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Sintesi "Metodologie di analisi del film" di Paolo Bertetto cap. I-II-IV-V, Sintesi del corso di Storia E Critica Del Cinema

Sintesi dei capitoli I-II-IV-V libro "Metodologie di analisi del film" a cura di Paolo Bertetto. Corso di analisi dei film e del linguaggio audiovisivo università Ca' Foscari Venezia

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

In vendita dal 01/01/2019

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Scarica Sintesi "Metodologie di analisi del film" di Paolo Bertetto cap. I-II-IV-V e più Sintesi del corso in PDF di Storia E Critica Del Cinema solo su Docsity! METODOLOGIE DI ANALISI DEL FILM CAPITOLO I: L’ANALISI TESTUALE DEL FILM, UNO SGUARDO STORICO Generalmente, viene indicata come data in cui nasce propriamente l’analisi testuale del film l’anno 1966 per due motivi: 1. Christian Metz pubblica sulla rivista “Communication” il saggio Le cinéma: langue ou langage, oggi ricordato come il manifesto della semiologia. Due anni dopo Metz pubblica un altro saggio molto famoso, La grande syntagmatique du film narratif. In quest’ultima opera l’autore elabora un modello descrittivo dei diversi tipi di sequenze normalmente reperibili nei film narrativi. 2. Raymond Bellour pubblica 4 lavori (Le monde et la distance, Sur Fritz Lang, Sur l’espace cinématographique, Ce qui savait Hitchcock) che confluiranno in un volume dedicato unicamente all’analisi dei film: L’analyse du film. Il primo bilancio inerente l’analisi dei film risale al 1977 con la pubblicazione di Dix années d’analyses textuelles de films di Roger Odin: l’opera raccoglie 10 anni di pubblicazioni scritte tra il 1966 e il 1976 e riconducibili alla pratica dell’analisi testuale. Odin è il primo che cerca di definire l’analisi testuale: secondo lui, non esiste un’analisi filmica e uno studio dedicato interamente ai codici del linguaggio cinematografico. L’oggetto dell’analisi filmica deve essere il film stesso. l’obiettivo dell’analisi filmica è prestare attenzione ai processi messi in opera dal testo filmico al fine di produrre un significato, ponendo allo stesso tempo attenzione nei confronti del metodo adottato. Il secondo bilancio è un saggio introduttivo che apre il volume di Bellour, intitolato D’une histoire, ed è una cronistoria della disciplina nonché un bilancio personale dello studioso. Bellour si interroga anche sulle origini più lontane dell’analisi filmica, definendola “fase preistorica”. L’autore richiama l’esperienza della critica cinematografica che raggiunge il suo picco di elaborazione teorica negli articoli di André Bazin: è proprio in lui che Bellour rintraccia la consapevolezza del legame tra la forma e il senso del film. Egli sostiene che la forma e il contenuto di un film non vanno mai visti separatamente e la stessa tecnica cinematografica deve essere studiata in funzione dell’azione rappresentata. Come Bellour, presto anche altri avvertono l’esigenza di risalire alle origini dell’analisi. Due fra i più importanti autori di analisi filmica, J. Aumont e M. Marie individuano come primo esempio di analisi testuale uno scritto del 1934 di Ejzenstejn dedicato al film La corazzata Potemkin. Ejzenstejn ne analizza in dettaglio 14 inquadrature, concentrandosi sugli elementi formali (come il montaggio). Aumont e Marie individuano un’altra tappa fondamentale nella storia dell’analisi filmica nell’IDHEC (Institut des Hautes Études Cinématographiques) e nell’animazione culturale, che dalla fine della seconda guerra mondiale agli anni ’50 ruota attorno all’attività dei cineclub. In entrambi i contesti venivano compilate delle schede filmografiche. In tutti questi scritti l’attenzione per il significato del film è sempre accompagnata da un’uguale attenzione per i meccanismi che producono tale significato. Lo strutturalismo riguarda l’idea stessa di film come testo, cioè di struttura del film come singolarità. Crea le condizioni per l’analisi testuale del film. L’analisi testuale si caratterizza per il fatto di accordare un’uguale attenzione al proprio oggetto e al proprio metodo, quindi di agire su due livelli: quello dell’analisi filmica in quanto riflessione sul film e quello della riflessione sull’analisi del film che l’analista sta compiendo. I primi esempi di analisi strutturale del film raramente sono analisi puramente strutturali. Nella storia dei rapporti tra Strutturalismo e analisi filmica risulta più significativo il percorso compiuto da Metz e Bellour.  La grande syntamatique du film narratif confluisce nel primo volume degli Essais sur la signification du cinéma. Nella prima parte Metz applica la grande sintagmatica al film Adieu Philippine (Rozier) ispirandosi alla semiologia strutturalista, ovvero utilizzando la pellicola in modo strumentale per verificare la presenza dei vari tipi sintagmatici (scena, sequenza, piano…). Nella seconda parte si propone di far emergere i dati in grado di qualificare il film come moderno e appartenente al nuovo cinema.  Bellour analizza il film di Hitchcock, The birds. È un saggio a metà tra l’analisi dei codici e l’analisi di un testo: attraverso la scomposizione in fotogrammi, Bellour vuole dimostrare come il senso profondo nasca dalla successione del racconto per immagini, organizzate secondo i vincoli dellaq ripetizione e della variazione e gerarchizzate secondo simmetria e dissimmetria. Prende così corpo l’idea che il cinema americano classico attivi una struttura basata su un gioco continuo di rime, richiami, rotture improvvise che da un lato riguardano la dimensione stilistica del testo, dall’altra alludono a un meccanismo complesso che investe l’universo psichico dello spettatore. Nella semio-psicoanalisi sono comprese tutte quelle analisi che fanno un parallelismo tra testualità filmica e vita psichica basandosi sul rapporto tra dispositivo cinematografico e teoria del soggetto spettatoriale. In particolare, a Kuntzel si deve un insieme di analisi che stabiliscono un’analogia tra esperienza onirica ed esperienza cinematografica. Bellour dimostra invece che le strutture filmiche presentano un’analogia profonda con quelle del nostro apparato psichico, in particolare con le dinamiche dell’Edipo. La semio-pragmatica comprende le analisi che puntano a comprendere i processi e le modalità attraverso cui un film viene raccontato e comunicato al suo spettatore. La teoria dell’enunciazione distingue tra enunciato (ciò che viene detto) ed enunciazione (i mezzi utilizzati per dirlo). Secondo Metz il cinema classico è assimilabile a un tipo di enunciato volto a privilegiare scelte linguistiche che occultano le tracce della propria enunciazione, diversamente da ciò che caratterizza il cinema moderno, intenzionato a esibirle. L’apertura alla psicanalisi è una delle prime contaminazioni dell’analisi filmica. Nel corso del tempo aumenta il numero di studiosi che si interessa all’analisi e si elaborano nuovi modelli metodologici. La Francia cessa di essere il principale paese di riferimento e numerosi contributi arrivano dall’Italia, dall’Inghilterra e dagli Stati Uniti. Nel 1985 viene stilato un nuovo bilancio a 10 anni di distanza dal precedente, intitolato L’analisi del film: oggi e scritto da F. Casetti e Odin. L’obiettivo è quello di esporre le nuove dinamiche all’interno della disciplina, le nuove esperienze e i nuovi approcci. I due studiosi ribadiscono l’importanza di continuare a parlare di testo filmico, interessandosi alla dimensione comunicativa del testo. L’analisi del film appare “doppiamente testuale perché affronta il testo filmico e perché si domanda in che senso il film è un testo”. È importante nominare il concetto di sutura elaborato da Jean-Pierre Oudart. Si basa sulla convinzione che al cinema ogni porzione del campo rappresentato sullo schermo si prolunghi al di qua della “quarta parete” che dovrebbe chiuderlo, in uno spazio immaginario che non si dà a vedere ma da cui è visto. A ogni campo visibile corrisponde un campo invisibile ed è proprio qui che si colloca lo spettatore. Il concetto di punto di vista viene elaborato da Gérard Genette, secondo il quale un racconto può dare più o meno informazioni su ciò che narra adottando un determinato punto di vista. Si palesano 3 opzioni:  Narratore onnisciente che dice più di quello che sanno i personaggi  Narratore che dice solo ciò che sanno i personaggi  Narratore che dice meno di quello che sanno i personaggi La distribuzione del sapere avviene verbalmente ma anche visivamente. In merito, Nick Browne analizzò 12 inquadrature di Stagecoach, analizzando in particolare il ruolo svolto dagli sguardi dei personaggi e distinguendo il loro sguardo e quello della macchina da presa.  Semiopragmatica di Odin: il contesto coincide quasi con il testo. I modi di produzione di senso assumono una valenza astratta, non concretamente storicizzabile.  Revisionismo storico: il contesto diventa un macrosistema, strutturato a partire da un quadro discorsivo di riferimento che trova collocazione storica e geografica.  Matrice culturale: il contesto si restringe, restando concreto e non attorno ai testi, ma allo spettatore, diventando un microsistema preciso CAPITOLO IV: QUESTIONI DI STILE INTORNO ALLA NOZIONE DI STILE La problematicità di una definizione soddisfacente dello stile cinematografico o filmico rispecchia le ambiguità discusse dalla teoria e dalla critica letteraria o artistica. Ma se in ambito letterario-artistico tali imprecisioni della nozione di stile poggiano su una tradizione teorica secolare, la stilistica del cinema viene ad essere un territorio vago e indistinto. Metz afferma che ciò che chiamiamo stile è una “qualità onnipresente più o meno illocalizzabile”. Metz distingue le marche di enunciazione dalle marche stilistiche e distinguendo fra queste ultime tra stile di determinati autori e generi come stili collettivi. Metz afferma che:  Le figure di enunciazione hanno la caratteristica di essere regolate, misurate, costruite in modo logico e che segnalano il discorso, mantenendo una distanza da esso  Le figure di stile delineano una molteplicità, sono legate a delle caratteristiche concrete dell’opera e al suo contenuto e si fondono con il discorso, dandovi un tono. Dunque l’enunciazione è un’operazione mentre lo stile è un modo di essere. Compagnon nota che nel tempo si sono poste via via sempre nuove concezioni di stile ma il termine non si è altrettanto via via modificato ma è arrivato a comprendere tutte le specificazioni possibili (norma, ornamento, variazione, tipo, sintomo, cultura). Per questo il termine stile è elastico e ampio, “lungi dall’essere un concetto puro”. Secondo Compagnon apre il suo discorso affermando che lo stile è il rapporto tra il testo e la lingua. Questa medietà può corrispondere al corpo discorsivo con cui Metz identificava lo stile. Compagnon introduce diverse idee di stile:  L’idea di stile come norma fa riferimento a un canone da imitare, oppure può riferirsi alla normalità e alla neutralità, definendo anche dei macrosistemi e dei macromodelli stilistici (ad esempio, il cinema americano classico). I testi devono seguire regole precise che variano in rapporto alle caratteristiche del discorso  L’idea di stile come scarto, contrapposta all’idea di stile come norma, presuppone che esista un linguaggio ed un modo di comunicazione comune e che lo stile sia segnato dagli elementi di scarto e di differenza che lo scrittore e l’artista sanno introdurre.  L’idea di stile come ornamento dice che per realizzare un’opera stilisticamente adeguata bisogna elaborare una serie di variazioni ornamentali in grado di rendere il discorso più efficace. Tutte queste idee di stile presentano delle mancanze come la contraddizione fra l’idea di stile collegata ad un’individualità e l’idea di stile legata ad una collettività. Il fatto che lo stile sia stato ricondotto ora all’universo semantico della norma, ora a quello di scarto è una contraddizione molto radicale. Come evidenzia Bertetto: “l’idea di stile come stile di un insieme è fondata sulla medietà del molteplice, invece l’idea di stile legata ad un individuo implica la specificità del singolare e questa contrapposizione è legata alla polarità oppositiva di norma (prioritaria della generalizzazione) e dello scarto (essenziale all’individualizzazione).” C’è poi la questione della sinonimia: c’è uno stile perché c’è qualcosa da dire, un contenuto da comunicare e lo si può proporre in modi diversi. Ciò pone il problema, come dice Bertetto, che possa esistere un pensiero in sé, svincolato dalle parole e che questo pensiero possa essere espresso in maniera diversa. Come sostiene Benveniste: “Il pensiero è strettamente correlato al linguaggio e se non lo è rimane qualcosa di estremamente vago”. Però è anche possibile, come nota Compagnon, elaborare una rilettura dell’idea di sinonimia e considerare che esistono modi diversi di dire cose molto simili. Lo storico dell’arte Meyer Schapiro dice che “lo stile è la costante dell’arte di un individuo o di un gruppo ed è un sistema di forma dotato di una qualità e di un’espressione portatrice di significato”. Allo stesso modo, Segre definisce lo stile come:  L’insieme dei tratti formali che caratterizzano il modo di esprimersi di una persona o il modo di scrivere di un autore  L’insieme dei tratti formali che caratterizzano un gruppo di opere, costituito su basi tipologiche o storiche Quest’ultima definizione (basi tipologiche o storiche) richiama la nozione di genere: la tradizione antica classificava i generi in tre tipi di stili: humilis, mediocris e gravis. Lo stile è visto quindi come una proprietà del discorso e come tipo di scrittura. L’idea di genere si ricollega alla contraddizione di tra la norma e lo scarto: infatti, il genere ha un carattere ripetitivo (quindi normativo) ma allo stesso tempo è instabile (scarto) perché pronto a modificarsi contestualmente, storicamente ecc. Vi è poi la questione del rapporto tra i singoli testi e lo schema di genere, tra l’apporto singolare dell’autore e il corpus con cui entra in relazione, il che rientra a sua volta all’interno della contraddizione tra lo stile in senso individuale e lo stile in rapporto al collettivo. Compagnon distingue ancora l’idea di stile come sintomo da un lato e di cultura dall’altro. Il simbolo si collega al problema della soggettività, dell’individualità e scarto. La cultura si riferisce ad una dimensione collettiva, facente riferimento anche a categorie stilistiche storiche; infatti, può essere intesa anche in senso sociologico. LO STILE FILMICO: PERCORSI STORIOGRAFICI E IPOTESI METODOLOGICHE Non si è definitivamente compiuta, né esiste una definizione condivisa di “stilistica” del cinema. Di fronte al problema della contraddizione tra individuale e collettivo si è pensato di eliminare uno dei termini della contraddizione, ovvero quello che conduce al singolare, privilegiando il macrosistema. Tale prospettiva è quella che negli ultimi due decenni ha caratterizzato le ricerche più sistematiche e consapevoli. La più ampia ricerca condotta sistematicamente sul cinema classico hollywoodiano è attribuita a Bordwell, Staiger e Thompson, i quali si sono basati sulla stretta correlazione tra stile filmico e modo di produzione. Nell’introduzione del volume si considera il cinema di Hollywood come un sistema estetico partendo dal presupposto che “tra il 1917 e il 1960 uno stile specifico e omogeneo ha dominato il modo di fare cinema degli studios americani” e nella convinzione che questo sistema “aderisca ad una serie di specifiche e limitate convenzioni stilistiche”. Da questo punto di vista, il cinema hollywoodiano viene ricondotto al senso della norma e del canone, circoscrivendosi attraverso delle regole che limitano l’innovazione individuale. Dunque, gli stessi professionisti operavano con una precisa consapevolezza, etichettabile come “classica”, stabilendo un regime di libertà vigilata all’interno di un paradigma, ovvero un assetto di elementi interscambiabili tra loro secondo determinate regole. Per quanto l’analisi di Bordwell, Staiger e Thompson sia storicamente contestualizzata e dimostri come la standardizzazione dello stile hollywoodiano sia strettamente correlata ai modi di produzione economica, l’idea di uno stile che sostanzialmente rimanga invariato per diversi decenni è improbabile. Non sono stati, infatti, presi in considerazione i singoli film all’interno del sistema e i minimi dettagli che li caratterizzano, cercando di capire quale sia il loro valore e se riguardino o meno lo stile. In questo caso, infatti, la nozione di stile è interamente piegata ad una dimensione macrostrutturale. CAPITOLO V: L’ANALISI ICONOLOGICA DEL FILM L’immagine è essenziale del racconto filmico e il film è tale in quanto immagine in movimento. Canudo definiva il cinema “arte plastica in movimento” e, poiché la realtà fisica è troppo dominante nell’immagine filmica, questa può trasformarsi in copia piuttosto che in interpretazione. Nel 1916 viene firmato il manifesto della cinematografia futurista da Marinetti, Corra, Settimelli, Ginna, Balla e Chiti. I futuristi, assieme a Canudo, sostengono che il cinema sia “essenzialmente visivo” e, in nome della pittura, rifiutano l’immagine filmica perché non accettano di veder trionfare un accenno realista, che per loro era già ampiamente superato. Nel 1928, Luciani in Antiteatro sostiene che “il teatro è verbale e statico, il cinema è visivo e dinamico” e che “mentre a teatro le cose più ideali si materializzano, sullo schermo le cose più materiali si spiritualizzano”. Con il cinema si è scoperta la bellezza dei movimenti e del volto umano. IL DIBATTITO TEORICO Ejzenstein, in un saggio del 1934 affronta il problema dell’immagine filmica scrivendo che, in quanto sistema di riproduzione della realtà, può portare “da esatte combinazioni naturalistiche di esperienze visive legate fra loro, a deformazioni complete, sistemazioni non previste dalla natura”. Secondo Ejzenstein l’arte è in ogni caso conflitto, legato sia al montaggio che all’inquadratura stessa (rapporti fra linee, volumi, luci, piani). Egli dice che i colori hanno un significato sempre culturale e mai assoluto, esprimono qualcosa non di per sé, bensì all’interno di una determinata tradizione e cultura. I colori, nel cinema, vengono usati quando il bianco e il nero non bastano a esprimere le esigenze dell’autore, ma vanno usati in senso espressivo. Arnheim rifiuta le innovazioni della tecnica (sonoro e colore) per salvare l’artisticità del film. Egli afferma che la fotografia e il cinema sono forme imperfette di riproduzione e proprio in quanto si distaccano dall’immagine della realtà possono essere annesse al campo dell’arte. Esistono, infatti, dei fattori differenzianti rispetto alla realtà: riduzione della profondità, illuminazione artificiale, assenza del colore, distanza dall’oggetto ecc. Aumont afferma che mentre la pittura è sempre stata ossessionata dall’impossibilità di rappresentare il tempo, nel cinema, per breve che sia l’inquadratura, ci sarà sempre una durata. Aumont riflette anche sul problema del colore, indicandone il carattere simbolico, culturale, non assoluto. Secondo lui, c’è un solo nome di colore presente in tutte le lingue, ed è il rosso che indica sempre amore, passione, sacrificio e peccato. Per tutti gli altri colori, le simbologie variano continuamente. Il colore deve essere usato esclusivamente in senso espressivo e per lungo tempo venne utilizzato per i film più fantastici perché il bianco e nero denotavano, invece, realismo. Panofsky distingue le immagini a livello iconografico (comprensione di quanto viene raffigurato) e a livello iconologico (interpretazione dei valori simbolici). Il cinema, secondo il teorico, è l’unica arte visiva ancora integralmente viva insieme all’architettura, ai cartoons e al commercial design. Panofsky parla anche degli attori: egli osserva che nel cinema si è creata un’iconografia riconoscibile di personaggi, in modo tale che lo spettatore possa subito identificarli (Vamp, Ingenuo, Cattivo…). Tuttavia, a differenza del personaggio teatrale, il personaggio di un film vive e muore con l’attore e il film non ha esistenza estetica al di fuori della propria rappresentazione. Tuttavia si manifesta il divismo filmico, in cui iconografia e iconologia si intrecciano: al di là delle tipologie di partenza, quando un attore è famoso viene automaticamente riconosciuto dal pubblico e questo fatto porterà lo spettatore ad attribuire sempre e automaticamente delle caratteristiche che gli sono state indotte dai precedenti personaggi. Panofsky è uno dei pochi teorici ad aver compreso che il cinema appartiene ad una cultura di massa: “Se il pericolo dell’arte commerciale è quello di diventare una prostituta, il rischio dell’arte non commerciale è di restare una zitella, cioè di non trovare un pubblico”. Tarkovskij dice che la pittura non può essere un modello diretto per il cinema e non si deve trasferire un dipinto così com’è sullo schermo: in tal caso verrebbe annullata l’autonomia creativa dell’autore e si avrebbero solo immagini derivate. Per lui, il cinema è assimilabile piuttosto alla musica, per l’importanza che assume il tempo, o alla scultura, perché dal blocco del tempo il cineasta elimina ciò che non gli serve. Costa, all’interno del cinema, parla dell’effetto dipinto, ossia di una prevalenza della dimensione discorsiva su quella narrativa. L’effetto dipinto si divide in:  Effetto pitturato: ha a che fare con le scenografie e il materiale ripreso  Effetto quadro: produce un effetto di tempo sospeso e di spazio definito, oltre che di selezione cromatica Un elemento che pittura e cinema condividono è il problema della luce, che nel cinema perde la funzione simbolica ma mantiene la funzione drammatica. Alekan afferma che esiste, tanto in pittura quanto nel cinema, una luce unidirezionale che separa l’essenziale dall’inessenziale ed è classificatrice, gerarchizzante. La differenza più importante sta nel fatto che mentre il pittore è padrone della luce, il cineasta lo sarebbe soltanto se utilizzasse sempre la luce artificiale. D’Allonnes opera una distinzione tra la luce del cinema classico (significante, connotante, idealizzata) e la luce del cinema moderno (documentaria, non drammatizzata). Per quanto riguarda le luci, esistono tre diversi tipi di cinema: 1) Classico, che comprende l’espressionismo, tipico di Lang, Mizoguchi e Visconti 2) Barocco, caratterizzato da un erotismo-esotismo che permette di usare ombre su volti e materiali, tipico di Sternberg, Welles e Fellini 3) Moderno, dove viene rispettata l’eterogeneità delle luci reali, tipico di Rossellini, Godard e Bresson Dopo gli anni Ottanta, sembra voler fare ritorno alla luce classica, privilegiando la leggibilità assoluta, evidente soprattutto nelle scene notturne. LO SPAZIO Marcel Martin distingue:  Scenografia realista: mira a ricostruire una certa realtà socioculturale  Scenografia impressionista: si percepisce l’intervento soggettivo dello scenografo  Scenografia espressionista: l’ambiente è deformato e stilizzato in funzione simbolica, non ha nulla di realistico Una caratteristica fondamentale dello spazio al cinema è la creazione di uno spazio illusorio, infatti, grazie al montaggio, lo spazio ha un realismo solo apparente. LA FIGURA UMANA Il fatto che il cinema si sia sviluppato soprattutto in termini narrativi ha determinato l’assoluta importanza in esso dei personaggi. Bisogna sempre tener presente che il personaggio deve necessariamente trasformarsi in immagine, perciò è importante conferirgli una serie di caratteristiche visive. Ecco perché è tanto importante la scelta degli attori principali e secondari e il modo con cui, grazie all’apporto di costumisti, truccatori e fotografi si giungerà alla costruzione di quella immagine. Nel cinema il personaggio viene a identificarsi con l’attore che lo interpreta: gli attori vengono riconosciuti e la loro immagine si arricchisce di significati. Il fenomeno divistico femminile più significativo degli anni Cinquanta è Marilyn Monroe, il modello della vamp bionda sexy ma presa in giro e ridicolizzata per la sua ingenuità. A volte, a connotare il personaggio è il costume: ciò appare ovvio nel caso della maschera, in cui il costume è fisso (come Chaplin) oppure quando le diverse icone divistiche si intrecciano e collaborano con la storia della moda. È il caso di Audrey Hepburn e Givenchy. GLI OGGETTI La presenza degli oggetti nei film è collegata al problema dell’ambientazione e la loro ripresa da vicino li rende molto visibili, quindi importanti. All’interno dei film, gli oggetti:  Diventano connotati di una determinata classe sociale  Assumono un valore drammatico, come i mezzi di trasporto, o oggetti attorno ai quali si costruisce la narrazione  Assumono un valore simbolico I COLORI Vincente Minnelli è considerato il massimo colorista nella storia del cinema. Egli arrivò per la prima volta a Hollywood chiamato dal produttore Arthur Freed e inserito nella produzione dei suoi musical, nei quali si insisteva sul colore. Prima di lui, il maggiore esponente del colore era stato Walt Disney, in particolare nel primo lungometraggio Snow White and the Seven Dwarfs (1937), in cui si univano colori, musiche e fiaba. The Wizard of Oz (1939) è una delle realizzazioni di Minnelli: nel film si distingue chiaramente la realtà della protagonista Dorothy, girata in bianco e nero, e il mondo di Oz, girato in Technicolor. Sono 3 i colori più espressivi: il rosso, colore delle scarpette magiche di Dorothy, il giallo, colore della strada che porta a Oz, e il verde, colore della città di smeraldo ma anche della strega cattiva. Ad una cultura diversa appartiene Antonioni, il quale intende il colore in maniera soggettiva, come manifesto dei sentimenti e quindi non omologabile.
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