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Sintesi introduzione di Marco Santagata del Canzoniere di Petrarca, Sintesi del corso di Letteratura Italiana

Riassunto introduzione scritta da Marco Santagata, sul Canzoniere di Petrarca

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 10/03/2021

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Scarica Sintesi introduzione di Marco Santagata del Canzoniere di Petrarca e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! 1 Introduzione di Marco Santagata Francesco Petrarca – Canzoniere 1. Negli ultimi mesi del 1336 o nei primi del 1337, nella sua città natale muore Cino da Pistoia. Petrarca, che a quanto risulta non lo aveva conosciuto di persona e nemmeno aveva con lui intrattenuto rapporti epistolari, lo commemora prontamente nel sonetto “piangete, donne et con voi pianga Amore”. Quando raccoglierà il sonetto nel Canzoniere, lo collocherà subito dopo quello con il quale forse, consola il fratello Gherardo della morte di una “bella donna” da lui amata. Un poeta celebre e una donna sconosciuta sono i due soli personaggi di cui la prima parte del libro, la cosiddetta parte “in vita di Laura”, pianga la scomparsa. È stato un modo per fare posto dentro al libro amoroso alla figura del fratello. Il recupero del sonetto in morte di Cino sembra rispondere a una necessità del Petrarca, che, evidentemente, non voleva escludere da un libro di rime il nome del più famoso poeta lirico attivo negli anni della sua formazione. L’inserimento di un testo così incongruo è dunque di per sé un omaggio di grande rilevanza. Il personaggio di Cino è qualificato dal titolo di “messere”; il Cino poeta, dagli aggettivi “amoroso” e “dolce”. Messere (mes sire, mio signore) nel Duecento era un titolo onorifico attribuito ai giuristi, ai giudici e ai notai e poi esteso a persone di riguardo. Nel Trecento invece quel titolo è ormai un normale equivalente del nostro “signore”. Sull’uso petrarchesco di quel titolo sembra stesa una patina arcaicizzante. Il legista Cino è un poeta amoroso e dolce. Sono i tratti con i quali nel De vulgari eloquentia Dante lo ha consegnato alla storia. Petrarca parla di Cino negli stessi termini nei quali ne parlava l’Alighieri. Non risulta in modo positivo che Petrarca abbia conosciuto il trattato dantesco: è dunque probabile che egli ripeta uno stereotipo. 2. Agli occhi dei rimatori attivi verso la fine degli anni Trenta, Cino da Pistoia poteva in effetti apparire un sopravvissuto. Egli assommava su di sé i tratti tipici di un mondo che, di certo stava rapidamente declinando. Cino era uomo di università e di comune ed era poeta lirico. Già nei primi decenni del Trecento l’istituzione comunale versava in una crisi profonda. Le corti, nucleo politico e sociale dei nuovi Stati Signorili, erano ben presto diventate i poli culturali vincenti. Con loro comincia ad affermarsi anche un diverso tipo di intellettuale. L’universitario, il neo-umanista e il letterato in volgare si chiudono ciascuno nel loro specifico settore. Il processo è lento. Cino, il grande giurista che muore nel ‘36 -‘37, come poeta era simbolicamente defunto nei primi anni del secolo. 3. È stato proprio Dante, l’”amicus eius”, a rendere inattuale Cino e con lui l’intera tradizione lirica duecentesca. Dante è insieme lo specchio e il motore della grande trasformazione che il sistema letterario conosce nella prima metà del Trecento. Non è azzardato affermare che i caratteri di base della letteratura volgare del Trecento siano forgiati dall’incontro fra la rivoluzione dantesca e il clima culturale della società neo-cortese o meglio proto-cortigiana. La rivoluzione dantesca può essere riassunta in alcuni punti essenziali: emancipazione della prosa volgare, divenuta con lui strumento adatto sia alla narrazione, sia alla trattatistica; potenziamento della narratività, in prosa e in verso; rottura, con la Commedia, della distinzione medievale degli stili e conseguentemente mescidazione linguistica. Dall’insieme 2 della sua opera, sono molto valorizzati i testi lunghi di impianto narrativo e altrettanto nettamente è ridimensionato il genere lirico, poi tralasciato a favore della trattatistica e della narrazione in verso. La dequalificazione di quel genere elitario risponde, oggettivamente, i gusti neofeudali degli ambienti di corte, portati, per tradizione al romanzo e all’avventura cavalleresca. In questa nuova temperie anche il filone didattico duecentesco ha modo di rinvigorirsi. Dante è stato un eversore, non un legislatore. La rottura delle regole non è compensata da alcun principio alternativo. È comprensibile, in effetti, che in un periodo storico nel quale molti poeti non toscani si accostavano per la prima volta al toscano letterario e, dall’altro lato, molti poeti toscani emigravano fuori dalla loro regione, il plurilinguismo e il pluristilismo danteschi non incontrassero ostacoli. Tutto ciò si traduceva in ibridismo linguistico e stilistico. Nel complesso la letteratura in volgare appare sempre più disponibile, sempre più al rimorchio dei gusti del pubblico e sempre meno il canale attraverso il quale le élite ne formano e orientano l’ideologia. 4. Se escludiamo il quinquennio vissuto a Bologna fra il 1320 e il 1326 per seguire i corsi universitari di diritto, Petrarca si forma lontano dall’Italia. È un toscano che non conosce la sua terra. Da essa seguiterà a tenersi lontano per tutto il ventennio che ancora gli resterà da vivere dopo il rientro nella penisola. Il primo viaggio che vi compie successivamente agli anni di Bologna, come meta ha Roma, la vera patria di questo umanista, che per lei sogna un riscatto politico e culturale che la restituisca al ruolo di caput mundi. È un sogno talmente radicato nelle sue più profonde convinzioni che, per esso, Petrarca si spinge sino ad appoggiare apertamente la rivoluzione di Cola di Rienzo, esponendosi in modo rischioso nei confronti dei protettori, i potenti Colonna. Mentre a Roma si recherà più volte, a Firenze fa solo due rapide soste. Durante queste rapide visite conosce di persona quello che, da allora, sarebbe diventato il più fedele e più importante dei suoi amici, Giovanni Boccaccio. Petrarca ama firmarsi “florentinus” ma è un fiorentino che quasi non ha messo piede nella sua città. Petrarca si forma ad Avignone, una metropoli internazionale divenuta nel giro di pochi anni il più importante crocevia politico e culturale dell’epoca. A contatto con gli ambienti della corte papale, il giovane Petrarca aveva potuto conoscere intellettuali, leggere libri che altrove non circolavano, costruirsi una formidabile cultura classica e attrezzarsi nella nuova scienza filologica. Si gettavano in quegli anni, fra Roma e Avignone, le basi di quel movimento, nato dalla ricerca dei testi classici dimenticati e teso al recupero della loro voce genuina, che sarebbe sfociato nella civiltà dell’umanesimo. Il giovane Petrarca modella la sua figura di intellettuale dentro a questo movimento. L’apprendimento non poteva essere che da autodidatta. D’altra parte, i nuovi intellettuali non solo si tenevano lontani dall’università, ma ad essa si contrapponevano. In modo particolarmente rigoroso Petrarca, che per assecondare la sua vocazione aveva addirittura interrotto un ciclo di studi ormai prossimo alla laurea. Egli comunque potrà celebrare l’esito vittorioso di quella sua scelta nel 1340-‘41, quando otterrà la laurea e il titolo magistrale. Ma saranno una laurea poetica e un titolo di storico. I titoli gli saranno conferiti non dall’università, ma del senato romano; grazie alla protezione della famiglia Colonna. Con Petrarca muore il letterato alla Cino, cioè il laico che vive sfruttando il suo sapere tecnico e coltiva la letteratura come attività collaterale, dilettantesca, e nasce il letterato professionista. I committenti e i benefici ecclesiastici sono la prima tappa sulla via dell’emancipazione del letterato e della creazione 5 carmen ancora a Virgilio. La lirica volgare non aveva nella sua tradizione modelli tanto illustri e nemmeno libri canonici o canonizzabili. Tuttavia, in un passato non lontanissimo prima della rivoluzione dantesca, aveva dato vita a una serie di scuole di cui la stilnovista è quella più significativa, caratterizzate da un ordine e da una disciplina, sia nelle forme, sia nella definizione del rapporto con il pubblico, perduti dalla rimeria trecentesca. La riforma di Petrarca consiste proprio nell’introdurre dentro al mondo senza regole della poesia contemporanea la disciplina, l’ordine, la pulizia formale, lo stesso aristocraticismo propri delle più compatte scuole duecentesche. Senza tradire lo spirito della modernità: coniugando il rigore stilnovista con la ricchezza, la vivacità, la plasmabilità che Dante aveva per sempre conferito alla lingua poetica Toscana. Nessuno prima di lui aveva posseduto una biblioteca, reale (quella classica) e mnemonica (quella in volgare) che allineasse tanti titoli. Se dal volgare passiamo al latino, il computo delle relazioni intertestuali appare altrettanto imponente. Petrarca guarda alla tradizione nella sua interezza, rompendo ogni argine di genere, compreso quello primario tra poesia e prosa. Il Petrarca lirico chiede la complicità culturale dei suoi lettori chiamandoli a riconoscere l’inserto tradizionale o la vera e propria citazione, solo raramente, quasi sempre in presenza di trasposizioni dal latino al volgare, mentre come regola non adotta alcuna strategia allusiva. Petrarca è attratto dai problemi dell’imitatio. È questo un punto cruciale per chi voglia innovare guardando al passato. La sua teoria dell’imitazione ha come caposaldo il principio che ci si può avvalere dell’ingegno e del colorito altrui, non delle altrui parole; poiché quell’imitazione rimane nascosta, questa appare, quella è propria dei poeti, questa delle scimmie. L’elemento nuovo che differenzia Petrarca da tutti i lirici in volgare precedenti e coevi è il fatto che egli tratti il volgare alla stessa stregua del latino. Petrarca riteneva di avere le prove filologiche che gli antichi avevano coltivato una poesia ritmica (perciò volgare) accanto a una poesia quantitativa. La giustificazione culturale al suo scrivere poesie in volgare era dunque nella tradizione. Il doppio binario vale solo per la poesia. Petrarca non ho testimonianze che gli parlino di un’antica prosa in volgare e di conseguenza egli riserva il volgare unicamente ai testi poetici. 12. Petrarca richiama all’ordine. Come già per gli stilnovisti il richiamo all’ordine vale su entrambi i piani: da una parte è richiamo alla pulizia formale, dall’altra alla centralità del discorso amoroso. In primo luogo, egli fa suo il postulato che per alcuni secoli aveva guidato la linea portante della poesia amorosa romanza, quello dell’inappagabilità del desiderio. Dai trovatori di Provenza in poi il rapporto amoroso si era espresso in letteratura come rapporto diseguale, squilibrato: l’amante chiede e la dama rifiuta. Il sentimento amoroso è allora un “tendere a”, una ricerca che si sa in partenza destinata a restare insoddisfatta. Siccome le rinunce pretendono un risarcimento, l’amante poeta di Provenza e quanti l’hanno seguito sulla via dell’amore impossibile si sono risarciti attribuendo all’amore in sé una funzione benefica. Questa poteva consistere in un effetto nobilitante, la cosiddetta fin’amors, o in più accentuate forme di sublimazione, di ordine morale e spirituale. Nella Vita nova Dante all’amore conferisce una portata di carattere salvifico e religioso. La conseguenza diretta di una simile concezione è di rappresentare l’amore come un ente in sé, una forza esterna che agisce sul soggetto come con una sua ratio autonoma e con sue proprie energie. Una rappresentazione oggettiva dunque. Anche Petrarca percorre questa strada. Anche per lui il rapporto non può essere alla pari e l’amore non può essere che 6 frustrato. L’amore non è una ipostasi del desiderio, ma è desiderio stesso, passione in atto; non è un’entità personificabile, ma un fascio di tensioni e di pulsioni. La donna, l’altro, in apparenza lo suscita ma in realtà esiste solo in quanto investita dall’amore-desiderio. Petrarca opera, dunque, un vero e proprio rovesciamento della tradizione. Il soggetto che desidera viene con lui ad occupare quello spazio che era riservato alle rappresentazioni della donna, ai rituali del corteggiamento, all’analisi oggettivante di amore. Il palcoscenico sul quale si sceneggiava il rapporto triadico amore, amata e amante si trasforma nello spazio dell’”io”. 13. Agli occhi del poeta Petrarca l’”io” non è tanto un campo di tensioni psicologiche, quanto lo spazio della coscienza, spazio misurabile attraverso le categorie dell’etica e della morale. La negazione del desiderio scatta in lui da una controspinta ideologica: la consapevolezza, vissuta anche come contraddizione dolorosa, della sua negatività etica. La corposità o fisicità del soggetto apre la strada verso l’introspezione e, d’altro canto, i percorsi dell’analisi interiore conducono là dove mai era giunta la lirica romanza precedente, vale a dire, a fare di quell’istanza locutoria cioè priva di autonomo spessore che era l’”io” un personaggio vero e proprio. Bisogna insistere sulle valenze cristiane del suo umanesimo, sul fatto che egli abbia introdotto nel discorso amoroso la dimensione etica, abbia trasformato una tradizione sostanzialmente laica nella palestra di una continua esercitazione moralistica, abbia sostituito ai giudizi di valore commisurati ai codici sociali la problematica del valore morale commisurato alle nozioni di grazia e di peccato. Nella laica poesia del Duecento la rinuncia o lo scacco del desiderio si risolvevano in perfezionamento morale, insegnamento etico, a volte in impulso religioso; nella moralistica poesia di Petrarca l’esito ultimo, al contrario, è la mondanissima valorizzazione del canto come valore in sé. L’esito non è pacifico, né pacificante, se solo si pensa che quel desiderio che del canto è la molla è bollato da Petrarca come peccato. 14. Il canzoniere segnala con la sua fisicità la fine di un vecchio assetto della poesia lirica. Il canzoniere romanzo è anche esso un frutto del suo secolo. Nel suo organizzarsi il racconto si rispecchia il bisogno di narratività che percorre la letteratura del Trecento. È pure il libro che sancisce la fine della stagione duecentesca della lirica come genere “alto”. 15. La storia delle raccolte petrarchesche è nettamente divisa in due dal 1348, dallo spartiacque rappresentato dall’anno della grande peste e della morte di Laura. Soltanto dopo quella data possiamo parlare di canzoniere-romanzo; per quanto è successo prima dovremmo limitarci a parlare di raccolte, di sillogi. I primi documenti sicuri (alcune postille del ms. Vaticano latino 3196, il cosiddetto “codice degli abbozzi”) risalgono al periodo 1336-’37. È quasi certo, tuttavia, che Petrarca non considerava questa silloge una raccolta vera e propria ma solo una copia di lavoro, un’aggregazione provvisoria dalla quale poi estrarre i testi da collocare in ordine. Per trovare i primi documenti relativi a un lavoro di trascrizione in bella copia dobbiamo scendere sino al 1342. Sono ancora alcune postille del “codice degli abbozzi” a testimoniare il lavoro in corso. La presenza di componimenti ricchi di riferimenti mitologici e influenzati, come il presunto sonetto inaugurale Apollo, s’anchor vive il bel desio (RVF 34) dalla tematica dafnea suggerisce l’ipotesi che questo mito fosse tra i motivi centrali: e del resto non stupirebbe che un largo spazio fosse riservato al tema dafneo in una raccolta che cade proprio a ridosso dell’incoronazione poetica. Dopo il 1342 per un lungo 7 lasso di tempo le postille tacciono, per riprendere con esplicite allusioni a una trascrizione “in ordine” a partire dalla fine del 1349 e proseguire numerose e senza apprezzabili smagliature cronologiche sino al 1357. Nel ‘57 era iniziata da poco la trascrizione, su un codice di pergamena, di una raccolta di rime destinata all’illustre amico Azzo da Correggio. Da questi dati si può arguire che, dopo la morte di Laura, Petrarca concepì un canzoniere a cui attese per diversi anni, almeno fino a quando il lavoro non prese forma, tra il ‘56 e ‘58, nella raccolta per Azzo, nota con il nome di “Correggio” o di “Pre-Chigi”. Questa è per l’appunto la prima redazione dei Rerum vulgarium fragmenta: da qui parte la storia redazionale del Canzoniere. Il Correggio è la prima redazione del libro di cui si è attestata una pubblicazione voluta dall’autore. La prima forma documentata nella sua integrità ad esserci pervenuta è quella contenuta nel ms. Chigiano L.V. 176, copiato da Giovanni Boccaccio. Il Canzoniere, preceduto dal titolo Francisci Petrarce de Florentia Rome nuper laureati fragmentorum liber, molto vicino a quello definitivo, è qui diviso in due parti. Con ogni probabilità, questa forma fu allestita fra il 1359 e il ‘63. Dalla fine del 1366 fino alla morte di Petrarca, la storia dell’evoluzione del canzoniere coincide di fatto con l’inizio e la crescita, per successive stratificazioni, della trascrizione sul Vat. Lat. 3195. Un’ulteriore edizione della raccolta viene sicuramente messa in circolazione nel gennaio del 1373 quando Petrarca ne invia una copia a Pandolfo Malatesta, accompagnandola con una importante epistola nella quale, fra l’altro, scrive di avere a disposizione tra le sue carte numerose poesie volgari non ancora inserite nel Canzoniere. La trascrizione del codice Vaticano giunge a compimento nell’ultimo anno di vita di Petrarca, nel 1374. Il libro aveva già raggiunto un assetto che poteva ritenersi definitivo quando Petrarca intervenne nuovamente, cambiando la numerazione degli ultimi 31 componimenti: è con questo intervento che finalmente il Canzoniere raggiunge l’equilibrio che soddisfa il suo autore. 16. Il Canzoniere è dunque concepito dopo la morte di Laura, stroncata dalla peste il 6 aprile del 1348. È questa una data importante nella vita di Petrarca: in quell’anno la peste fece un tale vuoto tra le file degli amici e dei protettori. Oltre alla donna amata, in quell’anno morì di peste anche l’antico padrone, il cardinale Giovanni Colonna. Quei due decessi segnavano la fine di un’epoca della sua vita. Il primo Canzoniere, quello allestito fra il 1349 -‘50 e il ‘58 è caratterizzato, ancor più dei successivi, da un’ottica postuma. La scena è ovviamente dominata da Laura, viva e morta, ma intorno a lei gravita una miriade di personaggi che all’epoca dell’ideazione del libro erano defunti, nella maggior parte dei casi, defunti proprio nel terribile biennio del ‘48-‘49. Intorno alla storia d’amore vive un mondo di affetti e di legami troncati dalla morte e vivi nella memoria. Il Canzoniere nasce anche come atto d’omaggio a quel mondo scomparso. 17. La storia letteraria recente forniva almeno un esempio con il quale Petrarca doveva necessariamente misurarsi: quello di Dante e dei suoi libri per Beatrice. Dante ha costituito uno stimolo importante, per indurre Petrarca a costruire un suo libro di rime intorno alla figura di Laura. Il suo rapporto con Dante è stato assiduo e produttivo ma non è stato un rapporto sereno. Di Dante, Petrarca parla molto raramente come se cercasse di sfuggire a un confronto che per i contemporanei era invece è inevitabile. Dante è stato uno dei maestri, per non dire il maestro del Petrarca volgare. Un maestro negato, certo, ma che come l’analisi sui testi dimostra senza ombra di dubbio, ha inciso come nessun altro sulla formazione della 10 stessa compare una sola volta al verso 7, distanziata dal soggetto che ha provato l’amore e dislocata a carico degli ascoltatori che possono averlo provato anch’essi. Con ciò il sonetto ottiene un duplice obiettivo: concentra il discorso sull’io dello scrivente, presentato come il vero e unico protagonista della storia, e impedisce il fatto che il passato da cui ora lo scrivente prende le distanze sia caratterizzato in senso esclusivamente erotico. Della sua propria passione il poeta parla in termini di “errore” e di “vaneggiamento”. L’errore, nel quale il significato di sbaglio, peccato, si associa a quello di sviamento, andirivieni senza meta, è ideologicamente omogeneo al “vario stile”. Infatti, il testo ha cura di mettere in relazione la varietà stilistica con l’instabilità psicologica del soggetto, diviso fra speranze e dolore, a significare che “vario stile” non è una definizione retorica che denunci il venir meno della distinzione degli stili, ma espressione tecnica della filosofia morale che evidenzia un difetto etico. La varietà è l’esatto opposto di quell’uniformità che sola si addice al saggio. Le rime sono sparse per gli stessi motivi a causa dei quali è “vario” l’animo dello scrivente: la dispersione materiale dei testi rivela la frammentazione e la dispersione interiori di un innamorato schiavo di altri, alienato a se stesso. È indubbio che nel vaneggiar, nella follia amorosa, è implicito un forte senso di peccato. Lo ribadisce la necessità del “pentimento” affermata nell’ultima terzina. È questo secondo discorso a ispirarsi ad Agostino. Nel sonetto n. 3 racconta come l’amore per Laura sia nato il giorno della morte di Cristo: con l’immagine del poeta che invece di piangere la passione del Creatore, si lascia sedurre dalla bellezza della donna, è il peccato agostiniano che viene a marcare la nascita della storia amorosa. Il canzoniere-libro era lì a testimoniare con l’ordine da esso imposto alle rime un tempo disperse, la riconquistata unità interiore dell’amante poeta, a testimoniare che l’uomo nuovo era subentrato all’antico, proprio come il sonetto proemiale aveva anticipato. Con l’assumere i “frammenti” nati dall’errore passato, con il conferire loro, attraverso il libro unitario, senso morale e dignità letteraria Francesco aveva attuato il proposito che il suo alter ego aveva espresso alla fine del Secretum. La condanna morale del sentimento amoroso introduceva nel libro una contraddizione insanabile. Petrarca avrebbe potuto evitarla soltanto se il Canzoniere fosse stato una vera scrittura autobiografica. Come condannare il sentimento amoroso e nello stesso tempo assolvere l’oggetto di questo sentimento? Se la soluzione stilnovisteggiante della donna-angelo o della donna-beatrice era preclusa dall’etica agostiniana, inevitabilmente la donna amata avrebbe dovuto indossare i panni della nemica. Ma ciò urtava da un lato contro l’immagine femminile trasmessa dalla lirica romanza, dall’altro, contro il dato specifico che il libro avrebbe dovuto tratteggiare una Laura oggettivamente negativa conservando i testi nei quali, invece, essa si presenta come agente benefico. Tutto ciò impedisce a Petrarca di chiudere il libro. Le attese di pentimento suscitate dal proemio non vengono esaudite. Il finale della redazione Correggio (RVF 292) dimostra sì “che quanto piace al mondo è breve sogno”, ma non sostiene il fatto che il sentimento amoroso sia un vaneggiamento di cui vergognarsi e pentirsi. La morte di Laura è vissuta come perdita irreparabile, non come l’evento che apre un’altra e diversa storia spirituale. A scompaginare la tesi di partenza è stata proprio Laura. A mano a mano che il racconto procede, il suo personaggio conosce una profonda metamorfosi. Da donna crudele e nemica che si sottrae al desiderio dell’amante, essa si fa, proprio in grazia del suo sottrarsi, strumento di perfezionamento morale. Ne consegue che l’amore può essere presentato come un sentimento che porta ad amare il bene e Dio stesso (RVF 72,1-3). E così, con la graduale 11 promozione a personaggio benefico di quella donna a cui libro avrebbe dovuto riservare il ruolo di antagonista, il canzoniere dell’io, del riscatto del narratore, si trasforma gradualmente nel canzoniere di Laura. La mancata chiusura sul binomio pentimento- redenzione non solo mette in crisi l’impostazione del libro, il cui cerchio non si chiude, ma tronca il rapporto che lo collega al Secretum e alla complessa finzione della mutatio animi. 22. L’inconciliabilità delle due ispirazioni ideologiche si traduce in un impasse che perdurerà per molti anni. Occorreranno molti anni perché Petrarca faccia chiarezza sulle ragioni che gli hanno impedito di chiudere il cerchio. Solo verso la fine della vita, quando, nel 1374 conduce a termine la trascrizione autografa del ms. Vat. lat. 3195, contenente l’ultima redazione del libro, sembra avere raggiunto il suo obiettivo. Questa redazione avrebbe dovuto essere quella definitiva. Si presenta in effetti come un testo equilibrato e finalmente concluso, in grado cioè di rispondere alle attese suscitate dal proemio. Il libro può chiudersi, nella canzone alla Vergine, sulla nota penitenziale e sul ripudio di Laura e dell’amore. Il senso complessivo del Canzoniere scaturisce più dalla struttura del libro in quanto tale che dalla storia che esso racconta. Petrarca ha abbandonato l’impianto didattico alla Secretum e ha scelto di organizzare il libro sulla coesistenza delle due concezioni della saggezza. Dai 170 componimenti della Correggio si passa ai 366 della redazione vaticana. È un incremento numerico che da solo spiega le difficoltà a reggere un ordinamento narrativo. Analogamente contraddittori sono i due protagonisti caratterizzati da atteggiamenti e da sentimenti alternanti e spesso inconciliabili. Siccome il compito del saggio è di mettere ordine, allora per un innamorato che sia anche poeta mettere ordine significa, in concreto, raccogliere le rime dare loro una forma. Il messaggio etico del Canzoniere, nella prospettiva storicizzante, è dunque racchiuso nel semplice fatto che libro esiste. Per mettere in evidenza i valori penitenziali e catartici del libro Petrarca ricorre a una coerente simbologia numerica. Questa simbologia, gli consente di valorizzare la struttura del libro e di rendere funzionale al suo complessivo significato la divisione in due parti, il fatto che la prima parte conti 263 componimenti e che il loro numero totale sia di 366. La chiave di volta dell’intera costruzione poggia sulla coincidenza fra la cronologia della morte di Laura, avvenuta il 6 aprile del 1348 allora prima e quella del primo incontro. Tale coincidenza è molto probabilmente fittizia. Da essa scaturisce una prima suggestione simbolica: i testi del canzoniere sono 366 perché in quel numero il 6 compare due volte così come per due volte aveva giocato un ruolo fatale nella storia amorosa. Inoltre, la somma dei fattori di 366 è 15 la cui somma dà 6 che è lo stesso numero delle lettere che compongono il nome latino dell’amata (laurea). Egli dice nel già citato sonetto 3, di aver incontrato Laura la prima volta nel giorno della passione di Cristo: dal resto del libro risulta che egli intendeva riferirsi al venerdì Santo. Ma il 6 aprile del 1327 non era Venerdì Santo: anche questa, dunque, è una delle tante manipolazioni dei dati a cui Petrarca si abbandona. In ogni caso l’informazione va presa per buona. Se prendiamo il calendario liturgico e assumiamo come punto di avvio la corrispondenza sonetto 1= 6 aprile e proseguiamo associando a ciascun testo del canzoniere un giorno del calendario, quando arriviamo alla canzone 264, primo componimento della seconda parte, siamo in corrispondenza del 25 dicembre, Natale. Ecco allora che il 6 aprile 1327 è contemporaneamente il giorno della morte di Cristo e quello della nascita dell’amore per Laura, mentre il giorno della nascita di Cristo viene a coincidere con il testo dal quale cominciano le rime in morte di Laura ma dal quale anche comincia il 12 processo di redenzione dell’amante. L’attesa di una possibile salvezza comincia nel giorno in cui il Salvatore si fece uomo. Siccome Petrarca contava gli anni secondo l’indizione romana pontificia il giorno di Natale era per lui il primo dell’anno. La seconda parte del libro non è allora un generico secondo tempo, ma proprio un secondo anno: l’anno nuovo della renovatio. Che termina con assoluta esattezza il giorno stesso in cui era cominciato il vecchio anno della perdizione. Ne consegue che l’ultimo testo, la canzone alla Vergine, nella successione i calendariale viene a cadere il 6 aprile, che è dunque il giorno cruciale dell’intera vicenda. Il 6 aprile del 1348 era l’ultima domenica di Quaresima, nota come Dominica in passione. Il peccato originale di questo amore, il dissidio fra creatura e creatore, viene così purificato e ricomposto nelle stesse circostanze che l’avevano generato. 23. La canzone alla Vergine resta sola, sganciata dal resto, a rispondere al sonetto proemiale. Del gruppetto di testi che la precede, rispetto al discorso morale con il quale il libro dovrebbe concludersi, alcuni non prendono posizione, altri, addirittura, essendo testi di lode, lo contraddicono apertamente. Insomma, la palinodia della canzone è più affermata che realmente messa in atto. È proprio sulla zona finale che Petrarca interviene in extremis rivedendo la numerazione degli ultimi 31 componimenti. Con il nuovo ordinamento gli attuali sonetti 363-365 sono trasferiti subito prima della canzone. Il loro spostamento ha l’effetto di fare finalmente riecheggiare al capo opposto del libro il “pentérsi” del giovanile errore, che il sonetto proemiale aveva indicato come metà già raggiunta dall’ innamorato rinsavito. Il sonetto 365 è il testo della completa conversione, quello che ristabilisce la giusta scala dei valori: in questa preghiera si coglie la stessa consapevolezza del “laico” sonetto proemiale, “vana” è stata la vicenda terrena dell’innamoramento così come aveva riconosciuto fin dalla prima pagina. Ma in più, nella preghiera risuona una nota moralistica che è quella di Agostino. Il pentimento di aver amato una cosa mortale è qui finalmente operante. Così arrangiati, gli ultimi componimenti chiudono effettivamente il cerchio. L’attesa del lettore è ripagata. Poco prima di morire Petrarca ritrovato la spiritualità e le parole del Secretum e con esse è riaffiorato il progetto originario del Canzoniere. 24. Il genere letterario “canzoniere lirico”, che comincia ad affermarsi nella seconda metà del Quattrocento, riprende solo pochi macroscopici caratteri dell’archetipo. Immensa fortuna, invece, avrà la poesia di Petrarca. Non subito però: i poeti a lui contemporanei o di poco posteriori non la prendono a modello. Poco tempo dopo, nel biennio 1338-39, nella tranquillità di Valchiusa, Petrarca concepisce e comincia scrivere, in successione, il De viris illustribus e l’Africa. Alla fine del secolo e in particolare proprio in quella Firenze che della letteratura in volgare era stata la culla, i grandi intellettuali avranno girato le spalle al volgare e alle forme letterarie legate alle corti o alle esperienze borghesi e cittadine. Maestro riconosciuto delle umane lettere è per l’appunto Petrarca: che su questo versante a differenza di quello volgare esercitò un magistero immediato e duraturo. La letteratura in volgare ritornerà in forze nella seconda metà del Quattrocento; è come se nella nostra storia ci siano stati due momenti di fondazione: quella primaria delle cosiddette origini e una seconda rinascita dopo l’eclisse provocata dal predominio umanistico. Sarà un movimento spontaneo, legato a una serie di fattori riconducibili tutti la ruolo che nel nuovo sistema di Stati regionali lentamente formatosi assumono le corti. E in effetti, a ritornare in forze saranno soprattutto i generi tradizionalmente legati al mondo cortigiano: la lirica, il romanzo
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