitarne il nome su un motore di ricerca. La notorietà contribuisce alla creazione del valore della marca sotto più profili. In primo luogo, va ricordato che essa rappresenta l'ineliminabile presupposto dal quale può prendere avvio il processo di apprendimento del consumatore. È raro che una decisione d'acquisto maturi in assenza di riconoscimento; ed è anche piuttosto difficile che il consumatore identifichi attributi e benefici di un nuovo prodotto senza averlo riconosciuto. In secondo luogo, la notorietà conferisce alla marca un certo senso di familiarità e, sovente, i consumatori prediligono quanto risulta loro familiare. In particolare, nelle categorie di prodotto nei confronti delle quali l'individuo ha sviluppato un modesto livello di coinvolgimento psicologico (come avviene, per esempio, nel caso dello zucchero, del sale, della carta da cucina o del lucido per calzature), basta una certa familiarità nei confronti della marca per innescare la decisione d'acquisto. In mancanza di motivazioni che inducano a valutare gli attributi del prodotto, per il consumatore la semplice familiarità con il brand può essere sufficiente. Peraltro, questa influisce anche nel caso di decisioni di acquisto a elevato coinvolgimento psicologico: quando non vi sia una chiara preferenza, dopo un'analisi approfondita sul prodotto da acquistare, la notorietà della marca può risultare determinante in quanto si traduce in una percezione di forza a essa associata. In terzo luogo, come visto in precedenza (par. 1.3), una notorietà elevata aumenta la probabilità che la marca entri a far parte dell'insieme evocato, ossia di quel ristretto gruppo di marche che il consumatore reputa potenzialmente in grado di fornire i benefici ricercati". Varie ricerche hanno dimostrato che i consumatori sono raramente fedeli a un'unica marca, tendendo piuttosto a definire un gruppo di marche che ritengono meritevoli di considerazione e - al suo interno - un sottoinsieme più ristretto che effettivamente acquistano con regolarità. Dal momento che quest'ultimo insieme è limitato, avere la certezza che il proprio brand ne faccia parte significa anche diminuire la probabilità che altre marche vengano considerate o ricordate. La creazione, il mantenimento e il miglioramento della notorietà richiedono ovviamente la realizzazione di articolate attività di marketing, coerenti con la situazione del mercato. Quanto più il consumatore ha esperienza del brand, tanto più alta è la probabilità che lo registri nella memoria. Spot e promozioni, sponsorizzazioni ed eventi, pubbliche relazioni e attività sui media digitali. In particolare, spesso aiuta a creare consapevolezza l'elaborazione di uno slogan, di un jingle o di un hashtag che, in modo originale, ponga la marca in relazione con la categoria di appartenenza o con definite situazioni di scelta o di utilizzo del prodotto (e, idealmente, anche con il suo posizionamento, per costruire un'immagine positiva). Nel caso di marche caratterizzate da un forte legame con la categoria di prodotto (per esempio, Ferrari con le auto sportive, Dom Pérignon con lo champagne, Marazzi con le piastrelle di ceramica o Caterpillar con gli escavatori), la distinzione fra riconoscimento e ricordo potrebbe - test di completamento di frasi e storie; - test di Zaltman; - test di libera associazione. I test visuali si sostanziano nella presentazione agli intervistati di stimoli visivi che ritraggono diverse persone nell'atto di acquistare o di utilizzare certi prodotti e nella richiesta di esplicitare le parole e le azioni che essi attribuiscono ai protagonisti delle immagini. La valenza proiettiva del test discende dunque dal fatto che i rispondenti non esprimono direttamente le proprie impressioni e sensazioni sulla marca, ma le svelano indirettamente mediante la risposta agli stimoli visivi che vengono loro presentati. Gli stimoli visivi utilizzati sono sostanzialmente disegni e/o fotografie. Nel primo caso, viene mostrata, per esempio, una vignetta nella quale sono presenti uno o più personaggi oppure un'immagine raffigurante una persona che sta compiendo una certa azione (una ragazza intenta a truccarsi davanti allo specchio della propria abitazione) con un fumetto vuoto che deve essere riempito in risposta a una domanda del ricercatore (per esempio: «Secondo lei, che cosa sta dicendo questa donna a proposito dell'efficacia del mascara Maybelline?»). Oppure ancora, l'immagine può raffigurare più persone - di norma, non più di due - ma soltanto uno dei fumetti contiene una frase, espressa in forma affermativa e non interrogativa (per esempio: «Sai Carmela, penso che la protezione offerta da Nivea Sun sia superiore rispetto al passato, più di quanto accade per altre marche di prodotti solari»); l'altro fumetto è lasciato vuoto, in modo che il rispondente possa completarlo con una propria affermazione collegata alla precedente. Per consuetudine, i visi delle persone raffigurate presentano espressioni neutre (anzi, talora vengono disegnati solamente i contorni del viso), al fine di non influenzare l’intervistato. Come si è anticipato, in luogo dei disegni è possibile utilizzare fotografie, nelle quali appaiono persone con espressioni, posture e abbigliamento studiati per lasciare pensare a un dato comportamento, a una certa professione o posizione sociale, a seconda del tipo di problema da studiare. Dopo aver fatto osservare all'intervistato la fotografia, gli si chiede di abbinare ognuno dei soggetti ritratti a una specifica marca, scelta fra quelle di interesse. Per esempio, domandando quale marca di automobile ciascuno di tali soggetti guiderebbe, oppure quali sneaker indosserebbe 0, ancora, con quale frequenza potrebbe consumare una certa marca di birra o quale catena di palestre frequenterebbe. Mediante i test di comparazione, invece, i consumatori sono invitati a comparare le marche a persone, Paesi, animali, attività, paesaggi e altri elementi. I test in questione sono noti anche come «test del se fosse», perché vengono normalmente somministrati tramite una domanda del tipo: «Se questa marca di profumo fosse una donna, che donna sarebbe?». Successivamente, si approfondisce la ricerca chiedendo ai rispondenti perché abbiano scelto quella determinata comparazione. I paragoni proposti e le motivazioni esplicitate sono in grado di rivelare indizi interessanti sulla psiche degli intervistati e - attraverso l'interpretazione delle deduzioni che quelle scelte riflettono - sulle associazioni alla marca. Il test di Zaltman (Zaltman metaphor elicitation technique) viene utilizzato per comprendere il significato profondo che una certa marca assume per il consumatore, impiegando a tal fine le metafore visive utilizzate per descrivere il prodotto stesso. Ai soggetti partecipanti alla ricerca si chiede di raccogliere immagini reputate in grado di esprimere i loro pensieri e le loro sensazioni riguardo alla marca indagata (per esempio, in ordine al ruolo nella loro vita quotidiana). Infine, i test di libera associazione rappresentano probabilmente la tecnica proiettiva di più diffuso utilizzo, in virtù della loro semplicità e rapidità di somministrazione. Questi consistono nel sottoporre ai soggetti intervistati una serie di domande a cui dare risposta con la prima cosa (o le prime cose) che lo stimolo suggerisce loro. Per esempio, si chiede agli intervistati di indicare le prime parole che vengono loro in mente allorché pensano a una certa marca, senza fornire alcun aiuto collaterale (se non, talora, la categoria di prodotto) e scegliendo o meno di dare un limite al numero di parole o al tempo a disposizione per rispondere al quesito («Che cosa significa per lei il nome Bialetti?», oppure «Che cosa le fa venire in mente la marca Bialetti?»). Il tempo di attesa nella risposta è considerato indicativo del livello di coinvolgimento emotivo: il protrarsi di qualche secondo implica uno spostamento delle valutazioni dal piano emotivo a quello più razionale. Obiettivo principale dei test di libera associazione è quello di individuare la gamma di associazioni alla marca presente nella mente degli intervistati, ma è possibile anche ottenere indicazioni generali sul rispettivo grado di forza, di favorevolezza e di unicità. Infine, il carattere favorevole delle associazioni può essere in parte dedotto dal tono con cui gli intervistati si esprimono. L'utilizzo dei test di libera associazione richiede di prestare particolare attenzione alla formulazione delle domande e alla codifica dei dati raccolti. Per quanto riguarda le prime, al fine di non influenzare i risultati è opportuno iniziare dalle considerazioni più generiche per poi giungere a quelle più specifiche. In relazione alla codifica dei dati, i questionari ottenuti possono essere suddivisi per frasi e, al loro interno, aggregati per tipologie di consumatori. Naturalmente, le risposte a domande molto specifiche sono più facilmente codificabili. Un approccio quantitativo prevede il ricorso all'analisi reticolare per rappresentare le associazioni alla marca e mettere in luce le strutture cognitive dei consumatori. Il metodo utilizza una versione modificata della repertory grid technique, la quale consiste nel sottoporre agli intervistati delle triadi di card, su ciascuna delle quali è indicata una delle marche presenti sul mercato, fino a esaurire i possibili confronti. Per ognuna delle triadi, i rispondenti devono dichiarare le due marche più simili, quindi più diverse dalla terza, e indicare i criteri di giudizio alla base della loro scelta. Tali criteri si riconducono, di solito, ad attributi e/o benefici evocati dalle varie marche. Successivamente, ciascun intervistato può valutare, su una scala di giudizio (per esempio da «per niente» a «moltissimo»), tutte le marche relativamente a ciascun attributo/beneficio esplicitato. Il vantaggio del metodo è dato dalla sua natura comparativa, che rende possibile generare facilmente un numero elevato di attributi e benefici. Gli intervistati, infatti, trovano non di rado più semplice descrivere differenze e similitudini tra un certo numero di marche piuttosto che descrivere le caratteristiche specifiche di una singola. Le nuove tecnologie comunicative permettono infatti la raccolta e l'elaborazione di una quantità elevatissima di informazioni dettagliate riguardanti le percezioni e i comportamenti degli individui, fra cui anche quelli relativi alle brand association. Le ricerche in ambiente digitale si svolgono su numeri di soggetti enormemente più elevati. Ai fini della rilevazione delle associazioni alla marca, è possibile attingere alle conversazioni online degli utenti della rete, che rappresentano una vera e propria miniera di dati e informazioni. Le tecniche di ricerca sono molteplici, ma quelle maggiormente utilizzate sono rappresentate dalla netnografia, dal social media monitoring e dalla sentiment analysis. La netnografia costituisce la trasposizione online del metodo etnografico ed è finalizzata all'osservazione delle interazioni che si sviluppano all'interno delle comunità online spontaneamente create dagli utenti o da terzi (compresi i concorrenti) o direttamente dall'impresa nell'ambito del proprio sito". Tali interazioni hanno sovente come oggetto marche e prodotti. Il ricercatore si immerge nelle conversazioni degli utenti, divenendo membro della community che analizza. La netnografia, dunque, non si limita alla sola osservazione della community online, poiché il ricercatore può anche partecipare alle conversazioni, oppure intervistare via email, chat o survey gli utenti, o creare focus group digitali. Per i brand manager, la tecnica prospetta almeno tre vantaggi. In primo luogo, l'ampiezza di molte comunità online in seguito alla diffusione dei social media comporta la possibilità di accedere a grandi quantità di dati, permanentemente disponibili. In secondo luogo, questa metodologia di ricerca consente spesso di identificare gli effetti di rete, e quindi risulta utile per comprendere l'impatto delle influenze interpersonali sui brand. Infine, presenta molti dei vantaggi dell'etnografia senza richiedere un intenso lavoro sul campo, il che la rende più efficiente in termini di tempi e di costi. Un'evoluzione della netnografia è rappresentata dal social media monitoring. Si tratta di una tecnica volta a mappare, mediante appositi software, le dinamiche e i comportamenti emergenti sulla base di conversazioni digitali degli utenti, alimentate dal loro utilizzo delle piattaforme social. Il software consente di monitorare le interazioni che hanno luogo all'interno di un ecosistema digitale con riferimento a uno specifico oggetto di analisi, che in questo caso è rappresentato dalla marca. La tecnica ha il vantaggio di non essere intrusiva, posto che le informazioni critiche vengono raccolte attraverso il semplice monitoraggio delle conversazioni in rete alimentate spontaneamente dagli utenti. Inoltre, la natura volontaristica delle interazioni e l'anonimato che talora le caratterizza permettono una sostanziale obiettività da parte dei rispondenti, nonché la propensione alla condivisione di conoscenze di tipo fortemente esperienziale e contestuale. Un’altra tecnica che attinge alle conversazioni online degli utenti è rappresentata dalla sentiment analysis, la quale consente di monitorare l'andamento nel tempo dell'umore dei consumatori, in relazione a un prodotto, a una marca o a un qualunque fenomeno di interesse. Tipicamente basata sull'analisi computazionale, la tecnica consiste nell'identificare, estrarre e analizzare i contenuti generati dagli utenti rispetto all'oggetto di interesse al fine di comprendere il loro atteggiamento. L'analisi può riguardare sia un intero testo sia singole frasi o parti delle stesse. L'idea di fondo è quella di rimuovere dai testi gli elementi privi di contenuti valutativi e di focalizzare l'attenzione solo su quelli contenenti parole chiave associate ad apprezzamento o disappunto. Le principali fonti di alimentazione della sentiment analysis sono indubbiamente rappresentate da Facebook, Twitter e Instagram. L'analisi può però essere integrata anche con i contenuti postati su altre piattaforme social, blog, siti di review e di social bookmarking. Ai fini della categorizzazione del sentimento, ci si avvale sempre più di tecniche di machine learning. Quali che siano le tecniche di ricerca (proiettive o digitali) utilizzate, una volta individuate le associazioni alla marca, il passo successivo consiste nel misurarle quantitativamente. Questo passaggio è fondamentale, al fine di appurare che quanto emerso con riferimento a numeri limitati di individui sia estensibile al mercato di riferimento. Le associazioni rilevate devono pertanto essere misurate, mediante scale di valutazione di tipo Likert, con riferimento a un campione di soggetti che conoscono il brand e che sia rappresentativo del target a cui l'azienda intende rivolgersi. Le associazioni alla marca così rilevate possono poi essere poste a confronto con quelle che connotano le marche concorrenti. Una sintesi in grado di raffigurare visivamente l'unicità complessiva di un brand è infine possibile mediante l'utilizzo del multidimensional scaling (MDS). Si tratta di una tecnica statistica la quale - anziché scomporre il profilo di immagine in dimensioni elementari individuate a priori (come avviene con i modelli multi-attributo) - parte dal presupposto che la percezione di una marca possa essere espressa con un'unica valutazione di sintesi. Questo avviene in quanto il brand tende a essere vissuto dai consumatori come un'entità indivisibile, specie quando il rapporto con esso implica un notevole coinvolgimento emotivo per cui lo si carica di significati simbolici più difficili da tradurre in percezioni cognitive valutabili singolarmente. La tecnica perviene alla rappresentazione di una mappa delle percezioni, senza che per la sua costruzione sia necessario fornire indicazioni in merito agli attributi da considerare, ma in base a semplici valutazioni di similarità reciproca attribuite alle marche indagate. Si ipotizzi di esaminare sei brand presenti in una certa categoria di prodotto. Dapprima gli intervistati devono indicare se, e in che misura, ritengono somiglianti fra loro tali brand presi una coppia alla volta. In questo ipotetico caso, il numero di coppie da valutare, prendendo le marche due a due senza ripetizione, è pari a 15 secondo la formula n(n-1)/2. La quantificazione del giudizio ha normalmente luogo mediante la scala polarizzata del differenziale semantico: agli estremi si collocano due aggettivi (per esempio, «molto simili» e «molto diverse») di significato opposto, a cui corrispondono i valori minimo e massimo dell'intervallo: al valore minimo si fa corrispondere un giudizio di forte diversità delle marche, a quello massimo di forte somiglianza (la distanza fra le marche può essere definita in relazione al giudizio medio ottenuto, ovvero semplicemente su base ordinale, in tal caso stabilendo una classifica, per esempio in ordine decrescente, delle coppie di marche che i consumatori hanno giudicato maggiormente simili). A partire da una matrice di dati che quantifica la distanza fra le marche, si ottiene una mappa delle percezioni, solitamente a due dimensioni, nella quale sono raffigurate tutte le marche esaminate in maniera tale che quelle percepite come più simili risultino più vicine fra loro. Gli assi della mappa rappresentano l'espressione della similarità cosiddetta «derivata», ossia tale da riflettere nel modo migliore possibile, in uno spazio di dimensioni date, le distanze originariamente indicate dagli intervistati per ogni coppia di marche. Nella Figura 4.2 è rappresentato un esempio di mappa percettiva a due dimensioni delle ipotetiche marche considerate. Qualora non ci si voglia limitare alla rilevazione di una generica somiglianza fra le marche considerate, ma si intenda risalire alle motivazioni che hanno determinato la loro collocazione nella mappa, è possibile integrare i dati di partenza facendo esprimere agli intervistati un giudizio - per esempio in un intervallo da 1 a 7, in cui 1 indica una valutazione del tutto negativa, 7 del tutto positiva - su una serie di attributi (tangibili e intangibili e dedotti dalle ricerche qualitative condotte) caratterizzanti ciascuna marca. Conclusa questa operazione, viene determinata l'intensità della correlazione fra gli attributi e le due dimensioni rilevate in precedenza. In questo modo è possibile determinare il significato di ciascuna dimensione della mappa a partire dal significato degli attributi maggiormente correlati a esse. Graficamente, gli attributi sono rappresentati nella mappa percettiva come vettori: l'inclinazione misura il legame rispetto a ogni dimensione, la lunghezza l'intensità di tale legame (Figura 4.3). Risulta quindi possibile delineare in maniera più puntuale l'immagine delle marche, senza tuttavia ricadere nei limiti dell'approccio attribute-based. - può essere definito come qualsiasi influenza che il paese di produzione, assemblaggio o progettazione ha sulla percezione positiva o negativa di un prodotto da parte del consumatore. In assenza di altre informazioni sul prodotto, il paese di origine influisce fortemente sulle valutazioni del prodotto da parte dei consumatori. Esposito 2006: L'immagine dell’Italia sembra essere basata su fattori quali "storia e cultura", "creatività", "design", "turismo", "benessere" e "stile di vita" Fortis 2005: Tale immagine è inevitabilmente paragonata alle "caratteristiche produttive del Made in Italy che si articolano nei quattro macrosettori principali: abbigliamento/moda, arredamento/ casalinghi, produzione alimentare, macchinari/gomma e materie plastiche" Varaldo 2001; Becattini 2000: il "Made in Italy" esprime bene la cultura e le caratteristiche dell'italianità, e i suoi prodotti rappresentano simboli significativi dell'immagine dell'Italia, contribuendo a creare un'immagine positiva del Paese all'estero La marca come prodotto Il primo ambito nel quale possono essere sviluppate le associazioni è il prodotto, in quanto la marca può essere innanzitutto intesa come esito di un'attività economica volta alla realizzazione di un prodotto indirizzato a soddisfare determinate esigenze della domanda. In questa prospettiva, il management può far leva su tutti gli elementi di significato che il consumatore ascrive alla marca allorché pensa ai prodotti da essa contraddistinti: la gamma; gli attributi e i benefici ottenibili; il rapporto fra qualità e prezzo; le caratteristiche del target e le modalità di utilizzo del prodotto; l'origine geografica. Si tratta di elementi significativi per i consumatori, dato che sono quelli a cui prestano normalmente maggiore attenzione durante il loro processo di scelta. La gamma dei prodotti Vengono in evidenza i significati associati all'ampiezza e alla profondità dell'assortimento. Vi sono infatti marche che si qualificano per essere altamente focalizzate su uno specifico prodotto e per le quali l'associazione mentale richiama proprio questa focalizzazione. È questo il caso di di Bisazza, leader mondiale nella produzione del mosaico di vetro per la decorazione di interni ed esterni, o di Pizzoli, lo «specialista italiano delle patate». Altre volte la gamma è più ampia, pur se con una forte focalizzazione sulla categoria, in modo da riuscire a soddisfare molte delle esigenze della domanda relative a tale categoria, come avviene nel caso di Scholl, che offre molteplici prodotti idonei a fornire una risposta efficace ai bisogni dei piedi: dai dolori alla cura e bellezza, dalla micosi dell'unghia alle solette e ai plantari. Infine, vi sono marche che contraddistinguono un'offerta ampiamente diversificata, ossia afferente a molteplici categorie merceologiche, come Virgin che spazia dalle bibite alle palestre, fino alla musica e ai viaggi aerei. Gli attributi di prodotto e/o i benefici ottenibili Questa modalità di sviluppo delle associazioni e, conseguentemente, di costruzione dell'immagine è utilizzata nel caso di marche di prodotto, il cui nome può rivelarsi efficace per sottolineare la presenza di un ingrediente particolare, come nel caso di Mielizia (nato dall'unione dei termini miele e delizia), il marchio storico dei produttori aderenti al Consorzio Nazionale Apicoltori. Altre volte viene evidenziata l'assenza di particolari ingredienti (i prodotti senza glutine, senza zucchero, senza lattosio, senza lievito), come nel caso di Céréal, marca che propone una vasta gamma di prodotti studiata appositamente per soddisfare le esigenze di chi è intollerante. Le associazioni possono essere costruite anche con riferimento ai benefici connessi all'utilizzo del prodotto. Per esempio, il dentifricio BlanX punta a fissare con chiarezza nella mente dei consumatori l'associazione fra il prodotto e l'effetto sbiancante. Analogamente, il detersivo Svelto evoca la capacità di sgrassare velocemente le stoviglie, senza correlarlo alla composizione chimica. Valsoia rinvia alle proprietà nutrizionali della soia per offrire una risposta dietetico-alimentare alla crescente domanda di salute e benessere. Il riferimento agli attributi e ai benefici può essere rafforzato gestendo in modo adeguato altre connotazioni, quali per esempio i simboli: basti pensare agli gnometti di Loacker o al coniglietto di Duracell o alle scatolette animate di carne Montana. Il rapporto fra qualità e prezzo Nel caso del rapporto fra qualità e prezzo, lo sviluppo di associazioni mentali alla marca in quanto prodotto fa leva sulla capacità di evidenziare al consumatore l'equilibrio fra benefici offerti dal prodotto e sacrificio economico connesso al suo acquisto. Basti pensare a Mondo Convenienza, retailer di arredamento (che non a caso affianca al marchio il pay-off, «La nostra forza è il prezzo») o a Eurospin, il più grande discounter italiano (che punta su «La Spesa Intelligente») o a Ryanair, che ha rivoluzionato il trasporto aereo con i voli a basso prezzo. Inoltre, non mancano casi dove il prezzo competitivo non si abbina a una corrispondente riduzione del valore d'uso del prodotto, come avviene per alcune marche del fast fashion (Uniqlo, Zara, Mango ecc.), il cui posizionamento fa indubbiamente leva sul prezzo accessibile, al quale però si accompagna il frequente rinnovo delle collezioni, che dunque si connotano costantemente per il loro elevato contenuto moda. Le caratteristiche del target e le modalità di utilizzo del prodotto Il riferimento alle caratteristiche del target di riferimento, rappresenta una tradizionale modalità di sviluppo delle associazioni mentali alla marca. Per esempio, si può ricordare la marca di orologi Longines che si indirizza chiaramente a un target di consumatori benestanti, attenti allo stile e all'eleganza senza tempo. Non si tratta, naturalmente, di una possibilità circoscritta ai prodotti di fascia alta: basti pensare a un brand di largo consumo come Equilibra, che contraddistingue vari prodotti dedicati a tutti coloro che vogliono prendersi cura del proprio benessere e della propria bellezza in modo naturale. Per quanto riguarda invece le modalità di utilizzo del prodotto, è sufficiente ricordare la marca 4 salti in padella, la quale intende evidenziare non solo la velocità di preparazione del piatto, ma anche la modalità di utilizzo: appunto in padella, a differenza delle altre presenti sul mercato che richiedono l'utilizzo del forno a microonde. Lo sviluppo di questo genere di associazioni richiede di mettere in conto anche il rischio che, con il trascorrere del tempo, esse vincolino eccessivamente le possibilità evolutive della marca, limitandone il potenziale di estensione o la variazione del posizionamento. L'origine geografica È noto come la realizzazione di alcuni prodotti è associata a Paesi rinomati per la loro tradizione produttiva: il caffè brasiliano, i sigari cubani, il cioccolato svizzero, i profumi francesi, la moda italiana, le macchine utensili tedesche, l'elettronica giapponese e così via. In effetti, diverse marche sono riuscite a creare un significativo elemento di differenziazione anche attraverso l'associazione con il Paese di origine. Basti pensare a Swatch, la quale si preoccupò di garantirne il livello qualitativo, e pertanto anche il prezzo, evidenziandone l'origine svizzera. L'origine, però, non si riferisce solo al Paese, essendo valorizzabile anche l'associazione a un'area geografica più circoscritta (una località o una singola regione): marche che sottolineano la località di origine sono per esempio: Prada (Milano), Hermès (Paris), Bulgari (Roma), Ichnusa (Sardegna). Chiari riferimenti geografici hanno poi molte denominazioni di origine protetta (Dop) e indicazioni geografiche protette (Igp) attribuite ai cosiddetti «prodotti tipici». Si tratta di riconoscimenti previsti dalla normativa dell'Unione Europea, la cui natura è duplice. Da un lato, sono marchi collettivi, nel senso che possono essere utilizzati da tutti i produttori del luogo indicato nel nome. Dall'altro lato, sono certificazioni in quanto la norma comunitaria stabilisce rigidamente le regole per l'utilizzo del nome protetto dalla denominazione e richiede che un organismo terzo verifichi la sussistenza delle condizioni per abilitare le imprese a utilizzarlo. L'Italia vanta il primato europeo per numero di prodotti che beneficiano di tali marchi (Prosciutto di Parma, Mozzarella di Bufala Campana, Aceto Balsamico di Modena, Mortadella di Bologna, Bresaola della Valtellina). Gli studi in materia hanno interpretato il ruolo dell'informazione sull'origine geografica del prodotto secondo due prospettive: quella dell'effetto alone (halo construct) e quella dell'effetto sintesi (summary construct). Nel primo caso, l'immagine del luogo è usata dal consumatore come sostituto dell'informazione riguardo al prodotto oggetto di valutazione: l'individuo, che non dispone di alcuna conoscenza diretta del prodotto, matura un giudizio sui suoi attributi in base all'immagine che egli possiede del Paese a cui associa l'origine di tale prodotto. Immagine del Paese di origine → Convinzione sugli attributi del prodotto → Atteggiamento verso la marca L'effetto alone, di norma, è temporalmente limitato, nel senso che agisce per il tempo necessario al consumatore per maturare una conoscenza diretta del prodotto. L'accumularsi di esperienze di consumo aumenta infatti la capacità di valutazione autonoma del prodotto da parte dell'individuo, riducendo l'importanza dell'immagine del Paese che egli possedeva prima di effettuare l'acquisto. Il consumatore ha familiarità con una data categoria di prodotto proveniente da uno specifico Paese, di cui può aver anche sperimentato, nel corso del tempo, marche diverse. Quando deve valutare una nuova marca, lo stesso individuo assume che il livello qualitativo sia analogo a quello delle marche che ha sperimentato in precedenza. I giudizi positivi maturati dal consumatore trovano così, attraverso un processo cognitivo di astrazione, la propria sintesi nell'immagine del Paese dal quale provengono i prodotti acquistati. La relazione ipotizzata è la seguente: Esperienze del consumatore → Convinzioni sugli attributi dei prodotti → Immagine del Paese di origine → Atteggiamento verso la marca La percezione della country image è influenzata non solo da componenti cognitive (riferibili cioè alle caratteristiche sociali, economiche, culturali e politiche del Paese considerato), ma include anche connotazioni affettive (relative, cioè, ai significati simbolici ed emozionali di tale Paese) e pure normative (derivanti dal consenso/dissenso verso la politica, lo stile di vita o le azioni da esso poste in atto). Alla formazione dell'immagine del Paese concorrono altresì gli stereotipi diffusi a livello internazionale nei suoi confronti. La marca come azienda Il secondo ambito al quale è possibile riferire lo sviluppo di associazioni mentali alla marca riguarda l'organizzazione alla quale essa fa capo, con riferimento soprattutto alla cultura aziendale, ossia ai valori e ai principi guida che ne informano la strategia, le politiche e le azioni. Si tratta di un ambito sempre più importante, poiché un numero crescente di consumatori presta attenzione anche alla sostenibilità sociale e ambientale dei processi adottati dall’azienda. In questa prospettiva, si individuano 2 elementi sui quali far leva per sviluppare associazioni mentali alla marca: le caratteristiche istituzionali dell'azienda; la dimensione locale o sovranazionale. Le caratteristiche istituzionali Le caratteristiche istituzionali possono fare riferimento ad aspetti di natura formale o anche sostanziale. Nel primo caso, viene in evidenza l'adozione di un assetto che vincola l'azienda a operare secondo determinati principi. Per esempio, l'essere un'organizzazione cooperativa comporta il rispetto di specifici obblighi: l'adozione di uno scopo prevalentemente non lucrativo, i limiti alla ripartizione degli utili, alla partecipazione di ciascun socio al capitale della società, al numero minimo di soci, nonché il rispetto del principio della cosiddetta «porta aperta» e di quello «una testa un voto». Le caratteristiche istituzionali di natura sostanziale, invece, vanno al di là della veste formale adottata dall'azienda, comportando anche un concreto impegno fattuale riguardo al proprio modo di operare, suffragato pure dall'adozione di un codice etico o di una carta dei valori, in grado di fornire una bussola per i processi di scelta del consumatore. La dimensione locale o sovranazionale La catena del valore dell'azienda può risolversi in ambito locale (regionale o nazionale) oppure estendersi all'ambito internazionale, in funzione del numero e del tipo di attività che vengono svolte rispettivamente nel Paese di origine dell'impresa oppure all'estero. Il fenomeno può manifestarsi in forme diverse: in alcuni casi, è un'unica impresa integrata verticalmente che disloca in diversi Paesi le varie attività della catena del valore; altre volte, la dislocazione internazionale avviene in modo che le varie attività siano presidiate da imprese diverse. Per alcune persone, e in alcuni contesti, infatti, la dimensione sovranazionale rappresenta una caratteristica apprezzabile, reputata indice del possesso di vantaggi concorrenziali significativi, di intraprendenza e proattività, di innovazione tecnologica, di capillarità nel servizio offerto. Associazioni siffatte sono frequenti rispetto a marche quali Apple, Sony, Microsoft, General Electric, Nike: in generale, di marche attive in business nei quali i prodotti sono vissuti come simboli di modernità. Per altre persone (o in altri contesti merceologici), invece, il modello di business globale rinvia all'idea di standardizzazione a livello internazionale, alla perdita di autenticità, alle pratiche di delocalizzazione produttiva, alla ricerca di costi del lavoro sempre più bassi, all'elusione fiscale, alle negative conseguenze sull'occupazione e sull'economia locale. Nel caso di McDonald's, per esempio, se inizialmente la scelta di posizionarsi come l'archetipo del fast food è risultata vantaggiosa, con il trascorrere del tempo sono emersi alcuni limiti, anche per il manifestarsi, specie nei contesti diversi da quello statunitense, di una visione critica nei confronti dello stile «fast» proposto dalla catena. McDonald's ha dovuto pertanto attuare azioni volte a facilitare l'acquisizione di associazioni più positive, agendo in prima istanza sul prodotto, mediante ricette basate sull'inserimento di ingredienti tipici locali, anche in collaborazione con chef famosi. In seconda istanza, l'azione di riposizionamento del brand ha coinvolto i locali attraverso la proposta dei McCafé, il cui concept rinvia a un contesto di utilizzo meno frenetico, in cui consumare in tranquillità i prodotti scelti. Il brand purpose Un numero crescente di consumatori si dimostra interessato non solo alle caratteristiche dei prodotti acquistati e ai benefici che ne potrà ottenere, ma anche alla sostenibilità dei processi sottostanti alla loro realizzazione. È interessante ricordare l'esperienza di Unilever, la quale ha adottato l'Unilever Sustainable Living Plan, un piano per «il vivere sostenibile», finalizzato alla costruzione di un'impresa della quale il mondo possa «essere fiero». Tale piano presenta evidenti collegamenti con i Sustainable Development Goals approvati nel 2015 dalle Nazioni Unite nell'ambito dell'Agenda globale per lo sviluppo sostenibile e si fonda su 3 obiettivi fondamentali: - accrescere la salute e il benessere della popolazione, anche con riferimento all'alimentazione e all'igiene personale; - ridurre l'impatto ambientale delle attività e dei prodotti, limitando l'emissione di gas inquinanti e l'utilizzo di acqua, ripensando l'impiego degli imballaggi nell'ottica dell'economia circolare, garantendo la sostenibilità dei rapporti di fornitura; monopolizzi l'attenzione del consumatore, confinando del tutto in sott'ordine la marca per la quale dovrebbe fungere da garante. Un fenomeno recente è quello degli avatar, nel settore della moda sono divenuti noti avatar quali: Lil Miquela, Daisy, Imma e Shudu, creati appositamente per veicolare messaggi nel mondo digital e che da tempo sono il volto delle più importanti maison. Accanto alle modelle, non potevano mancare le cosiddette «virtual influencer», fra le quali Noonoouri, un avatar con l'aspetto fisico ispirato a Naomi Campbell e Kim Kardashian, la quale vanta collaborazioni con marche quali Philosophy e Genny. La marca come simbolo Il quarto ambito al quale può essere riferito lo sviluppo di associazioni mentali alla marca è quello della marca come simbolo. In questo caso, il riferimento è alle attività mediante le quali la marca perpetra nel tempo elementi ricorrenti e iconografici atti a valorizzare la sua continuità e, dunque, la serietà e la solidità che la connotano. In questa prospettiva, possono essere valorizzati due elementi: gli stimoli visivi e l'heritage della marca. Gli stimoli visivi L'identità visiva risulta di particolare rilevanza quando i prodotti presentano un limitato grado di differenziazione. In questi casi, a meno di una forte fedeltà alla marca, il processo di scelta è altamente influenzato dalla facilità di individuare il prodotto all'interno del contesto di acquisto, e dunque dalla sua forte identità visiva, specialmente della confezione. L'identità visiva è molto importante anche per l'attivazione della risposta emotiva alla base dell'acquisto d'impulso. L'attrattività estetica del brand e della confezione del prodotto sono quindi elementi che possono suscitare un certo grado di piacere, sorpresa e curiosità tali da stimolare un acquisto d’impulso. Il ruolo degli stimoli visivi non attiene, però, solo all'attrattività estetica, ma anche al loro potere di rassicurazione, in conseguenza della capacità di evocare la permanenza della marca nel tempo. Si pensi a quanti marchi richiamano la data di origine. La marca di orologi Patek Philippe riporta la dicitura «since 1839», Maserati nel suo logo raffigura l'emblema del Tridente, simbolo di Modena. L'eredità della marca Il riferimento all'anno di fondazione evidenziato nel logo della marca rende evidente la volontà di valorizzare le abilità e le competenze che essa ha maturato nel corso del tempo. Davanti a innumerevoli possibilità di scelta, i consumatori sono sempre più spesso portati a ricercare marche con una storia autentica, nella quale è racchiuso un bagaglio di tradizioni ed esperienze su cui fondare un rapporto di fiducia ed empatia. Lo sviluppo di associazioni mentali connesse all'eredità della marca può avere luogo mettendo in evidenza il contesto storico in cui essa ha avuto origine, gli eventi che l'hanno resa celebre, la persona che l'ha creata e che ha saputo valorizzarla nel tempo, fino a trasformala in una leggenda. Rilevante è anche l'associazione con personaggi noti (dello spettacolo, dello sport, del jet set ecc.) che nel corso del tempo hanno creato un legame iconico con la marca, oppure quelli che, con il loro stile, hanno affermato un rituale di consumo, poi imitato su scala più vasta. Per esempio, nell'immaginario internazionale la marca di gioielli Tiffany è tuttora associata all'attrice Audrey Hepburn, grazie al celebre film Colazione da Tiffany. Un fattore particolarmente rilevante è rappresentato dal mantenimento delle tecniche di lavorazione delle origini, caratterizzate da qualità e artigianalità. Negli ultimi anni, la crescente rilevanza attribuita all'heritage ha indotto alcune marche a tentarne una più efficace valorizzazione mediante la costituzione di un museo aziendale. Il museo - in qualità di messaggero dell'identità e dell'immagine del brand - offre ai visitatori una visione olistica delle origini e delle radici culturali e valoriali della marca, connettendone strategicamente passato, presente e futuro, e consolidando il coinvolgimento e la fedeltà nei confronti della stessa. Riquadro 4.1 Il Museo Gucci Nell'ambito di una serie di iniziative volte a valorizzare le origini storiche della marca, nel 2011 Gucci ha inaugurato il proprio museo a Firenze, il museo testimonia la volontà di «offrire un'esperienza attraverso la quale le persone potranno apprezzare e condividere la nostra storia, comprendendo al tempo stesso quanto Gucci sia ancora oggi vivo e innovativo». Fornisce un database multimediale che traccia l'evoluzione della maison nei vari decenni del ‘900, ripercorrendone le trasformazioni in termini di linee, colori, materiali e modelli e consente di rivolgersi a un'audience di consumatori e appassionati più ampia di quella dei visitatori, valorizzandone il potenziale evocativo quale strumento di heritage marketing. L'aspirazione di raggiungere un pubblico più vasto ha altresì indotto la riprogettazione del sito web, con l'obiettivo di rendere multimediale e interattiva l’esperienza online del fruitore. LA PERSONALITÀ DELLA MARCA Il concetto di brand personality rimanda all'attribuzione alla marca di tratti tipici della personalità umana, secondo un processo denominato «animismo». Questo processo riflette una più generale tendenza degli individui ad attribuire caratteristiche umane a entità che tali non sono, in modo da facilitare le relazioni con le stesse. La tendenza ad antropomorfizzare gli oggetti fa sì che i consumatori possano pensare alle marche come se possedessero caratteristiche umane, associando alle marche aggettivi come: «sportiva», «giovanile», «allegra», «tradizionalista», «interessante». I consumatori associano alle marche caratteristiche della personalità umana o perché le percepiscono quali estensioni di se stessi, o perché esprimono la propria personalità mediante l'uso dei brand, oppure perché le politiche di marketing attivate dalle aziende inducono in essi la convinzione che le marche possiedano certe caratteristiche umane. Per dare concretezza al concetto di personalità, spesso le aziende ricorrono alla personificazione nella forma di testimonial reali o simbolici. Come il concetto di identità in generale, però, anche la personalità di marca è esposta a fenomeni di discrepanza fra intenzioni aziendali e percezione dei consumatori. È noto il caso del cowboy della Marlboro, originariamente concepito per attrarre le fumatrici, ma al quale sono stati associati significati del tutto diversi. È infatti diventato sinonimo di libertà, individualismo e ritorno alla natura, dimostrando che il concetto di personalità, sebbene attentamente progettato dall'azienda, rimane comunque sempre sottoposto alla libera interpretazione degli individui. In estrema sintesi, i tratti della personalità umana sono associati a una marca mediante due processi di trasferimento: uno diretto, riconducibile alle persone che la rappresentano o che sono a essa legate (gli utilizzatori, i dipendenti dell'azienda); l'altro indiretto, tramite associazioni product-related, come il nome della marca, il logo, la confezione, i colori, le attività di comunicazione e così via. Una personalità di marca favorevole migliora le risposte cognitive, affettive e comportamentali dei consumatori, con conseguenti effetti positivi sulla brand equity. Una marca con una personalità attraente funge da «actractive relationship partner», stimolando fiducia e fedeltà e, in tal modo, beneficiando di un incremento delle probabilità di scelta da parte del consumatore. Inizialmente, le ricerche sulla brand personality hanno cercato di estendere tout court alla marca i risultati delle ricerche condotte sulla personalità umana. La ricerca empirica si è indirizzata verso l'identificazione di famiglie di tratti, denominate «fattori della personalità». Una delle teorie più condivise è quella cosiddetta dei «big 5», 5 principali tratti della personalità, che combinati insieme formano le diversità e le peculiarità di ogni individuo: - estroversione (extraversion), il cui polo positivo è rappresentato dall'emozionalità positiva e dalla socialità, mentre quello negativo dall’introversione. L'estroversione è caratterizzata da socievolezza, loquacità ed espressività emotiva. Gli individui altamente estroversi traggono energia dalla presenza di altre persone; - amicalità (agreeableness), per la quale il polo positivo è rappresentato da cortesia, altruismo e cooperazione; il polo negativo da ostilità, insensibilità e indifferenza. L’elevata gradevolezza è principalmente associata al comportamento cooperativo. Più specificamente, questi individui mostrano fiducia, altruismo, affetto e gentilezza verso gli altri; - coscienziosità (conscientiousness), contenente nel suo polo positivo gli aggettivi che fanno riferimento alla scrupolosità, alla perseveranza, all'affidabilità e all'autodisciplina e, nel suo polo negativo, gli aggettivi opposti. Gli individui con elevata coscienziosità sono organizzati e attenti ai dettagli. Riconoscono il valore della preparazione e della programmazione e danno priorità al completamento di compiti importanti.; - nevroticismo (neuroticism), il cui polo positivo è rappresentato da vulnerabilità, insicurezza e instabilità emotiva, mentre il polo opposto è rappresentato dalla stabilità emotiva, dalla dominanza e dalla sicurezza. Gli individui con elevato nevroticismo tendono a sperimentare un’elevata instabilità emotiva. Provano molto stress e si arrabbiano facilmente. Molti altri lottano per riprendersi dopo un evento traumatico; - apertura all’esperienza (openness), per la quale il polo positivo è rappresentato da creatività, anticonformismo e originalità; il polo opposto, invece, è identificato dalla chiusura all'esperienza, ossia dal conformismo, e dalla mancanza di creatività e originalità. Gli individui con elevata apertura sono più avventurosi e creativi. Tendono anche ad avere una gamma più ampia di interessi grazie alla loro volontà di provare cose nuove o affrontare nuove sfide. Aaker ha fornito una definizione di brand personality: «l’insieme delle caratteristiche umane attribuibili alla marca», caratteristiche che i consumatori tendono ad associare alla stessa in modo relativamente stabile nel tempo. L’aspetto più interessante del contributo della Aaker è tuttavia rappresentato dalla validazione di una scala per la misurazione della personalità di marca (Brand Personality Scale) che attualmente risulta essere lo strumento più utilizzato a livello internazionale. In precedenza, le metodologie impiegate per rilevare la personalità di marca erano prevalentemente di tipo qualitativo, come per esempio il metodo del «se fosse» di Plummer nel quale vengono presentati alcuni nomi (di animali, attività, fabbricazioni, occupazioni, nazioni e riviste) da associare alle marche oggetto d'analisi. Il contributo della Aaker, invece, propone una vera e propria scala di misurazione della personalità della marca valida e generalizzabile a diverse categorie di prodotto. In questo modo, supera i limiti delle ricerche precedenti incentrate, come si è detto, su infruttuosi tentativi di far aderire i cinque tratti di personalità dell'individuo alla realtà delle marche, oppure su formulazioni di apposite scale per singoli brand, e dunque non estensibili né affidabili. Dal punto di vista metodologico, lo studio della Aaker si fonda sull'identificazione di 36 marche scelte all'interno di categorie di prodotti con valore funzionale e simbolico e focalizzandosi su quelle più conosciute all'interno di ogni categoria merceologica. Tali marche sono state divise in 4 gruppi omogenei, ognuno composto da 9 brand ai quali è stata aggiunta una marca di controllo. In questo modo, ogni soggetto coinvolti nella ricerca ha valutato 10 differenti marche. Ai soggetti coinvolti nella ricerca è stato chiesto di pensare a ciascuna delle dieci marche da valutare come se si trattasse di una persona e di indicare quanto ognuno dei 114 aggettivi selezionati fosse descrittivo di ogni specifica marca. I risultati dell'analisi hanno portato all'identificazione di 5 dimensioni della personalità della marca: sincerità, entusiasmo, competenza, sofisticatezza e ruvidezza. Successivamente sono stati identificati gli aggettivi più rappresentativi di ognuna di esse. Ne è risultata l'individuazione di 42 tratti di personalità della marca: - sincerità: razionale, orientato alla famiglia, provinciale, onesto, sincero, autentico, sano, originale, allegro, sentimentale, amichevole (Disney, Amazon); - entusiasmo: audace, trendy, emozionante, vivace, figo, giovanile, immaginativo, unico, aggiornato, indipendente, contemporaneo (Tesla, Coca Cola, Nike, Red Bull); - competenza: affidabile, laborioso, sicuro, intelligente, tecnologico, aziendale, di successo, leader, sicuro di sé (Volvo, Google, Intel, Microsoft); - sofisticatezza: aristocratico, affascinante, di bell'aspetto, raffinato, femminile, gradevole (Tiffany, Rolex, Gucci, Apple); - ruvidezza: aperto all'esperienza, mascolino, occidentale, come un duro, forte (Timberland, Jeep, Marlboro). Tuttavia, sono state evidenziate difficoltà di applicazione di tali tratti in contesti culturali diversi da quello statunitense. Riquadro 4.2 La scala di misurazione della personalità della marca nel contesto italiano Con riferimento al contesto italiano, un tentativo di validazione della scala proposta dalla Aaker è stato condotto da Fida et al. La marca scelta per l'analisi è Bulgari, una delle marche di gioielli con una brand saliency più elevata e con una fortissima connotazione simbolica. L'analisi fattoriale della personalità della marca di Bulgari, confermata poi sui brand Nokia e Ceres, ha portato all'identificazione di 4 fattori (affidabilità, edonismo, entusiasmo, determinazione) che rappresentano prevalentemente una sintesi dei fattori identificati dalla Aaker. Il primo fattore (affidabilità) risulta essere infatti un fattore composito dei fattori sincerità e competenza della Aaker. Il secondo fattore (edonismo), presenta 5 aggettivi della sofisticatezza oltre a 2 aggettivi dell'entusiasmo, 1 della sincerità e 1 della competenza. Il terzo fattore (entusiasmo) presenta 5 degli 11 aggettivi del fattore entusiasmo della Aaker. Infine, il quarto fattore (determinazione) è una dimensione composta da 2 aggettivi della ruvidezza, 1 dell'entusiasmo e 1 della competenza. Si osserva, inoltre, che l'entusiasmo è l'unico fattore originalmente ipotizzato dalla Aaker a emergere come fattore «puro», e non come mistura di più fattori, confermando così quanto avviene in pressoché tutti i contesti in cui la scala è stata validata. LA RISONANZA Il termine «risonanza» si riferisce alla natura della relazione che la marca intrattiene con i consumatori e alla misura in cui questi ultimi si sentono in sintonia con essa. La risonanza è definita in termini sia d'intensità (con riguardo, cioè, alla profondità del legame psicologico del cliente con la marca e al senso di comunità che viene a formarsi con gli altri utilizzatori della stessa), sia di livello di attività che ne risulta (rappresentato, per esempio, dal tasso di ripetizione dell'acquisto, dalla ricerca di informazioni sul brand, sui relativi eventi o su altri clienti fedeli). La risonanza, dunque, è una disposizione favorevole del consumatore, il quale reagisce consapevolmente alle azioni poste in essere dalla marca. In questa prospettiva, in passato si tendeva a interpretare il concetto di risonanza in chiave di reciprocità, nel senso che il cliente più attento e soddisfatto di ciò che osserva e/o sperimenta decide di ricompensare, con i propri comportamenti, l'impegno profuso dalla marca. Vi è dunque un rapporto di sequenzialità fra le azioni poste in atto dal brand e le risposte deliberate del consumatore. In tempi più recenti, si è 3. indici di probabilità d'acquisto, i quali si fondano su misure di statistica inferenziale in grado di definire, sulla base della sequenza di acquisti, la probabilità che il soggetto selezioni, per gli acquisti successivi, una determinata marca. Alcuni di questi indicatori si basano sulla probabilità che un consumatore, che ha di recente cambiato la marca abitualmente acquistata ritorni al brand originario alla successiva occasione d’acquisto. Al di là degli indicatori sin qui presentati, la rilevazione della fedeltà comportamentale può avvenire mediante interviste ai consumatori, volte a rilevare la percentuale di prodotti acquistati in una determinata categoria che appartengono alla marca indagata (storia degli acquisti passati) e quale lo sarà prossimamente (intenzione di acquisti futuri), come pure la sostituibilità della marca. Venendo invece alla misura della fedeltà cognitiva, gli indicatori utilizzabili si fondano principalmente sulle dichiarazioni di preferenza e di intenzione d'acquisto espresse dai consumatori, e collegano il livello di fedeltà: - all’atteggiamento verso la marca, misurato tipicamente mediante i modelli multi-attributo; - al valore percepito dell'offerta aziendale, stimato mediante gli approcci di composizione e di scomposizione; - al livello di soddisfazione del cliente, espresso per esempio mediante: a) indici sintetici del gap di valore, ottenuti misurando la «distanza cognitiva» esistente fra il posizionamento della marca e la configurazione del profilo ideale d'offerta; b) indicatori espressivi della propensione del cliente (customer advocacy) a veicolare comunicazioni interpersonali positive sulla marca. Riquadro 4.5 Il Net Promoter Score Lo sviluppo del Net Promoter Score (NPS) si deve essenzialmente alle ricerche di Reichheld volte a individuare le domande - fra quelle usualmente poste nell'ambito delle indagini sulla soddisfazione dei clienti - con il grado di correlazione statistica più elevato rispetto alla ripetitività degli acquisti. Sulla base di un'approfondita analisi quantitativa, Reichheld pervenne alla conclusione che la domanda con il maggior grado di correlazione è: «Quanto è probabile che lei raccomandi questa azienda/marca a un amico o a un collega?». Le risposte dei clienti vengono espresse sulla base di un punteggio da 0 (al quale corrisponde l'assenza di probabilità di raccomandazione) a 10 (cui è associata un'altissima probabilità che il cliente raccomandi a terzi la marca). In base ai giudizi espressi, gli intervistati vengono suddivisi in: promotori, passivi e detrattori. I primi (che hanno espresso valutazioni comprese fra 9 e 10) sono i clienti fedeli ed entusiasti, che persistono nell'acquistare i beni e/o servizi proposti dalla marca e nel raccomandarli alla loro rete di conoscenze. I passivi (ai quali corrisponde un punteggio compreso fra 7-8), pur essendo soddisfatti di quanto hanno acquistato, non ne sono entusiasti e, quindi, non sono orientati a propalare valutazioni positive fra i loro conoscenti. Infine, i detrattori (le cui valutazioni vanno da 0 e 6) sono rappresentati dai clienti che hanno sviluppato una percezione di insoddisfazione o, addirittura, di raggiro. Dalle indagini di Reichheld emerge che un cliente tende a diventare un «positive referral» (che raccomanda) in presenza di 2 circostanze: - dev’essere convinto che la marca gli offra un valore superiore a quello dei concorrenti, in base ad attributi ritenuti rilevanti per la specifica categoria di prodotto; - deve percepire che la marca lo riconosca all'interno del proprio portafoglio-clienti e gli attribuisce adeguata considerazione. I punteggi espressi dagli intervistati vengono poi sintetizzati in un unico indicatore (denominato Net Promoter Score) rappresentato dalla differenza tra la percentuale dei promoter e quella dei detractor (Figura 4.6) Il modello può essere applicato con diversi livelli di complessità, approfondendo l'indagine con ulteriori quesiti volti a indagare: i motivi per i quali il soggetto suggerisce l'acquisto della marca o, al contrario, non ritiene opportuno farlo; la soddisfazione concernente i vari attributi dell’offerta; l'acquisto di marche concorrenti, l'importanza loro attribuita e il valore dell'NPS a esse assegnato. Inoltre, è possibile raccogliere ulteriori informazioni, quali: la spesa media pro capite; il numero di contatti con il servizio clienti (che risulta di solito superiore da parte dei detrattori); la quantità di commenti positivi (dei promotori) e negativi (dei detrattori). Riguardo al NPS, è stato osservato che quando una marca resta fedele al suo DNA e persegue coerentemente il suo segmento target, finisce per polarizzare il mercato: alcuni clienti la amano e altri iniziano a odiarla. Un passaparola negativo non è necessariamente un male. Anzi, a volte un brand ha bisogno di advocacy negativa per suscitare l'advocacy positiva da parte di altri clienti. La brand advocacy può essere spontanea o sollecitata. La prima si manifesta quando un cliente, senza che gli sia stato suggerito o richiesto, raccomanda attivamente un certo brand. In realtà accade di rado. Solo i fan più sfegatati sono sostenitori attivi. L'advocacy sollecitata risponde a uno stimolo indotto da altri. Questo tipo di passaparola, sebbene comune, ha natura latente: deve essere attivato o dalle richieste del cliente o dal passaparola negativo. In linea di massima, va ricercato un equilibrio tra promotori e detrattori, ma per le grandi marche i primi non sono necessariamente più numerosi dei secondi. «McDonald's, per esempio, ha il 33% di ammiratori e il 29% di detrattori, una polarizzazione quasi equilibrata. Starbucks ha un profilo simile: 30% di ammiratori e 23% di detrattori. Questi due brand, tra i più importanti del settore alimentare, avrebbero punteggi molto bassi se li calcolassimo con il Net Promoter Score, perché hanno troppi detrattori. Ma il gruppo dei detrattori è un male necessario che spinge il gruppo degli appassionati ad attivarsi per difenderli dalle critiche. Il senso di attaccamento La fedeltà comportamentale del consumatore è necessaria, ma non sufficiente ai fini della risonanza della marca. Alcuni clienti, infatti, potrebbero acquistare un brand per necessità, perché è l'unico immediatamente disponibile o il solo che possono permettersi. Per creare risonanza, occorre invece generare un forte attaccamento personale: i consumatori non dovrebbero avere semplicemente un atteggiamento positivo verso la marca, ma considerarla come qualcosa di speciale. L'attaccamento si sostanzia dunque nello sviluppo nei confronti della marca di un sentimento emotivo intenso. IL BRAND ATTACHMENT Il concetto di brand attachment si riferisce alla forza del legame che connette il consumatore alla marca. Come rilevano Park et al., questo legame «è esemplificato da una rete di memoria (o rappresentazione mentale) ricca e accessibile che coinvolge pensieri e sentimenti su un marchio e sulla relazione del marchio con se stessi». 2 sono i fattori che determinano lo sviluppo di brand attachment: la brand-self connection e la brand prominence. La prima indica una connessione emotiva e cognitiva tra consumatore e marca, tale per cui il primo sviluppa un senso di unità con il brand e lo incorpora nella definizione dell'identità personale alla quale aspira. Da qui, anche la messa in atto di comportamenti ostentativi in merito al possesso e/o all'utilizzo della marca, che diventano parte integrante dell'immagine che il consumatore intende offrire di sé all'interno del suo gruppo di riferimento. La brand-self connection esprime la sovrapponibilità che il consumatore riconosce fra la marca e il proprio sé (in che misura la marca X è parte di te e di ciò che sei?), ossia all'immagine che l'individuo reputa di proiettare su altri soggetti. Il concetto di sé può esercitare un'influenza significativa sul rapporto con le marche, nella misura in cui la loro considerazione e valutazione da parte del consumatore avviene in base al proprio self concept. Quanto più una marca è inclusa nel sé del consumatore tanto più stretto è il legame che li collega. In questa prospettiva, si spiega come il consumatore che abbia sviluppato una forte brand-self connection si dimostra più resistente a rivedere le proprie convinzioni sulla marca, arrivando talora ad attivare processi di attribuzione di responsabilità in caso di sopraggiunti riscontri negativi a carico del brand, salvaguardandone l’immagine. La brand-self connection, in qualità di componente del brand attachment, è misurata dai seguenti item: - in che misura la marca X è parte di te e di ciò che sei? - in che misura ti senti personalmente legato alla marca X? - in che misura ti senti emotivamente coinvolto con la marca X? - in che misura la marca X è parte di te? - in che misura la marca X comunica agli altri qualcosa di come sei tu? Venendo al secondo fattore alla base del brand attachment, ossia alla brand prominence, essa rimanda invece alla misura in cui il consumatore riconduce sentimenti e ricordi positivi alla sua storia di attaccamento alla marca. Risalta, dunque, il ruolo giocato dalle emozioni nella costituzione di questo legame, tanto che alcuni autori hanno suggerito di parlare di «emotional attachment» e di misurare il costrutto sulla base dell'intensità emotiva che caratterizza la relazione tra il consumatore e la marca (articolata in 3 livelli di intensità: affection, passion e connection). La brand prominence può essere colta dai seguenti item: - in che misura i tuoi pensieri e le tue emozioni rispetto alla marca X ti vengono in mente spontaneamente? - in che misura i tuoi pensieri e le tue emozioni riferiti alla marca X ti vengono in mente in modo così naturale e istantaneo da non poterli controllare? - in che misura la marca X ti evoca automaticamente molti pensieri positivi circa il passato, il presente e il futuro? - in che misura nutri molti pensieri verso la marca X? L’amore per la marca I clienti che nutrono un forte attaccamento per un brand potrebbero giungere ad affermare di amarlo e descriverlo come uno dei loro beni più cari, come un amico o come un piccolo piacere che attendono con ansia. Il brand love è, in effetti, uno dei costrutti sviluppato dalla letteratura. Che i consumatori possano nutrire sentimenti simili all'amore (love-like) per particolari prodotti (un dipinto, un libro, un'automobile, un pc ecc.) o attività (suonare uno strumento musicale, dipingere, praticare un'attività sportiva ecc.) è constatazione abbastanza comune, anche se comincia a essere oggetto di indagine scientifica soprattutto a seguito delle ricerche sulla customer satisfaction, in particolare di quelle che hanno adottato una concezione del costrutto in termini sottrattivi, ossia quale misura risultante dalla differenza percepita fra aspettative di performance e percezioni di performance emergenti dall'esperienza d'uso. E noto che tale differenza può risultare anche positiva, laddove la performance percepita sia superiore alle aspettative. In questa situazione, il consumatore non risulta semplicemente soddisfatto, ma - utilizzando un termine proposto in letteratura - «deliziato» (delighted). Questa percezione deriverebbe dalla sorpresa, dall'eccitazione, dall'affetto avvertiti dal consumatore a seguito di questa esperienza. Tuttavia, gli studi successivi hanno posto in evidenza i limiti del costrutto delight, rappresentati fondamentalmente dal suo essere riferito alla singola transazione (trascurando pertanto i sentimenti che si sviluppano nelle relazioni di lungo termine), e dalla limitata evidenza in merito alla sua capacità predittiva riguardo al comportamento del consumatore. Un contributo chiarificatore si è avuto con lo studio di Carroll e Ahuvia, nel quale il brand love viene definito come «il grado di appassionato attaccamento emotivo che un consumatore soddisfatto prova verso una marca». Gli stessi autori specificano come questo costrutto includa aspetti diversi: passione, attaccamento, valutazione positiva, emozioni positive, dichiarazione di amore verso la marca. Rileva osservare come il brand love sia dunque un concetto più ampio rispetto a quello di brand attachment. Le ricerche empiriche condotte da Ahuvia, su cui si basa lo studio appena citato, prendono avvio dalle precedenti concettualizzazioni proposte da Shim e Madden relative a un potenziale rapporto amoroso fra il consumatore e un oggetto (intendendo per tale «other than another person», e dunque anche una marca). Basandosi sulla cosiddetta «Teoria triangolare dell'amore interpersonale», si identificavano tre componenti (gradimento, passione e decisione/impegno) presenti in misura variabile nella relazione del consumatore con un oggetto. Il termine «gradimento» (liking) sintetizza sentimenti quali attaccamento, legame, affetto. Si tratta di sentimenti che un individuo può avvertire nei confronti di un oggetto di design, un'opera d'arte, un determinato capo o accessorio di abbigliamento, una squadra sportiva e, naturalmente, anche una marca. Alcuni oggetti assumono un significato simbolico per i loro proprietari sino a diventare parte della loro identità persona-le, dell'immagine di sé e dell'autostima individuale. Il gradimento del consumatore si distribuisce lungo un continuum, ai cui estremi vi è, da un lato, una polarità fortemente positiva e, dall'altro, una polarità fortemente negativa (che assume le sembianze del disprezzo, se non addirittura dell'odio). La maggior parte dei prodotti e delle marche si collocano in posizione intermedia lungo questo continuum, nel senso che non sono né particolarmente graditi né sgraditi: assolvono a una funzione e sono apprezzati per quella funzione, senza che il consumatore sviluppi nei loro confronti un particolare attaccamento o uno speciale affetto. La seconda componente è rappresentata dal «desiderio» (yearning) che l'individuo può avvertire per certi prodotti e marche. Come nelle relazioni interpersonali, si tratta di un sentimento relativamente effimero, quantomeno rispetto alle altre due componenti. Anche il desiderio si dipana lungo un continuum, ai cui estremi vi è, da un lato, una situazione positiva in cui il consumatore non può letteralmente fare a meno di quel determinato oggetto e, dall'altro, una situazione di completo rifiuto (come per non pochi avviene al pensiero di doversi recare dal dentista o di assistere a un certo tipo di spettacolo o di manifestazione sportiva). I termini «decisione» e «impegno», che rappresentano la terza componente, si distinguono per l'orizzonte temporale al quale si riferiscono. Nel breve periodo, i consumatori decidono di svolgere un'attività, di acquistare un prodotto e/o una marca. Nel lungo periodo, sviluppano invece vari gradi di impegno nei confronti di tali oggetti, da un grado massimamente positivo, per esempio perché lo ritengono il migliore nella sua categoria, a uno del tutto opposto, che si manifesta talora con affermazioni recisamente negative, quali quella di non voler assolutamente svolgere una certa attività o di usare un certo prodotto o di acquistare una determinata marca. Concentrando l'attenzione sulla marca e combinando tali tre componenti, Shimp e Madden pervengono a individuare otto possibili conformazioni di rapporto consumatore-marca, rappresentate nella Tabella 4.2. Se nei confronti di talune marche gli individui giungono a sviluppare un intenso attaccamento emotivo, talvolta persino ad amarle, per altre (probabilmente la maggioranza) manifestano una sostanziale indifferenza. Per determinati brand tuttavia - analogamente a quanto avviene nei confronti delle persone - manifestano opinioni critiche, fino a sviluppare veri e propri sentimenti fortemente negativi. Sovente, tutto questo è conseguenza di un livello qualitativo del prodotto ritenuto scadente o di un' insoddisfazione sperimentata in una o più occasioni di interazione con la marca, che inducono il consumatore a ripromettersi di non acquistarla mai più, di consumarla meno frequentemente e/o di a comunicare agli altri la propria esperienza insoddisfacente. In non pochi casi, tuttavia, la negatività nei confronti della marca è dovuta al fatto che, agli occhi dell'individuo, essa è espressione di uno stile di vita del tutto lontano rispetto ai propri valori o al fatto che questa sia abbinata a un gruppo sociale sgradito o al dissenso rispetto alle strategie dell'azienda a cui essa fa capo. In questi casi, ai comportamenti appena citati può aggiungersi l'organizzazione di attività di contrasto attivo della marca, quali quelle poste in essere dalle cosiddette comunità di consumo critico, o la partecipazione a iniziative promosse da altri consumatori o da movimenti di vario genere. La letteratura che ha indagato gli atteggiamenti negativi nei confronti delle marche può essere sostanzialmente articolata in tre filoni, concernenti rispettivamente: - il deterioramento e/o l'interruzione del rapporto intercorrente fra il consumatore e la marca, - il ruolo degli atteggiamenti negativi e delle espressioni negative in chiave di comunicazione sociale, posto che criticare o rifiutare un prodotto costituisce talvolta un modo per relazionarsi con gli altri; - l'atteggiamento critico espresso da alcuni individui nei confronti delle aziende e/o delle loro politiche di marketing. Il primo filone può essere ricondotto al già citato studio di Susan Fournier, nel quale la marca è vista quale entità (un'amica, una compagna) con cui l'individuo può instaurare relazioni in grado di fornire un contributo alla costruzione di senso nella propria vita quotidiana. In questa prospettiva, la relazione del consumatore con la marca può deteriorarsi a causa di fenomeni di entropia e/o di stress. Per quanto riguarda l'entropia, col trascorrere del tempo il rapporto fra il consumatore e la marca può entrare in crisi a causa della progressiva perdita d'interesse reciproco. Questo può essere dovuto sia all'evoluzione del consumatore (che - per il cambiamento di età, di condizione lavorativa, di interessi ecc. - indirizza la sua attenzione verso altre categorie o tipologie di prodotto) sia a un affievolimento, deliberato o meno, dell'attività della marca nei confronti del cliente. Per ciò che concerne invece lo stress, la relazione può deteriorarsi a causa di fattori ambientali (la concorrenza lancia un'alternativa che il consumatore reputa migliore oppure esso si trasferisce in un luogo dove la marca non viene commercializzata); per effetto di cambiamenti nello status economico e sociale del consumatore tali da indurlo ad acquistare altri prodotti; in seguito alla scelta dell'impresa di riposizionare la marca; per il venir meno della fiducia verso quest'ultima a causa, per esempio, del verificarsi di eventi spiacevoli e/o dell'incapacità dell'azienda di porvi rimedio. Il secondo filone di ricerca chiama in causa il ruolo assunto dalle opinioni e dai giudizi negativi nell'ambito della cultura di riferimento. Vari studi di matrice sociologica e antropologica hanno posto in evidenza come l'individuo gradisce ciò che piace al gruppo sociale al quale appartiene, o aspira ad appartenere, mentre disprezza ciò che risulta gradito a coloro dai quali intende distinguersi. Anzi, sovente il soggetto riesce a comunicare meglio la propria posizione sociale (o quella a cui aspira) indicando ciò che disprezza anziché ciò che apprezza. In estrema sintesi, questo filone sottolinea il ruolo dei prodotti e delle marche, specie in certe categorie merceologiche, quali strumenti per esprimere la personalità e il ruolo sociale del consumatore con particolare riferimento ai giudizi negativi. Il terzo filone di ricerca si concentra sulla resistenza del consumatore nei confronti delle aziende e delle loro strategie. Le ragioni alla base di tale resistenza possono fare riferimento a considerazioni di ordine ideologico o culturale che inducono alla critica nei confronti del rapporto fra imprese e consumi (In particolare, lo sviluppo del cosiddetto «consumo critico» si fonda «sull'idea che dietro alla simulazione del consumatore sovrano e dei bisogni cui le imprese cercano di rispondere, si nascondono comportamenti antiecologici, manipolatori e politicamente scorretti. Tali comportamenti sono sorretti dai consumatori e dalla loro acriticità, che le imprese incoraggiano e forgiano attraverso molteplici modalità manipolatorie. Il fine del consumo critico o responsabile è dunque quello di condurre i consumatori a riappropriarsi dell'autonomia decisionale e di prendere coscienza del potere che possiedono per condizionare le imprese») o di alcune loro manifestazioni, ma anche di dissenso rispetto a certe condotte aziendali ritenute dannose sul piano sociale o ambientale. Quali che ne siano le ragioni, alcune ricerche sulle «anti-brand communities» hanno rilevato che, in talune situazioni, i consumatori si riuniscono in hate group per esprimere i loro sentimenti negativi nei confronti di determinate marche, per condividere esperienze critiche con altri consumatori e, talvolta, per pianificare e realizzare azioni (per esempio di sabotaggio e/o di boicottaggio) contro il destinatario del loro odio, al fine di ottenere il cambiamento della condotta ritenuta pregiudizievole. È interessante osservare che il fenomeno in questione coinvolge soprattutto marche che sono apprezzate da un'ampia quota di consumatori, ma - forse proprio per questo (il fenomeno, in effetti, è denominato «negative double jeopardy») - suscitano nel contempo l'avversione da parte di altri. Azioni di contrasto sono state condotte, per esempio, nei confronti di Apple (a causa delle pessime condizioni di lavoro applicate nelle fabbriche cinesi facenti parte della sua supply chain), di alcune compagnie aeree low-cost quali Ryanair e easyJet (criticate per il basso livello di servizio offerto, per le condizioni di sicurezza reputate non pienamente adeguate, nonché per il trattamento riservato ai passeggeri), di Abercrombie & Fitch (contestata per i severi canoni estetici applicati nella selezione del personale di vendita dei suoi negozi, come pure per la dichiarata volontà di indirizzare i propri prodotti unicamente alle persone non in sovrappeso). Gli esempi appena citati dimostrano come le marche possano dover far fronte alla diffusione di sentimenti negativi fra i consumatori, non riconducibili semplicemente alla mancanza di brand love e a esperienze di insoddisfazione. Da qui l'interesse nei confronti del tema dell'odio verso la marca (brand hate), la cui comprensione può consentire alle imprese di fronteggiarlo efficacemente e, possibilmente, anche di prevenirlo. L’odio è da tempo oggetto di studio da parte della psicologia, che lo interpreta quale emozione negativa complessa, ossia composta da due o più emozioni primarie (Le emozioni primarie «rappresentano gli stati d'animo connessi ai comportamenti di base necessari per la sopravvivenza della specie umana e l'elenco di tali emozioni comprende la gioia, la collera, la paura, il disgusto, il disprezzo, la sorpresa e la tristezza»), i cui antecedenti sono sovente rappresentati dalla violazione di qualche codice morale. Nel campo del marketing, e segnatamente del brand management, l'interesse per il tema è più recente, ma è andato crescendo negli ultimi anni. Bryson et al., per esempio, definiscono l'odio verso la marca come «an intense negative emotional affect toward the brand», le cui origini possono essere individuate in quattro potenziali antecedenti: - il Paese di origine della marca; - l'insoddisfazione nei confronti del prodotto contraddistinto dal brand o di ogni altro brand touchpoint (per esempio, il sito web, gli addetti alla vendita, il personale dei negozi, quello del call center ecc.); - gli stereotipi negativi sugli utilizzatori della marca; - le percezioni negative sulla social performance dell’azienda. Nella letteratura di marketing non vi è tuttavia univocità di posizioni in merito alle emozioni che concorrono a definire il brand hate, come pure all'intero spettro delle sue conseguenze sul comportamento dei consumatori. Un recente studio perviene alla concettualizzazione rappresentata nella Figura 4.7. Come si nota, l'odio verso la marca è il risultato di due gruppi di emozioni: quelle che in psicologia sono usualmente definite come «attive» e quelle «passive». Alle prime concorrono: disprezzo e disgusto, nonché rabbia; alle seconde: paura, delusione, vergogna e disumanizzazione. Sempre nella Figura 4.7 sono indicate anche le conseguenze che l'odio nei confronti della marca può esercitare sul comportamento del consumatore: si va da azioni che presuppongono un suo ruolo molto attivo (che può estrinsecarsi mediante lamentele, veicolazione su larga scala di comunicazioni interpersonali negative, adesioni ad azioni di protesta organizzata) a condotte volte a evitare, o quantomeno a limitare, varie forme possibili di sostegno alla marca. Il senso di comunità e le comunità di marca Varie ricerche hanno evidenziato come oggigiorno gli individui soddisfino il loro desiderio di aggregazione anche grazie alla creazione di gruppi nei quali si riuniscono persone che condividono l'interesse per una specifica marca e tramite i quali si crea un universo sociale parallelo a quello reale. In questa prospettiva, con l'espressione «senso di comunità» si intende indicare la sensazione positiva (di orgoglio, fierezza, appagamento ecc.) che tali individui possono avvertire nell'essere riconosciuti come persone vicine a una certa marca e nel loro reputarsi simili rispetto ad altri appassionati della stessa, con i quali incontrarsi e interagire. Tra i gruppi creati intorno a una marca, ne esistono di molto formali e strutturati e altri decisamente più informali e liberi. Essi, inoltre, possono essere generati spontaneamente dai consumatori oppure sollecitati dalle imprese con l'intento di alimentare conversazioni e legami sociali fra i sostenitori della marca che vadano al di là della semplice condivisione di idee e contenuti centrati sul brand. In questo contesto, la marca diventa «piattaforma di incontro tra sensibilità, agente catalizzatore di interessi comuni, abilitatore di nuovi legami interpersonali e fluidificante relazionale di legami esistenti». Anche i termini impiegati per indicarli sono molteplici: i più utilizzati sono quelli di «comunità», «tribù» e «subculture», termini tratti dall'antropologia e dalla sociologia. In questa sede, senza nemmeno accennare alle distinzioni fra i medesimi, utilizzeremo in senso generico in termine di «comunità di marca» (brand community) per indicare gruppi spontanei che riuniscono persone accomunate dall'interesse per uno specifico brand (Si tratta, in ogni caso, di gruppi ben diversi dai classici segmenti di domanda, che di regola riuniscono consumatori accomunati da bisogni e/o caratteristiche socio-demografiche. I membri di una comunità possono essere persone fanatiche di sport estremi o appassionati di speleologia; possono far parte di un club di amanti del vino o essere tifosi di una certa squadra di calcio. Ciò che loro cercano non è tanto il consumo di un determinato prodotto (per esempio, il vino di una certa mar-ca), ma la degustazione dello stesso insieme a altri individui che condividono il medesimo interesse. Sulla base di questa considerazione, si è andato sviluppando il cosiddetto marketing tribale, che - in estrema sintesi - si sostanzia in un tipo di strategia di comunicazione che, invece di mirare a stabilire un legame personale con il singolo cliente (come si prefigge il marketing relazionale) e senza cercare la diffusione di massa di un messaggio tramite il passaparola, cerca di rafforzare la posizione della marca facendo leva sui legami spontanei che si instaurano fra quegli individui che condividono la medesima passione. Per il marketing tribale, quindi, non è la relazione diadica fra cliente e marca a focalizzare l’attenzione dell’impresa, ma la relazione di interdipendenza che sussiste fra un cliente e un altro). Al di la della definizione, alla base della progettazione delle comunità di marca si colloca il potenziale re azionale della marca, ossia la sua possibilità di giocare un ruolo relazionale all'interno del tessuto sociale degli individui, ma anche la possibilità di capitalizzare e amplificare il suo sistema valoriale attraverso lo scambio e l’accumulo di contenuti ludici, informativi e sociali tra i partecipanti. Dunque, le comunità di marca - lungi dall'essere solamente luoghi/occasioni di aggregazione - rappresentano pratiche di condivisione, relazione, socializzazione. Tramite di esse, i loro membri mettono in comune conoscenze, esperienze e passioni, contribuendo in tal modo a co-definire un senso comune attorno alla marca. Le brand community possono pertanto contribuire alla costruzione del valore della marca arricchendo la stessa tramite la partecipazione dei loro membri. Fra le marche più note, e anche più studiate, vi sono quelle che aggregano gli appassionati di moto Harley-Davidson e Ducati, i fan della Nutella, gli amanti delle Ferrari e altre ancora. Il Riquadro 4.6 presenta invece il caso di una community meno nota al grande pubblico, ma indicativa della capacità evolutiva della marca. Riquadro 4.6 myMoleskine: quando la community stimola l'immaginazione e alimenta la creatività Gruppo Moleskine crea, produce e distribuisce oggetti dedicati alla creatività personale: taccuini, agende, quaderni, borse, strumenti per la scrittura e la lettura. Si tratta di una realtà in continua crescita, con la sua sede principale in Italia, a Milano. L'azienda negli ultimi anni ha abbracciato l'innovazione digitale, puntando sull'esperienza online, lanciando app che aiutano gli utenti a gestire la produttività creativa e i taccuini digitali, nonché un sistema di scrittura intelligente che consente di scrivere o disegnare su carta e caricare i propri appunti digitalmente tramite l'uso di una penna intelligente. Al contempo, la marca si è anche concentrata sull'espansione dell'offline-experience, aprendo un caffè in città come Milano, Pechino e Ginevra, dove i visitatori possono immergersi nell'esperienza totale di marca, condividendo caffè e pietanze mentre sfogliano e toccano i prodotti Moleskine o interagiscono creativamente attraverso le app con i prodotti e con altri consumatori, immergendosi così nel mondo di Moleskine. myMoleskine è la community online lanciata nel 2009, rinnovata nel 2016 e in continua evoluzione (come evidenziato dal descriptor «Beta version» che sottotitola il community-name nella sua homepage). Essa si presenta come una brand community aperta a tutti e finalizzata alla realizzazione, condivisione e arricchimento dei contenuti di affiliati, artisti o creatori appartenenti a l'attaccamento alla storia e il desiderio di prodotti autentici, oggetto del retromarketing tribale. Le community imputano spesso al management di non valorizzare adeguatamente il patrimonio storico del passato e di realizzare solo raramente prodotti traendo spunto dai precedenti successi. Dal canto loro, i manager reputano importante il patrimonio storico, ma giudicano l'ancoraggio al passato un atteggiamento meramente nostalgico, che si traduce in un freno allo sviluppo dell'attività aziendale; le scelte tecniche, posto che - specie per certi prodotti - gli appassionati criticano spesso le scelte aziendali, proponendo soluzioni tecniche che tendono ad appartenere al passato; le difficoltà di interazione tra azienda e appassionati. Talora le comunità di marca lamentano un limitato interesse da parte del management aziendale alle loro attività, auspicando un confronto diretto e uno scambio face-to-face di opinioni e idee; l'autocandidatura degli appassionati alla valorizzazione della marca, la quale si fonda su un tale innamoramento per quest'ultima tale per cui i membri della community si auto-eleggono divulgatori della marca e del suo spirito, richiedendo al management di essere maggiormente coinvolti nelle iniziative aziendali e di essere impegnati in prima linea nel contagiare con la propria passione le persone che non ne hanno. Per risolvere le eventual sisamonie che possono manifestarsi nel rapporto con le comunità di marca, l'impresa deve essere ovviamente sensibile alle problematiche del «marketing tribale», nella consapevolezza che l'attività di queste comunità contribuisce ad arricchire e a consolidare il valore della marca, riconoscendo così la necessità di instaurare un dialogo costante con le stesse. Sul piano pratico, questo può comportare l'istituzione di una struttura totalmente dedicata all'interazione con la brand community. È questa, per esempio, la soluzione adottata dalla casa automobilistica Ferrari, la quale già anni fa, dopo aver preso coscienza delle conseguenze create dalla limitata comunicazione e dal difficoltoso rapporto con i gruppi di appassionati (non riducibili ai soli proprietari delle sue auto), ha ritenuto di istituire strutture appositamente dedicate a sostenerli e a far loro rispettare precise linee guida aziendali, volte alla salvaguardia del valore della marca. A livello organizzativo, vi sono due unità distinte: quelle come il Ferrari Club Italia, Svizzera ecc., di cui fanno parte esclusivamente proprietari delle vetture, e gli Scuderia Ferrari Club ai quali aderiscono gli appassionati ferraristi indipendentemente dall'essere proprietari o meno della automobile. L'impegno attivo In base a quanto sin qui osservato - oltre alla fedeltà, all'amore e all'attaccamento - alcune marche possono beneficiare anche della disponibilità dei consumatori a destinare tempo, denaro ed energie ulteriori rispetto a quelle già dedicate all'atto d'acquisto e/o di consumo. Come si è appena visto, essi possono decidere di aderire a una comunità nata intorno alla marca (talora, addirittura, promuoverne la fondazione) oppure, pur senza aderire a una community, i clienti possono diventare brand ambassador, concorrendo alla diffusione della marca, assumendone le difese nei confronti di altri individui, co-generando significati e associazioni mentali al brand. Da ciò discende che il consumatore non è più visto solo quale soggetto destinatario delle azioni della marca atte a stimolare reazioni emotive e a instaurare un legame intenso, bensì un protagonista - insieme alla marca stessa - nella definizione del suo significato e della sua immagine. Del resto, secondo la teoria sulla «co-creazione di valore» il consumatore ha ormai cessato di essere il semplice destinatario delle azioni di marketing poste in atto dalle imprese per diventare sempre più protagonista della creazione di valore nelle sue interazioni con la marca. Fra i costrutti avanzati negli ultimi anni in relazione all'emergere di questa nuova concezione, uno dei più affermati è quello del brand engagement. Proporne la traduzione in italiano non è semplice («Già da un punto di vista linguistico-lessicale, infatti, emergono la complessità e l'eterogeneità del concetto di consumer brand engagement, che può avere quattro principali accezioni: 1) «attirare» l'attenzione (to engage somebody's attention); 2) «impegnarsi» in qualcosa (to engage in something); 3) «fidanzarsi» con qualcuno (to be engaged to somebody); 4) «ingaggiare», «assumere» qualcuno (to engage somebody)), «poiché non esiste una parola che riesca a esprimere con efficacia il livello di coinvolgimento e di impegno che si attiva nel consumatore quando sopraggiunge la disponibilità a partecipare alla costruzione sociale del brand, percepito come qualcosa che appartiene al consumatore». Il costrutto è oggetto di numerosissimi studi, in diversi ambiti disciplinari, che ne han. no messo in evidenza varie sfaccettature. Ai nostri fini, può essere sufficiente fare riferimento alla definizione proposta da Kumar e Nayak, per i quali il brand engagement «describes a customer's cognitive, emotional and behavioral investment in specific brand interac. This investment is the manifestation of impd thoughts, feelings, and as such as time, money, energy, etc., in the form of brand-related thoughts, feelings, and actions. La definizione sottolinea la dimensione cognitiva, affettiva e comportamentale del costrutto. A ogni buon conto, l'engagement nei confronti della marca si attiva in quanto il consumatore ne trae un'esperienza gratificante. Fuller, analizzando l'engagement che si esprime attraverso lo strumento delle comunità di marca (specie quelle dedicate all'innovazione di prodotto), propone un elenco delle motivazioni che stimolano il consumatore all'impegno attivo nei confronti del brand: - l’appagamento che reputa di trarre dalla partecipazione in sé (si tratta della cosiddetta motivazione autotelica); - la curiosità, tanto in termini di ricerca di stimoli nuovi quanto dell’approfondimento di specifici temi; - l’auto-efficacia, connessa alla gratificazione avvertita nel rilevare la qualità del proprio contributo; - l'acquisizione di conoscenza, con riferimento al contesto nel quale si inserisce la marca in questione; - l'accesso alle informazioni di cui dispongono altri consumatori; la visibilità, a causa della possibile riconoscibilità del proprio contributo; l'altruismo, quindi la disponibilità a impegnarsi in favore di un'altra entità; - il desiderio di condivisione con altre persone reputate affini; - il corrispettivo monetario, previsto per talune attività di collaborazione con la marca, quali lo sviluppo di nuove idee, o il coinvolgimento in attività di comunicazione virali; - l'insoddisfazione personale, che fornisce lo stimolo a impegnarsi per modificare la realtà circostante. Alcuni autori hanno dimostrato il reciproco rafforzamento fra engagement nei confronti della marca ed engagement verso la community, i quali a loro volta offrono un supporto significativo alla fedeltà alla marca. Il processo è ulteriormente favorito dall'adozione di strumenti di comunicazione che privilegiano la partecipazione, come tipicamente sono i media digitali. Il riferimento al caso, assai noto, di Winner Taco aiuta a meglio chiarire quanto affermato. Si tratta di un gelato che è stato al centro di una campagna organizzata da alcuni appassionati ex consumatori che, attraverso la creazione di una community online, sono riusciti a convincere l'azienda Algida a reintegrare il prodotto nella propria gamma, a distanza di vari anni dalla decisione di interromperne la produzione (dovuta alla volontà di concentrarsi sui più classici gelati con lo stecco). Nel 2011 due fan del gelato hanno aperto una pagina Facebook intitolata «Ridateci il Winner Taco», con l'obiettivo di dar vita a una comunità in grado di attirare l'attenzione del management aziendale. I due riescono nell'intento e attivano una campagna di comunicazione contro Algida, attraverso la pubblicazione di post sia nelle pagine della community sia all'interno della pagina Facebook dell'impresa, commentando ogni post aziendale con contenuti richiamanti il Winner Taco. Dopo alcuni anni di attività organizzata, il management di Unilever ha deciso di reintrodurre il prodotto, coinvolgendo la community nel suo rilancio. In sintesi, quindi, il brand engagement condivide con altri concetti del marketing il focus sulla relazione fra marca e consumatore nelle sue componenti cognitive, affettive e comportamentali. Ciò che più distingue il costrutto è l'accento sul ruolo attivo del consumatore, visto quale partner dell'azienda non solo nella costruzione dei contenuti di marca, ma anche nello sviluppo della sua reputazione positiva attraverso il passa-parola.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved