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Sintesi di Manuale del film, Sintesi del corso di Storia Del Cinema

Riassunto sintetico del manuale

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

Caricato il 06/06/2023

emmaformichella
emmaformichella 🇮🇹

4.6

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Scarica Sintesi di Manuale del film e più Sintesi del corso in PDF di Storia Del Cinema solo su Docsity! Sintesi linguaggi del cinema [Capitolo 1: Sceneggiatura e racconto] • Sceneggiatura: la sceneggiatura è una descrizione più o meno precisa, coerente, sistematica, di una serie di eventi, personaggi e dialoghi connessi in qualche modo fra loro. Possiamo considerare la sceneggiatura come un processo di elaborazione del racconto cinematografico, che si articola in queste fasi: 1. Soggetto= prima manifestazione concreta di un'idea. E' un piccolo racconto, uno spunto narrativo. Un soggetto originale deve essere articolato e ampliato, mentre un soggetto letterario deve essere sottoposto a un lavoro di contenimento. 2. Trattamento= gli spunti narrativi del soggetto vengono sviluppati e approfonditi. E' composto da qualche decina di pagine, l'intrigo è già articolato, la struttura drammatica ha una sua progressione, i dialoghi sono in parte già abbozzati, ma solitamente in uno stile ancora indiretto. 3. Scaletta= il trattamento viene suddiviso in scene che vengono numerate. 4. Sceneggiatura= sono messe in ordine tutte le scene del film, descritti con cura ambienti, personaggi ed eventi, indicati con precisione i dialoghi. 5. Découpage tecnico= le scene vengono divise in singole immagini numerate. 6. Story board= insieme di disegni che prefigurano quelle che saranno le inquadrature del film. Consente di arrivare alla fase di ripresa vera e propria su pellicola avendo già verificati molti dei fattori che determinano il risultato finale. 7. Sceneggiatura desunta dalla copia definitiva del film= la sceneggiatura segue la lavorazione del film. Il suo autore è un critico o uno studioso di cinema che a partire d un film già realizzato ne descrive accuratamente le diverse inquadrature e scene, ne riporta i dialoghi, ne indica le soluzioni tecniche. Negli anni '20 Pudovkin si esprime a favore di quella che chiama “sceneggiatura di ferro”, dove la sceneggiatura è la definitiva precisazione di ogni particolare, con la descrizione di tutti i mezzi tecnici necessari alla ripresa. Il cinema americano classico ha assegnato una notevole importanza alla sceneggiatura, tanto che il compito del regista consisteva nel rispettare le indicazioni che venivano fornite nel découpage tecnico. Al contrato la Nouvelle Vague ha notevolmente modificato il ruolo della sceneggiatura, facendone uno strumento da rimettere continuamente in discussione. Hitchcock considera un film ben sceneggiato come un film già fatto. Uno dei film che più hanno segnato gli anni '70, Nel corso del tempo (Wim Wenders, 1975) è stato scritto giorno per giorno, durante la lavorazione stessa del film. Possiamo distinguere tra una sceneggiatura legata al cinema classico, più chiusa in se stessa, più strutturata, e una sceneggiatura legata invece al cinema moderno, più aperta e manipolabile, disponibile a modificarsi e talvolta a nascere nel corso della realizzazione stessa del film. Robert Bresson occupa una posizione intermedia rispetto a queste due tendenze, poiché scrive le sue sceneggiature molto minuziosamente, e poi cambia tutto all'ultimo momento delle riprese. La sceneggiatura ha alcune caratteristiche essenziali: ha un carattere fluttuante e instabile, è ultimata solo quando quel film per cui era stata pensata e di cui doveva costituire lo scheletro è giunto alla fine della sua lavorazione, si dà in funzione di un film che è essenzialmente fatto di immagini. Scrivere una sceneggiatura non implica solo porsi problemi di resa espressiva in rapporto alle immagini e ai suoni che verranno, ma anche assumersi delle responsabilità in merito alle concrete possibilità di realizzazione di quel determinato film. La sceneggiatura ha infatti una sua funzionalità pratica, permette al produttore di farsi un'idea abbastanza precisa sull'opportunità o meno di finanziare il film e al direttore di produzione di predisporre il piano di lavorazione. • Racconto: per racconto si può intendere sia storia che discorso. Per storia si intende il contenuto o concatenarsi di eventi più quelli che vengono chiamati esistenti, mentre per discorso si intende l'espressione, i mezzi tramite i quali viene comunicato il contenuto. Il racconto, inteso come storia, è una catena di eventi legati fra loro da una relazione di causa ed effetto che accade nel tempo e nello spazio. Causalità, tempo e spazio sono gli elementi centrali di ogni racconto. In questo contesto possiamo parlare anche di narratività, ovvero un insieme di codici, procedure e operazioni, indipendenti dal medium nel quale esse si possono realizzare, ma la cui presenza in un testo ci permette di riconoscere questo ultimo come un racconto. Va dunque individuata quell'operazione minimale di narratività che permette di riconoscere un racconto come tale. Secondo André Gardis questa struttura è: equilibrio-squilibrio-riequilibrio. Tanti altri studiosi hanno dedicato i loro studi alla narratività. Propp, studiando le fiabe russe, notò come queste, pur raccontando delle storie diverse, si costruissero a partire da un ristretto numero di funzioni, ovvero di azioni-tipo necessarie allo sviluppo del racconto. Greimas invece elabora quello che chiama “modello attanziale”, secondo il quale: un destinatore assegna a un soggetto eroe il compito di conquistare un certo oggetto di cui un destinatario potrà beneficiare. Nel corso di una sua azione, il soggetto incontrerà elementi che gli faciliteranno il compito (adiuvanti), e altri che invece glielo ostacoleranno (opponenti). Ogni attante non deve per forza incarnare un personaggio, così come può assumere diverse figure e un personaggio può giocare il ruolo di più attanti. Di ogni raconto si possono individuare più modelli attanziali a seconda dei diversi punti di vista sulla base dei quali esso è strutturabile. Barthes riflette sugli elementi che costituiscono un racconto e parallelamente sul loro valore funzionale. In un racconto non c'è niente di insignificante, tutto serve a qualcosa. Barthes distingue due grandi categorie d'elementi: le funzioni che rinviano a un fare e hanno il compito di far avanzare la storia, egli indizi, che, al contrario, rinviano a uno stato e servono ad arricchire il racconto. Barthes suddivide le funzioni e gli indizi in altre due categorie: funzioni cardinali (dette anche nuclei, sono quei momenti della narrazione che fanno procedere il racconto) e catalisi (quelle azioni che si agglomerano intorno a un nucleo o a un altro senza modificarne la natura alternativa) da una parte, e indizi propriamente detti (implicano un'attività di decifrazione) e gli informanti (apportano una conoscenza già fatta) dall'altra. Un aspetto chiave della narratività è la causalità. Il racconto, almeno nella sua forma classica, impone una struttura causale. La diegesi va intesa come un costrutto che nasce da una forma di cooperazione fra un racconto e il suo destinatario. Definiremo come diegetico (o intradiegetico) tutto ciò che fa parte del mondo della diegesi, e come extradiegetico tutto ciò che invece vi esula, pur entrando a far parte di un film. • Istanza narrante: il narratore è l'istanza astratta che ci dà delle informazioni. Essendo una rappresentazione diversa da quella prettamente verbale, Gaudreault parla di mostrazione. Oltre a mostrare però quest'istanza ci fa anche sentire. Il fatto che il film ci mostri e ci faccia sentire in un modo che non è diretto bensì mediato non significa ancora di per sé che si possa parlare al suo riguardo di narrazione. Perchè ciò accada è necessario che il cinema dimostri di possedere la facoltà di manipolare il tempo e lo spazio (es: Viaggio attraverso l'impossibile, Méliès, 1903: il film costruisce un “prima” e un “altrove” dando vita a un tempo e uno spazio del racconto che non è più direttamente determinato dall'azione dei protagonisti ma che è manipolato da un'istanza a essi superiore/ Giovane e innocente, Hitchock, 1937: il lento movimento della macchina da presa conferisce allo spettatore un sapere maggiore di quello del protagonista). La narrazione cinematografica si evidenzia come tale nel momento in cui anch'essa costruisce il proprio operare sui principi della selezione e delle combinazione. Un'istanza che produce il racconto, la cui presenza è essenziale nel cinema narrativo e il cui lavoro si articola su tre livelli: mostrare, far sentire, narrare. Talvolta quest'istanza narrante si fa più concreta, manifestandosi attraverso la voce. Si tratta del narratore extradiegetico, che non è altro che la manifestazione verbale dell'istanza narrante. In molti casi, poi, succede che sia un vero e proprio personaggio della storia ad assumere il ruolo di narratore. Questo narratore è quello che comunemente si chiama il narratore intradiegetico. • Spazio: lo spazio del racconto cinematografico può essere inteso come spazio della storia e spazio del racconto. Il primo è lo spazio diegetico rappresentato da un film, il secondo è quello spazio che viene a formarsi sullo schermo attraverso il modo in cui il discorso articola lo spazio della storia. Secondo Gaudreault e Jost ci sono quattro tipi di rapporti spaziali che vengono a instaurarsi in un film nel passaggio da un'inquadratura a un'altra: 1. Relazione d'identità= due segmenti dello spazio diegetico sono parzialmente sovrapposti. 2. Relazione di contiguità= è la prima manifestazione dell'alterità e si ha quando due spazi sono adiacenti, congiunti fra loro, legati da un rapporto di comunicazione visiva immediata. 3. Relazione di prossimità= si ha ogni volta che fra due spazi non adiacenti è possibile una comunicazione visiva o sonora non amplificata. 4. Relazione di distanza= è quella che si viene a costruirsi fra due spazi privi di una possibilità di comunicazione visiva o sonora diretta. Lo spazio della storia è definibile anche, e forse più propriamente, come spazio diegetico. Gardies trae alcune conclusioni importanti dall'analisi di questo spazio: la rappresentazione di uno spazio tene sempre a dar vita a uno o più significati, tali significati nascono grazie a un lavoro di cooperazione da parte dello spettatore che deve saperne organizzare i segni che lo articolano, lo spazio rappresentato ha come suo referente primario uno spazio immaginario. Sempre secondo Gardies inoltre, i rapporti fra spazio e personaggio possono costituire delle vere e proprie matrici narrative. Parla di relazioni di giunzione e disgiunzione e articola quattro modelli: 1. Disgiunzione → Congiunzione 2. Congiunzione → Disgiunzione 3. Disgiunzione → Congiunzione → Disgiunzione 4. Congiunzione → Disgiunzione → Congiunzione (es: Sentieri selvaggi, John Ford, 1956: è attraverso i rapporti spaziali tra il dentro e il fuori che l'esordio del film disegna in modi molto precisi le relazioni fra i diversi personaggi e conseguentemente alcuni dei suoi temi chiave). • Tempo: il tempo del film è il presente. Il presente del cinema ci mostra una determinata azione nel corso del suo stesso svolgersi. L'istanza narrante non si colloca in rapporto ad essa come se questa fosse già avvenuta, bensì come se stesse avvenendo in quel preciso momento. In un racconto possiamo distinguere due tempi diversi: tempo della storia (diegetico) e tempo filmico. Per quanto riguarda il tempo diegetico ogni evento può qualificarsi per il posto che occupa nella cronologia della storia, per la sua durata e per il numero di volte in cui eventualmente si ripete. Genette in particolare articola questi tre principi di ordine, durata e frequenza. Dei casi particolari dell'ordine degli eventi sono il flashback (analessi) e il flashforward (prolessi). Le analessi possono essere: esterne, se l'episodio evocato inizia e finisce prima del momento in cui ha preso avvio il racconto; interne, se l'episodio evocato fosse avvenuto dopo l'inizio della storia; miste, se l'evento ha inizio prima dell'inizio del racconto che lo contiene e termina dopo che questo stesso ha inizio. Il racconto cinematografico è articolato da immagini e suoni. Questa sua caratteristica può dar vita a situazioni temporali ambigue sul piano dell'ordine del racconto. I formalisti russi avevano proposto l'utilizzo dei termini fabula, per indicare l'ordine cronologico degli eventi propri della storia, e intreccio, ovvero l'ordine degli eventi così come sono presentati nel racconto. Ogni racconto ha una sua durata di fruizione. La durata di un film è determinata dal numero di metri della pellicola impressionata. Esiste una durata della storia e del racconto, la prima è quella che possiamo desumere vedendo il film come la durata supposta dell'insieme degli eventi su cui si articola la storia, mentre la seconda è la durata del film vera e propria. Tendenzialmente la durata del racconto è inferiore a quella della storia. Genette concerne il piano discorsivo propriamente detto, i modi con cui vengono rappresentati gli elementi profilmici. Sono qui in gioco codici più propriamente cinematografici. La nozione di inquadratura presenta un ultimo problema. La parola piano non ha infatti lo stesso significato quando parliamo di piano fisso, di primo piano o di piano sequenza. Nel primo dei tre casi il criterio di definizione riguarda l'assenza di ogni movimento filmico, nel secondo la distanza tra la macchina da presa e il soggetto ripreso e, nel terzo, un criterio di ordine narrativo e di implicito rifiuto del montaggio. Non solo, ma il passaggio dall'epoca del cinema classico a quello della modernità ha ulteriormente minato la nozione di piano. Se infatti nel cinema classico il film era diviso in scene e sequenze, il cinema moderno ha fondato parte della sua estetica sull'uso del piano sequenza che, pur essendo nei fatti un'unica inquadratura, può dare vita, attraverso i movimenti di macchina e degli attori, a una serie di immagini, a diversi quadri profondamente differenti fra loro. Dobbiamo, in sostanza, tenere in mente almeno una grande distinzione: da una parte quelle inquadrature che danno vita a un solo quadro, dall'altra quelle inquadratura che si articolano in diversi quadri nel corso della loro durata. • Formato: il formato di un'inquadratura è definito sulla base del rapporto fra la sua altezza e la sua larghezza. La larghezza dell'immagine proiettata potrà variare, salvo rare eccezioni, fra 1,33 e 2,55. Nel primo caso avremo un'immagine quasi quadrata, nel secondo, invece, una striscia rettangolare. Questo formato è comunemente definito come aspect-ratio. Sin dai primi film dei fratelli Lumière a buona parte degli anni '50 e '60, il formato considerato standard (academic ratio) era l'1:1,33. Fu solo negli anni '50 che l'academic ratio venne messo in discussione. Il primo sistema a imporsi davvero fu il Cinemascope della 20th Century Fox, che si affidava all'uso di lenti anamorfiche, in grado di comprimerle le immagini in fase di ripresa e riespanderle in quella di proiezione. Il Cinemascope, e altri sistemi che lo affiancarono, usava un aspect-ratio che variava fra l'1:2,35 3 l'1:2,55 (a seconda che la pista sonora fosse o no presente sulla pellicola). Il primo film girato in Cinemascope fu La Tunica (Kostener, 1953). L'inevitabile inclusione di un maggior numero di informazioni all'interno del piano, propria ai formati larghi, spinse il cinema hollywoodiano del periodo a estendere la durata delle inquadrature. Il formato 1:2,35 ha continuato ad avere una particolare fortuna sino ai giorni nostri, soprattutto nel cinema di grande spettacolo. Fra le principali conseguenze della sua diffusione, ci fu la fine del vecchio 1:1,33, che fu sostituito, come nuovo formato standard, dall'1:1,85, oggi il tipo più in uso. • Scenografia: lo spazio ambientale di un'inquadratura, così come quello di un intero film, almeno prima dell'avvento del digitale che introduce nuove possibilità, può essere naturale, fondato cioè sull'utilizzo di uno spazio già esistente, parzialmente modificato o interamente ricostruito. La scenografia è così la modificazione o la creazione di un ambiente in funzione della ripresa cinematografica e della realizzazione di un film. Ogni inquadratura di un film rappresenta un aspetto particolare della scenografia nella sua complessità, di quella che si potrebbe chiamare la scenografia-madre. Di questa, ogni inquadratura dà un'immagine diversa attraverso soluzioni che possono riguardare i differenti codici del linguaggio cinematografico. Inoltre la possibilità di ricorrere a piani fortemente ravvicinati permette al cinema di evidenziare determinati arredi scenografici. Attraverso il montaggio poi, la scenografia-madre viene frazionata in una successione di piani che le conferiscono una dimensione temporale e la percorrono secondo un ordine stabilito dal regista e che lo spettatore è costretto a seguire. L'ambiente è spesso legato alle figure, per lo più umane, che vi entrano a far parte. Il valore, il senso di un'inquadratura può trovare nelle relazioni tra ambiente e figura un significativo elemento di definizione. Un procedimento assai frequente già in letteratura è quello della cornice (ambiente) in sintonia o in contrasto con i sentimenti o con i pensieri dei personaggi. C'è spesso anche una ragione economica associata alla scelta dell'uso di scenografie, così come una volontà di significazione e di controllo assoluto della messa in scena. Bisogna distinguere fra luoghi che pur ricostruiti vogliono apparire reali e quelli che invece denunciano apertamente la loro dimensione artificiale. Martin propone un'efficace tripartizione dei modi in cui si può concepire un ambiente: realista, impressionista, espressionista/artificiale (es: Quarto potere, Welles, 1941). Il cinema contemporaneo ha aggiunto ambienti virtuali. Anche gli ambienti digitali possono interagire con ambienti ripresi dal vero, non è che un effetto di sintesi (es: Il favoloso mondo di Amélie, Jeunet, 2001). Bisogna quindi distinguere tra ambienti digitali puri e ambienti digitali parziali, così come anche tra ambienti che si simulano un mondo possibile o fantastico, e tra ambienti illusori o espliciti. A contatto con un computer, il lavoro dello scenografo si trasforma radicalmente, egli non deve più fare i conti con la materialità del set ma con dei concetti fino a poco tempo fa a lui sconosciuti. Il cinema digitale fa sempre più frequentemente ricorso alla tecnica del chroma-key, che consente di far interagire personaggi dal vero con ambienti invece realizzati al computer. • Scenografo: lo scenografo realizza ambienti, cura la progettazione grafica e l'allestimento delle scene che appaiono in un film. La funzione del production designer, attualmente, consiste nel coordinamento dei differenti elementi che concorrono alla realizzazione del film: messa in scena, illuminazione, inquadrature, scenografie, trucchi, ecc. Di fondamentale importanza risultano comunque i bozzetti delle scenografie: di carattere più o meno tecnico, sono esecutivi funzionali al lavoro delle maestranza e diventano talvolta un'anticipazione vera e propria dell'immagine del film, quasi fossero un segmento di un ideale story board. Dopo eventuali modifiche, lo scenografo fa eseguire dagli assistenti i piani definitivi delle scene. Il primo lavoro consiste nel riunire nel teatro di posa gli elementi scelti e costruiti nei laboratori; poi, se la scenografia richiede i “praticabili” (piattaforme sopraelevate), si comincia a prepararli e montarli, facendo attenzione a isolarli, in modo da evitare scricchiolii o effetti di risonanza dei passi, che disturberebbero la ripresa del suono in presa diretta. Con Méliès le scene assunsero toni sempre più reali. Fu Méliès stesso, per dare uniformità alla scenografia, a introdurre l'uso del trompe-l'oeil. L'illusorietà della scenografia fu abbandonata dall'espressionismo. La grafica che caratterizza il set, qui si avvicina ancora parecchio al teatro. Il cinema sovietico invece, cercò di realizzare anche sul piano scenografico una nuova dialettica tra l'azione rivoluzionaria e gli spazi monumentali. Le majors hollywoodiane avevano uno staff fisso di collaboratori addetti a occuparsi di ogni aspetto del film, comprese le scenografie. Spazi rituali, legati ad antiche tradizioni abitative e secolari convenzioni coreografiche teatrali, sono quelli invece realizzati dagli scenografi di Giappone, India, Cina e altri paesi orientali. A partire dal Neorealismo e dalla Nouvelle Vague, si diffuse l'idea che il cinema dovesse farsi in luoghi veri, scenografie naturali che permettessero maggiore identificazione con la storia, rifiutando l'artificio della costruzione scenografica. Lo scenografo divenne così un “esploratore” che, attraverso sopralluoghi, doveva scovare i luoghi della realtà per far vivere quella storia. Esiste una grande tradizione di abilità artigianale tra gli scenografi del cinema italiano. Fu interessante la fioritura negli anni '30 e '40, del cosiddetto “calligrafismo”, con il suo gusto per la “bella forma” e la ricostruzione storica. Anche nel cinema francese sono rintracciabili una scuola e degli esiti molto importati in rapporto alle opere dell'avanguardie e a quelle del realismo poetico. Dall'inizio degli anni '90, grazie al sostanziale apporto della grafica computerizzata è nata una nuova tecnica chiamata Matte painting, utilizzata prevalentemente nell'ambito televisivo e cinematografico, che ha modificato ulteriormente il mondo della scenografia. Infatti sempre più spesso si ricorre alla ricostruzione digitale delle scene, dei paesaggi e delle ambientazioni. • Luce: una prima distinzione da indicare è quella tra luce intradiegetica, la quale comprende tutte quelle fonti di luce che fanno parte della messa in scena, e luce extradiegetica, quel tipo di illuminazione prodotta da riflettori e superfici riflettenti che esistono solo nella realtà produttiva del film. Il rapporto tra luce intradiegetica e luce extradiegetica si dà sostanzialmente all'interno di una logica di verosimiglianza che potrà essere ricercata o, al contrario, rifiutata. Come scrivono Bordwell e Thompson le caratteristiche fondamentali della luce sono quattro: qualità, direzione, sorgente e colore. Un'opposizione classica a cui sempre si ricorre è quella fra illuminazione contrastata e illuminazione diffusa, la prima crea netti contrati e può essere realizzata anche attraverso la luce dinamica, ovvero quel tipo di illuminazione creata da delle fonti di luce in movimento, la seconda invece dà vita a una rappresentazione più omogenea dello spazio. La direzione pone invece il problema del rapporto spaziale, del percorso che la luce compie fra la sua fonte e il suo oggetto. Si possono distinguere così diverse traiettorie: luce frontale, che tende a eliminare le ombre e appiattisce l'immagine; luce teatrale, che, al contrario, tende a scolpire i tratti del volto e accentuare il gioco di ombre e luci; il controluce, che stacca la figura dallo sfondo e ne evidenzia i contorni; la luce dal basso, che distorce i tratti del volto creando forti effetti drammatici; la lue dall'alto, che tende a suggerire la presenza di una fonte di luce diegetica posta al di sopra del personaggio. Le sorgenti della luce sono almeno due: key light (luce principale) e fill light (luce di riempimento). La key light è la fonte di luce primaria, che determina l'illuminazione dominante e struttura le ombre principali, mentre la fill light serve invece a “riempire” l'immagine. Il cinema americano classico privilegia un sistema a tre luci principali per ogni inquadratura: key light, fill light e back light (controluce). La key light è posta frontalmente, la fill light lateralmente e la back light alle spalle del personaggio e leggermente più in alto. In questo modo il personaggio è messo in evidenza dalla key light, scolpito dalla fill light e staccato dallo sfondo dalla back light (es: La morte corre sul fiume, Laughton, 1955: ripropone da vicino alcuni modelli scenografici e luministici propri del cinema espressionista, in un'atmosfera pervasa da elementi fiabeschi. La direzione delle luci è tale da creare diversi spazi privilegiati). Per quanto riguarda il colore, la luce può creare effetti di colore attraverso l'uso di filtri posti davanti ai riflettori che possono così modificare la tinta complessiva di un determinato ambiente per fini sia realistici, sia al contrario, immaginari. Gli imperativi su cui si costruisce la fotografia classica sono tre: simbolizzazione, gerarchizzazione, leggibilità. • Colore: è solo negli anni '50 e '60 che il colore si afferma in modo decisivo sul bianco e nero. L'avvento del colore non determinò dei significativi cambiamenti a livello del discorso filmico, come invece era accaduto per il sonoro. Del resto di colore si può parlare, in un certo senso, anche per il cinema in bianco e nero, che già sfruttava per fini espressivi il gioco dei bianchi, dei neri e delle tonalità di grigio. Più che come un effetto di realismo, il colore si caratterizzò inizialmente per la sua natura decorativa e spettacolare (es: Via col vento, Fleming, 1939: uso significativo della luce e del colore). Sarà il perfezionamento delle sue qualità tecniche a determinare, negli anni '60, l'affermarsi del colore anche nell'ambito del cinema d'autore. E' certo che il colore gioca, insieme alla luce e in stretta connessione con essa, un ruolo di primo piano nella composizione dell'immagine, nella sua articolazione significante. E' noto come i colori chiari attirino lo sguardo più di quelli scuri, come i toni caldi ci attraggono maggiormente di quanto non facciano quelli freddi (es: cappotto rosso in Schindler's List, Spielberg, 1993). I rapporti dominanti fra primo piano e sfondo possono essere assecondati dal colore ma anche rovesciati. Il cinema contemporaneo è sempre più interessato non ad attribuire i contrasti bensì a esaltare tonalità sempre più accese di colore, punta a una resa iperrealistica del mondo che vuole descrivere, gioca con la dimensione dell'immaginario. Il cinema contemporaneo, nella sua tendenza postmoderna, ha rilanciato un uso del colore dai toni pop, che esalta i contrasti e gioca con tonalità accese, puntando talvolta su un uso marcato delle sue possibilità espressive o evidenziando, in altri, casi una funzione puramente estetica. • Lente dell'obiettivo: componente fondamentale della macchina da presa è la lente dell'obiettivo. Le lenti si differenziano soprattutto per la loro lunghezza focale, ovvero la distanza tra il centro ottico della lente e il piano della pellicola. La lente considerata normale è quella fra i 35mm e i 50mm, poiché il campo di vista ripreso è simile a quello dell'occhio umano. A queste lenti standard si oppongono i grandangoli e teleobiettivi. I primi hanno una lunghezza focale ridotta, in genere dai 35mm in giù, che consente di rappresentare ampie porzioni di spazio. I teleobiettivi, invece, sono lenti della lunghezza focale maggiore, da 75mm in su, fino ai 250mm. Essi consentono di vedere come fosse vicino a qualcosa che invece è lontano dalla macchina da presa, accentuano la piattezza e bidimensionalità del piano. L'uso del teleobiettivo è nato soprattutto nell'ambito del cinema documentario. Nel cinema contemporaneo, già a partire dagli anni '70, e in particolare poi nel cosiddetto cinema postmoderno, i cineasti hanno dimostrato una maggiore duttilità nell'uso degli obiettivi, favorendo un uso barocco dell'immagine che privilegia punti di vista eccezionali. • La pellicola: il formato standard della pellicola è rimasto sostanzialmente sempre lo stesso, ovvero 35mm. Fu nel 1909 l'associazione dei maggiori produttori americani (MPPC) a stabilire il 35mm come formato standard del cinema professionale. Nel 1922 la francese Pathé introdusse un formato a 9,5mm: il cosiddetto Pathé Baby. La Kodak rispose nel 1923 con il più costoso, ma anche più affidabile, 16mm. Quando poi, sempre negli anni '20, la Kodak acquistò stabilimenti di produzione di pellicola della Pathé, il 9,5mm fu sostituito dall'8mm. Se l'8mm rimase il formato dominante del cinema amatoriale, il 16mm si diffuse nella realizzazione di documentari, film didattici e scientifici, fino ad arrivare, soprattutto negli anni '60, ad essere usato anche nell'ambito di produzioni di fiction indipendenti e a basso costo. Come per i formati più stretti del 35mm, anche quelli più larghi, in particolare il 70mm, che consentiva una miglior definizione dell'immagine e nitidezza dei dettagli, furono ideati già agli inizi del Novecento. E' solo negli anni '50 e '60, con la diffusione degli schermi panoramici che furono girati film di grande spettacolo in 70mm o 65mm. L'entusiasmo per il nuovo formato si esaurì però rapidamente, anche a causa dei suoi notevoli costi, e i film girati con questo tipo di pellicola furono sempre meno sino a scomparire quasi del tutto. • Direttore della fotografia: il suo compito è quello di garantire coerenza figurativa all'immagine, componendo un'inquadratura in linea con le esigenze narrative e stilistiche dei film, attraverso la disposizione delle fonti naturali e artificiali di luce sul set, il controllo dei movimenti della macchina da presa, le scelte dell'angolo di ripresa, la selezione dei negativi e degli obiettivi, il piano di messa a fuoco, l'apertura del diaframma per l'esposizione voluta, la distanza e la profondità di campo, fino, eventualmente, al processo di sviluppo e stampa. Nello specifico, il direttore della fotografia è il responsabile del reparto fotografia di cui egli stesso fa parte insieme all'operatore di macchina, all'assistente operatore, all'aiuto operatore, al tecnico del video- control, al capo elettricista e al campo macchinista con le loro squadre. La fotografia del film, funzionale all'opera, sarà anche la fotografia di quel determinato direttore, caratterizzata dal suo modo di vedere e raccontare con la luce e con la macchina da presa, per cui il suo stile, pur ogni volta diverso, risulterà in qualche modo riconoscibile. • L'attore: a differenza di quel che accade a teatro, l'attore cinematografico non recita davanti a un pubblico, ma davanti a una cinecamera o videocamera. Il discorso dell'attore cinematografico deve fare i conti con un discorso filmico che non riguarda solo i codici di origini teatrale, ma anche quelli più specificamente cinematografici, come i movimenti di macchina, la scala dei piani e, in particolare, il montaggio. Al cinema il discorso dell'attore arriva al pubblico in modo meno diretti di quel che accade a teatro, mediato con grande evidenza dal discorso del film. In sostanza la recitazione cinematografica è molto più vincolata alle scelte di regia. Il montaggio determina un'evidente frammentazione della recitazione cinematografica non solo per lo spettatore, ma anche per l'attore, costretto spesso a recitare in modo discontinuo. Inoltre, i piani di lavorazione di un film impongono spesso di girare insieme le scene che si svolgono in uno stesso luogo, anche se queste si trovano in momenti sparsi della narrazione. Tutto ciò fa sì che l'attore cinematografico reciti i propri personaggi senza quella continuità che è propria dell'attore teatrale. La questione del rapporto fra l'attore e il personaggio al cinema vede due tendenze principali: da una parte c'è l'idea che l'attore debba possedere una serie di tecniche ben precise, un repertorio in buona parte stabilito cui fare ricorso per rappresentare dall'esterno il proprio personaggio e i suoi stati d'animo; dall'altra c'è il sistema propugnato da Stanislavskij e ripreso poi dall'Actor's Studio. Parlando poi più propriamente di stile del discorso attoriale, possiamo individuare almeno tre grandi diverse modalità: recitazione naturalista, recitazione sovraccarica e recitazione minimalista. Infine, possiamo distingeure fra atre due modalità d'interpretazione: quella dell'attore “replicante”, e quella dell'attore “creativo”. • Scala dei campi e dei piani: il cinema delle origini si caratterizzava per la costruzione di uno spazio filmico assai simile a quello teatrale. Questi film erano formati da un'unica inquadratura con la cinepresa fissa. Siamo di fronte a quello che è possibile definire il grado zero del linguaggio cinematografico, ovvero il semplice darsi di quelle condizioni minime affinchè un film possa esistere, ma nulla di più. Tutti gli storici sono concordi nel dire che il cinema come forma d'espressione autentica e originale nasce quando si incomincia a variare, attraverso il montaggio o i movimenti di macchina, la distanza e l'angolo di ripresa della cinecamera nel corso di una stessa scena. Quando si parla di scala dei piani si intende la diversa possibilità di ogni inquadratura di rappresentare un elemento profilmico da una maggiore o minore distanza. I vari tipi di campi e piani sono: - Campo lunghissimo= abbraccia una porzione di spazio particolarmente estesa. - Campo lungo= anch'esso è un'inquadratura di ampie proporzioni ma i personaggi e l'azione sono più riconoscibili. - Campo medio= ristabilisce l'equilibrio nei rapporti tra ambiente e figura umana dal momento che questa occupa circa un terzo o una metà della verticale dello spazio rappresentato. - Figura intera= la figura umana occupa un'altezza pari a due terzi o più della verticale dell'immagine. dar vita a queste quattro diverse possibilità: 1. profilmico statico/ filmico statico 2. profilmico dinamico/ filmico statico 3. profilmico statico/ filmico dinamico 4. profilmico dinamico/ filmico dinamico A determinare la dinamicità del filmico sono, a un primo livello, i movimenti di macchina. Un'inquadratura dinamica è un'inquadratura che si articola in più quadri mutando, nel corso della sua durata, i rapporti di distanza, altezza e angolazione della macchina da presa, e di conseguenza dello spettatore. I primi movimenti di macchina sono attribuiti ad alcuni operatori Lumière. Solo nei primi anni del 1900, panoramiche e carrellate si diffusero anche nei film di finzione. I più rilevanti movimenti di macchina su scene sostanzialmente statiche furono quelli di Cabiria (Pastrone, 1914). Fu però solo nel decennio successivo che il cinema si appropriò davvero delle diverse funzioni espressive e spettacolari dei movimenti di macchina, soprattutto (ma non esclusivamente) in Europa, come testimoniano classici di Murnau, Gance, L'Herbier. I principali movimenti di macchina sono: - Panoramica= la cinepresa, fissata su un cavalletto, ruota sul proprio asse (panoramica a schiaffo, dal movimento molto brusco e veloce) - Carrellata= la macchina da pesa è sistemata su un carrello che corre su binari o su un veicolo a pneumatici (camera car). Se la macchina da presa si muove parallelamente al personaggio e lo riprende di profilo si parla di carrello laterale, mentre se lo precede e lo inquadra frontalmente si ha il carrello a precedere, e il carrello a seguire è se la macchina segue o arretra e riprende il personaggio di spalle. - Travelling= indica movimenti di macchina più complessi che uniscono alle possibilità dinamiche di panoramiche e carrelli quelle di far scendere e salire la cinepresa (realizzate con gru, dolly, louma). - Steadycam= intelaiatura dotata di ammortizzatori, indossata direttamente dall'operatore. - Macchina a mano o a spalla - Carrellata ottica= (finto movimento di macchina) realizzata attraverso la variazione della lunghezza focale dell'obiettivo (è lo zoom). I movimenti possono essere subordinati se seguono la traiettoria di un personaggio o un oggetto in movimento, mentre sono liberi se prescindono totalmente dai movimenti profilmici. Una modalità di movimento di macchina subordinato è la correzione di campo, o re-inquadratura, ovvero dei piccoli spostamenti di macchina che permettono di mantenere l'equilibrio e la centratura del piano nonostante gli spostamenti profilmici. I movimenti di macchina implicano una dimensione relativa allo spazio e al tempo. Per quel che riguarda la prima, i movimenti di macchina si possono suddividere sulla base della loro estensione. Inoltre, sempre sul piano spaziale, un movimento di macchina potrà avere diverse traiettorie. Sul piano temporale, invece, a contare sono la durata e la velocità del movimento. I movimenti di macchina possono anche essere distinti fra continui e interrotti. Le principali funzioni dei movimenti di macchina sono: descrittiva; connettiva, stabilisce un legame filmico tra due elementi profilmici; cognitiva, rivela allo spettatore qualcosa di rilevante; selettiva, evidenzia qualcosa; estensiva, inserisce un elemento particolare in un contesto che può conferirgli un determinato senso; tensiva, crea nello spettatore una situazione d'attesa; affettiva, concerne il sentimento; estetica; semantica, contribuisce alla definizione del senso della situazione rappresentata (es: La folla, Vidor, 1928). In determinate occasioni i movimenti di macchina possono diventare formidabili strumenti per gettare lo spettatore nell'ambito della realtà rappresentata. [Capitolo 3: Il montaggio] • Il montaggio: talvolta inquadrature, o addirittura intere scene, possono essere eliminate, modificate o collocate in un momento del racconto diverso da quello in cui erano state originariamente previste. Questa fase di importanza capitale nella lavorazione di un film è quella che cade sotto il nome di montaggio. Méliès fu fra i primi a scoprire le possibilità del montaggio, anche se ancora inteso nella forma del montaggio trucco. Nasce un effetto di montaggio in macchina, operato durante la ripresa, il trucco dell'arresto o della sostituzione che diverrà la base di tutto il cinema fantastico di Méliès. Lo stadio successivo avvenne con il passaggio dai film a una sola inquadratura o ripresa, a quelli a più inquadrature o riprese (es: The Kiss in the Tunnel, Smith, 1899: le tre inquadrature sono unite da due stacchi di montaggio). Il montaggio c'è, ma è ancora al suo grado zero, limitato cioè al passaggio da un luogo a un altro. Cosa ancora manca è l'idea, fondante per il montaggio, della frantumazione in più inquadrature di uno stesso spazio, che è quel che possiamo invece vedere in Grandma's Reading Glass (Smith, 1900). Fra il 1909 e il 1916, il cinema hollywoodiano inizia a dar forma ai suoi modelli di narrazione e montaggio. Aumentano sempre di più i tagli fra le scene. I lungometraggi, di circa 75 minuti, divengono la norma verso il 1915, e contengono fra 250 e 450 piani. A partire dal 1917, le inquadrature vengono riprese da diverse angolazioni, il piano d'insieme non è più importante degli altri, i tagli si raccordano sul movimento e i film hanno molte più inquadrature: fra i 500 e i 1000 piani. L'attento esame dell'opera di un regista come Griffith costituisce il caso più evidente e significativo di una tale evoluzione; con lui il montaggio raggiunge la prima tappa della sua maturità. Tecnicamente il montaggio è quell'operazione che consiste nell'unire la fine di un'inquadratura con l'inizio della successiva. Il montaggio è innanzitutto, un mettere in relazione, relazione che può darsi tanto sul piano diegetico, che su quello discorsivo o diegetico-discorsivo. Alcune soluzioni di montaggio sono: lo stacco, ovvero il passaggio diretto e immediato da un piano a quello successivo; la dissolvenza, che può essere in apertura, in chiusura, e incrociata; l'iris, dove un foro circolare su apre o si chiude intorno all'immagine; la tendina, dove la nuova immagine si sostituisce a quella precedente facendola scorrere via dallo schermo. Se figure come queste fanno a tutti gli effetti parte del discorso filmico, i piani d'ambientazione sono invece un tipo di figura che si colloca a livello della storia. Si intende per piano d'ambientazione quel tipo di inquadratura prettamente descrittiva che avvia una scena col compito di introdurre i caratteri ambientali. • Spazio e tempo del montaggio: dal punto di vista spaziale il montaggio ha assunto la funzione di articolare lo spazio diegetico in diverse unità, stabilendo tra queste delle connessioni secondo un certo progetto narrativo. Un discorso analogo lo possiamo fare per l'asse temporale. Il montaggio ha qui il compito di selezionare quei momenti della storia narrata che hanno un'importanza maggiore di altri e di confinare questi ultimi nel vuoto delle ellissi. E' evidente così che il montaggio è uno strumento fondamentale attraverso cui l'istanza narrante costruisce il proprio racconto. Si possono individuare due grandi possibilità di dar vita alla rappresentazione filmica di uno spazio diegetico: a un piano d'insieme dell'ambiente in questione seguono una serie di inquadrature che lo frammentano e che in qualche modo sono comprese nel piano originario, tendendo alla chiarezza espositiva (tipico del cinema classico); lo spazio d'insieme è costruito attraverso una serie di inquadrature parziali che ce ne mostrano sempre e solo una parte e mai la sua globalità. All'interno di una sequenza il montaggio può introdurre delle brevi ellissi, che potremmo definire tecniche, e che il più delle volte non sono neanche percepite dallo spettatore. Sono ellissi che hanno il compito di abolire i tempi morti e di rendere più avvincente la narrazione. Sono esse a determinare la differenza fra una scena e una sequenza vera e propria. Un altro aspetto è quello concernente la durata delle inquadrature. Tendenzialmente, più un piano è ampio, più informazioni esso contiene, e maggiore sarà il suo tempo di lettura. La durata delle singole inquadrature è uno degli elementi che determina il ritmo di una sequenza. Più le inquadrature sono brevi, più il ritmo è sostenuto, più sono lunghe, più il ritmo si distende. Il montaggio è, innanzitutto, lo strumento che consente di determinare il rapporto fra l'ordine degli eventi della storia o fabula e quello dell'intreccio. Il cinema classico ha tendenzialmente accordato le sue preferenze a una struttura lineare e cronologica. L'unica parziale eccezione è quella rappresentata dall'uso dei flashback. I flashback possono essere divisi in due grandi categorie: quelli diegetici, che prendono vita dalle parole o dai pensieri di un personaggio che racconta o ricorda qualcosa avvenuto in passato, e quelli narrativi, propri cioè dell'istanza narrante e non mediati da un personaggio. Più raro del flashback è il flashforward. I flashforward sono quasi sempre narrativi. E' sul piano intersequenziale che il montaggio introduce, nel tessuto narrativo di un film, delle ellissi. Quasi sempre il passaggio da una scena, o sequenza, a un'altra implica un salto temporale. Le ellissi narrative sono esplicite ed evidenti agli occhi dello spettatore. In generale, quando un film tende a omettere elementi importanti di una narrazione, sia a livello intrasequenziale, sia sul piano intersequenziale, si parla di montaggio ellittico. Questo tipo di montaggio invita lo spettatore a una partecipazione attiva. Se il cinema classico, almeno ancora per tutti gli anni '50, ha indicato l'ellissi intersequenziale attraverso una dissolvenza incrociata, quello moderno e quello contemporaneo, avendo a che fare con uno spettatore più maturo e consapevole, hanno per lo più fatto ricorso al semplice stacco. Un caso di montaggio ellittico è quello della sequenza a episodi. Ogni segmento di scena è parte di un insieme più ampio che si svolge in una certa direzione narrativa. Il montaggio alternato alterna inquadrature di due o più eventi che si svolgono in luoghi diversi ma, di solito, simultaneamente e che, a volte, possono convergere in uno stesso spazio. Il montaggio alternato ha certamente trovato in Griffith il regista che lo rese famoso in tutto il mondo. Da un punto di vista strettamente narrativo il montaggio alternato, attraverso l'onnipresenza della macchina da presa, è espressione di un narratore onniscente. Nel caso della descrizione, la successione delle inquadrature non è determinata da un rapporto di consequenzialità. Quella della descrizione nel cinema è una questione di estremo interesse. Potremmo paradossalmente affermare che il cinema descrive poco perchè in realtà descrive sempre. Il linguaggio cinematografico è infatti fondato su un segno di tipo iconico, l'immagine. • Stili di montaggio: il montaggio, a partire da Griffith e Ejzenstejn, è stato a lungo considerato come l'elemento specifico del linguaggio filmico, la sua quintessenza. A partire dagli anni '40 e '50, soprattutto grazie al lavoro del teorico Bazin, tale centralità venne drasticamente messa in discussione. Quando, da un punto di vista stilistico, parliamo di cinema classico ci riferiamo a quello stile distinto e omogeneo che ha dominato la produzione hollywoodiana tra il 1917 e il 1960. Questo cinema mirava a dar vita a quello che possiamo definire uno spettatore inconsapevole, che scivolasse docilmente nel mondo della finzione. Affinchè ciò accadesse, il lavoro di scrittura del film doveva essere il più mascherato possibile. Ed è qui che si pone il dilemma del montaggio. Si trattava di utilizzare il montaggio ma, al tempo stesso, di mascherarlo, di renderlo il più discreto possibile (montaggio invisibile). E' proprio questo tipo di montaggio che ha preso il nome di découpage classico. Quali che siano le varianti di questo découpage, esse hanno i seguenti punti in comune: la verosimiglianza dello spazio, le intenzioni e gli effetti del découpage sono esclusivamente drammatici e psicologici. Bazin individua tre caratteristiche fondamentali del découpage classico: motivazione, chiarezza e drammatizzazione. Nel découpage classico la rappresentazione che il montaggio dà dello spazio e del tempo è fortemente subordinata alle esigenze della narrazione e alla chiarezza della sua esposizione. Un altro dei principi chiave del découpage classico è quello della continuità, il cui fine è dar vita a uno scorrevole flusso di immagini da un'inquadratura a un'altra e facilitare così la proiezione dello spettatore nel mondo della finzione. Già nel corso degli anni '10 si afferma l'idea che il montaggio debba assicurare la continuità narrativa. Ciò voleva dire dare il massimo di scorrevolezza possibile al passaggio da un'inquadratura a un'altra: ciò avveniva grazie ad alcuni accorgimenti, come la costanza e l'omogeneità dell'illuminazione e la centralità dei personaggi e dell'azione in rapporto allo spazio inquadrato, in modo da stabilire una certa continuità grafica fra un piano e l'altro. A questo riguardo un ruolo essenziale è giocato dal raccordo, il cui compito è quello di mantenere degli elementi di continuità fra un piano e l'altro. Fra i principali tipi di raccordo ritroviamo: raccordo di sguardo, sul movimento, sull'asse, sonoro. Un altro aspetto chiave del découpage classico è il sistema a 180°. L'immaginaria linea d'azione che unisce i personaggi determina infatti due spazi: uno al di qua e l'altro al di là di tale linea. Una volta che la macchina da presa ha occupato lo spazio che, convenzionalmente, definiamo come al di qua, essa non potrà più, salvo ricorrendo a determinati accorgimenti, scavalcare questa linea. Ne rimarrà sempre al di qua, dando così vita a uno spazio che non è a 360° bensì a 180°. Se tale regola venisse infranta, si attuerebbe lo scavalcamento di campo. E' proprio l'uso dello spazio a 180° a determinare l'esistenza di altri tre raccordi chiave nel cinema classico: raccordo di posizione, di direzione e di sguardi. Lo spazio filmico non deve creare effetti di disorientamento, perchè tali effetti sono avvertiti come qualcosa che può distrarre lo spettatore dalla storia. Lo scavalcamento di campo può essere accentuato grazie a certi accorgimenti. I due più frequenti sono il posizionamento della macchina da presa sulla linea dell'azione e l'utilizzo degli inserti. In entrambi i casi si dà vita a un piano di transizione. In generale il découpage classico subordina la rappresentazione dello spazio e del tempo alle necessità della narrazione. Altri tre modelli di découpage sono: il montaggio connotativo, il montaggio formale e il montaggio discontinuo. Col primo si intende un montaggio il cui tratto dominante è la costruzione del significato; col secondo, un modello che si impone per la sua natura grafica e/o ritmica; col terzo, infine, un montaggio che nega apertamente i modelli della continuità. Il problema è quello della gradazione. Si tratta cioè di capire, quando è possibile, qual'è, fra le diverse componenti in gioco, quella che assume il ruolo dominante. E' indubbio che il montaggio di Ejzenstejn trovi il suo elemento costitutivo nella costruzione del senso, nella sua volontà connotativa. E' tuttavia doveroso ricordare anche quello che, dal nome del suo ideatore, è stato chiamato “effetto Kulesov”. Esso dimostra chiaramente come l'associazione di due immagini può produrre un senso diverso da quello che ognuna di esse ha preso in sé e per sé. Per Ejzenstejn la rappresentazione filmica della realtà non ha in sé nessun particolare interesse. Il cinema deve interpretare il reale. Alla base dell'intera concezione ejzenstejniana del montaggio c'è il conflitto, la “collisione” tra due inquadrature che si trovano l'una accanto all'altra. Il conflitto può essere di diversi tipi, ad esempio: conflitto delle direzioni grafiche (delle linee), conflitto dei piani, conflitto dei volumi, conflitto delle masse (dei volumi sottoposti a diversa intensità luminosa), conflitto degli spazi. Ed è proprio attraverso questa concezione del rapporto fra piano come conflitto che Ejzenstejn arriva alla formulazione del suo montaggio intellettuale. Il montaggio è così per Ejzenstejn il principio fondamentale del processo di significazione cinematografica. La funzione estetica del montaggio è quella che tende a porre in primo piano degli effetti di tipo formale, attraverso l'accostamento di immagini che instaurano dea loro un rapporto di volumi, superfici, linee, punti, al di là della concreta natura degli elementi rappresentati. E' proprio nel cinema d'avanguardia degli anni '20 del secolo scorso che il montaggio formale ha trovato uno dei suoi momenti di massima intensità. Un regista che certamente ha elaborato un modello di rappresentazione diverso da quello classico è il giapponese Yasujiro Ozu. Ozu rifiuta i modi usuali del campo e controcampo, ponendo la sua macchina da presa non a fianco dell'uno o dell'altro dei due interlocutori, ma, al contrario, proprio sull'immaginaria linea che li unisce. Un evidente modo di dar vita a forme di discontinuità spaziale è quello della violazione del sistema a 180°. Registi come Tati e Ozu violano, co una certa frequenza, tale consuetudine, a prescindere da qualsiasi ragione drammatica. Un secondo e più frequente modo di dar vita a forme di discontinuità è rappresentato da quello che gli americani chiamano jump cut e che in italiano viene spesso definito come falso raccordo o montaggio a salti, il quale può dare forma a due forme di raccordo irregolare. La prima è quella che mette in successione due o più inquadrature di uno stesso personaggio troppo simili l'una all'altra sul piano della distanza e/o dell'angolazione, e che non rispetta così quella convenzione del cinema classico che vuole che due inquadrature consecutive su uno stesso soggetto debbano essere sufficientemente differenziate, in modo da rendere così giustificato il passaggio dall'una all'altra. La seconda, che lavora invece sul tempo, è quella propria a una successione di inquadrature, sempre su uno stesso personaggio, che, divise da brevi intervalli di tempo, ce lo mostrano in posizioni che cambiano di netto, senza transizione, nel passaggio da un'inquadratura a un'altra. Si tratta di due soluzioni di montaggio che, anziché lavorare sull'attenuazione degli stacchi, li esplicitano e li rendono evidenti. Un'altra frequente soluzione alternativa è quella del ricorso a inserti non diegetici, che interrompono la regolare e continua successione di inquadrature. Un'ulteriore possibilità di manipolazione temporale è quella inerente al piano della durata. Sostanzialmente alternativa al cinema classico, è nella sua inverosimiglianza, la pratica dell'estensione. Un altro tipo di estensione è quello della sovrapposizione temporale, o overlapping editing. Possiamo notare inoltre come lo stesso uso di inserti non-diegetici possa determinare, nel suo sospendere l'azione per poi riprenderla là dove era stata lasciata, un effetto di estensione temporale. • Cinema contemporaneo: una delle più evidenti differenze del cinema contemporaneo rispetto a quello del passato è la sua velocità. In uno studio dedicato al cinema americano di questi ultimi anni, Bordwell offre degli interessanti dati statistici sulla durata media delle inquadrature nei diversi periodi della storia del cinema hollywoodiano. Nel periodo che va dal 1930 al 1960, i film comprendevano fra le 300 e le 700 inquadrature. Già negli anni '70 e '80, il numero delle inquadrature sale, di conseguenza, prima a 1500, poi a 2000 e oggi anche a 3000 e più. Tale rapidità di montaggio, in certi film contemporanei, non riguarda solo le scene d'azione, ma anche momenti tradizionalmente più pacati del racconto, • Bazin: André Bazin dà vita a un'altra concezione del montaggio, e per certi aspetti a una sua negazione. L'ipotesi di Bazin si fonda su due postulati di base che è necessario riassumere. Il primo individua come vocazione ontologica del cinema la rappresentazione del reale nel rispetto delle sue caratteristiche essenziali; il temporali di suono e immagine è quello del cosiddetto ponte sonoro, ovvero quelle brevi anticipazioni sonore in cui le parole, le musiche o i rumori della scena immediatamente successiva a quella presente sullo schermo iniziano a sentirsi prima che se ne vedano le immagini. Un'altra importante particolarità dei rapporti fra suono e tempo è quella individuabile riprendendo la distinzione di Chion fra suono acusmatico e suono visualizzato. A partire da essa possiamo individuare due tipi di percorso diversi: da una parte, il suono visualizzato che poi si fa acusmatico e dall'altra il suono acusmatico che diventa visualizzato. Il ritmo è un'altra questione centrale dei rapporti fra suono e tempo. Per Bordwell e Thompson si può parlare di ritmo sonoro a partire dalle sue due componenti chiave: la velocità e la regolarità degli intervalli. Il problema del ritmo al cinema è tuttavia complicato dal fatto che anche i movimenti di ogni singola inquadratura hanno il loro proprio ritmo determinato anch'esso dalla loro velocità e regolarità. Inoltre anche il montaggio ha, come abbiamo già notato, il suo proprio ritmo. • Punto di vista sonoro: al cinema, prima dell'avvento della stereofonia, tutti i suoni provenivano solamente dagli altoparlanti posti dietro lo schermo. Attraverso il volume era ed è possibile distinguere fra suoni vicini e suoni lontani. Il rapporto fra queste due scale può dar vita a una serie di diverse possibilità. Limitiamoci a individuare i due poli estremi: quelli della coincidenza e del contrasto. Il punto d'ascolto ha trovato poi nel suono stereofonico e nel dolby utleriori possibilità di esistenza, dal momento che i suoni possono trovare una precisa locazione spaziale della loro sorgente. Jost propone a questo riguardo l'uso del termine auricolarizzazione, la quale si distingue tra interna ed esterna. L'auricolarizzazione interna è quella che ancora un suono diegetico a un determinato personaggio; essa è primaria quando questo suono assume una dimensione esplicitamente soggettiva (si dà in sostanza a partire da un'alterazione sonora causata da un particolare condizione del personaggio in ascolto), e secondaria quando determinati meccanismi visivi o di montaggio la evidenziano. L'auricolarizzazione esterna invece si dà quando i suoni del film non sono ancorati in modo particolare a un determinato personaggio. • La parola: come accade per la musica, anche la parola al cinema non è nata con l'avvento del sonoro. Essa infatti trovava ai tempi del muto almeno due mezzi di trasmissione: uno, meno diffuso, era quello del narratore, l'altro, era quello delle didascalie. Chion distingue tre diversi tipi di parola presenti nel cinema: parola-teatro, caratterizzata dall'intelligibilità e dal suo essere emanata dai personaggi (è la parola dei dialoghi); parola-testo, ovvero la parola del narratore; parola- enunciazione, è tale nel momento in cui ciò che è detto non è per forza di cose interamente compreso e, soprattutto, essa non è connessa a quello che si potrebbe chiamare, in senso ampio, il centro dell'azione. Un'altra distinzione è quella che riguarda la quantità delle informazioni enunciate. Avremo allora i seguenti tre casi: la parola dice di più di quel che dicono le immagini; la parola dice (grosso modo) quello che dicono le immagini; la parola dice meno di quello che dicono le immagini. Una seconda distinzione, riguarda la qualità dell'informazione. Essa darà vita a due possibilità: immagine e parole dicono la stessa cosa, o immagine e parole dicono due cose diverse. • Musica: più delle altri componenti sonore “la musica per film” è stata oggetto di una lunga serie di analisi. Sin dal 1895, quando il cinema è nati, ci si è incominciato a porre i problema del rapporto tra musica e immagini. Nel corso degli anni '10 vengono pubblicati e diffusi i primi repertori musicali. Gli anni '20, tuttavia, vedono anche il profilarsi si un nuovo rapporto fra cinema e musica, in cui quest'ultima non è più semplice supporto dell'azione e raddoppiamento dei suoi effetti drammatici. Protagonista di questa nuova fase è il cinema delle avanguardie, dove cinema e musica di integrano fra di loro diventano immagini da sentire e suoni da vedere. Si possono individuare due grandi modi attraverso cui la musica al cinema si rapporta alle immagini: quelli della partecipazione e della distanza. Nel primo caso la musica esprime la sua partecipazione all'emozione della scena, assumendone direttamente il ritmo, il tono attraverso codici universalmente riconoscibili. Nel secondo caso, invece, la musica manifesta una sorta di indifferenza nei confronti della situazione rappresentata dalle immagini, sviluppandosi in modo autonomo, in un suo mondo a parte. Anche la musica ha dato vita a certe figure dominanti i modelli di rappresentazione classica. Due fra queste figure sono quelle del leitmotiv e dell'avvio o dell'interruzione improvvisa. Il leitmotiv è un tema melodico ricorrente che caratterizza fatti, momenti o personaggi. L'avvio o interruzione improvvisa invece si dà quando la musica si avvia o cessa di colpo col compito di accentuare drammaticamente un determinato evento. Più ancora che per la parola, vale per la musica la distinzione tra musica extradiegetica e musica intradiegetica. La distinzione fra le due soluzioni assume un non indifferente peso narrativo. • Dolby: è solo l'avvento del dolby e delle possibilità di registrazione e diffusione sonora su più piste ad aver permesso di far sentire, insieme ai dialoghi e alle musiche, dei rumori ben definiti. La funzione del rumore al cinema è essenziale. Nel cinema sonoro la prima e più evidente funzione del rumore è quella di definire e rendere credibile la rappresentazione di un determinato ambiente. Come esistono clichè musicali ricorrenti, esistono anche delle atmosfere sonore che possiamo ritrovare. Tuttavia, sebbene spetti soprattutto alla parola il compito di articolare il doppio racconto proprio del cinema sonoro, anche i rumori possono giocare a riguardo un ruolo di primo piano. Il suono stereo e multi canalizzato trovò la sua effettiva esplosione nel corso degli anni '70. Il film che maggiormente contribuì al successo del sistema multicanale Dolby Stereo, dal nome dell'azienda che lo ideò e mise a punto, fu Guerre Stellari (1977). Da quegli anni a oggi, tale sistema è stato ulteriormente perfezionato. Di fatto l'evoluzione del suono multicanale e digitale ha favorito quella dimensione attrattiva che è il tratto più caratterizzante del cosiddetto cinema postmoderno. In esso il suono ha fortemente accresciuto il proprio ruolo. Jullier parla di “film concerto”, soprattutto per il prevalere della dimensione sonora su quella visiva. L'importanza del suono nel cinema contemporaneo è attestata anche dall'emergere del sound designer, una sorta di progettista del suono, che programma uno stile ben preciso e fortemente individualizzato. • Reparto suono: il reparto suono della troupe cinematografica si compone di più figure professionali. Il fonico di presa diretta, presente sul set con indosso le cuffie per ascoltare ciò che registra, è il responsabile delle riprese sonore. Il microfonista è il responsabile della collocazione dei microfoni sul set. Le tracce registrate vengono mixate dal tecnico del suono o fonico di presa diretta. Anche il doppiatore collabora con il fonico di presa diretta operando sul dialogo. Il rumorista invece deve procurarsi i suoni di cui si necessita sul set. Il fonico di missaggio deve ibridare ovvero miscelare i suoni presi sul set, quelli che vengono ritenuti adatti alla confezione finale del film. Il sound designer infine progetta, controlla e dirige tutto l'impianto sonoro del film. [Capitolo 5: L'analisi del film] • L'analisi: è solo nella seconda metà degli anni '60 che l'analisi di film si afferma conquistandosi un posto a sé nell'ambito dei diversi e possibili discorsi sul cinema. Le prime analisi del film della seconda metà degli anni '60, oltre a tener conto dei risultati raggiunti nell'ambito della teoria del cinema, erano profondamente influenzate dai modelli dello strutturalismo ma, in un rapido volgere di tempo, si sono aperte anche ad altri campi e discipline, teorie e metodologie. Da una parte l'analisi del film sembra così disperdersi in aree molto diverse fra loro, fatto che di per sé già indica come non esista un metodo universale di analisi del film. L'analisi pone come oggetto primario del proprio lavoro il testo filmico (inteso come un insieme di film, un singolo film, o una parte di film che presentano tratti di omogeneità) da cui parte per, eventualmente, allargare il proprio discorso. Il primo segno distintivo dell'analisi è la sua aderenza al testo filmico. Essere aderenti al testo filmico implica che l'analisi sia particolarmente attenta al funzionamento significante del film, nella consapevolezza che solo in questo modo si potrà articolare un discorso davvero fondato. Nel cinema non c'è contenuto indipendente dalla forma nella quale viene espresso. Lo studio del contenuto di un film suppone necessariamente lo studio della forma nella quale viene enunciato. L'analisi sa che di un film non si può dire tutto e per questo è necessaria una prospettiva attraverso cui guardare ad esso. Va isolato il campo d'azione, va cercata una prospettiva e, attraverso essa, va interrogato il film mantenendo un costante rapporto d'aderenza ad esso. E' chiaro che tutto ciò può accadere solo a partire da un'ipotesi preventiva. A partire da essa potrò gettare uno sguardo nuovo sul film, vederlo in modo più consapevole. L'analisi in sostanza metterà alla prova l'ipotesi esplorativa. Chiunque analizzi un film si trova a correre due rischi estremi e di segno contrario: da una parte il desiderio di aderenza al testo può fare dell'analisi una parafrasi del film stesso; dall'altra la volontà di dire qualcosa di nuovo e sorprendente, espone al rischio di deformare i fatti. • Strumenti di analisi: l'analista deve accertarsi che nella copia che ha a disposizione non siano apportati dei tagli o non siano presenti delle manipolazioni che possono completamente cambiare i risultati dell'analisi. Bisognerebbe quindi avere la possibilità di confrontare più copie. Aumont e Marie individuano vari gruppi di strumenti utili all'analisi. Un primo gruppo di strumenti sono quelli descrittivi (sceneggiatura desunta, segmentazione, descrizione della singola inquadratura e dei quadri in cui essa può articolarsi, tavole, grafici, schemi), abbiamo poi anche gli strumenti citazionali (estratto del film, una sua sequenza, scena o inquadratura, fotogrammi. Il fotogramma è in realtà un oggetto paradossale. Da un lato è una citazione letterale del film, dall'altro rappresenta la negazione di quelli che sono due dei suoi momenti essenziali: il movimento e la durata), infine vi sono gli strumenti documentari (dati fattuali esterni al film, anteriori o posteriori alla distribuzione del film). Analizzare un film implica sempre il ricorso a tre diverse operazioni: la scomposizione, l'analisi delle parti, la ricomposizione. A partire da un'ipotesi preventiva, si scompone il film nelle diverse parti individuate. In ognuna delle parti si rinvengono certi procedimenti dominanti. Una volta stabilite le costanti di ogni unità si estende l'analisi all'insieme delle unità. Una volta terminata l'analisi delle parti il testo viene ricomposto. • Post-analisi: nel corso degli anni '90 e del primo decennio del nuovo secolo, l'analisi del film ha consolidato il suo ruolo all'interno dei diversi possibili discorsi sul cinema e, soprattutto, ha invaso gli spazi tradizionalmente attribuiti alla critica e alla teoria. La ricerca del senso, o dei sensi, e l'utilizzo dei saperi a favore del testo e della sua ricchezza significante convergono nell'analisi ermeneutica che ha puntato apertamente a sviluppare una pluralità di interpretazioni, a fare emergere una ricchezza di sensi multipli, senza privilegiare una lettura particolare. In quella che qualcuno è arrivato a chiamare la “post-analisi”, un ruolo di primo piano è stato, di fatto, assunto dalla consapevolezza che l'analisi debba porre il testo nell'orizzonte cinematografico e nel sistema culturale e comunicativo di cui è parte. Si tratta dunque di un'analisi che si sforza di collocare l'oggetto della propria attenzione in un contesto più ampio. L'analisi del film si è così più storicizzata, e sopratutto ha tenuto conto di certi sviluppi del mondo audiovisivo contemporaneo e postmoderno, di cui anche la sua definizione di “post-analisi”, in cui è sempre più difficile pensare al film come a un testo autonomo e autosufficiente. • Il regista: il regista è l'autore del film, il responsabile artistico di ogni sua fase di lavorazione, dotato di conoscenza tecnica del proprio lavoro e di quello svolto dai suoi collaboratori. Ad aiutarlo in queste numerose mansioni vi sono alcuni assistenti specializzati. Nel cinema delle origini il regista coincideva con l'operatore. Quando, negli anni intervenne una ricerca artistica nell'allestimento scenico e nella recitazione, fecero la loro prima comparsa i titoli di testa in cui apparvero i nomi degli autori, sopratutto se scrittori e drammaturghi rinomati, dalle cui opere il film era tratto, e degli attori e attrici più famosi. I primi registi a essere ingaggiati furono direttori di scena teatrali, ma fu sopratutto dalle file degli attori, spesso teatrali, che provenne la prima vera generazione di registi (Chaplin, Griffith, De Mille). La responsabilità delle riprese e di tutto ciò che accadeva nel corso di esse doveva essere assunta da una nuova figura, quella appunto del regista. In questi anni il regista poteva contare su squadre autonome con cui lavorare in modo indipendente, divenendo di fatto un director-producer, tanto che il cinema hollywoodiano inserì sistematicamente il nome del regista nei titoli di testa del film e gli dedicò il cartello unico directed by, usanza che si sarebbe diffusa un po' ovunque tra la fine degli anni '10 e l'inizio degli anni '20. Gli anni '20 segnarono l'evidente spaccatura fra le innovazioni e le sperimentazioni rappresentate dai registi e una certa convenzionalità fotografica, ormai acquisita dagli operatori. Proprio la crescita dell'industria cinematografica e il sistema organizzato di produzione, distribuzione ed esercizio portarono però a una limitazione della libertà creativa del regista, soprattutto negli USA, dove si ha la nascita dello studio system. Con l'affermarsi del sonoro, tra la fine degli anni '20 e l'inizio dei '30, e l'imporsi definitivo, a Hollywood, dello studio system, furono soltanto il talento, e soprattutto il successo dei film a rendere possibile al regista la conquista di un ruolo più autonomo e di maggiore potere rispetto ai produttori. Tra gli anni '30 e '40 si assestò il sistema della catena di montaggio. Se in un paese come l'Italia, negli anni del fascismo, i registi subirono imposizioni ideologiche e censure, tra il secondo dopoguerra e la fine degli anni '60 in Europa vi fu però una progressiva ripresa della creatività e del ruolo di autore del regista. Con il Neorealismo italiano si andava realizzando quella vocazione autoriale e soggettiva del cineasta idealmente ricollegabile alla condizione di libertà in cui era nata la regie e che l'aveva caratterizzata sin dalle origini. Si delineavano così i capisaldi di una concezione moderna della regia: l'indagine del presente, l'immediatezza dell'ispirazione non necessariamente mediata da una sceneggiatura; il rifiuto di ambienti artificiali, del divismo, della finzione e della drammaturgia tradizionale; la dialettica tra finzione e documentario; la ricerca di un punto di vista soggettivo. Tutte caratteristiche che sarebbero tornate, rafforzate, nella Nouvelle vague e nel cinema moderno in generale. Dal secondo dopoguerra in Europa avvennero le maggiori trasformazioni nell'ambito della regia e del ruolo del regista. Alla fine degli anni '50, grazie alla spinta innovativa e critica della Nouvelle vague, si attestò una più forte nozione di regia, in senso autoriale. Si compiva così l'assunto della caméra-stylo, che portò anche, come conseguenza teorica e critica, l'invenzione della politique des auteurs. Nei decenni dagli anni '60 agli anni '90 i cambiamenti nel mondo della regia sono stati legati a una trasformazione generale dei media e della loro funzione. Al regista di cinema in quanto autore viene riconosciuto un maggiore prestigio quanto più egli è riuscito ad acquisire potere grazie al successo di pubblico. Il regista-autore cinematografico nell'ottica di un'internazionalizzazione delle sue opere, deve avere la capacità di reperire il budget per i suoi film attraverso la partecipazione di più paesi. Una vera indipendenza artistica è passata spesso per la fondazione di una società propria e la produzione autonoma dei film, attraverso la ricerca di finanziamenti e strategie di comunicazione efficaci con il grande pubblico.
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