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sintesi Papini, arte romana, Sintesi del corso di Archeologia

sintesi del Papini per ripasso

Tipologia: Sintesi del corso

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leone22
leone22 🇮🇹

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Scarica sintesi Papini, arte romana e più Sintesi del corso in PDF di Archeologia solo su Docsity! Archeologia Romana Capitolo 2 - Il stema delle immagini nell'arte di età romana Introduzione Le nozioni di “arte popolare”, “arte aulica” e “stile d'epoca” sembrano ormai prive di senso, nel momento in cui l'interesse critico è rivolto verso le immagini, verso il loro potere e il loro valore in sé, non come surrogato delle parole, non strutturate come queste, ma come un mondo a sé stante, con le sue regole che non sottostanno a quelle della linguistica. Gli elementi formali che le compongono assumono un ruolo solo se rapportati ai loro modi di comunicazione, e al discorso artistico non giovano termini abusati, che sembrano creare inutili categorie formali, ma che nei fatti ne nascondono le complessità. La storia può essere narrata o interpretata. Si possono, quindi, raccontare i fatti così come sono accaduti oppure analizzarli criticamente a seconda dei punti di vista, per parole e per immagini. Gli eventi sono percepiti, in tal modo, attraverso un filtro che li manipola, che li può giustificare, o ne può enfatizzare la negatività, a seconda della logica del potere. La “svolta iconica” (iconic turn o pictorial turn) sviluppatasi nel campo della visual culture nell'ultimo ventennio ha rivendicato il ruolo autonomo delle immagini, mostrando che il mondo a cui dà forma la parola è assai differente. La visual culture, inoltre, non distingue più tra arte e non arte, tra bello e brutto, tra significativo e banale, ma prende in considerazione tutto il patrimonio visivo. L'iconologia, disciplina che indaga e interpreta il significato delle immagini nel loro contesto storico, ha trasferito la propria esplorazione sul potere che queste hanno di influenzare le abitudini e i comportamenti umani. È l'inevitabile punto di arrivo di una ricerca che ha le sue origini nel mondo greco, quando le immagini erano, o volevano essere, una mimesi del vero, e quindi avere una propria vita, come una natura parallela. Il mito della nascita del ritratto a opera di una fanciulla di Corinto che, perduta d'amore per un giovane in procinto di partire per un viaggio lungo e periglioso, dall'’ombra dell'amante dormiente proiettata sulla parete di casa, aveva ricavato un suo disegno a silhouette, è l'espressione diretta del significato dell’arte per i Greci. La fanciulla aveva “clonato” l'amante per tenerlo per sempre al suo fianco. I grandi artisti ne erano ben coscienti, e avevano gareggiato con la natura: “clonandola” si potrebbe dire con un termine entrato di prepotenza nella letteratura delle arti visive degli ultimi anni. La parola è ormai adoperata per indicare tutte quelle riproduzioni digitali attraverso numerosi media che hanno alterato completamente i nostri modi di vedere e percepire le immagini; ma è anche termine metaforico che denuncia un timore sotterraneo, un senso di disagio verso tutto ciò che sembra stravolgere le nostre vecchie concezioni di copia, imitazione o riproduzione secondo natura. Le immagini appaiono con una loro vita autonoma, con la capacità di sovrapporsi e di surrogare il reale. Esempi di clonazione nell’antichi monete, ritratti, rappresentazioni storiche che sono caratterizzati da immagini stereotipate, archetipi e ripetizioni in serie. C'è una sola grande differenza rispetto al mondo contemporaneo: non è rimasta quasi nessuna traccia di una visione alternativa, di una critica al potere costituito se non, evidentemente, in quelle forme di “damnatio memoriae” che cancellano - e/o sostituiscono - non solo i tratti facciali dei personaggi caduti in disgrazia, ma cercano di sopprimere anche la testimonianza della loro partecipazione a eventi epocali — per esempio distruggendo i monumenti da loro costruiti, o usurpandoli con la semplice erasione del loro nome e la trascrizione su di esso di un altro nome, del vincitore. A Roma l’operazione era relativamente facile perché, dalla Repubblica in poi, la rappresentazione degli eventi storici per lo più non aveva avuto carattere narrativo, ma era sintetizzata in schemi simbolici reiteranti sempre gli stessi messaggi, attraverso gli stessi mezzi di comunicazione. Solo così si spiega il riadopero, e quindi la rifunzionalizzazione dei rilievi claudi per l’arcus Novus sulla via Lata, di quelli adrianei per l'“arco di Portogallo”, o di altri traianei, adrianei e antoniniani per l’arco di Costantino all’inizio del secolo IV d.C. In questo caso si trattava di alcuni tra i migliori imperatori, ma sui rilievi gli eventi storici di cui erano stati protagonisti si erano trasformati in codici semantici tranquillamente usurpabili da un altro imperatore senza che mutasse il loro significato simbolico originario, sebbene con un riferimento ad altri eventi storici. Lo studio delle forme di comunicazione attraverso le immagini ci permette di renderci conto del lavoro necessario da un lato per comprendere quale messaggio il produttore d'immagini volesse trasmettere, dall'altro per adeguarsi alla mentalità di lettura del loro destinatario. Un esempio fra tanti: l’arte romana non rappresenta mai il punto di vista dei vinti, ma solo dei vincitori, anche quando sembra percepirsi nelle immagini una sorta di simpatia nei riguardi del nemico sconfitto. La partecipazione emotiva alla loro sofferenza è frutto dell'odierna percezione, che non ha nulla a che fare con quella dei Romani che, invece, volevano enfatizzare l’ardimento dei nemici per accentuare, forse anche con una punta di esagerazione, la difficoltà dell'impresa e, di conseguenza, il valore romano. Sulle nozioni stile d'epoca”, “arte popolare/plebea”, stili di genere” “Stile d'epoca” concetto secondo cui in ogni Stato nazionale ogni periodo storico ha avuto un suo stile specifico, nel senso che si riconoscerebbe nel linguaggio artistico un inconfondibile denominatore comune che permette di stabilire la contemporaneità di opere d’arte prive di una sicura cronologia basata su documenti incontrovertibili. Insieme con i concetti di “arte aulica” e “arte popolare”, lo “stile d'epoca” era una novità venutasi a costruire nell'alveo dei crescenti nazionalismi che hanno determinato la storia europea tra i secoli XIX e XX. A un carattere specifico di un popolo, secondo la visione nazionalista, avrebbero corrisposto forme di espressione appartenenti a quel popolo e solo ad esso. Si è naturalmente discusso in cosa consistesse tale denominatore comune, senza potere giungere a una soluzione né convincente né univoca. Il concetto di Kunstwollen (“volontà artistica”), elaborato da Riegl, contiene in sé, appunto, il senso di un impulso che, indipendente dall’artista, il quale agirebbe nell’ambito dello “stile d'epoca” senza rendersene conto, sembra orientare tutte le produzioni di un determinato periodo storico, coinvolgendo anche quelle anonime artigianali nelle quali, anzi, lo stile appare più evidente. Il significato, che si perde nel termine italiano, nel quale l’atto di volontà è a carattere più personale, descrive ma non spiega il fenomeno che, tuttavia, permette a Riegl di giungere alla constatazione che i vari “stili d'epoca” non sono confrontabili tra loro, né si possono giudicare le opere d’arte di un periodo storico con il metro di giudizio formale proprio di un altro: ciò ha permesso di rivalutare alcuni periodi dell’arte romana che, nella logica del giudizio comparativo avente come pietra di paragone l’arte greca di età classica, erano considerati di decadenza. “Sfera del vivere” 0 esame dell’opera d'arte giudicata come parte integrante e costitutiva della coeva Lebenswelt (sfera del vivere) è un nuovo approccio critico in contrasto all'approccio formale considerato sempre più spesso discutibile e comunque incapace di offrire un giudizio riferito alla mentalità dell’epoca in cui l’opera è stata realizzata. La novità consiste nell'esame globale non solo di quanto è definibile “opera d’arte”, ma di tutto quel che ha un rapporto diretto con la visualità e che, prodotto nell'ambiente in cui l'uomo vive, ne determina l'identità: non solo, quindi manufatti di qualsiasi genere preservati, ma anche la descrizione, o la memoria, di cerimonie, di rituali, di spettacoli teatrali, di eventi pubblici e privati che abbiano una forte componente visuale. “Arte popolare” 9 In un celebre articolo del 1940 l'archeologo tedesco Rodenwaldt aveva definito quelle che, secondo il suo parere, erano le differenze tra arte greca e romana, e che al giorno d’oggi potrebbero essere precisate con maggiore proprietà come differenze di mentalità: l'una, pervasa da un talora assillante naturalismo, tesa a costruire rappresentazioni secondo una ferrea logica organicistica e ipotattica, dove ogni evento è relazionato all'onnipresente mito; l’altra tendente all’astrazione e al simbolismo. Gli elementi fondanti dell’arte popolare” fino al Tardoantico per Rodenwaldt sono: frontalità, composizione centralizzata, rapporto proporzionale dei personaggi secondo la loro importanza, separazione della figura principale dalla sua precipua attività, o trasformazione di tale attività ad attributo della persona. Questi elementi, che sembrano differenziare questo filone dell’arte romana da quella greca, s'incontrano più facilmente in composizioni di piccolo formato: quanto più è grande il formato, tanto più greco è il sistema d'insieme, mentre in quello più piccolo si evidenzia in modo esemplare la vitale mobilità dell'arte romana. Esempio di opera di “arte popolare” © “Rilievo con raffigurazione del trionfo partico di Traiano”, da Praeneste. Palestrina, Museo Archeologico Nazionale. Quasi tutte le figure sembrano voltarsi verso lo spettatore. L'imperatore è sul carro trionfale, con il torso frontale e la testa girata di tre quarti. Un servus publicus gli pone sul capo una corona gemmata. Il carro, decorato con una Vittoria alata che regge una palma e una corona, è tirato da quattro striminziti cavalli, proporzionalmente del tutto incongrui. Al fianco di questo, e in parte coperti dalla ruota, sono due littori di piccola misura. Davanti ai cavalli c'è un giovane di spalle che volge il capo verso Traiano; dietro, in duplice fila, si contano altri otto littori in veduta frontale, di misura maggiore rispetto a quelli davanti al carro, ma comunque più piccoli dell’imperatore. Uno solo si gira verso Traiano, ma complessivamente vige una rigida disposizione paratattica in duplice fila dei personaggi, dei quali è enfatizzata la testa. Seguono altre figure, di cui due, a rilievo più basso, sono di profilo, volte verso destra. Dietro questo gruppo di teste appare sullo sfondo un trofeo composto da una tunica alla cui manica è applicata una faretra. Il rilievo prenestino è una summa di elementi di solito considerati pertinenti all’”’arte popolare”: tendenza verso la frontalità e la composizione paratattica e additiva, sovrano disinteresse nei confronti delle giuste proporzioni non solo nei corpi visti singolarmente, ma anche nel rapporto tra le varie componenti del rilievo, scomparsa delle gambe e, in determinati casi, con disorganiche distorsioni degli arti. Vi si riscontrano, insomma, quei caratteri che nei monumenti pubblici di produzione urbana sono relegati per lo più alle parti decorative meno evidenti, e che invece in quelli di area municipale s'impongono in piena evidenza visiva. “Stili di genere” 0 La teoria dello stile di genere è basata in parte sulla constatazione che opere d’arte realizzare nel medesimo periodo possano essere stilisticamente assai differenti. Ciò dipende dal fatto che ogni determinato spazio temporale è multidimensionale, in quanto comprende, nello stesso arco cronologico, più di una generazione. La “non contemporaneità del contemporaneo”, secondo la definizione del medievista Wilhelm Pinder, può spiegare perché gli artisti coevi producano, nello stesso arco di tempo, opere assai spesso così diversificate stilisticamente che, se on se ne conoscesse la cronologia, si direbbero prodotte a distanza di anni se Saturnius). Dall’Archeologia si desume che i primi insediamenti stabili sul sito di Roma predilessero il sistema di alture della riva sinistra poiché ricche di sorgenti e materiali da costruzione. Nascita di Roma Storia insediamento del sito di Roma dal punto di vista archeologico, parte dalla metà del Il millennio a.C. (Età del Bronzo Medio). I primi nuclei si stabilirono sul Campidoglio, sulle pendici del Palatino verso la valle del foro Romano e più tardi sul Quirinale (fase preurbana) Il quadro restò immutato fino ai secoli XI e X a.C. quando in tutto il Lazio si distingue una cultura archeologicamente identificabile rispetto a quelle circostanti, detta “cultura laziale” con le sue fasi cronologiche dal preistorico tedesco karpe ( 1960 ca): -Cultura laziale ITA e II B ( età del Ferro ) 925-825 a. C. si formò un abitato unificato esteso a Palatino, Velia, Celio, Viminale, le tre cime dell’Esquilino (montes) e Quirinale. Centro protourbano. - cultura laziale IIIB e IVA tra 775-700 a. C. nell'abitato furono ammessi il Campidoglio (alle radici si allestì primo Comizio) e annesso santuario di Vulcano, e la valle tra Palatino e Campidoglio sede della piazza del foro Romano. Sulle pendici del Palatino verso il Foro fu realizzato il tempio di Vesta , con residenza e culti regi. Sistema Palatino-foro-arx- Campidoglio = centro direzionale della Città-Stato. -IV sec a.C. nuove mura abbracciavano le alture con centro abitato e includevano Aventino, dentro e fuori si sviluppò la città prima repubblicana e poi imperiale. I Romani elaborarono una leggenda per illustrare le proprie origini: Romolo e Remo, principi gemelli nati ad Alba Longa dall’unione del dio Marte con Rea Silvia (sacerdotessa di Vesta), furono abbandonati sulle rive del Tevere subito dopo la nascita per ordine dello zio Amulio re di Alba Longa, perché futuri pretendenti al trono. Furono salvati e allattati da una lupa e poi allevati da pastori. Romolo uccise lo zio Amulio e poi il fratello Remo. Poi egli celebrò intorno al Palatino il rito di Fondazione di Roma il 21 Aprile 753 a.C. data di nascita della città in un luogo deserto vicino al Tevere. Variante della leggenda non origine sul Palatino ma limite del foro. Roma non aveva mito dell’autoctonia come Atene ed era una città multietnica fin dall'inizio. Dopo l’antica leggenda s’istituì una relazione genealogica tra Romolo ed Enea (Eroe di Troia) che scappando dalla sua città sarebbe giunto nel Lazio, nel territorio laurentino. Enea sposò Lavinia, la figlia di Latino il re degli Aborigeni e dall'unione tra Aborigeni e Troiani presero origine i Latini. Ascanio figlio di Enea fondò Alba Longa e fu capostipite della dinastia da cui discende Romolo. Un tumolo nel Lavinium è stata identificata come la tomba eroica di Enea, alcuni tra gli Antichi la attribuivano ad Anchise. Questa tomba del secondo quarto del secolo VII a.C. conobbe un nuovo assetto nel IV sec a. C. Memoria Romani anche versione contrastante a quella canonica, dove Romolo non si stabiliva in un territorio non disabitato, ma sorgeva un abitato chiamato Septimotium. La leggenda della nascita di Roma è stata collocata nel tempo fino a oggi tra VI e IV sec a.C. Tuttavia l'associazione tra Enea e la leggenda era nota anche agli storici greci nel V sec. a.C. , pertanto il suo nucleo può essersi costituito nella prima età regia periodo in cui emergono strutture della città stato (753). I limiti di curiae, pagi, tribus, vici, Regiones Secondo gli Antichi, precedente all'insediamento dell'età del ferro, c'era una struttura insediativa preurbana strutturata in tre comunità che avrebbero occupato le alture di Roma: i Velienses(Velia altura dove era collocato), i Querquetulani (Celio), i Latinienses (il collis Latiaris sul Quirinale). Parte di un’originaria confederazione latina, formati da populi detti Albenses. Nome che derivava dall’abitato più importante della confederazione, Alba Longa e il suo epicentro sacrale il santuario di Giove sul Monte Albano. Nella prima età storica dalla metà del VIII sec a.C. a Roma trenta rioni dividevano la città, si chiamavano curiae (gruppi di uomini), mentre tre tribù spartivano città e territorio (Titienses, Ramnes, Luceres). All’interno di tali articolazioni si distribuivano lo spazio e la popolazione, queste articolazione veniva fatte risalire alla costituzione romulea. Le curiae erano una realtà topografica e istituzionale infatti erano collegate alla prima assemblea politica della città (comitia curiata ) dove partecipavano i cittadini maschi adulti raggruppati per rione. Già il centro unificato protourbano dell'età del ferro era diviso in rioni/curiae perché due volte ogni anno si celebrava un rito di purificazione con sacrificio umano ( in epoca storica simulati) con una processione che visitava 27 luoghi sacri detti sacraria Argeorum (argei), questo fa intuire la suddivisione del luogo. La loro distribuzione (circa) è nota grazie a Varrone grande atiquario delI a.C. All'esterno delle curiae, il territorio era suddiviso in distretti rurali (pagi) e limitato da piccoli abitati periferici oppida. La nascita della città è collegata ad un accrescimento del numero delle curiae, da 27 a 30 e da un'estensione dell’area abitata, e da l’aggiunta/ imposizione di un centro politico esterno all'abitato diviso in curiae. Circa due secoli dopo la nascita, ( VI a. C. ) la città- Stato fu rifondata modificando e ristrutturando natura, forma le sue partizioni amministrative e giuridico-sacrali. Fu suddivisa in quattro tribù- Suburana, Esquilina, Collina, Palatina. Sopravvissero le antiche curiae, insieme all'assemblea curiata, ridimensionata nelle competenze e affiancata da una nuova assemblea dove il popolo era convocato per classi di ricchezza e reparti di servizio nell'esercito (centuriae), non più entità coincidente con una suddivisione territoriale, spazio abitativo si ristrutturò con una nuova trama di quartieri vicinatates, oggi impossibili da ricostruire topograficamente, dotati di piccoli impianti di culto come sacelli agli incroci delle strade compita per le divinità protettrici chiamate Lari. Tale organizzazione correlata con penultimo re di Roma Servio Tullio secondo la tradizione e rimasta in vigore sino al 7 a.C. Allora Augusto suddivise l’Urbe in XIV Regioni e in quartieri (vici), ciascuno dei quali munito di sacelli per il culto dei Lari di Augusto al posto dei Lares compitales, e associati al culto del suo genio e sotto sovrintendenza dei Magistri vici, di norma liberti affiancati da ministri di rango servile. Ben indagati un sacello compitale nell’area della meta sudans e un ‘altro sulle pendici sud-occidentali dell’Oppio, consiste in un'edicola e un’ara in marmo del 5-6 a.C. e del 3-4 d.C. La nuova articolazione disegnava le divisioni amministrative urbane in una vasta area che si spingeva all’esterno delle mura arcaiche per circa un miglio romano, Tredici Regioni includevano la città sulla riva sinistra del Tevere a partire dall'area compresa del Palatino e Celio (I) fino Aventino con Pianura del Testaccio ( XIII) una sola includeva la stretta fascia pianeggiante della riva destra limitata dal Gianicolo (XIV) Augusto rifondata una nuova urbs in marmo. Spazi pubblici e privati La struttura urbana si può suddividere in due macrocategorie giuridiche: spazi pubblici e privati. Publicus deriva da populus e definisce cose o esseri di proprietà dello stato, oggetti creati per conto dello Stato o coloro che agiscono in nome o per mandato della collettività, i magistrati. Viceversa privatus deriva dal verbo privo- libero da qualcosa- e indica le persone che non rivestono incarichi statali oppure oggetti di proprietà dei singoli individui. I monumenti definiti pubblici (nella Forma Urbis Romae) erano di varie tipologie e funzioni perché destinati a varie attività , non di rado coesistenti e intrecciate nei medesimi spazi: edifici sacri, amministrativi(l’erario e il tesoro pubblico si trovavano nel Tempio di Saturno, giudiziari(tribunalia e basilica ), a uso commerciale (fori come forum piscatorium o forum suarium, macella per la vendita di carne e pesce, horrea i depositi in cui si immagazzinavano e vendevano merci), per i corpi armati addetti alla sicurezza (castra peri soldati, stationes per le coorti dei vigili deputate in caso di incendio) Altre costruzioni erano richieste dall’allenamento corporeo e da necessità quotidiane (terme ) o ricorrenze festive comprendenti ludi teatrali, circensi e gladiatori. Il circo Massimo fu istituito fin dai Tarquini tra Palatino e Aventino in un’area limitanea attraversata dal pomerium, mentre altro circo, il Flaminio sorse nel 221 a.C. grazie al censore C. Flaminio Nepote. Alcune volte introduzione di edifici permanenti per spettacoli incontrava resistenza. I ludi scenici introdotti nel 240 a. C.conla rappresentazione delle prime pièces <<alla greca >> da parte di Livio Andronico, un tentativo dei censori del 254 a.C. di erigere un teatro stabile alle pendici del Palatino fu bloccato da un decreto senatorio per la difesa della pudicitia. Roma deve attendere fino al 55 a.C. per un impianto teatrale lapideo (costruito da Pompeo Magno nel Campo Marzio). Infine le costruzioni pubbliche poteva servare la memorie dei loro fondatori, eternandone il nome. La prima basilica del foro romano prese il nome dal celebre censore del 184 a. C., M. Porcio Catone. A seconda si momenti storici e casi specifici gli edifici pubblici potevano essere realizzati dal senato e dal popolo, dai magistrati, e dagli imperatori. In età repubblicana, per spendere il denaro dell’erario era necessaria l'autorizzazione del senato, che annualmente attribuiva una quota delle risorse pubbliche ai censori per la manutenzione e la costruzione di opere principalmente utilitarie come acquedotti, vie, fori...la cui realizzazione era oggetti di appalto, agli edili curuli e plebei era concesso di utilizzare solo parte degli introiti provenienti da multe. Anche consoli vittoriosi avevano bisogno del permesso del senato. Le porticus sviluppate più in lunghezza che in larghezza trasponevano le tipologia delle stoaì ellenistiche ed erano spesso quadriportici plurifunzionali, anche per esporre opere d’arte (Porticus Octavia). La città era ricca di templi, fonte di M. Furio Camillo. Il numero di templi crebbe nei secoli IV-III a.C., fatti edificare dai comandanti cum imperio; essi nella facoltà di scegliere i siti per la costruzione, li votavano e li dedicavano in segno di gratitudine per i propri trionfi con parte del bottino di guerra, e ratifica del senato. Nei templi esaltate le gesta dei committenti come nel caso delle pitture forse a soggetto storico nella aedes Aemiliana Herculis al foro Boario realizzate da Pacuvio. Il pontefice massimo doveva attribuire l’edificio alla divinità cui era stato offerto , per cui diventava di sua proprietà, la sua gestione era regolata dal diritto sacrale e non da quello civile. Augusto nella sua Res gestae asserisce di aver restaurato 82 templi -religio restaurata dopo guerra civile — l’Urbe si arricchì fino al III sec. d.C. di templi e luogo di culto in onore di alcuni imperatori e imperatrici divinizzati. Le celle dei templi oltre a ospitare simulacri e ornamenti fungeva anche da palcoscenici per atti ufficiali: nel tempio di Marte nel foro di Augusto di prendeva commiato dai magistrati mandati nelle province, la gioventù veniva iscritta nelle liste per servizio militare, si riuniva il senato quando c’era da tributare un trionfo. Accanto ai templi vi erano strutture sacre più modeste come aedicula o sacello. Oltre le divinità tradizionali i patria sacra, (untegrazione tra pantheon greco e romano dal III a.C.) , dei che impersonavano concetti astratti alle fondamenta della struttura statale ( Concordia, Clementia...) ammetteva anche divinità orientali sacra peregina talora riconosciuti tra i sacra pubblica come Magna Mater. Tali dei erano talvolta venerati in strutture molto peculiari come i mitrei per il dio indo-iranico Mitra. Diversi dovevano essere anche i santuari dedicati al culto di Iside, il cui culto privato è sicuro nel Campidoglio sin 100 a.C. Tra le proprietà private, c'erano le domus afferrabili nell’Urbe dal VI a.C. e attribuibili a determinati proprietari solo in presenza di dati archeologici, fonti ed epigrafi. Diverse e variamente decorate erano le parti che le componevano. Dapprima i “luoghi comuni”: l'atrio per il ricevimento della massa dei clienti nella cerimonia della salutatio mattutina; il tablino affiancato da alae nella parte terminale dell’atrio, sede dell'archivio del dominus con atti e registri relativi alle imprese compiute durante le magistrature dei membri della famiglia; il peristilio area centrale a cielo aperto circondata da quadriportico dal II sec a.C. Seguivano i cubicoli stanze per riposo; i triclini per banchetti; i saloni di rappresentanza; i balnea. Le abitazioni, non riservate strettamente alla vita familiare, avevano funzioni politiche, perché concorrevano all'espressione del rango dei loro proprietari, massima visibilità. In epoca repubblicana le domus più prestigiose si trovavano sul Palatino e nelle zone intorno al foro, mentre dopo con l'impero la zona tradizionale fu occupata dall'imperatore e le domus furono spostate in zone più defilate. Uno storico greco, Olimpidoro di Tebe descriveva le ville come singole città perché avevano di tutto. Oltre le domus c'erano le insulae in latino indica un’unità di proprietà, è stato applicato all’edilizia abitativa a carattere intensivo e a più piani, con appartamenti in affitto e destinati ad un'ampia fascia socio-economica (senatori fino persone povere) si diffusero alla fine del II sec a.C. La città era soggetta a continui crolli, incendi e vendite. Le strade erano piene e sporche. Relazione molto stretta tra l’uso dell’edificio e il relativo arredo, determinato caso per caso o spesso ambiente per ambiente, per volere dei committenti o/e proprietari. Gli ornamenti erano parte integrante degli edifici, non erano solo accessori, poiché gli insiemi decorativi esprimevano ciò che la sola articolazione architettonica non sapeva fare, avevano un potenziale comunicativo e simbolico nonché la definizione della gerarchia d'importanza dei vani. Nei casi più estremi gli ornamenti avevano anche una funzione pratica. Completavano l'ossatura fondamentale della struttura urbana, gli elementi che entravano dall'esterno in città, considerati gli esempi più efficaci ed illuminanti della perizia topografica e ingegneristica dei Romani: strade e acquedotti. Dal Isec a.C. la città si era riempita di splendide costruzioni. Si conoscono il nome di sole diciotto viae le strade in entrata e uscita dalla città, a fronte delle 37 porte Aureliane, la più celebre è la via Appia tra Roma e Capua realizzata nella famosa censura di Appio Claudio Cieco nel 312 a.C. strada di fondamentale importanza dal punto di vista politico, economico e militare anche primo acquedotto aqua Appia. Gli acquedotti furono la più recente tra le infrastrutture urbane ad apparire nel paesaggio, degli undici costruiti tra 312 a.C. e 226 d.C. ben sette entravano in città dal settore orientale lungo le vie labicana e prenestina, presso l’attuale Porta Maggiore, punte elevato rispetto al resto dell’area urbana permetteva una più facile distribuzione in tutti i quartieri. Era stato l’amico di Augusto M. Vipsanio Agrippa, ad avviare il più organico piano di approvvigionamento idrico della storia di Roma, istituzione nel 11 a.C. di uno specifico ufficio, la cura aquarum una delle grandi curatele urbane. Spesso gli acquedotti avevano la funzione primaria di rifornire gli impianti pubblici, secondo Sex. Giulio Frontino, curator aquarum nel 97 d.C. l’acqua era prevista per uso pubblico (44%) per uso privato nelle domus (38%) e per imperatore (18%). Tra le infrastrutture ricordiamo poi i ponti. Il più vecchio il Sublicius il cui nome si fa derivare da sublica, palo, trave di legno, attribuito dalla tradizione al re Anco Marcio nella seconda metà del VII a.C. quale collegamento tra il foro Boario e il colle del Gianicolo, monumento considerato sacro tanto che la sua custodia fu affidata ai pontefici e lasciato integralmente in legno. Il ponte più antico in pietra di cui la struttura è ancora ben visibile è il Fabricius edificato dal curator viarum del 62 a.C. collegava l’isola Tiberina alle sponde del Tevere. I ponti erano strettamente necessari per le importazioni di merci e rifornimenti di grano. ribadire il divieto di seppellire in città al V sec d.C. si datano le prime prove archeologiche di sepolture all’interno delle mura, tramonto dell’antico paesaggio urbano. Spopolamento e abbandono della città di Roma dal Vi sec. Capitolo 4 Il centro della città Il forum Romanorum detto anche magnum fu creato alla fine del secolo VIII a.C. nel momento in cui nell’insediamento dell'età del Ferro e ai suoi margini si crearono i luoghi pubblici necessari alla città-Stato. Nella piazza pubblica agivano i magistrati per incontrare il popolo in assemblee dette contiones e per amministrare la giustizia e si svolgevano altre attività ( giochi, vendite, acquisti, processioni, esecuzioni...). Nel corso della seconda metà del secolo VIII a.C. la parte più alta della valle che divideva il Palatino dal Campidoglio fu definita stabilendo ai suoi due margini due nuovi luoghi di culto dedicati a Vesta (radice del Palatino) e Vulcano (sulla radice del Campidoglio). Uniti da una strada la Sacra via. Il centro istituzionale e sacro della città-Stato, la radura (locus) e il bosco (nemus) del santuario di Vesta, dea del fuoco sacro, come mostrano gli scavi, fu allora creato per poi mutare nel tempo, con il grande incendio del 64 d.C. scomparve a favore di una grande casa delle Vestali, annessa al tempio rotondo della dea, nel cui penus, ossia locus intimus si custodivano il Palladio, simulacro di Atena affidato da Zeus ai Troiani e portato a Roma da Enea e altri talismani simbolo dell’origini ed eternità di Roma. Fine VIII sec a. C. si colmò la depressione centrale tra Campidoglio e Palatino per una pavimentazione a una quota non raggiungibile dalle esondazioni del fiume. All'estremità nord-occidentale della piazza, presso il santuario di Vulcano, dove secondo le fonti si sarebbe riunito il primo senatus, si trovava il Comizio luogo di riunione e dell'assemblea delle curiae (comitia curiata). Dalla prima metà del VII sec a.C. al Comizio si unì una nuova sede del senatus la curia hostilia, dal nome del terzo re Tullio Ostilio. Fin dall’origine della città abitava presso il limite orientale del foro il flamen Quirinalis, sacerdote di Quirino, il dio protettore delle curiae. Alla prima Roma venivano fatti risalire alcuni culti lungo la sacra via: Ianus Geminus e il sacello di Venere Cloacina, all'incrocio tra la sacra via e la coaca maxima, e il lacus curtius (fontana). Alla prima età regia (750-616 a.C. ca) è ricondotta nei testi antichi anche la Regia, la dimora-sacrario associata con Numa Pompilio. Negli scavi è stata trovata una dimora regia all’interno del santuario di Vesta verso il foro sulle pendici del Palatino. Un secondo monumento chiamato Regia (VII a.C.) era invece all'estremità orientale del foro, si tratta di un edificio trapezoidale con ampio cortine su cui danno tre ambienti comunicanti, dietro il più tardo tempio del divo Giulio, con più fasi dal VI a.C. Con la seconda età regia un ruscello che attraversava il foro da nord a sud fu canalizzato, conla creazione ci un imponente fogna, la Cloaca Maxima, i lati della piazza furono occupati da dimore nobili per concessione del re. Le case sul lato sud della piazza erano precedute da tabernae (riservate ai macellai). Servio Tullio estese il pomerium includendo i fori, quindi la nuova assemblea politica di uomini armati (comitia centiuriata) istaurate da lui, si tennero a Campo Marzio. Documentazione archeologica di queste fasi quasi assente. Con l’inizio della Repubblica appaiono i primi grandi monumenti: il tempio di Saturno ( 493 a.C. pendici del Campidoglio), il tempio dei Castori ( 484 a.C. presso angolo sud orientale della piazza. Le prime pedane definivano area del comizio: il tribunal da cui il pretore amministrava la giustizia, la Graecostasis dove gli ambasciatori stranieri assistevano ai comizi, la pedana degli oratori detta rostra perché affissi gli speroni delle navi di Anzio (338 a.C.). Il luogo acquisì in dignitas quando i macellai furono allontanati dalla piazza e le loro botteghe furono sostituite dalle tabernae argentariatae dei banchieri nel 318 a.C.(?) La piazza divenne centro di ogni attività connessa al capitale e alle finanze, allontanò i venditori e si arricchì di monumenti pubblici anche a fine onorario, per la memoria e identità di Roma. Sotto l'albero ficus Ruminalis furono dedicate le statue della Lupa e dei Gemelli fondatori per opera degli edili nel 296 a.C., statua di Marsia simbolo di libertas nel 294 a.C. C. Menio, censore, restaurò i portici nel 318 a.C. intorno alla piazza e allestì balconi a balzo sporgenti dalle botteghe per vedere meglio udienze o spettacoli dei gladiatori. L'impegno di Roma nelle guerre contro Cartagine rallentò la realizzazione di nuovi arredi urbani. Due incendi 213-210 a.C. danneggiarono gravemente l’area compresa tra Campidoglio, Palatino e parte delle zone intorno la Sacra via. I censori del 209 a.C. ricostruirono il macellum un mercato alimentare alle spalle della basilica Fulvia/Emilia. Commedie di Plauto menzionano già una basilica nella fine del III a.C. la prima fu la basilica Porcia realizzata sulle pendici capitoline, dietro la curia Hostilia da M. Porcio Catone nel 184 a.C. Nel 179 a.C. fu costruita la prima basilica sul lato nord della piazza, Basilica Fulvia/Emilia ( nome doppio per intervento successivo di L. Emilio Paolo ), vicino nel 159 a.C fu realizzato un orologio ad acqua. Nel 169 a.C costruita la basilica Sempronia e nel 121 a.C. venne costruita la basilica Opimia in stretta connessione con il tempio della Concordia. Sempre nel 121 a.c fu inalzato il fornix fabianus il primo arco trionfale del foro romano al margine del lato orientale forse per la vittoria di q. fabio massimo insieme a cn domizio enobarbo sui celti allobrogi. Il termine fornix fu sostituito dall'uso di arcus dall'età augustea. Nel 145 a.C. l'antico Comizio accoglieva ancora i comitia curiata ma era divenuto troppo angusto per ospitare una nuova assemblea legislativa, nella quale il popolo era diviso in tribus di appartenenza comitia tributa. Questa venne spostata nella piazza circondata nei lati nord, sud, est da pozzetti con aggiunte per delimitare le corsie riservate ai membri delle singole tribù in attesa di esprimere il voto. Altri pozzetti di fronte i rostra erano necessari per allestire i pontes strutture sopraelevate in legno sui quali ciascun votante doveva salire sotto lo sguardo dei magistrati e il popolo. In diversi settori della piazza si svilupparono tribunali permanenti questiones perpetuae diversi per genere di reato. La sede del tribunale del pretore fu spostata nel 149 a.C. e marcata da un pozzo realizzato in un luogo reso sacro (riconosciuto nel più orientale dei sacelli della basilica Fulvia/Emilia. Negli anni turbolenti delle guerre civili alla fine della Repubblica ciò che restava dell'impianto del foro sparì. Durante la dittatura di Silla (82-81 a.C) le pedane che definivano il comizio furono coperte da una pavimentazione con un lastricato in marmo nero (lapis niger) per ricordare il locus funestus dove Romolo fu ucciso dal senato. Riforma del senato di Silla componenti da 300 a 600, bisogno di una nuova curia cornalia sul sito precedente ma più ampia. La pendice capitolina trasformata in una quinta scenografica tra il 78 e il 65 a.C. venne costruito un archivio pubblico tabularium. Nel 52 a.C dopo tumulti la nuova curia bruciò e si dovette attendere il progetto di Cesare ultimato da Ottaviano per ricostruire il nesso tra piazza e senato. Cesare fece ricostruire una nuova pedana rostrata sul lato est . Nel 46 a.C. sul lato meridionale della piazza egli inaugurò una nuova basilica (Giulia) al posto della Sempronia. Scelse il sito per la nuova curia ma non fece in tempo a realizzarla, la curia Iulia fu costruita nel 43-42 a.C. Dopo la vittoria di Azio nel 31 a.C. Ottaviano proseguì i progetti del padre adottivo, inaugurò la curia e un tempio del divo Giulio sul lato orientale del foro, vicino il tempio della Concordia dove il corpo di Cesare era stato cremato. Realizzati archi trionfali quello di Azio nel 29 a.C. e altro per la pacifica restaurazione delle insegne militari ai Romani da parte dei Parti nel 19 a.C. Si edificano nuovi rastra al posto di quelli di Cesare. Dopo Azio ogni dedica di importanti monumenti d parte dei principes viri dovette sottostare al programma urbanistico e decorativo voluto dall'imperatore come rifacimento del tempio di Saturno nel 43 a.C. elogiava imprese del principes con statue. Due incendi, 14-7 a.C imposero la ricostruzione di quasi tutti gli edifici intorno la piazza interventi e restauri dell’imperatore ed erede Tiberio. La piazza pubblica della città parlava ormai solo di Augusto e della sua famiglia. Nel corso del periodo imperiale non cambiò molto intorno alla piazza. Nel foro a fianco al tempio della Concordia e quello di del divo Giulio fu edificato il tempio per il divo Vespasiano completato da Domiziano nell’87 d.C. con un fregio raffigurante utensili sacrificali e simboli sacerdotali. Lungo la sacra via fu realizzato un tempio per Faustina Maggiore divinizzata alla morte e poi associato il divo Antonino Pio dal senato dedicato. Nella fase severiana, dopo l'incendio all’epoca di Commodo 192 d.C.si registra un considerevole intervento sull’Atrium Vestae, in epoca imperiale era caratterizzato da un tempio rotondo e atrio in laterizi occupato al centro da un cortile rettangolare un tempo a due piani e cinto su tutti lati da ambienti di servizio, nei portici si trovavano le statue delle Vestali con il nome delle sacerdotesse iscritti sulle basi tra II e IV d.C. Nell’età dei severi oltre i restauri furono eretti monumenti funzionali alla rappresentazione e alla legittimazione della loro dinastia tra cui il grande arco che chiude il settore nord-occidentale del foro in connessione con quello di Augusto dall'altra parte della piazza. Diocleziano e Massenzio dopo l'incendio del 283 d.C. intervennero con il ripristino della curia e con il restauro della basilica Giulia. Cinque colonne furono erette sulla tribuna occidentale riservata agli oratori, a oriente un’altra con cinque colonne forse sette colonne onorarie a sud stesso momento. All’età di Massenzio risale il cosiddetto tempio di Romolo ( figlio ) un edificio circolare circondato da due aule absidate lungo la sacra via, poi dedicato a Costantino. Origine di questa struttura varie ipotesi: come tempio arcaico di Giove Statore dopo il 64 d.C. o vestibolo per l'aula retrostante del templum Pacis. Massenzio celebrato sulle monete come conservator urbis suae, realizzò alle pendici meridionali della Velia la costruzione di un'enorme basilica. L’edifico innovò la tradizione della tipologia della basilica con una sala sostenuta da colonne e coperta da una capriata in legno accessibile sia dal lato della sacra via sia da uno stretto vano d’ingresso a est, aveva una navata centrale coperta da tre grandi volte a crociera impostate su otto colonne alte quasi 19m in marmo proconnesio, navata centrale conclusa con un'abside più alta rispetto alle altre laterali, a metà del secolo si aggiunge un’altra abside a nord dotata di 8 nicchie ordinate su due file intorno ad una più grande. Anche con Costantin, nel foro i templi e gli edifici sacri degli dei tradizionali continuarono ad essere restaurati come il tempio di Saturno. Nel 410 d.C. anno del sacco di Roma la zona presso la curia bruciò e sono testimoniati diversi interventi di restauro del complesso, dai prefetti urbani, con il secretarium senatus per le sentenze contro i senatori, l’atrium liberalitas la storica sede dei censori. Nel 608 d.C. fu dedicata una colonna in onore all'imperatore bizantino Foca, la curia si traformò in chiesa di S. Adriano nel 630 d.C. S. Maria Antiqua s’insediò alle pendici nord-occidentali del Palatino in una delle aule volute da Domiziano. Le Regioni della città Un percorso più ampio per l’intera città che era articolata in XIV Regioni create da Augusto, può far capire il paesaggio di Roma. La città dal punto di vista urbanistico non aveva un impianto regolare né esistevano zone caratterizzate da funzioni o tipologie architettoniche specifiche. Si susseguivano intrecci di luoghi pubblici e privati, profani e sacri, per amministrazione, per il commercio... Regioni individuati limiti sia attraverso i dati archeologici sia con le fonti letterarie e di altro genere, come i Cataloghi Regionali del IV sec d.C. che per ogni Regione hanno conservato sommari elenchi di monumenti citati per nome. La Regione VIII Forum Romanum Magnum includeva l’area tra Palatino, Campidoglio e la riva del fiume Velabrum, il Campidoglio stesso con le due cime Capitolium e arx, il foro Romano e l’area tra Campidoglio foro e Quirinale (Argiletum), poi dopo occupata dal foro di Cesare e i fori Imperiali (Augusto, Nerva, Traiano). Quasi delle fortezze indipendenti e inespugnabili con ingressi no maestosi e sorvegliati. Una volta completati restarono quasi immutati. Il limite della Regione comprendeva anche l’originario centro politico dello Stato. Un complesso non separabile dal sistema foro-Comizio-arx-Campidoglio la cui istituzione aveva segnato la nascita della città. Possedeva anche l’area Capitolina con i templi di Giove Ottimo Massimo e altre divinità, ai suoi piedi area sacra di S. Omodono. La meglio nota nell’arcaismo romano per rinvenimenti di terrecotte architettoniche. Trovarono posto lì i templi di Fortuna Reduce e Mater Matuta fondati da Servio Tullio. La Regione X Palatium, il cui toponimo dal II sec d.C. qualifica anche la residenza imperiale, coincideva con la prima urbe inaugurata, ricca di memorie del fondatore e della città( murus romuli, porta romanula e mugonia e tempio di Giove Statore) e che ha fornito le maggiori informazioni dell'abitato protourbano, città regia e repubblicana. Ha conservato resti delle più prestigiose dimore di Roma fin dal VI sec a.C. Anche Ottaviano volle abitare sul Palatino, scelse nel 42 a.C. il sito dove Romolo aveva celebrato il rito di fondazione, di fronte all’Aventino, e dopo la vittoria contro Sesto Pompeo egli acquistò plurime case per trasformare la sua dimora in un palazzo. Nel 28 a.C. fondato tempio di Apollo dove era caduto un fulmine, area sacra consistente in un tempio circondato da porticati, tra cui porticato delle Danaidi, perché adorno di statue delle figlie di Danao e lui stesso. Casa con tempio conclusa nello stesso anno in cui Ottaviano assunse il nome di Augusto. Nel 12 d.C. egli rese pubblica una parte della sua dimora, poiché pontefice massimo e dove fu replicato il culto di Vesta. All'abitazione imperiale possono riferirsi anche la Casa di Livia (fistula ritrovata con su scritto Iulia Augusta), resta livello seminterrato, con una decorazione pittorica appartenente alla prima fase dell’edificio dal 36 a.C. Nel 3 d.C. la dimora di Augusto bruciata in un incendio fu ricostruita a spese pubbliche mentre settore orientale ristrutturazione in epoca neroniana e flavia. Tiberio nel 14 d.C. creò una seconda residenza, domus Tiberiana, molto giace sotto Orti Farnesiani. Caligola riorganizzò il palazzo estendendolo sino le pendici settentrionali della collina, fino tempio dei Castori e collegando il palazzo con il campidoglio mediante un ponte. Ogni parte del palazzo portava nome dei membri della famiglia reggente che l'aveva costruita. Nerone fece costruire per se una casa che andava dal Palatino all'Esquilino chiamata Transitoria. La domus Tiberiana ripristinata dopo un grande incendio nel’80 d.C. restò la parte abitativa preferita dagli imperatori anche dopo l’allestimento sotto Domiziano della domus Augustana interamente in laterizio, completata nel 92 d.C. ormai estesa all'intera superficie del monte, il settore al centro del colle fu occupato dalla sua parte di rappresentanza intorno a un peristilio con un una fontana monumentale al centro e al nord comunicante con Aula Regia sala di ricevimento di enormi dimensioni. A quei tempi nella zona di S. Maria Antiqua (prima) s'impiantò un corridoio voltato rampa imperiale, tramite sei tornanti e sette salienti, superava un dislivello di 35 m per collegare foro e Palatino. Sfarzo del palazzo di Domiziano, banchetti e perciò nelle Silvae. A est di quel settore 10 m sotto il livello principale si estende l’ippodromo in realtà una particolare forma di giardino con un portico a tre piani. Nella zona nord-orientale del Palatino denominata Vigna Barberini fosse già occupata prima dell’età flavia da nuclei rappresentativi del palazzo imperiale con aree verdi. In età flavia un terrazzamento con imponenti costruzioni ai margini inglobò tutti i resti epoche precedenti. 218-222 d.C. nell’area si impiantò santuario del dio siriano Elagabalo. Sotto i Severi, complesso ingrandito a sud e nord. Ultima fase di trasformazione attribuibile a Massenzio con un ampliamento della domus Severiana verso il circo Massimo e costruzione di un impianto termale. Regio IV Templum Pacis si estendeva dal limite settentrionale del foro Romano con la basilica Fulvia/Emilia alla Velia, poche fonti archeologiche prima dell’età imperiale. Si concentrano alcune grandi costruzioni: il templum pacis, il tempio di venere a Roma in summa sacra via, la basilica di Massenzio, poco che restava della Velia fu demolito per la via dei fori imperiali. Sull’alta pendice della collina, fortificata c'era la casa del re Tullio Ostilio secondo fonti sotto tempio dei Penati con simulacri degli dei Troiani portati da Enea. Lungo la sacra via si distinguevano horrea di età repubblicana e imperiale come gli horrea Piperataria costruiti da Domiziano per le spezie egizie e arabe, poi area occupata dalla basilica di Dopo l’età del bronzo finale (1100-1020 a.C.) le specificità della cultura laziale emergono sin dal secolo X a.C. con la produzione ceramica e bronzistica nota dai corredi funebri (Osteria dell’Osa). Dalla fine del IX-VII a.C. si assiste ad un salto qualitativo e tecnologico nella ceramica, con l’introduzione del torni veloce e la decorazione dipinta, insieme all’argilla depurata grazie all'apporto di maestranze euboico-cicladiche. Se la bronzistica dipende da modelli e materiali provenienti dall’Etruria, nel Latium vetus si sviluppa una produzione di beni di prestigio poi depositati nelle tombe principesche che cominciano nel VIII sec a.C. e incrementano nel VII a.C. in coincidenza alla costruzione delle città in forme ancora non monumentali. Le esigenze cerimoniali della committenza emergono nella produzione di bronzi laminati e decorati a sbalzo e introduzione di nuove forme di vasi per nuove abitudini come vino per il banchetto. Roma spicca per il vasellame di impasto inciso e dipinto a copertura bianca e pittura rossa. Plinio il Vecchio e Plutarco attribuiscono a Numa Pompilio la prima organizzazione di artigiani in collegi e fa sempre risalire a questo periodo le prime testimonianze della bronzistica a Roma a partire dai dodici Ancilia, scudi custoditi nella Regia dal collegio sacerdotale dei Sali. Mamurio Veturio, il primo artigiano di cui si è fatta menzione fosse riuscito a fabbricarne 11 identici a uno caduto dal cielo. Le copie avevano la funzione di impedire a un eventuale ladro di trovare l'originale. Ma i Romani lo accusarono di aver impedito la venerazione dei veri Ancilia. In Etruria trovati in una necropoli di Veio dei dischi di bronzo riccamente decorati, restituiscono il prototipo degli Ancili. Artigiani conosciuti per nome in Etruria non sono rari per le firme nei vasi, risale anche il celebre cratere Caere firmato da Aristonothos e decorato su un lato dall’accecamento di Polifemo. Durante la <<Grande Roma dei Tarquini>> la nascita delle strutture statali portò al consolidamento di una compagine urbana tra le maggiori del mediterraneo. Novità che ci furono: regolamentazione delle acque dei fossi e bonifica degli acquitrini, canalizzazione della cloaca Maxima, prime strade a fondo artificiale, utilizzo del foro Romano come luogo di rilevanza politica e religiosa. Erezione della cinta muraria, mura severiane. Investimenti nella costruzione di edifici pubblici come Regia, curia e circo. Produzione di laterizi e rivestimenti fittili per i tetti, tegole rimangono riservate a edifici pubblici e a case del ceto medio-alto. Scompare il lusso privato dei corredi funebri. Comparsa dei primi documenti incisi su bronzo o pietra come lapis Niger con iscrizione in versi saturni recante il regolamento per i sacrifici da eseguire forse nel santuario di Vulcano. Monumentalizzazione dei culti e introduzione di forme greche nelle architetture sacre ed ellenizzazione dell’iconografia degli dei. Comparsa del mito greco nell’imagerie etrusca è nei primi decenni del VII a.C. Introduzione dei libri sibillini da Cuma, rotoli di papiro scritti in greco con raccomandazioni rituali che presupponevano sacerdoti in grado di consultarli. Nel secolo VI a.C. il tempio si definì come categoria architettonica autonoma. Nella terminologia corrente si chiamano templi tuscanici quelli a tre celle, mentre la più generica nozione di etrusco-italici a quelli con una o più caratteristiche di questo tipo: pianta tendente al rettangolo, podio elevato, accesso frontale, un accesso frontale servito da una gradinata assiale, una parte anteriore profonda e aperta in facciata che permette al sacerdote una visione panoramica verso l'esterno per gli auspici, orientamento vero sud, colonne rade con larghi intercolunni. Si fanno rientrare nella tipologia di templi etrusco italici quelli ad alae ossia con la cella centrale affiancata da due corridoi aperti in facciata oppure il periptero sine postico con colonne solo in facciata e sui lati. Il tempio di Giove Capitolino è un esempio di tempio a tre celle fu avviato da Tarquinio Prisco e completato da Tarquinio il Superbo. Tutte le tipologie di tempio, salvo eccezioni, inizialmente avevano il frontone aperto, senza timpano, e lo spazio vuoto era riempito da lastre di rivestimento in terracotta inchiodate all'estremità del trave centrale e di quelli laterali, dal IV a.C. i templi adottarono un frontone chiuso decorato con soggetti mitologici diffusi. Nell’arcaismo romano, un tempio ad alae del 580 a-C- identificato con quello della dea del mattino, Aurora Mater Matuta già vanta un frontone greco di tipo chiuso con decorazione formata da due felini affrontati da due Gorgoni. Nella seconda metà del secolo VII a.C. le coperture fatte di strame di paglia furono rimpiazzate da tetti di nuova concezione con l'adozione di tegole e decorazione fittili per i templi e residenze gentilizie rivestimento di alta qualità tecnica di Roma-Campania- Etruria. I fregi figurati eseguiti a stampo da matrici, raffigurano processioni di carri a carattere trionfale, corse di cavalieri armati e brighe e banchetti che esaltano l’eroico cerimoniale dei gruppi dirigenti anche mediante l'inclusione di temi mitici ed elementi della sfera ultraterrena. Le più antiche tracce di edilizia abitativa a Roma risalgono al IX -VIII sec a.C. e la prima struttura abitativa a Roma è stata identificata come una casa con corte nell’area del santuario di Vesta. Vengono utilizzati in Etruria e nel Lazio o edifici di tipo palaziale (Murlo) oppure strutture di dimensioni minori articolate in vani con sviluppo laterale. Un nuovo modello residenziale signorile pare comparire a Roma nel VI sec a.C. ricostruzione di un edificio sulle pendici settentrionali del Palatino, una serie di ambienti disposti in asse longitudinale, tale forma attestata nello stesso periodo in Etruria la tipologia della domus potè essere elaborata alla fine del secolo VI a.C. per disseminarsi e standardizzarsi sempre di più nelle colonie di Roma. Recentemente la sua possibile origine in ambito etrusco si è andata affermando con un confronto con delle tombe di Caere. L’atrio uno dei loca publica delle case dove avveniva l’incontro tra clienti e il dominus è simbolo dell'identità romana e i Greci non ne facevano uso. Le più antiche menzioni di artigiani riguardano stranieri giunti in Italia centrale nella cornice del commercio aristocratico, tre modellatori dai nomi parlanti, Euchino <<dalla buona mano>>, Diopo <<colui che traguarda>> ed Eugrammo <<dalla buona pittura>> e un pittore Ecfanto che accompagnano un ricco mercante Damarato nel VII sec a.C. Questo mercante della stirpe dei Bacchiadi si stabilirà a Tarquinia dove sposò una nobile del luogo e dalla loro unione nascerà Tarquinio Prisco. Nella fase finale del suo regno verrà chiamato Vulca per la grande statua di culto del tempio di Giove Capitolino che nei giorni di festa veniva cosparsa di minio. Egli è l'unico artista etrusco noto per via letteraria. L'Urbe istaurato rapporti culturali con Veio, anche per la vicinanza geografica, accolto il culto di Enea come fondatore. Primato di Veio nella coroplastica è confermato dalla scoperta nel santuario di Portonaccio di gruppi straordinari acroteriali e votivi attribuiti ala generazioni successive a Vulca, i <<Maestri>> . Tra loro il Maestro del gruppo di S. Omobono al quale si assegna anche l’acroterio della seconda fase di Mater Matuta con un gruppo di Ercole e Minerva, relazione con i riti etruschi e latini della vittoria militare, proiezione di una dimensione eroica. Si tratta di creazioni imbevute di cultura figurativa greca, favoriti da artigiani integrati nella comunità come meteci evidente nella pittura vascolare nella pittura funeraria e nella produzione di bronzetti raffiguranti kouroi e korai, Il maestro di Apollo ideò l’intera decorazione coroplastica del tempio nel santuario di Portonaccio eretto nel 510- 500 a.C. caratterizzato da statue sul tetto con finzione di acroteri di colmo e di falda raffiguranti episodi del mito. I modellatori e pittori Damofilo e Gorgaso decorarono a Roma il tempio della triade plebea sull’Aventino nel 493 a.C. legato ad un culto officiaro secondo il rito greco, i due venivano da Messina che era stata occupata da Anassilao nel tempo della tirannide fondando lo stato dello stretto. Prima di allora le decorazioni dei templi erano tuscaniche, ossia maestranze etrusche. A Riprova dell'ellenizzazione del Lazio Arcaico nelle iscrizioni latine la scrittura cambiò direzione per diventare destrorsa come nel mondo greco, nelle etrusche si usava invece la direzione sinistrorsa. Nel 509-8 a.C. trattato di amicizia con Cartagine segnò il riconoscimento internazionale del controllo di Roma sulle coste tirreica dalla foce del Tevere a Terracina, nello stesso momento il culto straniero della dea fenicio-punica Astarte faceva il suo ingresso nel santuario di Pyrgi (riportato nelle lamine d’oro di Pyrgi). La presenza di mercanti fenicio-punici è confermata dalle placchette in avorio distinte in due parti rinvenute anche a Murlo, con registrazione del nome di un forestiero e dell’ospite- patrono. Alla fase iniziale della Repubblica risale un monumento pubblico a celebrazione della saga delle origini. Malgrado la proposta di una datazione medievale, ne sono state rimarcate le tendenze iconografiche e stilistiche con l’arte persiana, filtrata dalla cultura figurativa ionica. Altra possibilità che quest'opera sia una copia dei secoli XII-XIII sempre sulla base di riscontri tecnici, e che sia riprodotta attraverso calchi appunto da un originale etrusco-italico. Dal secondo quarto del secolo V a.C. dopo la disfatta navale della flotta etrusca a Cuma contro Ierone di Siracusa, Etruria iniziò un secolo di crisi che provocò un restringimento delle possibilità rappresentative e delle ricchezze. La cultura figurativa fino alla metà del IV a.C. accolse le coeve conquiste greche in modo non sistematico, coesistenza di tante esperienze non facilitano datazione. Critica avvalsa dell nozione di << attardamento >> per descrivere la relazione tra Grecia e Italia. Nel senso generale però sbagliato perché le esperienze classiche in Etruria Padana furono recepite anche con tempestività. Il non ricevere tempestivamente in alcuni luoghi era provocato da un infiacchimento delle committenze pubbliche che impedì alle officine di aggiornarsi. Ripresa dell’opulenza aristocratica alla fine del V e inizio IV a.C. specie nel corridoio della Valle del Tevere e Chiana. A Falerii Veteres intorno al 380 a.C. avvio della più antica ceramica nella tecnica a figure rosse trasse stimolo dalla maestranze greche presenti e importazione di vasi attici a figure rosse . Bronzistica la Chimera d'Arezzo opera votiva di matrice attica. Per Roma la scarsa documentazione è compensata dalla grande scultura fittile dal santuario orientale forse di Atena Iliaca a Lavinium. Ex voto nel Lazio composto da terrecotte, una delle tre statue di Minerva fine V a.C. con un’iconografia anomala spada nella destra e scudo poggiato su un tritone con duplice coda di pesce, idea di un aspetto di statua di culto e come veniva recepita la cultura greca . Il corpo è appiattito, il volto schematico con grandi occhi e le pieghe del chitone a regolari strigilature appena ondulate. Artigianato e monumenti onorari a Roma e in Italia Centrale nei secoli IV-II a.C. Poco prima metà IV a.C. risale la cista Ficoroni scoperta a Praeneste. La cista un contenitore di forma cilindrica destinata a custodire un corredo femminile, ha un'iscrizione. Eseguita a Roma da un certo Novios Plautios il proprietario dell’officina su ordinazione di una dama prenestina, la committente Dindia Macolnia che donò l'oggetto alla figlia (oggetto parlante. Decorazione figurativa a bulino ricalca i motivi della pittura greca come il soggetto un episodio della saga degli Argonauti. Ceramica italiota svolge un ruolo intermedio, inoltre Praeneste, oltre a importare bronzi lavorati tarantini, dovette fungere da tramite per la diffusione lungo la valle tiburtina di modelli italioti. Le statuette i Libero e dei satiri sul coperchio, oltre a rivelare il successo di soggetti bacchici in Italia centrale furono in passato attribuite ad un’officina etrusca, errato convincimento che l’opera non fosse unitaria. Sempre di più le officine laziali diffusero le nuove tendenze dei secoli IV-II a.C. anche a causa dell'espansione territoriale dei romani. A Roma nella seconda metà del IV a.C. grandi novità qualitative e quantitative nei monumenti e nell’artigianato a causa delle trasformazioni degli assetti politici e socio-economici. Requisizione da parte dell’aristocrazia di grandi territori da valorizzare. Espansione dell’Urbe e le conquiste militari permisero si entrare in diretto contatto con varie aree geografiche del sud e anche quindi con varie versioni di grecità. Comandanti per le vittorie dedicano templi e monumenti onorari. Roma diventata la padrona dell'Italia cominciò a dotarsi di migliori infrastrutture di servizio, riorganizzare gli spazi come il foro Romano soprattutto nella parte del Comizio, spazio inaugurato assunse una forma circolare ispirandosi ai modelli architettonici greci, mentre nella tribuna al lato meridionale furono collocati gli speroni rostra delle navi catturate nel 338 a.C. flotto di Anzio. Foro Romano elevato a luogo di rappresentanza civile e politica sul modello dell'agorà greca guadagnando in dignitas con ,la sostituzione delle botteghe dei macellai con le taberne dei banchiere, che poi accresce con la costruzione di basiliche come quella Fulvia/Emilia funzionali allo svolgimento di attività finanziarie, giudiziarie o amministrative. Greci considerano Roma non conforme alla sua potenza, poiché tessuto urbano confuso e disadorno, secondo la letteratura per la fretta di ricostruire dopo l'invasione dei Galli nel 390 a.C. L'Urbe diventerò comunque anche un centro produttivo, soprattutto nel mercato della ceramica. Le officine del Gruppo dei Piccoli Stampigli fine IV a.C. e i primi quaranta del secolo seguente, ampia circolazione in Italia centrare e oltremare sono attribuite a Roma e area laziale ed etrusca. Lo stesso vale peri piattelli del tipo Genucilia decorati a figure rosse con teste femminili di influenza italiota, e di più ristretta diffusione vasi a vernice nera con decorazione policroma sovradipinta recanti in latino il nome di una divinità seguito da pocolom e dipinti in modo rapido, molte divinità sembrano riferibili a luoghi di culto attestati a Roma. Inoltre casi compare una decorazione eccezionale con un elefante in relazione con la spedizione in Italia meridionale di Pirro, ricalcato forse una rappresentazione elaborata già nell'ambiente di Alessandro Magno. L'Artigianato in Italia Centrale spezzettato in numero sfaccettature ma qualitativamente eccellente e molte sono le connessioni con le più colte sfaccettature artistiche. Raggiunto allineamento con la cultura figurativa greca, lo conferma la coroplastica votiva tra IV-III a.C. intensificazione della pratica di dedicare nei santuari dei doni in terracotta che consistevano in ex voto anatomici raffiguranti parti del corpo umano a Roma al contrario della Grecia offerti in qualsiasi santuario, ma anche teste ricavate da matrici o busti e statue non personalizzati. Frammento di affresco a carattere storico proveniente da una tomba dell’Esquilino mostra una tecnica a macchia. Gli affreschi della necropoli di Spinazzo a Paestum nel 268 a.C. presentano figure con sicura linea di contorno e documentano l'acquisizione delle tecniche greche nella riproduzione degli effetti della luce, come nell’uso di segnare l'ombra dietro gli oggetti appesi alla parete. Nei secoli IV-III a.C. l’arte per i romani fu uno dei mezzi per la celebrazione del potere e della religione statale come statua di Giove dedicata da Sp. Carvilio Massimo sul Campidoglio nel 293 a.C. per vittoria contro Sanniti e così grande da potersi vedere dalla sommità di Monte Cavo nei colli Albani. Questa fu ricavata da corazze, gambali ed elmi dei nemici sconfitti. In questo periodo si perfezionarono specifiche tipologie rappresentative romane. L’élite politica e il popolo si impegnarono alla formazione di un a memoria monumentale negli spazi pubblici con la dedica di templi, archi, spoglie di guerra e statue onorarie in luoghi come Campidoglio e foro Romano luoghi anche di competizione tra i membri del gruppo dirigente. Il potere di Roma e dei suoi monumenti accresceva con processioni funerarie o trionfali in memoria di protagonisti del presente e passato, la società aveva bisogno di aggrapparsi a esemplari di comportamenti fissati dai costumi degli antenati (mos maiorum). Statue onorarie in bronzo concesse da senato e popolo di figure assurte a modelli di identificazione per l’intera comunità e utili al consolidamento della memoria pubblica. Perfino due personaggi greci, Alcibiade e Pitagora, ricevettero delle statue all’estremi del Comizio, esempi rispettivamente dei valori cardinali della società romana fortitudo e sapientia la seconda da intendere come di conosenze utili all'adempimento delle proprie mansioni. Tomba gentilizia degli Scipioni nel sarcofago di Scipione Barbato c'è un elogio in versi saturni che lo celebra come uomo forte eapiente la cui bellezza fu in pari al valore coe l'ideale grecp del kalos kai agothos. Molte sepculazioni sull’abinamento Pitagora- Alcibiade, dottrine pitaforee tra le famiglie più ellenizzate della società e Alcibiate un'imitazione ateniese in chiave antispartana (spartani alleanti di sanniti). Solo sospettabile una loro ttribuzione a officine greche o della magna grecia. Delle statue onorarie/votive in bronzo di quei decenni resta pochissimo salvo il Bruto capitolino fine IV a.C. ancora incerto se a plasmarlo fu un etrusco romano o campano. Il confronto con opere greche coevefa capire che fu prodotto da un artefice in contatto con le soluzioni del ritratto greco individuale pensatori e oratori. Sommatosi a formule figurative centro-italiche come la chioma appiattita e la barba con ciocche a fiammella. Nelle processioni trionfali sfilavano le tabulae triumphales resoconti visivi dei fatti salienti della guerra che poi venivano deposte dentro i templi o in pubblico in modo permanente: Tabula di M.Valerio Massimo Masella nel 264 a.C dopo vittoria contro Ierone II e cartaginesi. Tabula di C. Terenzio Lucano nel 214 a.C. con giochi gladiatori. Nel 264 a.C mutò il rapporto tra Roma ed Etruria perché ormai da Roma dipendevano le città etrusche. anche la ritrattistica continua a riflettere le molteplici opzioni figurative a disposizione degli artifici e le scelte individuali dei committenti. Identificate teste con certezza un tempo queste abbinate a statue. Pompeo aveva una ciocca di capelli appena sollevata sulla fronte e occhi che si muovevano con vivacità conferendogli una somiglianza con i ritratti di Alessandro Magno. Il suo ritratto viene citata la chioma di Alessandro segno del combattente vittorioso combinandola alla faccia di un uomo di mezza età con fronte corrugata occhi piccoli e labbra sottili. Cesare nel ritratto di quando era ancora in vita ha i capelli piatti e il viso smunto con rughe accentuate sul collo. Sul volto concentrato di Cicerone a bocca appena aperta spicca la fronte altissima solcata da pieghe. L’Arringatore ritratto di aule Meteli il membro della nuova aristocrazia municipale ritratto con un gesto di allocuzione. Il bronzo in toga pretesta e scarpe chiuse dedicato In un santuario del Trasimeno quasi certamente dopo la concessione della cittadinanza romana dell'anno 89 a.C. viso e chioma adottano le formule in bocca nella ritrattistica di Delo, d'altronde artisti di Delo furono al servizio di committenze italiche. Nel 78 a.C. non esiste nell'Urbe abitazione più bella di quella del console M. Emilio Lepido prima usare marmo di Numidia. Ma dopo pochi anni la sua dimora non occupava neppure più il 100° posto in graduatoria. Gli sprechi innescati da un aumento di ricchezza sociale perché potenti avevano assoluto bisogno di una casa di rappresentanza consona alle proprie caratteristiche politiche e sociali in una parola la propria dignitas, in cui svolgere anche pubblici affari. La tarda repubblica le colonne di marmo cominciarono a sostenere i tetti non solo dei templi ma anche di altri come piccole edicole o peristili. Emblematico è il destino di quattro colonne di marmo Loculleo. Le più alte delle 360 che furono trasportate nell'atrio della casa di M. Emilio Scauro sul Palatino. Foro di Cesare Il forum Iulium durata nel 46 a.C. alle pendici del Campidoglio, un necessario un intervento di livellamento dato l'irregolarità dell’area. Regolava in una piazza rettangolare circondata da tre lati da portici a due navate Sul portico del sud occidentale furono previsti una serie di ambienti adibiti a uffici per attività amministrative e giuridiche. Sul lato nord occidentale il tempio dedicato a Venere genitrice datato nel 48 a.C. a Farsalo contro Pompeo, Stava su un podio elevato 5 m rispetto al livello della piazza con facciata otto colonne e peristasi su tre lati. Vi si accedeva tramite due scale laterali. La statua di culto di Venere Genitrice fu realizzata dallo scultore Arcesilao. Tutti al tempio si trovava una fontana monumentale. Accanto a diverse statue di Cesare e poi della famiglia imperiale nel foro si trovavano parecchie opere d'arte come quadri e gemme di Mitridate. Successivo fu il progetto di integrare il complesso la nuova curia iulia, approvato nel 44 dal Senato e concretizzato nel 42 a.C. da Ottaviano. Inaugurò di nuovo il foro nel 29 a.C., allungato di 20 m, diversi interventi in età imperiale. Articolazione interna e la decorazione esterna furono modificate al tempo di Traiano. Il portico sud occidentale fu collegato con la grande esedra meridionale del foro di Traiano mediante un portico a due navate basilica Argentaria. Dopo un incendio nel 283 d.C. furono cospicue le modifiche da parte di Diocleziano e Massenzio con un restauro sia del portico sud occidentale sia della facciata del tempio inglobata in un muro in laterizio con colonne sporgenti per metà del loro diametro Nel porticato sud orientale fu eliminato il colonnato mediano con una pavimentazione marmorea in opus sectile. Capitolo 6 Secolo I a.C. Secolo I d.C. dagli imperatori giulio-claudia alla dinastia flavia. Si afferma che i romani avessero recepito il linguaggio figurativo greco. Quel linguaggio e le immagini che il mondo greco aveva costruito diffuso nel bacino del Mediterraneo furono adattati dai romani perché divenissero strumento di comunicazione per la società con parametri differenti culturali. Il fenomeno si delinea già nella tarda Repubblica quando rapporto con la Grecia il mondo greco orientale non fu più intermittente ma continuo. Alla fine del III secolo a.C. Livio Andronico tradusse Odissea e le opere di Plauto e Terenzio si rifacevano alla commedia Nuova.La cultura greca divenne basilare per la formazione dei romani di alto lignaggio. Magistrati parlavano correttamente il greco e molti di essi provavano un forte amore per la Grecia da importare a Roma maestranze greche Per la produzione di opere d'arte. Gli artisti greci si adeguarono rapidamente ai gusti dei nuovi committenti. In età tardo repubblicana i romani più ricchi erano possidenti comproprietà sparse con ville inizialmente rustiche dedicate al controllo delle attività agricole in seguito ampliate e diventate abitazioni di lusso. Nell'assetto decorativo di quest'ultime i proprietari facevano poggio della loro opulenza e dei loro gusti senza controllo sociale urbano in campagna infatti era concesso qualche a Roma era inattuabile. Le villa e divennero fastose dimore, ville come dimore degli dei simboli sparsi ovunque come statue e affreschi. Si sviluppò una ricchissima produzione di manufatti che sotto il profilo tipologico o iconografico imitavano modelli greci in origine a carattere virtuoso ma destinate a diventare nelle ville romani elementi decorativi che tentavano di suggerire il loro originario significato. Sculture realizzate per templi e santuari, doni votivi come seggi, troni, letti «Inseriti come decorazione a volte originali alcune volte copie. Un altro ambito nel quale il gusto la mentalità dei romani hanno trasformato il linguaggio appreso dalla Grecia è l'architettura religiosa. Il tempio in Grecia ha solo la funzione di contenere la statua di culto i doni votivi, a Roma il tempio non ospita soltanto la statua del dio ma la sede di attività sacrali e un luogo di incontro di confraternite e di collegi sacerdotali e anche usato per riunioni del senato. Gli intercolunni Del tempio dovevano essere abbastanza spaziosi da permettere alle donne in processione di varcare l'ingresso tenendosi a braccetto. In età tardo repubblicana sì cerco l'equilibrio tra esigenze religiose romane eleganza di architettura sacrale greca. Furono conservati gli elementi essenziali della morfologia templare tradizionale ovvero edificio non allungato alto podio. Peristasi spesso priva del colonnato e del corridoio di retro, cella di maggior misura spostata verso il fondo, allargamento degli intercolunni. prima dell'importazione del marmo di Luni in architettura per la foderatura delle superfici in pietra o in legno si usava lo stucco plasmato con estrema maestria. La difficoltà di importare il marmo non era l'unico motivo per la carenza di edifici marmorei a Roma lo stucco creava elementi architettonici di qualità formale pari se non superiore a e in età tardo ellenistica ad Alessandria e Rodi l'utilizzo dello stucco era molto sviluppato. L’architettura a Roma da Augusto a Domiziano La città era soggetta di frequente a inondazione e incendi, per tale motivo il principe tentò di ridurre i fattori di rischio con una serie di provvedimenti. Come l'istituzione di numerose curatele e di corpi di sicurezza, e la nomina di un curator alvei incaricato di controllare il corso urbano del Tevere, tenendo sgombro da detriti sia il letto, sia il greto. Costituzione di sette coorti di vigili del fuoco, ognuna di mille uomini per una efficacia protezione della città dagli incendi. Con l’aiuto di M. Vipsanio Agrippa rifornì la città di idonee risorse idriche con il restauro e costruzione di nuovi acquedotti. Celebre frase in punto di morte di Augusto è di aver ricevuto una Roma di mattori e di averla lasciata di marmo. Si atteggiò come un nuovo Romolo, rifondatore della città, riferimenti simbolici nel suo programma di monumentalizzazione tendevano sia ad un sentimento religioso che d'altro a stabilire un confronto con il primo re di Roma. Si spiegano così anche prima di diventare padrone assoluto dell'Impero i suoi restauri ai templi fatiscenti come il tempio di Giove Feretrio in Campidoglio secondo la leggenda dedicato da Romolo. Altre iniziative come il ripristino di altri sacerdozi e cariche sacerdotali, Ottaviano/Augusto si contrapponeva ai predecessori accusati di non essere stati capaci di onorare gli dei, e invece lui con la sua opera di pacificazione era percepito come loro emissario. Nel ripristino e nuova costruzione cercò di garantire l'integrità del tessuto urbanistico e di non sconvolgere l’immagine ereditata per rispetto anche della Repubblica. Solo nel Campo Marzio e in altri pochi tratti dell’antico centro la sua presenza nella topografia urbana fu dirompente con schemi urbanistici più aggiornati. Il progetto principale previde il ridisegno globale di una vastissima area del Campo Marzio settentrionale (deserta) dominata dall'imponente edificio funerario a carattere dinastico che Ottaviano aveva cominciato a costruire sulle rive del Tevere, forse aggiornando i tumoli funerari degli eroi greci. Mausole sovrastava con la sua gigantesca mole tutta l’area trasformata a giardino con boschetti. Il Campo Marzio centrale a sud della via Recta (odierna via dei Coronati ne segue parzialmente percorso) era legato a memorie romulee, luogo di raccolta degli uomini atti alle armi i saepta dove Romolo scomparve ascendendo all’Olimpo. L’area fu monumentalizzata con i saepta Iulia (forse lavori iniziati da Cesare) affiancati da due porticati ricchi di opere d’arte, porticus Meleagri e porticus Argonautarum e il diribitorium (destinato allo spoglio dei voti) il cui tetto era una delle meraviglie ingegneristiche dell’epoca in quanto realizzato in travi lunghe centro piedi e alre un piede e mezzo, il Pantheum o Pantheon già in origine a pianta circolare e dedicato nel 25 a.C. nel luogo dove Romolo era stato assunto in cielo dove venivano celebrate le principali divinità olimpiche insieme a Cesare e Romolo che erano stati divinizzati. Le terme di Agrippa il primo grande edificio termale pubblico a Roma 25-12 a.C. affiancate dallo stagnum Agrippae un laghetto ottenuto con la bonifica del lacus Caprae, magnifico canale d’acqua collegato al Tevere. Le importanti strutture monumentali furono inserite in una maglia ortogonale he aveva come asse portante il rettilineo di collegamento tra gli ingressi del Mausoleo e del Pantheon. Assetto alle analogie tra Augusto e il primo re di Roma e ne suggeriva l'inevitabile futura divinizzazione. Nel 10-9 a.C. nello spazio compreso tra Pantheon e Mausoleo di Augusto, fu eretto in onore di Sol un grande obelisco egiziano proveniente da Eliopoli in Egitto e più a oriente l’altare monumentale dell’ara Pacis. L’obelisco era lo gnomone di una meridiana e il 23 settembre compleanno di Augusto la sua ombra puntava verso l’ara Pacis, l'ombra miava verso il recinto dell’altare rasente agli stipiti della porta d'accesso, l’asse di simmetria orientato invece secondo il percorso compiuto dai raggi del sole il 21 aprile giorno delle Palilie e della nascita di Roma. Il medesimo rapporto incrociato tra 21 aprile e 23 settembre sembra scorgersi nell’orientamento del Pantheon. Si suppone che solarium, ara Pacis e Pantheon fossero gli elementi fondati di un programma simbolico a celebrazione di Augusto come novus Romulus. Nel cuore della città il tessuto connettivo subì solo qualche lacerazione, ma non fu mai oggetto di un aggiornamento progettuale complessivo. Prova lampante nell’innesto della Porticus Liviae nell’Esquilino dove prima c'era la domus di P. Vedio Pollione odiato per i suoi comportamenti disumani verso la servitù. Si percepisce anche nella Forma Urbis la porticus che aveva al suo centro un piccolo sacello dedicato alla Concordia per unione tra Augusto e la sposa Livia s'insediava tra un intrico di isolati e stradine senza nessuna opera di regolarizzazione. Il principe pilotava la memoria collettiva in funzione del suo messaggio in apparenza pacificatore. Lo fece cancellando su buona parte dei monumenti da lui restaurati o ricostruiti i nomi dei loro primitivi dedicanti apponendovi il suo nome, o quello dei suoi parenti, o mutando spesso il loro dies natalis perché coincidesse con il suo compleanno come circo Flaminio. Egli intervenne nell’area della porticus Metelli ricostruendo porticati e due templi di Giove Statore e di Giunone Regina dedicando poi il complesso alla sorella Ottavia. Un personaggio di nome C. Sosio trionfatore sui Giudei nel 34 a.C. ebbe la possibilità di dedicare il nuovo tempio di Apollo Medico il cui programma figurativo tra cui fregio esterno e interno parlano di Ottaviano e delle sue gesta. È in questa fase che si impone la tipologia del tempio periptero o pseudo-periptero (semicolonne sui lati lunghi ) sine postico come il tempio di Augusto e Livia a Colonia Iulia Viennensis (Vienna). Pseudo- periptero sine postico era il tempio di Apollo Palatino votato nel 36 a.C. nell’area destinata ad essere occupata dalla dimora del principe, seguirono il tempio di Apollo Medico e il nuovo tempio di Giove statore nel portico di Ottavia (prima porticus Metelli) . In questi templi compare l’uso sempre più massiccio del marmo in luogo del tufo o del travertino stuccato, i loro interni diventano sempre più fastosi e originali. Nel tempio di Apollo Medico è possibile giudicare l'interno della cella grazie alla ricchezza di dati, spazio on neutro ma ritmato dalla presenza alle pareti di un doppio ordine di colonne di marmo africano a risalto su podio che ribattono su lesene. La trabeazione del primo ordine era rettilinea e figurata, tra le colonne c’era un edicola che costituiva con le statue inserite una complessa articolazione accentuata dalla policromia. Anche le edicole erano formate da colonne, fregi e frontoncini di pavanazzetto di Frigia, giallo antico da Chemtou e di portasanta dalla cava presso Latomi isola di Chio, mentre le modanature erano di giallo e rosso antico, il soffitto di stucco dorato, pavimento in opus sectile con campiture a modulo quadrato e a quadrati inscritti in diagonali in giallo antico, pavonazzetto, portasanta, africano e fasce perimetrali di cipollino. Ripresa dalla decorazione interna del Pantheon in fase adrianea. Nel foro di Augusto il programma ideologico del principe si dispiegava nel modo più compiuto importanza enorme a livello comunicativo. Il tempio di Marte Ultore ebbe una funzione trionfale fino allora svolta dal tempio di Giove Capitolino. Nel tempio si assegnavano le provincie ai magistrati, davanti si sacrificava alla partenza e al ritorno conclusione del mandato. Una cerimonia simile con sacrificio di un toro si celebrava al ritorno dell’imperatore a Roma. Nel foro svolgeva la sua attività il praetor peregrinus che vigilava sui rapporti tra cittadini romani e provinciali. Foro divenne sede di dediche da parte delle provincie dell'Impero. Molte colonie e municipi italici e provinciali ne imitarono la morfologia, aspetto decorativo... Ottaviano/Augusto scelse come sede per le sue abitazioni il Palatino, rapporto simbolico con Romolo che proprio nella zona scelta dal principe aveva la sua primitiva dimora e dato avvio ai riti di fondazione della città. La domus di Augusto era il risultato dell’acquisizione di più case alle quale non era stato offerto un assetto architettonico unitario. Più case collegate tra loro e a esse connesso il grande santuario di Apollo Palatino il dio protettore del principe al quale doveva la vittoria di Azio. Dimora era colorata di valenze sacrali accentuate al trasferimento nell’area di una succursale del culto di Vesta resa necessaria perché Augusto nella sua veste di ponteficex maximus la cui sede storica era presso il tempio, non poteva abitare lontano dalla dea. Anche i successori di Augusto non diedero una sistemazione unitaria al complesso abitativo palatino fino a Nerone che dopo l'incendio del 64 d.C. iniziò un capillare lavoro di rifacimento non solo architettonico ma anche urbanistico e l'avvio della costruzione della domus Aurea. Solo Domiziano con un differente progetto e l’interro di tutti gli edifici precedenti tra i quali L'Aula Isiaca e la Casa dei Grifi riuscì a ricostruire una sede imperiale a carattere unitario sul Palatino. AI complesso palaziale augusteo erano forse pertinenti la casa di Augusto la casa detta di Livia e l'Aula Isiaca. La prima forse la casa in origine dell’oratore Q. Ortensio Ortalo fu sacrificata per lasciare spazio al piazzale e ai porticati antistanti al tempio di Apollo Palatino. Case non particolarmente grandi, no sfoggio di ricchezza ma elegante semplicità segno distintivo della rivisitazione di queste dimore repubblicane. Nel 28 a.C. dedicato il tempio di Apollo Palatino e terreni circostanti sono stati livellati quindi case interrate e costruita nuova casa di Augusto. Ben separati spazi di rappresentanza e privati ai lati del tempio sul cui piazzale si affacciavano anche due biblioteche greca e latina, una delle quali anche sede alternativa del sentato in determinati casi contro la tradizione. La Villa della Farnesina ai bordi del Tevere nella Regione XIV fu costruita secondo le regole delle più lussuose ville di età repubblica con grande esadra affacciata sul fiume, peristili, porticati, criptoportici e ambienti con decorazione ad affresco del II stile finale rari esempi di villa e non domus. Era pertinente ad un hortus nell’area lungo la linea delle mura severiane, interrata necropoli repubblicana e diventato parte dei territori imperiali e abitata da Tiberio al ritorno dall’esilio. Forse una delle dimore di Agrippa e Giulia al momento del matrimonio nel 21 a.C. attici del IV secolo. Ara Pacis non è immune all'influenza artistica greca ma rispondono a una diversa esigenza il messaggio che trasmette non è greco, rare le processioni raffigurate. Nell’ ara Pacis Ci sono differenti sfumature tra il fregio grande con la processione e il piccolo fregio con pompa sacrificale sulle sponde dell'altare con bassi elementi d'arte popolare romana e i pannelli simbolico-mitici derivano dalla tradizione ellenistica. Ogni soggetto è perciò impostato secondo schemi figurativi tratti dall’ampio repertorio dell’arte greca non esclusivamente da quello “classico” risultato ottenuto non ha confronti nell'arte greca. Immagini pacate e serene ma lo stile che amalgama in un sistema unitario tanti spunti di lettura è una costruzione nuova che suggerisce la creazione di un nuovo linguaggio classico consono ai temi della comunicazione augustea. Il nuovo linguaggio si avverte con maggior tensione nei pannelli simbolico-mitologici e anche nel grande girale d’acanto della fascia inferiore. Mai nei monumenti ellenistici ambientazione così dettagliata e con effetto di gradazione del rilievo dall’altorilievo delle immagini in primo piano al basso rilievo quasi sfumato sul fondo. Grande capacità descrittiva degli elementi vegetali acanto si intreccia con altre piante riconoscibili, simbolo della forza generatrice della natura sotto la guida del principe perfetto. Girali entro un severo schema geometrico. Ritorno di pace e prosperità dopo guerre civili. La medesima formula linguistica si riscontra in una lunga serie di rilievi di diverso formato sulle pareti di lussuose domus o ville con raffigurazioni di carattere mitologico, pastorale, vegetazione naturale che è soggetto o fa da sfondo a temi mitologici. Numerose variazioni su un medesimo tema che nato in età tardo repubblicana ma che si sviluppa solo in età augustea e forse prima con Cesare. Entro questo strato culturale hanno origine i rilievi Grimani pertinenti ad un ninfeo nel foro di Praeneste sulle cui pareti erano applicati insieme con i calendari riformati da M. Verrio Flacco dopo riforma calendariale augustea del 9 a.C. anche pannelli quattro o per le stagioni, dodici secondo simbologia mensile, con la rappresentazione di femmine di animali domestici e selvaggi conla loro prole. Realizzata a distanza di 15 anni forse dalla stessa officina dei rilievi dell'Ara Pacis, animali non esseri umani come protagonisti, rappresentazione dell'amore materno in un ambiente idillico-agreste, in maniera simbolica ma naturalistica con singoli dettagli, vertice del discorso augusteo i pace e fertilità. Risultati artistici come nel pannello della cinghialessa raggiunge livelli tra i più alti dell’arte antica. Capacità degli artisti di età augustea di usare spunti della tradizione per giungere a soluzioni innovative. La cultura augustea non è classicistica ma nei suoi momenti più alti modifica i codici artistici desunti dalla tradizione greca rinnovandone alle fondamenta il significato, procedendo alla costruzione di una nuova forma classica che risponde spesso al concetto di dignità o decor applicata anche negli edifici pubblici. I Romani nell’età giulio-claudia fecero uso di copie greche o originali nelle loro dimore. I rilievi funerari attici e ionici erano ora inseriti nei giardini. Imitazione non fine a se stessa ma procede a costruire nuovi legami con la tradizione come ripensare il messaggio originario con una fortissima coscienza del presente. Nei casi più interessanti imitazione diventa emulazione, volontà di realizzare qualcosa che possa essere di pari livello se non superiore. Così l'Afrodite nel tipo Louvre-Napoli copia di una statua di culto bronzea di uno scultor argivo che seppe fondere lo schema della ponderazione policletea con una leggiadra trasparenza del chitone fu emulata da uno scultore anonimo per realizzare la Charis del Palatino nella quale la ponderazione è rovesciata a specchio, e la figura si piega secondo movimento suggerito da opera ellenistica. L'autore della Charis ha voluto dichiarare in tal modo di poter realizzare l’opera in marmo dello stesso livello di una classica in bronzo persino migliorandole l'aspetto in una sensibilità non più classica. Gli artisti Romani attinsero a tutto il repertorio figurativo greco, dall’età arcaica fino all’ellenistica I Romani dietro influenze neoattiche rappresentarono i principali dei dell'Olimpo e personificazioni di concetti astratti in forme arcaiche. Su alcuni rilievi la triade Apollo, Diana e Latona sono raffigurati in maniera arcaica, ma in queste forme l’arcaismo appare come un’eco riprodotto con raffinata eleganza inserito in un ambiente paesistico che non c’entra con la cultura arcaica. Come in Priapo (Musei Capitolini) dove la componente arcaica è ridimensionata minata alle fondamenta in virtù dell’elaborazione parzialmente naturalistica del panneggio e decorativismo formale. Tale modo di procede abbia le premesse nella produzione artistica della scuola di Pasitele e Arcesilao. Sebbene sviluppatesi nell'età di Pompeo e Cesare le due scuole dovevano aver continuato la loro attività anche in età augustea. Stefano ha firmato una statua di un giovane efebo considerata a lungo una copia di statua greca di stile severo ma ora interpretata come emulazione originale da modelli greci. L'opera nasce da una meditata lettura dei capolavori policletei il cui impianto chiastico è trasposto in un'immagine che pare di modello severo ma che per l'allungamento degli arti e la morbidezza anatomica si dichiara come un'interpretazione innovativa. Sebbene firmata Stefano allievo di Pasitele la statua potrebbe essere la copia di un originale di Pasitele visto il suo utilizzo come immagine isolata o a coppia con altre figure sia femminili che maschili come nel gruppo Oreste ed Elettra prodotto medesima officina. In questa tradizione si potrebbe inserire il celebre Spinario di bronzo dei Musei Capitolini e la Venere dell’Esquilino una figura giovanile dalle forme piene che rappresenta con naturalismo esce dall'acqua annodandosi una fascia intorno al capo. In ambedue i casi i corpi derivano da modelli di età ellenistica, ma i volti dipendono invece da modelli di stile severo. Tali opere quindi sono anch'esse il risultato di un amalgama di schemi formali di epoche differenti. Persino dove la copia è fedele nei minimi dettagli come nella riproduzione delle due korai centrali della loggetta dell’Eretteo per la decorazione quasi a tutto tondo della sfilata delle fanciulle in funzione portante sull’attivo dei porticati del foro di Augusto, il risultato non coincide affatto con quello delle opere originali sia per la reiterazione seriale della medesima immagine sia per la decontestualizzazione, tra di esse inseriti clipei con le teste di Giove Ammone opera di maestre rodie nella più pura tradizione patetica ellenistica. Le copie assumono un differente significato, impongono al foro un sentimento di sacralità e pace. Per Vitruvio le cariatidi rappresentavano le province romane entrate a fa parte con pari dignità dell'Impero e Giove Ammone minaccia coloro che vogliono ostacolare la pace. L'arte augustea è il risultato di un impasto di molte componenti e componenti sono miscelati in modo che il risultato sia artistico e di profondo controllo e misura. Durante il I sec a.C. il gusto per forme patetiche a Roma aveva subìto un ridimensionamento con il diffondersi della corrente neoattica, ma non viene rimossa. Un linguaggio tendente al “barocco” fu adottato per alcune opere che non potevano essere rappresentate secondo stile neoattico per decorare giardini di ville usato questo linguaggio perché doveva colpire gli osservatori. Negli horti del politico e oratore C. Asinio Pollicone nei pressi delle terme di Caracalla potevano trovarsi sculture colossali di artisti di Rodi tra cui il supplizio di Dirce di Apollonio e Taurisco di Tralles in Asia Minore forse identificabile con il toro farnese una fastosa macchina teatrale in un unico blocco di marmo che associa elementi della più pura tradizione patetica con altri di tradizione classica e altri dalla tradizione idillico-sacrale (rilievi sulla base su tre lati eccetto quello anteriore. Dopo che Tiberio fu tornato dall’esilio a Rodi nel 2 d.C. e fu adottato da Augusto diventando erede designato, abitò negli horti di Mecenate e qui promuove probabilmente una revisione dell’assetto dei giardini con l'inserimento di opere d’artisti di scuola rodia. Negli horti entrano probabilmente il Lacoonte di Agesandro, Atanodoro e Polidoro e forse un gruppo con la rappresentazione della gara musicale tra Apollo e Marsia di cui è pervenuta la testa del sileno. Nello stesso periodo ampliamento della villa della madre a Sperlonga vicino una grande grotta naturale affacciata sul mare. Tiberio assegnò ad artisti di Rodi la realizzazione di gruppi statuari con scene mitiche aventi per principale protagonista Ulisse. Al centro di un bacino d’acqua circolare Scilla divora i compagni di Ulisse strappandoli dalla nave opera firmata dagli stessi artisti del Lacoonte non si conserva la firma degli altri gruppi che ornava la grotta, ma sicuro progetto unitario. La componente ellenistica nella decorazione dei ninfei non venne meno in età claudia. Ninfeo di Punta Epitaffio a Baia un ampio vano con esedra e nicchie dove c'erano sculture e una bassa piscina al centro dominava nel fondo Ulisse che porgeva la coppa di vino a Polifemo. Il riconoscimento di componenti ellenistiche nella cultura figurativa augustea e il collegamento tra Agesandro, Atanodoro e Polidoro con Tiberio, rende debole la possibilità dei limiti cronologici di questi nel medio ellenismo. La distinzione tra artisti o copisti ha poco senso nel mondo greco-romano l’arte sfuma nell’artigianato e viceversa. Evidente il rapporto tra alcune delle teste di Giove Ammone dal foro di Augusto con quelle del Lacoonte e del Marsia negli horti di Mecenate con l'Ulisse del gruppo dell’accecamento di Polifemo e con il ritratto detto di Silla alla Glyptothek. Così vuol dire che in età augustea l’eco della grande tradizione microasiatica non era affatto spenta ne sradicata. Più appartata nel campo dell’arte statale ma avvertibile come ara Pacis. Laddove invece c'era un programma figurativo epico allora il linguaggio patetico s’infiltrava in alcuni casi al di là della normativa classica. Una simile miscela di stili presente nell'ambiente greco-asiatico anche con un fregio ad Afrodisia in Caria che celebra un liberto Zoilos amico di Cesare e Augusto. Rilievi statali a Roma dalla dinastia claudia alla dinastia flavia Nei pochi rilievi attribuiti a monumenti pubblici degli imperatori della gens Claudia il linguaggio figurativo augusteo sembra avere subìto alcune variazioni formali come nel grande altare monumentale e al più citato arco dedicati all'imperatore Claudio. Come sull’ara Pacis, ci si avvicinava anche per le misure, la processione sul fregio principale del recinto dell’altare rappresentava il ritorno di Claudio a Roma nel 43 d.C. dopo la trionfale campagna bellica in Britannia ricevuto nel fregio dal senato, sacerdoti e la sua famiglia che lo conducono attraverso un percorso tra i monumenti sacri del Palatino e del foro Romano rappresentati sul fondo in maniera schematica, ma precisa nei dettagli fino al tempio di Marte Ultore nel foro di Augusto dove su svolge la cerimonia di sacrificio di un toro. Uno dei pannelli di facciata raffigura Iside/Cerere su un carro insieme con Trittolemo che sparge le sementi sulla terra simbolo del ritorno dell'età dell'oro a Roma con l’arrivo dell’imperatore. Il confronto con l’ara Pacis permette di conoscere con maggior chiarezza l'evoluzione del linguaggio formale verso una maggior vivacità d'impostazione delle figure su più piani e nel loro inserimento in un contesto ambientale più articolato. Le figure alte quanto il rilievo sono pari se non superiori di misura ai templi sul fondo, l’ambiente è costruito in chiave più simbolica che naturale. I frammenti di rilievi attribuiti all'arco dedicato a Nerone sul Campidoglio in occasione delle vittorie del generale Cn. Domizio Corbulone sui Pari. Il plinto di una colonna a risalto pertinente all’arco mostra Vittorie alate e personificazioni femminili che escono da un porticato. La testa barbuta di un uomo partico era a sua volta pertinente forse ad un pannello con la rappresentazione di un trofeo al quale affiancati gli sconfitti che alzavano in maniera patetica i volti con occhi infossati. Altro stile sono i pannelli dell'arco sul versante settentrionale del Palatino lungo l’asse che unisce foro-valle del Colosseo eretto come dice iscrizione per il divo Tito tra 82-90 d.C. un monumento di Consecratio (volta del fornice Tito è portato in cielo da un'aquila) e non trionfale anche se valenza presente, rappresentano ambedue i pannelli del fornice raffiguranti il trionfo giudaico senza Vespasiano. Le figure si protendono dal fondo del rilievo con maggiore autonomia con volumi più corposi superando anche lo schema della distribuzione secondo file regolari e con scansione uniforme. La grande novità rispetto al passato, che i personaggi a esclusione di Tito sulla quadriglia non coprono l’intero campo del rilievo ma poco più della metà e il restante spazio è vuoto o coperto dai fasci o dal bottino i guerra trasportato in trionfo. La porta trionfale è raffigurata in uno dei rilievi di scorcio come se la processione la stesse attraversando non secondo una linea parallela allo spettatore ma piegando verso il fondo, creando un effetto di maggior profondità rispetto ai rilievi precedenti. La ritrattistica imperiale Quando Ottaviano giunse a Roma deciso ad accettare l'eredità lasciatagli da Cesare, un'enorme ricchezza e l'impegnativo nome di Caius Iulius Caesar al quale poi si aggiunse divi filius, le sue prime forme di comunicazione in campo artistico si mossero nell’ambito della tradizione consolidata degli ottimati romani e influenzata dai modelli patetici di derivazione greco-ellenistica. I primi ritratti i tipi Beziers e lucus Feroniae realizzati negli anni immediatamente successivi al suo arrivo a Roma da Apollonia in Epiro, mostrano un viso magro e ossuto, occhi piccoli e infossati, collo piegato di lato e verso l’alto capigliatura agitata con ciocche a fiammelle apparentemente disordinato schema di derivazione diretta da Alessandro Magno. Anche il terzo tipo ritrattistico più diffuso tra i ritratti giovanili realizzato negli anni della vittoria di Naucolo su Sesto Pompeo nel 36 a.C. noto come tipo Alcudia maggior distensione dei tratti facciali. Pur non avendo una statua intera di Ottaviano ci si può fare l’idea delle formule iconografiche adottate attraverso la monetazione. Iconografia d'insieme i modelli sono sempre le immagini tradizionali in toga (magistrato) e in nudità, quelle loricate e quelle equestri (nel 43 a.C. senato aveva gratificato Ottaviano con una statua equestre nel foro Romano vicino i rastra) Alcuni di codesti tipi statuari avevano già una storia locale alle spalle e probabilmente il tipo in nudità detta eroica nelle due varianti con o senza mantello ai fianchi tracce nella coroplastica votiva del III sec a.C. A Roma l’accentuazione delle forme realistiche dei volti, la cui caratterizzazione in Grecia è più attenuata, crea un effetto stridente. Questa maggiore caratterizzazione nei ritratti va a danno della migliore fusione formale delle teste con corpi giovanili e atletici. Molto significativo è il torso di una statua equestre in bronzo rinvenuta nella acque di Lemno, un ritratto di tipo Alucudia mostra però una voluta somiglianza con il padre adottivo, quasi a sottolineare i legami di sangue. La battaglia di Azio e la seguente conquista di Alessandria segnano come uno spartiacque nei modi di rappresentazione di Ottaviano. S'impone un uso già documentato in età tardorepubblicana che sarebbe divenuto costante nella ritrattistica imperiale ovvero procedere a variazioni iconografiche dell'immagine del principe non tanto come segno tangibile del passaggio del tempo ma come memoria di eventi di particolare significato come la celebrazione di un trionfo, del ritorno a Roma dopo anni di viaggio nelle provincie dei dieci o vent'anni di regno. Agli anni fra il 31 e il 29 a.C. è stato di recente attribuito il ritratto tipo Louvre MA 1280 nel quale la forte tensione che caratterizza i ritratti precedenti è molto ridotta. Il tipo era stato precedentemente considerato il più tardo tra quelli assegnati ad Augusto forse collegato alla celebrazione dei ludi del 17 a.C. ma così è rappresentato nei fregi dell’ara Pacis quindi anteriore al 9 a.C. , ma la particolare acconciatura dei capelli che diventa di moda nel decennio 30-20 a.C. e la corona d'alloro gemmata, induce a ritenere che il tipo Louvre MA 1280 vada collocato subito dopo il tipo Alcudia. Gli elementi distintivi del volto di un uomo però ormai maturo ci sono ancora tutti, con pacta pensosità, un equilibrio accentuato dalla chioma non più ribelle ma con una frangia ben ordinata a ciocche regolari che sottolinea l’acquisita conoscenza del proprio compito di pacificazione. L'ultimo ritratto creato quando Ottaviano assunse il cognomen Augusus mostra un viraggio, il volto diventa di nuovo giovanile ma perde i tratti fisionomici più dissonanti in una visione ammorbidita e regolarizzata. La capigliatura più vivace del tipo Louvre MA 1280 è però assai meno agitata rispetto ai tipi ritrattistici precedenti e rigidamente sottomessa a uno schema preciso, con il gioco dei ciuffi ad andamento a forbice disposti sulla fronte. Si è spesso voluto vedere in quest'immagine un adeguamento dell'immagine del principe a quella del Doriforo di Policleto, per il ritrovamento della statua meglio conservata intera di Augusto dalla villa di Livia a Prima Porta in marmo pario che mostra il principe loricato in atto di sollevare il braccio come in procinto di parlare agli astanti. Sulla corazza anatomica compare la raffigurazione della riconsegna ai Romani dei vessilli perduti da M. Licinio Crasso nel53 a.C. contro i Parti con varie figure di contorno che inseriscono l’evento in una dimensione cosmica: in alto quadriglia del Sole e forse Caelus con un verlario nonché Herse/Ros personificazioni della Rugiada e Aurora, a destra e a sinistra della scena centrale due personificazioni sedute di province sottomesse Gallia e Hispania(?) ea un cielo azzurro. L'effetto apparente è quello di una dilatazione dello spazio verso il fondo ma lo sbarramento dovuto alla massa indefinita di piante in secondo piano e al cielo di un azzurro intenso e uniforme non permette di scrutare l'orizzonte e viene a mancare un'effettiva profondità spaziale. Alberi che hanno fioritura in stagioni differenti ripropone un gioco di fantasia un mondo irraggiungibile. Un altro significativo esempio si trova nei giardini dipinti sulle pareti di un triclinio estivo e di un oecus nella Casa del Bracciale d'Oro di Pompei. Nulla nell'arte di età augustea esprime meglio la concezione della nuova classicità dell’epoca come le pitture del III stile con squisita coerenza geometrica nel suo raffinato decorativismo. Il IV stile germina dal precedente con un profluvio decorativo che non ha più la misura classica della decorazione augustea. Rispetto agli stili precedenti non c'è neppure omogeneità di schemi figurativi al punto che risulta difficile descriverne le composizioni essenziali. Alcune pareti ripropongono enfaticamente partizioni architettoniche ma raramente ispirate ai modelli del II stile che sembrano imitare reali strutture monumentali. In questo caso le architetture come quelle del II stile hanno il solito carattere bidimensionale con fragili ed esangui edicole e torri a piani sovrapposti con gli spazi intermedi coperti di pannelli dipinti o da raffinate e calligrafiche serie di elementi decorativi entro i quali si innestano figure mitologiche. In determinati casi entro e fuori le edicole sono inserite figure di più grande misura non sempre di facile interpretazione. Nella casa dei Vettii a Pompei lo schema della parete è memore delle ultime fasi del III stile ma ai lati dell’edicola centrale priva di profondità le due torri laterali sono diventate un gioco di spazi aperti e chiusi con una sorta di finestroni -loggiati che permettono di osservare altre architetture di colore chiarissimo proiettate verso il fondo con precisa e regolare simmetria mentre le superfici dei muri le balaustre e spazi vuoti sono ricoperti o da pannelli decorativi o da vere e proprie nature morte che già diffuse in età ellenistica compaiono sin dal II stile e derivano dalla produzione di xenia doni alimentari che ogni padrone di casa riservava ai propri ospiti. Dettaglio ornamentale elevato come nei festoni vegetali e girali che incorniciano i quadri centrali. Nella palestra di Ercolano sembrano ripresi con maggior fedeltà alcuni motivi architettonici del II stile maturo i dettagli parlano un altro linguaggio per la sovrabbondanza della decorazione e dell’esile fragilità delle trabeazioni e delle colonnine senza parlare dei risalti dell’edicola in primo piano privi di un supporto strutturale. In altri esempi sembrano ricoperti da arazzi monocromi come gonfiati dal vento riccamente ornati ai bordi con nastri simili a merletti e con una piccola scena figurata al centro. Sistema pittorico che risale all’epoca di Claudio ma apogeo nella domus Aurea e nelle più belle case pompeiane prima dell'eruzione dove in questo periodo nei giardini di queste si dipinsero intere pareti con vedute idillico-sacrali. Altrettanto significativi sono gli affreschi rinvenuti in un settore del colle Oppio sottostante le Terme di Traiano e contiguo al padiglione della domus Aurea nel quale sono distribuiti edifici di non chiara identificazione ma a carattere monumentale, estrema importanza è la veduta ad affresco di una città spopolata della quale si scorgono a basso volo d’uccello le mura , il porto con una darsena laterale, un’acropoli sul mare un teatro con un tempio di Apollo, quartieri di abitazioni, e due piazzali uno dietro il teatro circondato da case e l’altro un quadriportico simile al templum Pacis. Uno dei rari esempi di pittura corografica che nel rappresentare brevio porzioni di territorio con una precisa adesione alla realtà a funzione più geografica che artistica, tecnica della topographia. Il secolo II d.C. e i <<buoni imperatori>> Introduzione II sec d.C. si ebbe un epoca di pace e prosperità e crescita economica grazie ai buoni imperatori; Traiano, Antonino Pio e Marco Aurelio. Un secolo di ordine interno e generosità. Un secolo di imperatori come Adriano e Marco Aurelio che s’interessano a ideali filosofici-politici e alla cultura. Un secolo in cui il dominio romano si consolidò pure grazie all'integrazione nell’amministrazione statale delle grandi aristocrazie delle provincie occidentali e orientali legate alle loro piccole patrie. Roma aveva una missione civilizzatrice e dove tutto convergeva. Grande fioritura architettonica in cui nell’Urbe si elevavano due monumenti emblematici di tempi euforici come il tempio di Venere e Roma il più grande mai realizzato a Roma fu dedicato in summa sacra via forse nel 135 d.C. a unire la progenitrice della stirpe giulio-claudia alla personificazione eterna della città. Altrettanto significativa fu la decorazione dell’Hadrianeum dedicato nel 145 d.C. da Antonino Pio in Campo Marzio per i divi Adriano e Sabina e identificato con il periptero un tempo ottastilo e con due file di colonne allineate sui muri della cella nel pronao a piazza di Pietra. Le figure femminili a forte rilievo rappresentanti le nationes dell'Impero e prive generalmente di caratterizzazioni tali da consentire puntuali riconoscimenti. Traiano e il <<Maestro della colonna Traiana>> Traiano (98-117 d.C.) per avere posto il proprio nome su ogni edificio non importa se eretto ex novo o restaurato fu malignamente soprannominato erba parietale. Dentro e fuori Roma si concentrò su molti progetti di natura infrastrutturale e di pubblica utilità come ampliamento del cireo Massimo, potenziamento della rete stradale e dei porti come quelli di Ostia- Portus e Centumcellae con conseguente intensificazione dei traffici e regolarizzazione del flusso di derrate alimentari vero l'’Urbe. In munificenza pubblica non badò a spese. Traiano fu un imperatore- soldato che avviò una politica imperialista aggressiva, le grandi conquiste sul fronte danubiano, divennero la principale fonte di finanziamento della costosa politica interna. Grazie al bottino che portò dalla Dacia fece costruire il foro omonimo con la colonna al suo interno eretta per decisione del popolo e senato con iniziativa dell’imperatore, la colonna composta di ventinove rocchi monolitici in marmo di Luni il suo basamento si sviluppava per 6 m e presentava l’altezza straordinaria con toro e capitello dorico di 100 piedi. Inaugurata il 12 maggio del 113 d.C. e attorniata da due costruzioni quasi quadrate in cui di solito si riconoscono le sezioni latine e greche della biblioteca Ulpia a celebrazione di un imperatore fortis sapiensque nei Cataloghi Regionali tardoantichi la colonna è chiamata coclide per la presenza di una scala ellittica all’interno e per lo sviluppo del fregio che lo decorava. L'opera monumentale ebbe diverse valenze, fu un monumento volto a mostrare in seguito allo sbancamento della sella tra Quirinale e Campidoglio per rendere pianeggiante l’area per il foro, quanto era alto il monte come recita iscrizione. La colonna su una modanatura a toro ornata da foglie di alloro attributo del trionfatore, s’iscriveva nella tradizione della colonna onoraria qui coronata dalla statua di Traiano (onorato sollevato sopra altri mortali). Fu un momento celebrativo dell'imperatore sul fregio ricorre quasi sessanta volte quasi sempre di profilo e a piedi in lorica in vari ruoli religioso, civile e militare. I rilievi disposti a nastro costituivano un equivalente visivo dei Commentarii de bello Dacico redatti dall'imperatore in persona, fu il monumento funerario intorno al pomerium per le sue ceneri contenute dentro un'urna d’oro in una piccola camera ricavata dal basamento decorata all’esterno con cataste di armi in larga parte pertinenti ai vinti. L'ornamento della colonna prodigiosa ma invisibile fuori dal foro perché circondata da edifici di uguale altezza fu frutto di una decisione eccezionale in grado di generare una tradizione viva sino IV d.C. Sul fregio a 23 spire di altezza disuguale i rilievi con 155 scene per 200 m circa narrano dal basso verso l’alto in ordine cronologico e con un'illusione di continuità lo svolgimento delle campagne militari in Dacia con 2570 figure. Una cronaca equivalente ad una rielaborazione dei dati storici attraverso filtri figurativi e per mezzo del ricorso ripentivo a temi visivamente e concettualmente efficaci per la celebrazione di slogan ideologici valori etici e virtù cardinali della politica imperiale (esaltazione esercito, costruzione di accampamenti e navi, marce e viaggi e battaglie). Nella composizione risaltano alcune corrispondenze verticali come quella che verso il probabile tempio dei divi Traiano e Plotina a nord unisce la scena con un presagio della vittoria in basso la figura della Vittoria alata a separazione della prima della seconda campagna e il suicidio di Decebalo re dei Daci. Da tempo si discute sulla leggibilità dei rilievi dei quali solo le prime sei spire erano ben percepibili dal livello del suolo a meno che non si pensa a visioni alternative vome dalla terrazza della basilica Ulpia e da quelle ricostruite per la biblioteca. Qualche critico poiché non visibile ci ha perciò interpretato la libertà di un artista sciolto da obblighi del committente altri una rappresentazione che non informava ma esprimeva il fasto e la gloria del principe al cospetto del cielo e del tempo o viceversa si è provato a mostrarne l’effettiva visibilità. Per dettaglio del progetto disegnativo preliminare è stato chiamato in causa l'ingegnere militare e architetto del foro Appolodoro di Damasco a cui si deve anche il primo grande impianto termale di Roma sulla sommità dell’Oppio costruito tra 104 e 109 d.C. e il Maestri delle imprese di Traiano grande personalità che da ritenere identica all'autore del grande fregio e dei modelli dell'arco di Traiano a Benevento. Maestro un termine condizionato non solo dalla qualità dell’ideazione ma da anche dall’esecuzione da parte di scalpelli abili nella cura del dettaglio. Nella resa dei rapporti spaziali tra le figure su più piani e delle costanti notazioni ambientali nelle freschezze delle scene mai uguali l’una all'altra anche con soggetti analoghi. Poiché le figure di morti e morenti barbari fornito da Maestro l'occasione per le immagini meglio riuscite si è poi generato anche l'equivoco di una compassione per le figure di vinti da parte di un artista provinciale a conoscenza della miseria della soggezione di Roma. Tuttavia le scene delle fughe disordinate e dei suicidi collettivi al pari di quello di Decebalo antagonista degno di essere combattuto si armonizza con la corrente figurativa che fin dall’età ellenistica privilegiava l’espressione tragica dei sentimenti per suscitare impressioni forti, visualizzando il topos del furore eccessivo della disperazione e del panico dei barbari di contro alla razionale violenza dei Romani. Superiorità dei vincitori non poteva esserci pietà per i vinti. Indi inconcepibile che i Romani potessero commuoversi di fronte a immagini simili come invece accadde al popolo durante il trionfo di Cesare del 46 a.C. quando furono mostrati dipinti dei suicidi degli avversari. Arriva il Graeculus Adriano Con Apollodoro ebbe contrasti il successore Adriano (117-138 d.C.) già prima di diventare imperatore. Quando Traiano lo stava consultando intorno qualche questione, il futuro imperatore intervenne ma fu interrotto da Apollodoro che gli intimò di tornare a disegnare le sue <<zucche>> volte ad ombrello forse, rinfacciandogli di non capire nulla di tale questioni. Adriano avido di primeggiare in ogni ambito, appena eletto lo esiliò. Episodio del tempio di Venere a Roma nell’area del vestibolo della domus Aurea. Il santuario a due celle addossate e separate da un muro rettilineo, il tempio aveva una pianta diptera di aspetto ellenizzante, si ergeva su una piattaforma a sette gradini. Adriano inviò ad Apollodoro una pianta che lui trovò difficile da realizzare e cercò di correggerla e quindi fu ucciso. Testimonianza che l’imperatore aveva capacità grafiche e progettuali. Adriano fece costruire innumerevoli opere con una capacità quasi militare di tutti i mestieri legati all'edilizia, senza mai fare iscrivere il suo nome ad eccezione del tempio dedicato al padre Traiano. Restaurò il Pantheon danneggiato nell'80 e 100 ma il nuovo cantiere poté essere iniziato già sotto Traiano, con un progetto di rifacimento integrale cui forse non fu estraneo Apollodoro ma con il medesimo orientamento dell’edificio precedente. All'interno un profluvio di marmi colorati preziosi, quanto ai marmi bianchi, il pentelico fu utilizzato per le cornici, gli architravi e gli archivolti, mentre solo i capitelli sono in marmo lunense. Le colonne monolitiche del portico alte 40 piedi sono in granito. Ad Apollodoro alcuni attribuiscono la concezione della struttura della cella circolare dal diametro pari all'altezza della cupola perfettamente emisferica in opera cementizia, articolata nella calotta interna in ventotto file di cassettoni prospettivamente ristretti verso l'alto. Adriano ripristinò i recinti del voto, la basilica di Nettuno, molti templi, il foro di Augusto, le terme di Agrippa, con nome degli antichi fondatori, fu meno discreto nella fondazione di nuove città come Adrianopoli in Tracia e Antipoli in Egitto. Era stato il cattivo Domiziano ad avere rifatto edifici a proprio nome sopprimendo la memoria dei fondatori. L'iscrizione dedicatoria del Pantheon con lettere di altezza unica di 70 cm un tempo in bronzo (M. Agrippa Lf. con(s)s(ul) tertium fecit) rinuncia al nome del ricostruttore. Non modesto nell’ambizioni, Adriano fece costruire nell’ager Vaticanus degli horti di Domizia, un mausoleo, la struttura constava un basamento quadrato di un imponente tamburo cilindrico con peristasi su podio e di una rotonda centrale chiusa, coronata sulla sommità dalla quadriga bronzea dell'imperatore. Adriano impresse il proprio timbro sull’Urbe, pur stando sempre in viaggio, voleva conoscenza diretta delle varie regioni dell'Impero e vi lasciò vari segni monumentali del suo passaggio. Egli era votato allo studio delle lettere greche da essere chiamato in modo non del tutto benevolo il Grechetto, amò particolarmente Atene, faro della cultura dove risiedé più volte nel 131 nel 133 o 34, fu onorato quale salvatore e fondatore (nuovo Teseo), addirittura gli fu concesso il privilegio unico di una statua nella cella del Partenone a fianco della statua fidiaca di Atena Parthenos. Egli vi promosse riforme costituzionali con la creazione di una nuova tribù la tredicesima Hadrianis diventando eponimo al pari degli eroi attici. Risparmiò organi giuridici e amministrativi come Areopago e Pritaneo. Completò L’Opympieion avviato dai Pisitratidi VI a.C. e inaugurato nel 131-132 d.C. con una peristasi di centoquattro colonne. Sempre nel 131-132 d.C. fondò il Panellenio, una lega con membri di comprovata e autentica tradizione ellenica con l'antica Grecia centro ma a carattere sovraprovinciale. Un’organizzazione incentrata sul culto di Adriano sulla venerazione della divinità di Eleusi ai cui misteri era iniziato e sulla celebrazione di festività quadriennali ad Atene con competizioni musicali e atletiche a partire dal 137 d.C. E' adrianea la biblioteca al centro della città vicino all’agorà romana, una sorta di fortezza chiusa verso l'esterno in modi non differenti dai fori imperiali e consistente in un enorme cortile delimitato da un alto muro in bugnato rustico con l'interno un portico colonnato e due auditoria considerato un edificio con più funzioni adibito ad archivio/catasto e a lungo di culto imperiale sulla base del confronto con il templum Pacis a Roma e con il Trauaneum in Betica sempre voluto da Adriano forse Pannellenio costruito dai Greci. Tre esempi illustrano la perfetta fusione politico-culturale di componenti elleniche e romane. Nei programmi figurativi delle statue loricate dell’imperatore tra il 117 ei il 122-23 il quale aveva posto un freno al rilassamenti della disciplina militare demolendo negli accampamenti triclini, portici, passaggi coperti. Ad Atene l'arco di Adriano eretto forse dal demos all'angolo nord-ovest del recinto dell’Olympieion combina la formula onoraria romana con il sistema trilitico dell’architettura ellenica. Un ulteriore segno della grecofilia di Adriano è ravvisato nella sua barba. Questa nella ritrattistica non priva di sporadici precedenti del I d.C. nei volti giovanili e senza sopprimere l'alternativa dei visi imberbi per i privati, sancì quasi una rivoluzione per la presenza dell’uomo di potere, destinata a durare fino tetrarchia. Adriano come si legge nella Storia Augustea portava i capelli arricciati con il pettine con la barba voleva nascondere le cicatrici sul volto sin dalla nascita i critici oggi vanno oltre e la barba la vedono come un'elegante nota di grecità di valorizzazione di quella tradizione culturale in senso generale. L'imperatore era appassionato di poesia, letteratura e attorniato di maestri e filosofi, i sofisti retori di cultura greca. Quello fu il secolo della seconda sofistica un movimento culturale basato sulla paideia intesa come educazione e richiamo ai valori e all'autorità dei secoli V-IV a.C. A Roma un complesso pubblico connesso alle attività culturali è stato da poco riconosciuto in tre aule disposte a ventaglio rinvenute negli scavi a piazza Madonna di Loreto identificate con l’Athenaeum istituito da Adriano per letture e declamazioni nonché come scuola per arti liberali con un insegnamento universitario di stato per le classi dirigenti. T. Giulio Celso console nel 92 e proconsole d’Asia nel 106 a Efeso al tempo di Traiano, iniziò a costruire una biblioteca con una cella funeraria dove fu poi sepolto, quattro statue in facciata al piano terra ne personificavano le virtù come la sapienza, il valore, il senno e la scienza mentre i pilastri ai fianchi degli accessi erano ornati da dodici fasci littori avviare un'intensa attività edilizia. Sul Palatino, oltre a restauri all’ippodromo-giardino della domus Augustana e sull’acquedotto, fu ampliata l’area palaziale nel settore verso il circo Massimo; si procedé alla costruzione di una quinta scenografica in forma di un fastoso ninfeo con giochi d'acqua e fontane. Sempre tra il 10 dicembre del 203 e il 9 dicembre del 204, banchieri e commercianti di capi bovini votarono l’erezione di un monumento al numen (forza divina immanente) di Settimio Severo e della sua famiglia, come recita l'iscrizione incorniciata sulla fronte principale da due piccoli riquadri con Ercole e forse un genio militare: l'“arco degli Argentari”, un piccolo fornice architravato. Dal punto di vista compositivo, nei pannelli con i membri della famiglia imperiale si esaspera una tendenza già riscontrata per Marco Aurelio sulla sua colonna e per Settimio Severo sull'arco: l'inquadratura è frontale; gli occhi sono distolti dall'azione che le mani compiono, fissi sullo spettatore, che entra così in campo, divenendo figura con la quale i personaggi instaurano un mutuo dialogo. L'adozione della frontalità finisce con il trasformare i personaggi in perfette incarnazioni della maestà imperiale, e i gesti compiuti diventano meri simboli. Soluzioni iconografiche non dissimili dall'‘“arco degli Argentari” si riscontrano nel caso di un altro monumento: l'arco dei Severi eretto tra il 205 e il 209 a Leptis Magna probabilmente dalla comunità cittadina. Ancora una volta, non un arco trionfale, ma un magnifico tetrapilo onorario, all'incrocio di importanti assi viari. La prematura morte di Settimio Severo lasciò alla guida dell'Impero i figli, Caracalla e Geta. I loro ritratti, negli ultimi anni del regno del padre, sono volutamente indistinguibili uno dall'altro: prevale il concetto della concordia tra i due. I loro volti inaugurano una nuova moda, seguita per tutto il secolo dagli imperatori-soldati: barba e capelli molto corti, un enorme distacco dalla tradizione antoniniana. Una volta eliminato il fratello, Caracalla operò anche un deciso cambiamento d'immagine. Il suo ritratto più diffuso all’epoca, con oltre quaranta esemplari, lo mostra estremamente energico: il collo, piegato a sinistra, doveva accentuare nelle sue intenzioni una (inesistente) somiglianza ad Alessandro Magno. Caracalla si mosse nel settore dell'arredo urbano sulle orme del padre: oltre ai lavori di restauri al Colosseo, spicca sull’Aventino, la costruzione delle thermae Antoninianae, allora il più grande complesso termale mai eretto a Roma. L'impianto è celebre anche per la varietà dei pavimenti marmorei e musivi e per la decorazione statuaria. Sul Quirinale fu eretto un tempio in onore di Serapide: accessibile da una duplice scalinata monumentale e inserito in un’area porticata di 17.000 mq, era il tempio più grande di Roma dopo quello di Venere e Roma. Il successore di Caracalla fu un suo giovanissimo cugino, opportunamente spacciato per suo figlio. L'adolescente Marco Aurelio Antonino, è a noi noto con il nome Elagabalo, il dio siriano venerato in forme aniconiche di cui era alto sacerdote. Durante il viaggio dalla Siria verso Roma, volendo abituare il senato e il popolo ancora prima del suo arrivo, il principe fece dipingere una sua immagine, molto grande nell'aspetto, che lo ritraeva mentre esercitava in pubblico le funzioni sacerdotali assieme al simbolo aniconico del dio; il quadro fu esposto in mezzo alla curia, in alto, così da sovrastare la statua di Vittoria presso cui i senatori offrivano incenso, aromi e libagioni di vino. Al culto del dio Elagabalo fu riservato un complesso in posizione scenografica nell'angolo nordorientale del Palatino e unito ideologicamente alla contigua area dei palazzi imperiali. Il breve regno del giovane Severo Alessandro si distinse per opere di pubblica utilità: restauro di edifici da spettacolo di notevole capienza e totale rifacimento delle terme Neroniane. Frattanto, in città le officine continuavano a fabbricare opere di alto livello, come il ritratto attribuito a Elagabalo: il volto, intenso, è animato dal contrasto tra le superfici levigate dell'incarnato e la massa ancora plastica, soffice e compatta dei capelli; le basette sono lavorate per progressivi passaggi di piani, fino a incidere delicatamente il profilo delle gote. Il busto di Severo Alessandro presenta alcuni elementi molto seguiti nei decenni a venire: l’uso della “toga contabulata”, una pettinatura a ciocche fini accuratamente incise a solchi e graffi e una barba cortissima. Anche la produzione di sarcofagi proseguiva, ma con qualche novità. I miti greci subirono una battuta d’arresto o diventarono un elemento di contorno. Irruppero i defunti in persona, prima direttamente calati nelle storie mitiche e poi anche nei panni di magistrati e “intellettuali” o in dimensioni ridotte al busto di norma entro clipei; dunque il vero protagonista fu il defunto. Cambiamenti di vario genere interessano anche altri media figurativi, come la pittura: pareti di case e tombe si svuotarono. Le finte architetture, le figure fantastiche, i grandi quadri mitologici centrali caratteristici del “IV stile” sono per così dire prosciugati: su pareti dipinte in bianco ne rimane lo schema di base (edicola centrale e aperture minori ai lati), campito a sottili linee rosse, ma ormai pressoché esanime. La tavolozza dei colori si restringe: bianco (sfondo), rosso (riquadri principali), verde (reticoli minori), celeste e azzurro e sfumature di marrone e ocra per i corpi e le ombreggiature delle figurine accessorie e decorative. Il risultato complessivo è elegante e asciutto, non privo di fantasia: le figure sembrano come galleggiare su uno sfondo uniforme, decorando i riquadri centrali, le lunette, i sopra-porta, le volte. Gli anni dell’“anarchia militare” Senza contare i Cesari, si succedettero in quest'epoca ben undici imperatori, di norma comandanti militari di provata esperienza, molto amati dalle truppe. Nonostante ciò, gli anni che vanno da Filippo l’Arabo (244-249) all'assassino di Gallieno (268) sono quelli in cui l'Impero vide cadere una a una le proprie frontiere: l’esercito romano subì pesanti sconfitte contro i Goti, contro i Persiani di Shapur I. Solo con Claudio il Gotico iniziarono anni di riscossa militare, con le vittorie sui Goti, su Palmira, sul fronte renano e in Oriente. Molto difficili furono i rapporti con il senato, istituzione che l’ascesa al soglio imperiale dei generali stava svuotando di ogni autorità (Gallieno arrivò ad eliminare l’esclusiva del senato sul comando militare). Naturalmente, il potere centrale fu indebolito da una forza del genere nelle mani dell’esercito: non è certo un caso se, proprio in questo secolo, si videro usurpatori eletti dalle proprie legioni regnare su importanti province, avvalendosi di organi di senato locali. È il ritratto di Massimino il Trace a inaugurare la più espressiva galleria di ritratti del secolo. Con una chioma “a penna”, il suo volto con formule “realistiche”, dai tratti molto irregolari, presenta un'accentuata ossatura, una marcata contrazione dei muscoli facciali, un profondo affossamento delle orbite oculari, la barba che invade il collo. L'espressione sembra contratta e poco serena: è un uomo al potere in tempi di grande instabilità; abissale è ormai la distanza dalle immagini degli imperatori precedenti. Ritratto di Traiano Decio $ il volto, dai tratti duri, è dominato da una potente espressione di “ansiosa incertezza” secondo Bianchi Bandinelli: la struttura anatomica sembra sgretolarsi sotto il movimento dei muscoli facciali, delle rughe che tormentano l'epidermide, dell’infossamento asimmetrico delle orbite oculari. Nel secolo III divengono popolari le stilizzazioni dei defunti come “filosofi” e/o uomini di cultura. Le loro immagini appaiono sempre più di frequente sulle casse dei sarcofagi, intenti alla lettura o all'insegnamento, seduti su semplici sgabelli o su alte cattedre, accompagnati dalle spose, da filosofi di professione e talora dalle Muse al completo. Gli esemplari sono stati correlati per lo più coni membri della classe senatoria smaniosi di presentarsi come viri docti e distanti ormai dall’esaltazione della carriera militare dell’aristocrazia antoniniana. Un grandioso esemplare a lenòs (tinozza, forma tipica in origine dei sarcofagi bacchici) è scolpito in un monolito di marmo greco insulare e decorato con nove figure maschili in toga, barbate e non e da sei figure femminili superstiti ai fianchi di una coppia di sposi: si conserva in parte la figura virile in “toga contabulata” in atto di incedere verso sinistra, mentre la donna era effigiata nello schema dell’orante. Le figure si stagliano ad altissimo rilievo su tutta l'altezza della tinozza. Un linguaggio formale “classicistico” caratterizza la lavorazione del sarcofago a klìne attribuito all'imperatore Balbino. I due sposi sono raffigurati sia sul coperchio sia sulla fronte. Qui l’uomo, intento a offrire un sacrificio su un altare portatile, incoronato da una Vittoria e affiancato da Marte, è raffigurato in compagnia della moglie con la spallina della tunica che scivola dalla spalla sinistra. Lo schema iconografico di base, tradizionale, è però innovato dalla raffigurazione della lorica squamata con sopra il paludamentum, poco adatta alla gestualità sacra. Uno dei più celebri sarcofagi, il “Grande Ludovisi”, in un blocco unico di marmo proconnesio per un'altezza complessiva di 2.30 m, fu definito un “capolavoro barocco”. La fronte è decorata con un concitato combattimento tra Romani e barbari, forse Goti, un recupero di un tema in voga in epoca antoninianaprotoseveriana ma singolarmente passato di moda in un’epoca tanto caratterizzata dalla presenza militare nell’Urbe. Senza partecipare direttamente alla battaglia, domina al centro emergendo dal fondo un cavaliere senza elmo, segnato sulla fronte con un marchio enigmatico a X. Gli instabili anni dell'anarchia militare furono segnati da importanti provvedimenti in ambito religioso e da tentativi di repressione del cristianesimo con feroci persecuzioni. Simili repressioni prima di colpire il cristianesimo, erano state molto rare, e il caso più noto riguarda il culto dei Baccanali a Roma e in Italia nel 186 d.C. Alcuni editti ordinavano agli abitanti dell'Impero l'esecuzione di sacrifici agli dei, pena la reclusione o la condanna a morte. Gli dei tradizionali cominciarono a impallidire, a vantaggio soprattutto delle religioni enoteiste, quelle cioè in cui un solo dio aveva la preminenza su tutti gli altri, sentite come più capaci di fornire una risposta alle ansie generalizzate dell’epoca. La circolazione di figure di predicatori di eccezionale caratura, capaci di attrarre folle inaudite. Intorno alla metà del secolo III, per la comunità romana sono elencati quarantasei presbiteri, sette diaconi, sette suddiaconi, quarantadue accoliti, cinquantadue tra esorcisti, lettori e sacrestani e più di millecinquecento vedove e poveri. Il cristianesimo fu insomma capace di proporre una visione radicalmente nuova: una religione monoteista e salvifica, che, sebbene frantumata in una miriade di comunità locali talora in forte antagonismo, riuscì a fare dell'adesione spontanea e settaria al suo credo uno strumento di coesione potentissimo. Nei decenni iniziali del secolo III i primi temi cristiani sotto forma di immagini concise, apparvero assieme a temi “neutri” nelle pitture delle catacombe, il cui repertorio di storie dell'Antico e del Nuovo Testamento si consolidò nel periodo della “piccola pace della chiesa” tra le persecuzioni di Valeriano (257) e Diocleziano (303-305). Da quegli anni anche le officine dei sarcofagi e delle lastre di loculo iniziarono a ricorrere soggetti evidentemente cristiani (battesimo, ciclo di Giona). In particolare in epoca severiana, erano diventati sempre più praticati anche i culti etichettati come “orientali”, talora radicati a Roma da parecchio tempo: divinità adorate in Egitto, Asia Minore, Siria, Persia, Tracia, in genere capaci di promettere un percorso salvifico atto a garantire una vita oltre la morte e l'instaurazione di un rapporto individuale del fedele con la divinità. Nonostante il fermento religioso, nessuno dei primi imperatori-soldati sembra essere stato interessato alla costruzione di nuovi edifici sacri in città o a restauri di sacra ormai fatiscenti, né per i culti tradizionali legati alla storia più antica né tantomeno per le divinità “orientali”. Le spese furono riservate alla costruzione o al restauro di terme e balnea o del Colosseo, più volte bruciato. Forse a questa fase di relativa stasi edilizia è da ricondurre il brusco arresto del contrassegno dei bolli sui laterizi alla fine della dinastia severiana, un uso che riprenderà con Diocleziano. L'imperatore Gallieno governò dal 253 al 268. Il suo regno si aprì con importanti riforme: il 260 fu l’anno di un editto considerato un vero e proprio spartiacque, che annunciò la fine immediata della persecuzione contro i cristiani (voluta dal padre Valeriano), la restituzione dei loro beni e una certa libertà di culto; nel 263 fu la volta della riforma che assegnò a prefetti di rango equestre la guida dell'esercito, sottratto in tal modo all’esclusiva del senato. “Rinascenza” termine che allude al rifiorire delle arti plastiche (ritrattistica e sarcofagi) secondo i canoni di un “classicismo” un po’ appannato nel secolo III d.C. ma mai del tutto spentosi: la materia torna dunque plastica, morbida, voluminosa, e i piani levigati, benché non senza effetti coloristici ottenuti attraverso l’abile uso del trapano. Sull’Urbe ebbero maggiore impatto i cantieri avviati sotto il regno di Aureliano (270-275). Una nuova cinta muraria lunga quasi 19 km, alta 7.80 m e in opera laterizia, fu un capolavoro di ingegneria militare: nel disegno complessivo di una stella a sette punte, il suo tracciato inglobò edifici preesistenti. Dopo la costruzione delle mura, fu ampliato il pomerio. Verso un nuovo ordine: Diocleziano e l'età tetrarchica Nel 286 l’ascesa al trono del dalmata Diocle, comandante di cavalleria acclamato imperatore dalle sue truppe (occasione nella quale mutò il proprio nome in Diocleziano) chiuse il cinquantennio dell'anarchia militare e la stagione di secessioni e rivolte militari quasi ininterrotte. Diocleziano divise formalmente l'Impero dapprima in due metà, grazie all'associazione di Massimiano quale Cesare e poi Augusto, poi in quattro parti, con l'aggiunta dei più giovani Costanzo Cloro e Galerio quali Cesari. L'Italia fu articolata in dodici province, non in continuità con le precedenti divisioni amministrative, e il suo statuto fu equiparato a quello del resto dell'Impero. Al di sopra delle province erano dodici diocesi, grandi unità regionali rette da vice-prefetti del pretorio. In definitiva, Roma perse la centralità, con lo spostamento del baricentro politico-militare verso le frontiere. I ritratti dei nuovi Augusti e Cesari esprimono il nuovo mondo della tetrarchia: i loro volti si somigliano a coppie pure senza essere identici, perfetta espressione di una concordia di governo congiunto e, nel loro mutuo abbraccio, di una fraternità capace di superare le differenze gerarchiche. I gruppi in porfido alla Biblioteca Vaticana e a S. Marco raffigurano rispettivamente i membri della prima e forse della seconda o terza tetrarchia. Il primo gruppo presenta ritratti con forte tendenza all’astrazione, ravvisabile nella forma cubica con grandi occhi spalancati, con pieghe nasolabiali marcate e con corte barbe nettamente delimitate sulle guance; le teste sul secondo hanno un contorno ovale e forme più armonizzate. I volti comunicano una forma di potere imperiale collettivo basato su aequalitas, fraternitas e concordia. Tutti i regnanti della tetrarchia non avevano legami di sangue. L'abbraccio fu perciò una trovata inedita per l’arte statale, poiché in precedenza la concordia era stata visualizzata tramite la dextram iunctio. Nonostante la perdita di centralità di Roma, gli interventi urbanistici di Diocleziano in città furono notevoli. Fu costruito un nuovo impianto termale, il più fastoso del mondo romano: le terme, costruite sul modello delle thermae Antoniniane ma ora capaci di una ricettività doppia, si estendevano tra Viminale e Quirinale per una superficie di oltre 13 ha, in un’area densamente abitata che richiese espropriazioni, demolizioni e modifiche degli assi viari. Altro notevole intervento fu la risistemazione dell’area centrale del foro Romano, in gran parte interessato dall'incendio di Carino del 283: oltre che al restauro dei singoli edifici, si provvide alla risistemazione dell’intera piazza, il cui spazio centrale, ridotto, fu delimitato sui quattro lati da nuove quinte architettoniche per fungere da palcoscenico del nuovo ordine politico. Per la decorazione dell’arcus Novus, eretto sulla via Lata, furono riadoperati frammenti di monumenti claudi, con minimi adattamenti, miranti soprattutto alla trasformazione nei ritratti dei tetrarchi per mezzo della rilavorazione di barba e capelli, e l'aggiunta di un'iscrizione celebrativa. Il 24 febbraio del 303, a Nicomedia, Diocleziano emanò un editto che scatenò l’ultima grande persecuzione contro i cristiani: considerati privi di honos e dignitas, essi poterono così essere sottoposti a tortura e a qualsiasi tipo di azione legale, privati dei diritti civili e messi a morte, mentre si procedette alla distruzione delle chiese e all'incendio delle Sacre Scritture. Come che fosse, almeno in una prima fase l'intento dovette essere quello di morare a una politica religiosa restauratrice e reazionaria, capace di rafforzare i culti tradizionali e di sradicare il cristianesimo dall’apparato statale. Come sede di ritiro dopo l’abdicazione, Diocleziano scelse Spalato in Dalmazia: fu qui eretto in pochi anni un palazzo di enormi dimensioni, costruito a imitazione di un castrum, con muro di cinta, torrioni e vie colonnate che partivano dalle quattro porte centrali. La morte di Costanzo Cloro nel 306 aprì il problema della successione che Costantino e Massenzio vollero reimpostare su base dinastica. Dopo quasi un ventennio di guerre civili, solo nel 324, con la definitiva vittoria di Costantino su Licino e la sua proclamazione a unico imperatore, si avviò un’altra epoca. Capitolo 9 - Secoli IV-VI d.C.: il Tardoantico presenta lunghe ciocche che scendono verso la fronte e s’incurvano verso il centro con un motivo a mandorla; sulle tempie, sulla fronte e sulla chioma sono inconfondibili i segni di lavorazione di un precedente ritratto, per il quale sono stati avanzati riconoscimenti non univoci. Il ritratto, dai grandi lineamenti (compreso il naso molto ricurvo), trasmette il distacco ieratico, la forza spirituale e l'imperturbabile calma del carismatico sovrano, in breve l’immagine di un deus praesens. Un ritratto identificato con Arcadio, con un ricco diadema gemmato, esprime al massimo l’assorto distacco dell'imagerie imperale dell'epoca. L'immagine trascendente degli imperatori non fu però monolitica. Nei primi due secoli dell'Impero i ritratti dei privati non di rado somigliavano nella chioma e nei lineamenti alle immagini degli imperatori; da Costantino fino all’età di Giustiniano, quelli privati, ora riservati soprattutto agli alti burocrati, conservano invece forme organiche, la moda della barba e talora una personalizzazione più accentuata, anche per mezzo di segni d'età, specie ad Afrodisia. Il fascino della ricchezza: lo splendore di domus e ville Nel Tardoantico il dispiego di ricchezza riguardò le dimore dell’élite non solo nell’Urbe, bensì nelle capitali di diocesi e province e in città comunque sede di amministratori imperiali o in Africa Proconsolare. Le ville si distinguono per un’ampia varietà tipologica per funzioni e livelli di benessere diversi, malgrado alcune caratteristiche costanti: un cortile o un peristilio centrale, planimetrie mistilinee, soprattutto nelle sale per stibadia, l’uso di absidi e cupole e la rilevanza accordata agli ambienti di ricevimento, con un’accentuazione della spettacolarità cerimoniale dei rapporti tra aristocratici e amici/clienti. La villa più nota, il Casale di Piazza Armerina (Enna), in Sicilia, si caratterizza per tre disposizioni assiali diverse, a sottolineare le diverse funzioni dei tre settori: terme a ovest; complesso residenziale a est, con peristilio, “basilica” e ambienti abitativi; gruppo di vani per banchetti a sud-est, costituito dal peristilio ellittico con la sala triabsidata per stibadia. In residenze come questa, come in precedenza, ci si dedicava al dulce otium litteratum e philosophicum senza rinunciare alle funzioni di patroni di fronte ai clienti e agli oneri del negotium. La villa di Piazza Armerina e altre residenze di lusso in Occidente e in Oriente presentano, con un’abbondanza ignota ai secoli precedenti, grandi mosaici geometrici e/o figurati. Questi ultimi svelano la formazione culturale dei proprietari, visto che, così come nella letteratura piena di storie sugli dei ed eroi, resistono i racconti del mito quali simboli di tradizionale paideia in grado di dare un tocco di maestosità epica alle vite dei ricchi, al di là delle immagini bacchiche e marine e anche delle possibili riletture allegoriche in chiave cristiana di alcune figure, come Orfeo ed Ercole; viceversa, negli spazi domestici mancano per lo più scene narrative cristiane, e l’unica “cappella” domestica riconosciuta con una certa sicurezza è in una villa di Lullingston in Britannia. I mosaici insistono pure sulla messa in scena della vita quotidiana e delle attività del dominus in villa, quali le cacce come espressione di virtus nonché sulla cattura degli animali per gli spettacoli dell'anfiteatro e sui giochi circensi offerti con munificenza dagli aristocratici specie in occasione della pretura in quanto prima tappa nella carriera politica. Molto diffusi specie in Italia e rispondenti a esigenze di livello e costo differenziati erano i rivestimenti marmorei in opus sectile, soprattutto pavimentali; ma si affermarono anche quelli più esclusivi sulle pareti, già in uso in precedenza ma in maniera più limitata e in particolare nelle residenze imperiali. Alla fine del secolo IV d.C. risale un edificio di Ostia fuori porta Marina, nel quale si riconosce una ricca villa costiera, rimasta incompiuta. Una grande aula dell’ala settentrionale conserva integralmente un’eccezionale decorazione: sul soffitto un mosaico in pasta vitrea; sulle pareti marmi policromi con specchiature geometriche, fregi floreali, gruppi di leoni in atto di azzannare un cerbiatto; l’esedra di fondo riproduce un prospetto in opera mista di mattoni e reticolato; la pavimentazione era costituita da marmi preziosi. Artigianato di lusso Nel Tardoantico la lavorazione dei materiali preziosi (oro, argento, avorio, vesti di lusso) acquisì importanza sempre maggiore per la committenza imperiale, gli alti ufficiali della burocrazia di corte, l'ordine senatorio e i ricchi più in generale. Il cofanetto nuziale di Proiecta associa l'augurio di una lunga vita in Cristo alla toletta di Venere e alle immagini di Nereidi; sulla faccia anteriore Proiecta stessa, seduta e adorna di una collana, tiene nella sinistra una pisside, mentre una servitrice tende lo specchio verso di lei, e il personale porta gli oggetti necessari al bagno e alla cura del corpo. Tra i più significativi rinvenimenti si segnala il “Tesoro di Seuso” che augura appunto a un certo Seuso, forse un soldato di cavalleria appartenente al popolo degli Alani, il possesso duraturo per sé e per i discendenti dei “vascula”; il tondo centrale decorato a niello presenta una scena di banchetto all'aperto a conclusione di una battuta di caccia con una coppia sovrastata dal cristogramma. Anche il “tesoro” di Kaiseraugst, un suntuoso servizio da mensa associato a monete e a lingotti con il nome dell’usurpatore Magnezio, doveva essere un dono per un ufficiale di alto rango. Fra le produzioni di lusso particolarmente apprezzati erano i piatti di largizione, ossia quel vasellame prezioso in argento e oro con iscrizioni o raffigurazioni in rilievo di personaggi imperiali o ufficiali che l’imperatore distribuiva a quanti voleva gratificare o quale dono di carattere diplomatico per principi stranieri. Ai privati cittadini era vietata la distribuzione dei dittici in avorio, riservati da due decreti emessi nel 384 a Eraclea sul Mar Nero ai consoli ordinari. Con “dittico” s'intende una coppia di tavolette (valve) alte una trentina di centimetri, incernierate a libro su cui si stendeva la cera per la scrittura, ma dal secolo IV al VI i dittici cristiani e “pagani”, in origine almeno in parte dipinte diventarono un prodotto di lusso. Al pari degli argenti tardoantichi, i dittici, comunque non sempre agevolmente databili e attribuibili a un preciso centro di produzione su base stilistica, potevano adottare un linguaggio figurativo “classico”. Dittico dei Nicomachi e dei Simmachi Realizzato probabilmente in occasione di un matrimonio che unì le due famiglie ipotesi non accolta all'unisono perché un uso simile non è provato dalle fonti, per cui altri studiosi hanno pensato a una circostanza funeraria. Il dittico sottolinea la tradizionale identità religiosa dei committenti: nella valva dei Simmachi una sacerdotessa con corona di vite compie un'offerta su un altare forse di Giove, mentre in quella dei Nicomachi un’altra con due torce abbassate con capelli sciolti e seno nudo, è presso in altare con il fuoco acceso di Magna Mater; le figure di profilo sono qui molto “classicistiche” in quanto è ancora viva l'ispirazione a modelli iconografici e stilistici di secolare fortuna. Un altro dittico dei Simmachi, raffigura in sequenza l'apoteosi probabilmente di un imperatore barbato due volte con toga di forma “tradizionale” Un cenno meritano infine i tessuti decorati e le tappezzerie che i rinvenimenti nelle necropoli egiziane, numerosi grazie alle condizioni di conservazione, hanno fatto etichettare come copti. Le stoffe, principalmente lana mista a seta, erano tessute sulla base di modelli comuni ai mosaici e alla pittura; l’uso di tinture sia vegetali che animali permetteva di ottenere un’ampia gamma di colori. I temi frequenti sono le scene di caccia e mitologiche. Una delle stoffe più celebri proviene dalla necropoli di Antinoe, dove è stata trovata disposta come uno scialle attorno al corpo della defunta Sabina; in tela rossa, adorna di galloni e orbicoli (medaglioni), è decorata con figure e scene mitologiche. Alcune “capitali” tardoantiche <Dopo la vittoria su Licinio ad Adrianopoli nel 324, Costantino, divenuto imperatore unico, inaugurò nel 330 sul promontorio collinoso dell’antica Bisanzio, già rinnovata da Settimio Severo, la nuova città dinastica, Costantinopoli: dopo la sua fondazione nessun imperatore tornò a Roma per farne la propria residenza permanente. Costruita secondo lo schema e il modello dell’Urbe, la Nuova Roma, articolata in quattordici Regioni, rivaleggiava con l'antica, come visibile anche su alcune emissioni in bronzo e in argento di Costantinopoli e non solo. Alcuni elementi accomunano le residenze degli imperatori tardoantichi: l’ubicazione in una zona marginale, spesso presso le mura; la facciata come fondale di una grande via monumentale, asse urbano; lo stretto legame con il circo, dalla forte valenza simbolica; i grandi sepolcri/templi dinastici situati nei pressi della città. Molte le fondazioni cristiane già con Costantino a detta di Eusebio, per cui l’imperatore volle “celebrare con onori superbi la città che prendeva il nome da lui e la rese splendida con molte cappelle, con grandissimi martyria e con altre costruzioni stupende, alcune nelle zone periferiche, altre all’interno della città: con esse intendeva onorare la memoria dei martiri e al contempo consacrare al dio di quei martiri la propria città. In precedenza, erano state già fondate diverse “capitali” tetrarchiche, anche effimere (residenze, non capitali nel senso moderno), sedi di palatia. - Dopo che nel 286 fu stabilita a Milano (Mediolanum) la residenza imperiale di Massimiano Erculio, la città fu oggetto di trasformazioni e di un rinnovamento urbanistico, tanto da divenire luogo di residenza effettiva per molti imperatori. Personaggio di particolare spicco fu Ambrogio, eletto vescovo della città nel 374, assertore di un modello politico di moderazione e insieme di fermezza cristiana; - Treviri fu scelta nel 287 come “capitale” della parte occidentale dell'Impero in occasione della riforma tetrarchica di Diocleziano. Tra gli edifici più noti, l'“aula palatina” fu costruita da Costantino nel 310 con funzioni di basilica giudiziaria e di aula per udienze: una vasta sala rettangolare con abside un tempo ornata di statue e munita di pareti decorate con marmi e alleggerite da due ordini di finestre arcuate. - Galerio aveva stabilito la propria residenza a Tessalonica (Salonicco), una delle principali città dell’illirico e rilevante nodo stradale fra Oriente e Occidente. Capitolo 10 - Rappresentazioni storiche Il rapporto con i modelli greci A partire dalla fine del secolo XIX gli studiosi moderni, interessati a una definizione più autentica (e positiva) dell’arte romana, hanno individuato proprio nella narrazione “storica” una delle sue qualità più originali anche rispetto all’arte greca. Rappresentazioni storiche, accomunate dalla raffigurazione di guerra, vittorie, istituzioni, cerimonie e riti romani. Anche quando il modello era greco, il contenuto del racconto o del messaggio era romano. A partire dal secolo V a.C. immagini storiche furono commissionate dalle pòleis per essere collocate in templi e monumenti pubblici importanti, come ad Atene sotto forma di due megalografie nella Stoà Poikìle nell’agorà. In seguito, le conquiste di Alessandro Magno fecero nascere la ricca tradizione iconografica a cui appartengono, per esempio, il “sarcofago di Alessandro” da Sidone. I sovrani ellenistici non furono ritratti solo in battaglia, ma anche in processione, a banchetto, a caccia, insieme a trofei e a figure allegoriche. L'arte greca aveva dunque già elaborato un proprio repertorio iconografico, a cui mancarono però la coerenza e l'universalità imposte in età imperiale dalla presenza di un solo sovrano e di un unico “centro” di elaborazione. Non si trattò soltanto della rappresentazione di eventi storici in sé, ma anche della creazione di modelli ideologici, compositivi e iconografici, poi adottati anche nei monumenti romani, naturalmente adeguandoli alle mutate condizioni politiche. Il pilastro di cui L. Emilio Paolo si appropriò a Delfi per diritto di conquista può essere definito un monumento di raccordo tra arte greca e romana $ il pilastro divenne simbolo dell’egemonia romana in Grecia. Era infatti accompagnato da una iscrizione latina che ne prendeva possesso in nome di Emilio Paolo, sosteneva la statua equestre dorata del generale ed era completato sulla sommità da un fregio corrente su tutti i lati e raffigurante una battaglia tra Romani e Macedoni, evidentemente quella di Pidna. Il fregio mostrava l'esito della battaglia, ma non ne raccontava lo svolgimento reale, al quale alludeva forse solo l’immagine di un cavallo “scosso” la cui fuga dalle file romane aveva dato inizio al combattimento. Al tempo di Pidna la tradizione ellenistica delle scene di battaglia era comunque già nota anche in Italia grazie al tramite delle città italiote e siceliote. In particolare nei secoli III-Il a.C. la galatomachia era entrata anche nel repertorio delle urne e dei sarcofagi etruschi per alludere ai nemici gallici. I modelli d'ispirazione, scultorei o pittorici, dalla Grecia o dall'Asia Minore, furono così adattati per ribadire l’empietà delle popolazioni celtiche, un concetto nato a sua volta in Grecia per condannare i Galati alla sconfitta, ma facilmente applicabile anche ai Galli nel nuovo contesto della “romanizzazione” della penisola. Nello stesso periodo i fregi fittili continui iniziarono a ospitare rappresentazioni storiche mutuate dal repertorio pubblico anche in contesti domestici, come si vede negli atri e nei tablini di alcune ricche domus della colonia latina di Fregellae, sulle cui pareti erano inserite le lastre di terracotta raffiguranti Vittorie, trofei e battaglie terrestri e navali. Trionfo e cerimonie di Stato in età repubblicana All’influenza dei modelli greci si aggiunse l'esigenza della nobilitas di documentare le imprese belliche sulle quali si basava il conseguimento dell'onore del trionfo e di vedere garantita nel tempo la memoria delle proprie res gestae in ogni possibile contesto. Alla base della tradizione della commemorazione storica nell'arte romana si trova la pittura trionfale, categoria comprendente i quadri su tavola raffiguranti le vicende belliche ed esibiti in pubblico durante e dopo i trionfi. Essi svolgevano la funzione insieme didascalica e documentaria di fornire l'evidenza concreta della vittoria ai cittadini romani. Le immagini, realizzate spesso a breve distanza dagli eventi, dovevano riprodurre la sequenza e, ove possibile, i siti delle res gestae e avevano uno scopo prima di tutto informativo, a integrazione dei resoconti scritti dei comandanti militari. L'unico documento superstite esempio di pittura trionfale, è un frammento di affresco proveniente dalla decorazione forse esterna di una tomba. In esso, la costruzione di una narrazione continua derivava da esperienza ellenistiche, ma lo scopo didascalico/documentario di presentare passo dopo passo e con strategie compositive chiare l'evidenza della vittoria era n’esigenza romana. Si affermò rapidamente anche una differente tradizione che mostrava piuttosto il rango o i doveri assolti dai protagonisti. I monumenti funerari che dovevano presentare l’intera carriera e i meriti pubblici del defunto, illustravano, oltre alle consuete scene belliche, anche processioni funebri e pubbliche, cortei trionfali, sacrifici, immagini dei banchetti o dei ludi di solito gladiatori offerti al popolo. La rappresentazione fedele di una cerimonia poteva quindi costituire il fulero del programma decorativo di un edificio, verosimilmente allo scopo di glorificare ancora di più il suo costruttore. Allo stesso filone appartiene l’“ara di Cn. Domizio Enobarbo. Il monumento, di forma rettangolare, è decorato su ogni lato da un rilievo inquadrato da pilastrini: tre lastre in marmo microasiatico illustrano un tema mitologico, il corteo nuziale di Poseidone e Anfitrite, mentre la quarta in marmo pario rappresenta un tema romano, lo svolgimento di un censimento e del sacrificio a Marte. I rilievi di soggetto marittimo sono più antichi e giunsero probabilmente a Roma dalla Grecia come bottino bellico. L'iconografia, molto scrupolosa nel riprodurre diversi aspetti delle procedure e dei costumi militari romani del tempo, condivide lo stesso linguaggio di molti rilievi votivi greci ellenistici, caratterizzati dall’applicazione di una moderata gerarchia delle proporzioni. La scena riproduce con cura i momenti salienti di una cerimonia di Stato che si ripeteva ogni cinque anni nel Campo Marzio di Roma. Di per sé il rilievo intendeva rendere subito riconoscibile il rito romano, ma può essere considerato anche una rappresentazione storica? Per rispondere si deve guardare allo scopo dell'immagine che non era di mostrare il funzionamento ideale di una cerimonia pubblica, ma di celebrare il censore stesso, ossia il (probabile) committente del monumento, per mezzo del quale egli intendeva comunicare che l’edificio in cui la base si trovava era stato da lui realizzato mentre era in carica. Nel quasi generale naufragio della celebrazione storica repubblicana, risulta preziosa anche la testimonianza dell'attività dei triumviri monetali che nel corso del secolo I a.C. scelsero spesso di rappresentare le vicende delle proprie famiglie sulle monete coniate in loro nome. rilievi decoravano in origine un arco eretto per Marco Aurelio nei pressi della curia Iulia. Otto di questi sono stati reimpiegati nell'arco di Costantino. I rilievi, soffermandosi sulle cerimonie e sulle virtù personali di Marco, inscenavano una sorta di campagna militare ideale, con tappe ormai prestabilite e in assenza di ogni riferimento a episodi bellici specifici, salvo forse la designazione del re vassallo, come se la ripetizione di determinate azioni fosse diventata più importante del singolo e risolutivo a livello militare. Il peso maggiore della componente allegorico-simbolica si coglie anche nella colonna Aureliana. Nella nuova colonna coclide le guerre danubiane combattute da Marco Aurelio sono narrate in forma continua, ma alcune scene esemplari e cerimoniali sembrano talvolta inserite soprattutto per illustrare un ruolo e virtù dell’imperatore, con minore attenzione allo sviluppo lineare del racconto, privo di quei nessi interni caratteristici della colonna Traiana, come se si volesse creare un effetto di ridondanza proprio insistendo sulla ripetizione di determinate azioni. Dai Severi al Tardoantico: nuovi linguaggi La nuova dinastia, bisognosa di legittimazione, diede grande rilievo alla celebrazione delle proprie vittorie, a Roma, Napoli e nella natia Africa. Il più importante monumento urbano fu l’arco di Settimio Severo eretto nel foro romano per celebrare la guerra partica: quattro grandi pannelli furono posti, due per facciata, sui fornici laterali per rappresentare ciascuno la presa di una città partica nemica. Su questi il racconto procede dal basso verso l’alto e perlopiù da sinistra a destra e sembra quasi volere trasportare sulla superficie dell'arco il tipo di narrazione continua spiraliforme adottato nelle colonne coclidi, come se il prestigio di quelle avesse indotto a emularne l'aspetto. Le scene mettevano inoltre in evidenza l’organizzazione dell'esercito romano rispetto al caos del nemico. Nei pannelli dell’arco di Settimio Severo la funzione divulgativa attribuita a queste scene storiche non le trasformava in reportage della guerra o in fonti documentarie nel senso moderno del termine. La selezione degli episodi di contorno associati alle grandi scene d'assedio conferma inoltre l’idea che il racconto di una campagna militare vittoriosa dovesse ormai necessariamente prevedere la ripetizione di alcune situazioni fisse. La presentazione perlopiù frontale dell'imperatore contrapposta alla massa dei suoi soldati era un ulteriore effetto dell'accentuazione della componente simbolica già rilevata per l’età aureliana e si rifletteva sempre di più sulle strategie compositive. Nel periodo dopo i Severi, le testimonianze concrete di nuove rappresentazioni storiche diminuiscono. Nel secolo IV d.C. Roma aveva cessato di essere l'unico centro dell'Impero. La suddivisione del potere tra i componenti della tetrarchia ebbe come esito anche la scelta di nuove “capitali”, oggetto di programmi edilizi ambiziosi per adeguarle al ruolo di residenze imperiali. A Tessalonica (Salonicco), intorno al 303 d.C., Galerio fece costruire una sorta di doppio tetrapilo che serviva da padiglione d’ingresso e di smistamento tra il palazzo e la Rotonda in corso di costruzione. I rilievi presentano la guerra condotta in Assiria e in Armenia e conclusa nel 298 d.C., alternando episodi specifici, come la cattura dell'harem persiano, scene ormai tradizionali in questi racconti bellici (battaglie, clemenza e sottomissione) e altre invece celebrative della tetrarchia nel suo complesso — in particolare il legame tra Galerio e il suo Augusto, Diocleziano, effigiati insieme in una scena di sacrificio. In seguito toccherà alla nuova Roma, Costantinopoli, accogliere gli ultimi esempi di monumenti ufficiali decorati da rilievi storici: la colonna coclide istoriata fu riportata in auge a imitazione di Roma da Teodosio I e dal figlio Arcadio nell'omonimo foro, ma di entrambe si conservano oggi solo pochi frammenti. Sopravvive invece il basamento dell’obelisco collocato nell’ippodromo di Costantinopoli nel 390-392 per celebrare la vittoria di Teodosio I sull’usurpatore Magno Massimo e composto da due basi sovrapposte. Quella superiore presenta quattro rilievi, nei quali in alto è ripetuta la raffigurazione frontale del gruppo imperiale isolato in un loggiato o in un palco e fiancheggiato da guardie e funzionari dietro transenne, mentre in basso appaiono barbari inginocchiati oppure spettatori dei giochi accompagnati dall’esibizione di danzatori al suono di flauti e organi. La base inferiore ospita invece le iscrizioni di dedica e alcune vivaci scene narrative fedeli alla tradizione più didascalica dei monumenti di Stato. Capitolo 11 - Ritratti I ritratti furono moltissimi, sotto forma di statue, erme e busti di vario formato, dal colossale alla miniatura e in tanti materiali, per non parlare delle immagini a rilievo su monete, sigilli, cammei, gemme e vetri e di quelle dipinte. I ritratti si trovavano ovunque: in aree pubbliche, come fori, santuari, ninfei, teatri e terme, negli accampamenti militari, in spazi corporativi a carattere semipubblico di collegi, in abitazioni e sepolcri. I ritratti non erano destinati a una fruizione estetica, ma costituivano uno degli onori più adatti a perpetuare la memoria di uomini benemeriti. Le dediche offrivano una chance di presentazione pubblica anche a cerchie altrimenti impossibilitate a farlo per mezzo della statuaria, come soldati, schiavi e liberti, malgrado di norma il testo delle iscrizioni dia solo scarne indicazioni funzionali sul dedicante e di rado contribuisca a esaltarlo. Molte sono le opere conosciute, ma ben più gravi le perdite. I quasi trecento ritratti a tutto tondo di Augusto conservati formano una quota minima dei venticinquemila/cinquantamila ipotizzati. Ritratti dipinti Oltre ai ritratti del Fayyum, è celebre un frammento di affresco in età neroniana proveniente da Pompei: i probabili abitanti della dimora si presentano, lui come cittadino romano, con il rotolo nelle mani che sottolinea il possesso della cittadinanza e quindi il livello sociale raggiunti, lei con tavoletta cerata e stilo alle labbra, probabilmente nell’atto di svolgere attività di computo connesse con l’amministrazione e l'economia della casa o delle proprietà di famiglia. Un’officina al lavoro Alcuni rilievi illustrano i ritrattisti al lavoro: un esempio da Efeso mostra un'officina con un team di scalpellini, uno intento a lavorare un busto con himàtion (mantello) e un altro davanti a una statua intera abbigliata allo stesso modo. Oltre che per gli imperatori e i membri delle loro famiglie, anche per i privati si conoscono casi di plurime immagini, talora innalzate in uno stretto lasso di tempo in più luoghi nevralgici delle città. Nelle due sfere del pubblico e del privato le sostanziali differenze per le statue-ritratto riguardavano non tanto le forme rappresentative ed epigrafiche e i loro obiettivi, quanto la loro visibilità e soprattutto i committenti. Nell’Urbe gli spazi pubblici erano monopolizzati dagli imperatori: i membri dell'ordine senatorio e in misura minore di quello equestre furono onorati nelle loro case o negli horti da membri stretti della famiglia; un ritiro in una dimensione meno pubblica non ugualmente riscontrabile per senatori, cavalieri o autorità municipali fuori da Roma. Era consuetudine chiedere prima del conferimento di un onore se l’omaggiato fosse o meno d’accordo, ed egli poteva dire la sua su determinati aspetti come il tipo statuario, il luogo di collocazione o il contenuto dell'iscrizione, benché non sempre la sua volontà fosse rispettata. Una società ossessionata dalle immagini e dagli onori correlati escogitò dunque una bella invenzione: il ritratto a insaputa dell’effigiato. Di statue ce n’erano sin troppe, per cui ogni tanto si doveva provvedere a fare un po’ di pulizia. Già nel 158 a.C. i censori decretarono di togliere dalle aree intorno al foro Romano tutte quelle dei detentori di una magistratura che non erano però state collocate per decreto dal popolo o dal senato. Più avanti, Caligola fece abbattere le statue presenti nell’area del Campo Marzio; in più per il futuro proibì di erigere in ogni luogo statue o imagines di chiunque fosse ancora vivo senza la sua autorizzazione o il suo invito. Dal secolo III d.C., dopo il regno dei Severi, si avverte una riduzione nelle dediche di statue, spesso imputata a torto a una generale crisi economica e a rivolgimenti sociali. A subire il colpo furono soprattutto le immagini dei “ceti medi”. Le dediche di statue negli spazi pubblici, nel secolo IV d.C. un affare riguardante in particolare i membri dell’aristocrazia senatoria, collassarono in modo brusco specie da 379 d.C. (anno dell'ascesa al trono di Teodosio I) per non riprendersi più e sparire progressivamente verso i secoli V-VI d.C. Volti di cera e ritrattistica repubblicana (secoli IV-I a.C.) A Roma l’aristocrazia senatoria presentava un'articolazione interna gerarchica, basata sul prestigio di ogni famiglia (gens) quantificabile in base all’accumulo di onori e prestazioni fornite per la Repubblica. Le immagini degli antenati, realizzate da uno stampo in gesso approntato più verosimilmente alla morte degli effigiati, erano uno dei più importanti strumenti nel sistema di rappresentazione della stirpe quale garanzia della sua prosecuzione biologica, sociale e politica: chiuse all’interno di edicole lignee nell'atrio delle domus e accompagnate da un titulus con stringato elenco delle tappe fondamentali della carriera, venivano tirate fuori peri cortei funebri e ornate in occasione di pubblici sacrifici. AI momento della sepoltura, l’ultimo defunto veniva incluso tra i più autorevoli ed esemplari antenati della famiglia, presenti sotto forma di immagini nella processione davanti al feretro, in una serie dal rigoroso ordine cronologico, con l’avo più antico in testa. Secondo l'autopsia di Polibio, le imagines ritraevano i volti degli antenati con estrema somiglianza nel modellato e nel colorito. Dopo l'interramento del corpo e l'espletamento dei riti prescritti, la imago dell’ultimo defunto poteva finalmente trovare posto nell'atrio, dove erano presenti anche immagini dipinte e ordinate in alberi genealogici (stemmata). Lo ius imaginum (diritto alle immagini), non una legge scritta, bensì una consuetudine di casta, spettava ai discendenti di un antenato che avesse ricoperto una magistratura curule. La prassi conobbe una più intensa politicizzazione nel corso del secolo IV a.C., con la nascita della nobilitas patrizio-peblea e con la formazione di una memoria storica monumentale. Realizzati da locali “ceraiuoli”, i volti in cera a Roma miravano alla maggiore rassomiglianza possibile, non limitata ai lineamenti. Oltretutto, i più preminenti personaggi in vita erano seguiti da “attori” che, quasi da controfigure, studiavano a memoria l'andatura e le peculiarità del loro aspetto da ripresentare forse durante la pompa funebre. I morti potevano tornare a essere tanto vivi, anche grazie a un medium straordinariamente mimetico come la cera, da non farsi occasionalmente mancare anche la parola. Le cere erano talmente somiglianti da poter rimpiazzare anche i corpi assenti, come nella prassi del funus imaginarium a Roma, non esclusiva degli imperatori e documentata sino al Rinascimento nelle cerimonie del lutto per i sovrani. Non disporre però di alcun esempio concreto di imagines maiorum in cera provoca molti dubbi sul loro effettivo aspetto, tanto più che dovevano esisterne diversi tipi, anche sotto forma di busti e figure intere. Scoperto nel 1852 ma ancora non ben studiato, si conserva al Museo Archeologico Nazionale di Napoli un volto pieno in cera con porzione del collo di un giovane uomo con occhi in vetro da una camera sepolcrale di Cuma, adattato a uno scheletro trovato acefalo; nei secoli IT-IIl a.C., l'Italia, l'Egitto e l'Africa settentrionale hanno restituito parecchi volti in gesso di natura per lo più funeraria, consistenti sia in maschere funebri a occhi chiusi sia in ritratti a occhi aperti di uomini, donne e bambini. Siccome poco spazio doveva essere lasciato alla schematizzazione, alla convenzione e alla formalizzazione prevalenti nella maggior parte degli altri modi di rappresentazione, le effigi in cera sono state a più riprese ricondotte a una dimensione magico-religiosa o declassate nella categoria della non-arte. Arte o meno, in un clima di perenne campagna elettorale e di concorrenza come in età repubblicana, i Romani avvertirono con forza il bisogno della presentazione del volto individuale. Specie nella prima metà del Novecento le imagines maiorum hanno svolto un ruolo nel dibattito sulle origini del ritratto romano. Queste ultime, con un “verismo” da plastico cartografico in visi grinzosi dalla mimica accigliata e ammonitrice, avrebbero esaltato gli ideali di semplicità rustica e di scontrosa durezza degli anziani, come severitas, gravitas, constantia, dignitas: un equivalente visivo della loro autorevolezza in una società gerontocratica. Vista l'impossibilità di dimostrare cin sicurezza una derivazione diretta dei ritratti dalle immagini in cera, Ranuccio Bianchi Bandinelli vide in queste ultime comunque la matrice “ideologica” e il fondamento del “ritratto romano tipico”, incline a una potente caratterizzazione personale. Tuttavia le imagines maiorum in cera poterono influire almeno sul modo in cui sin dal secolo IV a.C. gli uomini di potere vollero vedersi rappresentati nei ritratti a tutto tondo. L’urgenza di un volto dai tratti inconfondibili nella ritrattistica dovette, come inevitabile, misurarsi con le forme e i modelli irradiati dalle effigi dei grandi dinasti, condottieri e pensatori greci, per cui solo dall'aspetto è impossibile distinguere un greco da un romano; quell’urgenza poté avere almeno due conseguenze che in parte permettono di cogliere un’“idea romana del ritratto”. 1. Anzitutto poté contribuire al suo affrancamento dalle tradizioni estetiche normative spesso informanti il ritratto greco e rese poi accettabile il raggiungimento di una “verità” senza l'ossessione della “bellezza”. 2. Si poté poi smorzare la dipendenza da stretti vincoli tipologici rispetto all’imagerie dinastica e cittadina del mondo greco. Tra i dinasti ellenistici s'incontrano tanti volti lisci e giovanili, dalle folte e mosse chiome con teste energicamente rivolte di lato, sulla falsariga di Alessandro Magno. Sin qui si è parlato di un'esigenza di preservazione dell’individualità tanto ben ottenibile nelle cere da non potere restare senza conseguenze almeno sui principi costitutivi della ritrattistica in bronzo e in marmo della Repubblica. Si possono però cogliere più concreti riflessi delle prime sulla seconda almeno nell'uso di determinate formule ritrattistiche? Per rispondere, bisogna prima figurarsi l'aspetto delle imagines maiorum: uomini in là con l’età, dai quaranta in su, immaginabili con sguardi impassibili e ammonitori, senza pathos e a bocca chiusa, un po’ come sul “togato Barberini”. Poiché il ricordo che l’uomo lascia di sé è importantissimo, Plinio il vecchio in una tirata moralistica lamenta come la perdita di valore della personalità individuale si rivelasse ai suoi giorni principalmente nella preferenza conferita alla materia preziosa più che alla propria immagine, alla quale si rinunciava anche a favore di quella altrui. Il ritratto in epoca imperiale (secoli I-VI d.C.) Dal primo periodo imperiale, specie a Roma, le possibilità rappresentative dell’élite si restrinsero a causa degli imperatori, onnipresenti con i loro palazzi luoghi ed edifici di culto, sepolture e statue. Augusto riassunse nella hall of fame del suo foro gli avi e i protagonisti dell'intera storia romana, presenti sotto forma di statue in marmo accompagnate da elogia e offerte come modello ai propri concittadini. Il riconoscimento dei volti di imperatori, imperatrici, principi e membri della famiglia imperiale, oltre che dai contesti archeologici, dalle iscrizioni e dalle rappresentazioni storiche, è stato per lo più reso possibile dai confronti con quelli presenti di profilo sulle monete (ben datate); le incertezze persistono per gli imperatori effimeri del secolo III e poi per alcuni del IV d.C.I ritratti erano replicati in tantissimi esemplari, dalla cui trama, costitutiva di un tipo, si ricava il modello comune. L’accostamento delle repliche consente di ottenere un'idea dell’archetipo perduto alla base, in gesso, cera o terracotta, affidato a un artista di corte, approvato dall'imperatore, rapidamente diffuso per mezzo di calchi e riprodotto con fedeltà specie nelle proporzioni del viso, nella linea del profilo e nei motivi della chioma grazie al metodo della traslazione dei punti come nella scultura “ideale”. I tipi creati prima dell'assunzione del potere e durante il governo degli imperatori, che oggi recano nomi convenzionali, sono ben distinguibili specie nei secoli I-II d.C. Augusto ne vanta cinque, Traiano sei, Adriano otto, Marco Aurelio quattro, per non parlare dei nove di Faustina Minore in connessione con le nascite dei tanti figli. Le singole elaborazioni successive con un restyling più o meno radicale, concernente in particolare l’acconciatura, paiono coincidere con eventi di rilievo come: ascesa al potere, matrimonio, nascite nella famiglia imperiale, ritorno da campagne militari, trionfo, decennali del regno e così via. L'esame di ogni opera da parte degli studiosi verte in particolare sulla chioma e sul preciso conteggio delle ciocche; ben più della faccia, per gli Antichi specchio del carattere, è proprio lo studio della capigliatura a offrire comodi criteri per la definizione dei tipi. Se gli archeologi sono diventati tanto sensibili alle acconciature, lo erano anche gli imperatori, tanto nei ritratti quanto nella realtà. Domiziano, bello in gioventù, ma con il tempo frustrato dalla calvizie e poco incline a scherzarci su, divenne tanto ossessionato dalla cura dei capelli da scrivere sull'argomento un trattato dedicato a un amico con lo stesso “problema”; Otone, anch'esso Capitolo 12 - Ornamenti greci a Roma Dopo la conquista di Siracusa e la celebrazione di una ovatio nel 211 a.C., M. Claudio Marcello fece collocare le opere d’arte predate nel doppio tempio di Honos e Virtus presso porta Capena, ossia due divinità astratte che impersonavano concetti cardinali del linguaggio politico romano, utilizzandole come ornamenta della città. Quella dell'arrivo delle opere siceliote a Roma e della loro collocazione pubblica fu considerata nella storiografia posteriore una data simbolica per descrivere il processo di appropriazione della cultura figurativa greca da parte romana. Secondo Livio la presa di Siracusa segnò l’inizio stesso dell'ammirazione dei Romani per le opere d’arte greche così come della mancanza di ogni freno alla spoliazione degli sconfitti, il momento a partire dal quale ci si permise indistintamente di predare tutti gli edifici sacri e profani. All'incirca un secolo più tardi, Plutarco presentò il saccheggio di Siracusa in una luce del tutto positiva, perché per suo tramite la grazia dell’arte greca avrebbe ingentilito e raffinato i Romani, descritti di nuovo come incompetenti d’arte al tempo di Marcello. I due storici rileggono quel lontano evento alla luce delle proprie convinzioni, ma concordano comunque sul fatto che le opere d’are siceliote ebbero un impatto molto più significativo dei bottini precedenti, dovuto alla loro qualità più che ai parametri fino ad allora dominanti nella valutazione della preda. Il bottino di Siracusa offrì probabilmente di più e di meglio e secondo Plutarco a Roma suscitò reazioni contrastanti, con il popolo favorevole a Marcello e l’aristocrazia ostile. Il saccheggio di Siracusa può essere ritenuto un episodio decisivo perché riunì due aspetti molto importanti del complesso legame tra il mondo romano e l’arte greca: la pratica della spoliazione, di fatto a lungo la modalità privilegiata di raccolta a Roma dei capolavori artistici greci, e la collocazione pubblica come ornamenta urbis delle opere giuntevi. Il saccheggio dell’arte greca Alla vittoria di Marcello seguirono molte altre guerre nel corso delle quali i generali romani fecero incetta di opere d’arte e le trasportarono in patria, mostrandole prima al popolo durante le processioni trionfali e poi facendole collocare negli edifici costruiti con i proventi del bottino. Il fenomeno si placò solo in età imperiale, quando, dopo il trionfo di Ottaviano nel 29 a.C., i nuovi arrivi di capolavori greci furono sempre più spesso frutto di acquisti più o meno coatti o di ruberie imposte con violenza alle città greche, senza che vi fosse più un legame diretto con vittorie militari ed eventi bellici. I capolavori greci giunti a Roma in età repubblicana appartenevano dunque spesso al bottino: nel momento in cui una città nemica si arrendeva, a seconda della formula con cui ciò avveniva, il comandante romano acquisiva il diritto di confiscare anche le sue opere d’arte. Solo di rado la spoliazione fu totale, come a Corinto e Cartagine. Le comunità greche naturalmente non accettarono di buon grado tali furti di pitture, statue e tanti altri oggetti di lusso; esse cercarono per quanto possibile di opporvisi legalmente, di solito contestando il diritto stesso del generale romano alla spoliazione perché le condizioni della resa non avrebbero incluso o consentito il saccheggio. Dei sentimenti dell'opinione pubblica greca si fece portavoce Polibio. Egli prese spunto ancora una volta dal saccheggio di Siracusa per criticare con forza la politica di spoliazione romana adottata dai Romani perché li danneggiava senza che essi ne traessero vantaggi reali. Il secondo argomento applica a Roma l’antico modello della tryphé (lusso) come causa della corruzione morale e della decadenza e caduta degli stati, ma la parte più interessante del ragionamento è la prima, dato che documenta il sentimento reale dei Greci e invita i Romani a tenere conto anche del punto di vista degli stranieri in visita nell'Urbe. Selezione ed esposizione a Roma Altro aspetto da considerare è proprio l’impiego delle opere d’arte una volta giunte a Roma. Nel mondo romano la nozione di ornamenta era prima di tutto giuridica e applicabile a ogni cosa che abbelliva il luogo in cui era esposta. Rispetto a una città anche un edificio poteva rientrare nella categoria degli ornamenta, ma di solito il termine era riferito alle sculture o ai quadri facenti parte dell'arredo inamovibile di uno spazio pubblico o privato. Degli ornamenta non facevano parte solo le opere dei grandi artisti greci, ma anche altre, tra cui le statue onorarie, ritenute una categoria di ornatus adatta alla decorazione dei fori, ossia agli spazi politici per eccellenza. Agli ornamenta propriamente detti non appartenevano invece le statue di culto, i simulacra, che svolgevano una funzione diversa all’interno di un edificio sacro, ossia quella di rendere presente la divinità. Di solito i generali trionfatori evitavano di impadronirsene, a meno di non procedere nella evocatio (prassi con cui si mirava a privare la città nemica della divinità tutelare). La congruenza tra ornamenta e collocazione era un principio importante, proclamato anche da Vitruvio, per il quale si doveva sempre rispettare la convenienza tra tipo statuario e funzione dei luoghi. L'importanza dell'adeguatezza del soggetto condizionava del resto anche personaggi come Cicerone: dalla sua corrispondenza si apprende che al progetto di arredare gli ambienti delle sue ville a imitazione dei ginnasi greci si confacevano le immagini di Muse, Atena, Hermes ed Eracle e non i temi bacchici o bellici. La selezione degli ornamenta e del loro contesto poteva basarsi anche su dimensioni e materiali, sulla predilezione per un determinato linguaggio artistico o perché certe opere dilettavano più di altre. Anche la fama dell'artista o semplicemente la squisitezza del linguaggio formale potevano rendere congrui gli ornamenta. A partire dal I secolo a.C. conosciamo l’esistenza di vere e proprie gallerie di opere d’arte. Il teatro di Pompeo Per ornare il grande complesso formato da teatro e portici, fu interpellato come consulente un intenditore come T. Pomponio Attico, che si occupò specificamente della compositio delle statue, ossia della loro scelta e disposizione. L’arredo, frutto non solo di spoliazioni ma commissionato anche a scultori contemporanei, comprendeva personificazioni di popoli sconfitti, temi bacchici nel giardino e una ricca pinacoteca, sistemata nel porticato. Giardino e portici ospitavano statue di donne celebri, suddivise per categorie (poetesse, etère, donne dalla fecondità straordinaria). Alcune opere dovevano illustrare aspetti della personalità pubblica di Pompeo, come l’imitatio Alexandri nel caso del quadro del pittore ateniese Nicia con il sovrano macedone; un quadro del grande Polignoto ebbe probabilmente un posto di spicco davanti alla curia. I monumenta Pompeiana danno un'idea dell'ampiezza e della diversificazione dell'impiego degli ornamenta nei maggiori edifici di Roma; in questo senso saranno un modello per l'allestimento degli altri grandi edifici porticati di età imperiale. Il dibattito sulla collocazione pubblica o privata delle opere d’arte L'arrivo a Roma degli ornamenta fece nascere anche un serrato dibattito sulla loro collocazione privata o pubblica, segno che anche la tendenza alla fruizione domestica degli oggetti d'arte si affermò molto rapidamente. Sebbene nel caso delle statue e dei quadri facenti parte del bottino fosse evidentemente interesse del trionfatore fare sfoggio di magnificentia publica e assicurare memoria della sua vittoria tramite la loro dedica come ornamenta urbis, lo stesso M. Claudio Marcello tenne per sé in casa una preziosa sphaera siracusana, e M. Acilio Glabrione fu accusato di avere fatto lo stesso. Nella prima metà del secolo Il a.C. Catone il Censore fu probabilmente il primo a prendere posizione in proposito, in alcune sue orazioni, di cui restano però solo un argomento e pochi frammenti, nei quali egli condannava la sottrazione per uso privato di parte del bottino dal bene pubblico e denunciava in particolare la collocazione nelle case delle statue di divinità, usate come suppellettile. La condanna di Catone non arrestò il “collezionismo” privato. Le opere d’arte non giungevano più solo come preda di guerra, ma erano moltiplicate dalle copie e rielaborazioni prodotte dalle officine greche contemporanee. Esisteva un ricco mercato dell’arte, a cui attingeva chi voleva vivere “alla greca” in Italia. La fruizione pubblica degli originali greci trasformati in ornamenta civici era ritenuta ormai un privilegio del popolo romano. Disporre statue nei luoghi pubblici faceva guadagnare una buona reputazione. Toccò a M. Vespasiano Agrippa trarne le conclusioni e lo fece in un discorso, pronunciato forse nel 33 a.C., quando era edile curule, in cui sostenne la necessità di rendere di proprietà pubblica le statue e i quadri onde sottrarli all'esilio nelle ville. Tuttavia l'intervento di Agrippa, accompagnato da un ampio dispiegamento di capolavori soprattutto nel Campo Marzio, fu il segno di un atteggiamento concretamente favorevole alla collocazione pubblica delle opere d’arte, approvato evidentemente dallo stesso princeps; questi riservò di fatto a se stesso e alla sua famiglia la gestione degli ornamenta, trasformandoli in instrumentum regni, come aveva fatto con il trionfo, che era stata anche l'occasione per eccellenza per impadronirsene, almeno nella forma più onorevole per un romano. Il popolo di Roma si era ormai abituato ad ammirare le opere d’arte come ornamenta e non era disposto a perdere questo privilegio, come scoprì a sue spese Tiberio, quando, all’inizio del suo principato, da raffinato intenditore decise di trasferire al suo “appartamento” privato il celebre Apoxiyòmenos di Lisippo dallo spazio antistante le Terme di Agrippa. Nonostante l’imperatore avesse già predisposto la sostituzione dell’opera di Lisippo con un’altra statua (una copia?), nell'intento di evitare proteste, lo spostamento di un capolavoro riconosciuto da un luogo dove poteva essere visto da tutti a uno spazio privato provocò l'indignazione civica che si manifestò in teatro mediante ostinate grida di disapprovazione del popolo, finché l’imperatore non si rassegnò a restituirlo. In effetti, era il popolo a essere maggiormente danneggiato dalla decisione di Tiberio, poiché non aveva altro modo di ammirare i capolavori greci se non come ornamenta di edifici pubblici. La sottrazione violenta delle statue dai luoghi pubblici fu da allora una qualità caratteristica degli imperatori “tirannici”, come Caligola e soprattutto Nerone. In seguito, le notizie sulla collocazione pubblica di nuovi ornamenta diminuiscono, mentre aumentò semmai la preoccupazione per la loro salvaguardia. Con l’affermazione del Cristianesimo, nel corso del secolo IV d.C., la sconsacrazione dei templi portò al loro abbandono e spesso alla distruzione delle satue di culto. Non è raro però che queste fossero semplicemente rimosse e rifunzionalizzate da simulacra a ornamenta. Molti cristiani colti infatti non avevano problemi ad accettare le immagini “pagane”, purché non fossero più oggetto di venerazione. Il possesso dei capolavori dell’arte greca continuò inoltre a qualificare i grandi centri urbani, come si deduce dal loro impiego anche a Costantinopoli. La nuova capitale imperiale non poteva infatti mancare di ornamenta adeguati. Le statue di culto, ormai classificate come semplici ornamenta furono spostate a Costantinopoli e collocate con grande attenzione ai contesti, proprio come era avvenuto nella Roma tardorepubblicana e imperiale, e fecero della città l’ultimo “museo” della scultura greca almeno fino al sacco crociato del 1204. Capitolo 13 - Copie e rielaborazioni di modelli greci Il fenomeno cui gli studiosi hanno dato il nome di “copistica” poteva avere in epoca imperiale declinazioni estremamente differenti. Le officine mettevano a disposizione di committenti e acquirenti un vasto patrimonio di tipi statuari che talora riproducevano fedelmente e in serie originali greci e talaltra li citavano, rielaboravano o ricreavano liberamente, impiegando comunque schemata o “stili” ispirati all’arte greca. I committenti cercavano statue che fungessero da ornamenti di edifici pubblici o privati, selezionandole in base soprattutto ai soggetti e talvolta al loro pedigree. “Critica delle copie” e “scultura ideale” La consapevolezza che molte delle statue trovate a Roma nel corso dei secoli e celebrate come capolavori nelle collezioni formatesi a partire dal Rinascimento non erano opere originali dei grandi scultori greci noti bensì sculture “romane” si affermò solo con difficoltà e lentezza nella cultura antiquaria. Già all’inizio dell'Ottocento la maggioranza degli studiosi era però ormai consapevole di trovarsi di fronte a copie, scoperta gravida di conseguenze: ci si convinse infatti che queste potessero essere utilizzate per ricostruire le opere d’arte greche originali quali erano ispirate, il che causò disinteresse per le ragioni stesse della loro produzione. Attraverso una meritoria opera di classificazione di artisti e tipi statuari. Sfruttando l'assemblaggio di calchi di copie diverse, nella seconda metà dell'Ottocento e all’inizio del Novecento furono ottenuti risultati notevoli, come il riconoscimento del Doriforo di Policleto. I frutti di questo metodo di investigazione furono sviluppati nella prima metà del Novecento da Georg Lippold, che alle copie in senso stretto e alle loro varianti, aggiunse un ampio ventaglio di possibilità di rielaborazione e ricombinazione che permettevano di allontanarsi dall'originale. Quest'ultimo poteva infatti essere trasformato per mezzo dell’introduzione consapevole di alcuni elementi nuovi ma coerenti (“Umbildung”), che non impedivano comunque l’identificazione del modello, oppure diventare oggetto di un processo di riformulazione o reinvenzione di un nuovo tipo statuario, che poteva contaminare più modelli fra loro (“Neuschoepfung”) ed era a sua volta in grado di produrre copie e varianti e di diventare un’opera illustre al pari di quelle greche del passato. Studi più recenti hanno abbandonato l’idea che dietro ogni scultura in età imperiale vi fosse un preciso archetipo greco. Un primo passo è stato riconoscere che in gran parte della scultura “ideale” le frequenti riprese “arcaistiche”, “severizzanti” e “classicistiche”, spesso riconoscibili anche per la fusione di tratti stilistici dissonanti, non erano determinate dalla volontà di replicare o citare uno specifico archetipo greco, ma dal proposito di riprodurre una determinata temperie formale, perché ogni specifico linguaggio era sentito come particolarmente adatto a esprimere i valori più appropriati al gusto del tempo, ai contesti o al soggetto raffigurato. Un passo ulteriore nella riconsiderazione della “critica delle copie” è rappresentato dalla tendenza a mettere in parallelo il modo di procedere dei copisti con varie forme di imitazione classificate dai retori latini, ossia intepretatio, imitatio e aemulatio. Solo il primo procedimento sarebbe adatto a descrivere una copia fedele all'archetipo, mentre i due concetti di imitazione ed emulazione indicherebbero due diversi gradi di libertà di azione e di originalità dell’artefice, che nel primo caso produrrà in sostanza “Umbildungen” e nel secondo “Neuschoepfungen”, facendo così sfoggio di una maggiore creatività in grado di superare i limiti della tradizione. Chiave di volta del sistema sarebbe il concetto di decorum, ossia di appropriatezza dell’opera rispetto al contesto, principio che poté spingere gli scultori a rinnovare gli originali greci mediante il procedimento dell’emulazione e i committenti a richiedere e ad apprezzare le innovazioni perché più adatte ai nuovi contesti, nei quali di fatto repliche fedeli e rielaborazioni furono spesso impiegate insieme, senza distinzione proprio perché selezionate in funzione dei valori espressi. Sia le copie stricto sensu di capolavori sia le numerose rielaborazioni o ricreazioni in stile facevano del resto parte dello stesso fenomeno di appropriazione cosciente della tradizione greca. Si dovrebbe semmai distinguere la ricerca dello stile personale dei grandi scultori greci, un traguardo troppo ambizioso almeno a partire dalla documentazione esistente, da un obiettivo difficile ma perseguibile, come la ricostruzione di quali tipi statuari facessero parte del repertorio noto agli scultori in età imperiale. Storia e contesti Tra i secoli Il e II a.C., si sviluppò una letteratura critica che individuò negli scultori “classici” i maestri da imitare o ai quali rifarsi, creando le premesse di un fenomeno consapevolmente imitativo. Uno degli esempi più antichi è la statua in marmo dell’Atena Parthénos collocata nella biblioteca di Pergamo all’interno del santuario di Atena Nikephòros, chiaramente ispirata all'opera crisoelefantina fidiaca, ma molto ridotta di scala e realizzata con una Parthenos di Fidia. Queste riproduzioni erano inoltre eseguite anche in materiali pregiati (dal cristallo di rocca all’avorio) di modo che il loro possesso fosse un simbolo di status e di gusto raffinato offerto soprattutto a un pubblico di ricchi collezionisti. Altre statuette, di qualità inferiore, erano spesso usate nel culto privato. Copie in pittura e mosaico La pratica di copiare i capolavori del passato riguardava anche la pittura. Inoltre a Roma collezioni pubbliche di capolavori di pittura greca non mancavano e neppure le occasioni per predisporre delle copie. Le notizie sulla presenza concreta a Roma di molti illustri quadri greci hanno fatto quindi pensare che i programmi decorativi di “II” e “IV stile”, che tra l’età augustea e flavia trasformarono molti ambienti domestici in finte pinacoteche, con almeno un quadro al centro di ciascuna parete, ospitassero a loro volta copie di originali, noti grazie ai cartoni circolanti presso le officine dei pittori. I pittori conducevano spesso anche un complesso lavoro di rivisitazione di iconografie, fatto di citazioni e mescolanze. Il loro scopo era soprattutto quello di ricreare per lo più mondi mitici ed eroi (greci) fuori dalla realtà, mentre l'introduzione di varianti nello scenario o l'inserimento e la rimozione delle figure potevano servire a soddisfare o il gusto delle officine o il bisogno del committente di avere una versione più personalizzata di un’iconografia nota. Capitolo 14 - Arti decorative Il concetto di “arti decorative” è qui usato per comprendere varie categorie di oggetti di marmo e di bronzo con una predominante funzione ornamentale. Nei secoli II-I a.C. il contatto con i regni ellenistici dà impulso a un radicale rinnovamento del volto di Roma, ove s’intraprendono ambiziosi progetti edilizi che richiedono un adeguato arredo, consono al nuovo ruolo assunto dalla città. Alla crescente magnificenza urbana fa riscontro la penetrazione del lusso negli spazi domestici, che si manifesta fra l’altro nella consuetudine di decorare le dimore con costosi manufatti. La smisurata concentrazione nella capitale di beni di lusso dall’oriente stimola negli ottimati il desiderio di emulare il fasto dei palazzi ellenistici. Una nave naufragata a largo di Mahdia (Tunisia) intorno all'80-70 a.C. trasportava un carico di ricchezza e varietà non comuni, comprendente elementi architettonici e opere decorative di marmo, sculture di marmo e di bronzo, pezzi di antiquariato, fra cui rilievi votivi e iscrizioni d'epoca classica, mobili di marmo e di bronzo, suppellettile e vasellame di bronzo. La nave, partita dal Pireo, faceva rotta verso il porto dell'Italia, sicché il carico documenta quali articoli di lusso fossero prodotti dalle officine greche al passaggio dal secolo II al I a.C. per soddisfare le esigenze della facoltosa clientela romana. Manufatti “neoattici” Nella letteratura specialistica sono etichettate come “neoattiche” alcune classi di manufatti marmorei d’arredo prodotte in officine altamente qualificate. Il concetto di “neoatticismo” fu introdotto nell’ottocento per designare una corrente figurativa che, sorta ad Atene intorno alla metà del secolo II a.C., prende a modello l’arte attica di epoca classica per la realizzazione di sculture a tutto tondo, altari, basi, rilievi e opere decorative destinati per lo più al mercato di Roma e dell’Italia centrale. La fabbricazione di candelabri, vasi, are, rilievi, puteali e trapezofori “neoattici” si avvia alla fine del secolo Il-inizio del I a.C. e raggiunge l’apice in età cesariano-augustea; già nei primi decenni del secolo I d.C. si registra un calo, cui segue una ripresa nell'età di Adriano; l’interruzione definitiva si colloca fra la seconda metà del secolo II e l’inizio del III d.C., allorquando si verifica una riconversione produttiva delle officine ateniesi specializzate in beni di lusso, che da allora si dedicano alla fabbricazione di sarcofagi. Il repertorio tematico è molto vario ma altamente standardizzato e include divinità, eroti, Horai, Vittorie, ninfe, personaggi del corteo bacchico, immagini mitologiche, sacerdoti e sacerdotesse, personificazioni, animali, motivi vegetali. Gli scultori trascelgono dall'intero patrimonio dell’arte greca tipi iconografici, motivi e forme adeguati al contenuto della rappresentazione, li reinterpretano e li combinano in composizioni sempre nuove, spesso giustapponendo iconografie e stili appartenenti a epoche diverse. Caratteristico è il procedimento di tradurre a rilievo celebri archetipi statuari, ovvero di estrapolare dai contesti originari singole figure per poi riproporle isolate o all’interno di una nuova scena. Il relitto di Mahdia ha restituito gli esemplari più antichi di candelabri marmorei, che raggiungono un'altezza di quasi 2 m e constano di tre parti separate e assemblate con perni di ferro: 1. Base a tre lati poggiante su zampe teriomorfe che incorniciano un elaborato ornato vegetale; 2. Fusto scandito da cespi acantini e modanature; 3. Coronamento a forma di bacino baccellato. La tettonica del monumento, pur conservando la suddivisione nelle tre componenti fondamentali, conosce nel tempo numerose varianti, indizio dell'invettiva delle officine, che dall'età augustea avviano una produzione in serie per rispondere alla domanda del mercato enormemente accresciutasi. Fra gli arredi marmorei più costosi si annoverano, accanto ai candelabri, i vasi istoriati, non di rado con dimensioni considerevoli. La forma più diffusa è il cratere, a calice o a volute. I crateri a calice s'impostano su un alto sostegno scanalato; la convessità della vasca alla base del recipiente è sottolineata da baccellature, le pareti del calice si concludono con un labbro estroflesso, ornato da un kymation ionico e l'attacco delle anse a ferro di cavallo è segnato da teste barbate di sileno. Sulle pareti si snoda una decorazione figurata a rilievo, talora delimitata in alto da un tralcio vegetale; in alcuni esemplari l’intero corpo del vaso è avvinto dall’elastica tensione di girali acantini. Nei crateri a volute è canonica la tripartizione del corpo, la parte inferiore e la spalla ornate da baccellature e la zona mediana da un fregio figurato; il collo basso e largo, coronato da un labbro svasato scandito da kymatia, è impreziosito da un tralcio vegetale e affiancato dalle anse a volute, sorrette da lunghi colli di cigno. Il carattere bacchico dei crateri, implicito nella loro funzione originaria e ribadito dalla prevalente tematica dei fregi, valeva a richiamare l'atmosfera del banchetto e a sacralizzare gli spazi, trasformando un giardino o una corte a peristilio in un locus amoenus. Nella categoria dei beni di lusso rientrano anche altari e basi caratterizzati da una ricca decorazione a rilievo, che li trasforma da oggetti d'uso in manufatti sontuosi, dalla forte valenza ornamentale. In assenza di iscrizioni o di dati di rinvenimento risulta sovente difficile distinguere fra un altare, votivo o funerario, e una base: si utilizza in tal caso il termine “ara”, che in latino possiede entrambi i significati. Indipendentemente dalla funzione, le are si presentano di forma rettangolare 0, più spesso, circolare, con il corpo racchiuso entro modanature alla base e alla sommità e ravvivato da rilievi che si distribuiscono sulle quattro fasce o si sviluppano intorno al cilindro. Secolo I a.C. - nella fase iniziale le are sono fabbricate in maggioranza nelle stesse officine responsabili della realizzazione di candelabri, vasi e puteali e si avvalgono del medesimo repertorio figurativo, dominato da scene bacchiche e da teorie di divinità olimpiche. Età imperiale - la produzione acquisisce una maggiore autonomia e si verifica un mutamento delle tematiche, che ora si rapportano più specificamente a singole divinità o gruppi di divinità. Rilievi A partire dal I secolo a.C. conosce una notevole fioritura nelle officine “neoattiche” la produzione di rilievi decorativi finalizzati all’arredo di domus e ville dell’aristocrazia. I rilievi hanno dimensioni variabili e sono spesso circondati da cornici modanate, assumendo così l'aspetto di pregevoli quadri marmorei. Puteali I manufatti di arredo più diffusi sono le vere di pozzo o di cisterna a forma circolare, che assommano al valore esornativo una ben precisa funzione pratica. Sotto il profilo strutturale prendono a modello gli altari circolari affermatisi nel mondo egeo dal tardo secolo III a.C. e constano di uno zoccolo quadrato, un cilindro con modanature alla base e alla sommità e talvolta una lastra di copertura; l'interno è cavo. Puteali marmorei sono stati ritrovati in atri e peristili di ville lussuose ma anche in santuari, terme e piazze pubbliche. Tavoli e trapezofori Il carico del relitto di Mahdia comprende alcuni piani di tavolo. In effetti, alla fine del secolo II a.C. tavoli di marmo, costituiti da un piano rettangolare o circolare poggiante su uno o più sostegni, diventano una componente essenziale dell'arredo delle domus aristocratiche. Per la loro realizzazione ci si avvale di un'amplissima gamma di materiali: calcari locali, riservati agli esemplari più modesti, marmi bianchi, greci e italici, nonché molteplici qualità di marmi policromi greci microasiatici e africani. Molto comuni sono i tavoli a tre o quattro supporti a zampa ferina, decorati alla sommità da teste, in generale di animali, emergenti dal cespo di acanto; diffusi sono poi i monopodia, il cui piano è sorretto da un unico sostegno centrale, che può essere cilindrico e scandito da scanalature o a pilastrino, innestato in una base e spesso coronato da un’erma. Ma il tipo più popolare ed elaborato di sostegno è quello consistente in due lastre sui cui lati brevi sono modellate figure grottesche, solitamente grifoni, mentre su uno o entrambi i lati lunghi si sviluppa un ornato vegetale o figurato a rilievo. I tavoli di marmo sono innanzitutto oggetti utilitaristici e in quanto tali adibiti a differenti funzioni in contesti sia sacri sia profani. In templi e santuari erano usati nello svolgimento di pratiche cultuali e per sorreggere le offerte votive; nelle botteghe servivano all'esposizione delle merci; eccezionalmente sono documentati in piazze pubbliche. All’interno della casa erano distribuiti in ambienti diversi, dove fungevano principalmente da piano di appoggio per l'esibizione di vasellame di bronzo, argenterie, vetri. Avevano inoltre un ruolo nel culto domestico, in connessione con i larari. La fabbricazione su vasta scala di tavoli marmorei inizia intorno al secolo II a.C. in officine aventi sede ad Atene, il maggior centro di lavorazione, Delo e Pergamo; in età imperiale Atene conserva la sua posizione egemone, ma nel corso del secolo I d.C. la produzione si incrementa anche a Roma e in numerose officine centro-italiche. Altri manufatti in marmo (e terracotta) Officine Vasche, labra, pilastri istoriati, rilievi differenti per forma, dimensioni e contenuto della rappresentazione sono prodotti in grande quantità in officine localizzate in netta prevalenza a Roma e in area centro-italica. Marmi Accanto ai marmi bianchi, a partire dall'età augustea si assiste a un impiego sempre più diffuso di marmi colorati, favorito dallo sviluppo di un sistema di sfruttamento imperiale delle cave che rende accessibili a un pubblico più vasto attraenti manufatti in pietre policrome. Terrecotte L’uso della terracotta, materiale per secoli prediletto in ambiente romano-italico, continua invece per un genere di lastre architettoniche ornate a rilievo, dette convenzionalmente Campana. Le lastre componevano fregi destinati a rivestire le pareti esterne o interne di edifici pubblici e privati, funerari ma soprattutto residenziali, ubicati precipuamente a Roma e in Italia centrale. Vasche e labra Dal punto di vista tettonico si distinguono tre tipologie: 1. Vasche di forma oblunga con corpo semicilindrico, concluso da cornici modanate e collocato su sostegni; 2. Vasche di sagoma allungata, con lati brevi ricurvi e pareti svasate verso l’alto, usualmente ornate da una coppia di anelli, più di rado da una coppia di teste feline o da gorgòneia; 3. Vasche costituite da un bacino di forma circolare, poco profondo, sorretto da un unico supporto centrale; Le vasche dei primi due tipi erano impiegate essenzialmente come bacini di fontane istallate in edifici pubblici come pure in dimore private, dove concorrevano all'allestimento decorativo di atri, peristili e giardini, a volte in associazione con vasche circolari. I labra possedevano invece una più articolata destinazione funzionale, variabile a seconda del contesto espositivo. Nell'ambito di templi e santuari avevano una funzione votiva oppure lustrale, risultando adibiti a rituali di purificazione, mentre nelle terme pubbliche e nei bagni privati servivano per abluzioni ed erano collocati normalmente nel calidarium. Uno dei labra più antichi è venuto alla luce in una domus alle pendici del Palatino identificata con quella di M. Emilio Scauro e si data alla metà del secolo I a.C. In età augustea appare una classe di sostegni decorativi destinata a riscuotere notevole successo. Si tratta di lesene e pilastrini a sezione rettangolare istoriati con ornati vegetali, che snodano in girali ovvero si dispongono simmetricamente ai lati di un elemento centrale, formando un motivo detto a candelabro, che viene codificato dalle paraste finemente cesellate che incorniciano i pannelli esterni dell’ara Pacis. Nell’ornato domina l’acanto, con cui talora si mescolano la vite, l'edera, l’olivo e altre specie vegetali; non di rado il fogliame è popolato da animaletti. Pilastri e lesene vegetali s'incontrano sia sulle facciate sia negli spazi interni di edifici pubblici, come pure in ambito privato, nel campo dell’architettura domestica e funeraria. “Oscilla” Classe di rilievi destinati a una collocazione sospesa, che sono documentati in cinque varianti morfologiche (circolari, a pelta, rettangolari, a clipeo, a siringa) e mostrano di solito una decorazione scolpita su entrambe le facce, essendo visibili su ambedue i lati; in alcuni esemplari il lato secondario è liscio e poteva forse essere dipinto. Il repertorio figurativo riprende schemi iconografici standardizzati di matrice “neoattica” e appare riconducibile a due precipui ambiti tematici, la sfera bacchica e il mondo del teatro, evocato dalla frequente rappresentazione di maschere; ricorrono inoltre scene e motivi “di genere”, nonché immagini di divinità e personaggi mitologici. Il loro utilizzo più comune è attestato in ambiente domestico quali componenti dell’arredo di atri colonnati, peristili e giardini porticati, come vediamo sempre nel peristilio della Casa degli Amorini Dorati, con “oscilla” circolari, ritmicamente alternati a maschere marmoree, appesi agli architravi in corrispondenza degli intercolumni. Rilievi con maschere Nel peristilio della Casa degli Amorini Dorati sono esposti anche otto rilievi con maschere, quattro montati su pilastrini, quattro inseriti in una parete del portico. Tale classe gode di una certa fortuna nell’allestimento dei giardini a peristilio di domus e ville, dove rilievi con maschere potevano anche essere appesi ad architravi, al pari degli “oscilla”, con i quali sono strettamente imparentati, sicché si ritiene che fossero lavorati nelle stesse officine. La composizione si adegua ad uno schema fisso: entro un paesaggio roccioso sono raffigurate due o più maschere in veduta di tre quarti, rivolte le une verso le altre e attorniate da motivi sussidiari, per lo più attributi bacchici e strumenti musicali. Rilievi paesistici Sui rilievi con maschere compaiono come elementi accessori alberi, rocce, recinti sacri, sacelli, altari, thymiateria, pilastri votivi, erme di Priapo, ciste e cortine, un ricco campionario di motivi atti a creare l'atmosfera di un paesaggio “idillico-sacrale”. Gli stessi motivi ritornano in una classe di rilievi definiti paesistici o bucolici, sui quali un paesaggio naturale o costruito fa da sfondo alle scene figurate costituendone parte integrante. Il repertorio tematico privilegia scene di vita campestre, proiettate in un’aura religiosa: pastori con greggi, vecchi contadini che si recano al mercato, attività eroiche o cultuali ambientate in santuari rurali, animali; spesso protagonisti delle raffigurazioni sono Bacco o personaggi del suo seguito. I rilievi sono stati scoperti soprattutto in contesti domestici, dove erano innestati nelle pareti come quadretti marmorei. “Rilievi mitologici di lusso” Si tratta di un numero ridotto di lastre affini per materiale, dimensioni monumentali, formato a rettangolo allungato, chiuso da cornici modanate, contenuto e funzione, che sono venute alla luce in larga maggioranza a Roma e dintorni. L'impaginato compositivo delle lastre è contraddistinto dalla collocazione in primo piano di figure dal vigoroso aggetto plastico, che agiscono sullo sfondo di uno scenario naturale, fatto di rocce e alberi frondosi, o animato da edifici, per lo più di carattere sacro. Le lastre, di eccellente livello artistico, s'indirizzano a una clientela colta, in grado di decifrare il contenuto delle raffigurazioni, in qualche caso identificabile con la stessa famiglia imperiale: un ciclo di rilievi proviene infatti dal palazzo domizianeo sul Palatino, mentre quelli “Spada” appartenevano probabilmente all’arredo di una residenza adrianea. Manufatti di arredo in bronzo La conquista dell'Oriente ellenistico determina l'introduzione a Roma di mobili e suppellettili di bronzo, che cominciano a circolare dagli inizi del secolo I a.C., come testimonia, fra l’altro, il carico del relitto di Mahdia. Bronzi corinzi Richiestissimi da intenditori e “collezionisti”, disposti a sborsare cifre esorbitanti per possederli, dell'Impero, la documentazione di oggetti in avorio resta piuttosto sporadica per tutti i secoli II e III d.C., a parte statue e statuette “ideali” e iconiche di vario genere. Di grande interesse sono le bambole in avorio attribuite a officine egiziane e scoperte in alcuni corredi funerari soprattutto a Roma e dintorni. Dittici e avori tardoantichi Dalla metà del secolo IV d.C. la fortuna dell’avorio riesplose nei dittici per membri della famiglia imperiale e dignitari di alto rango. La tavola in cinque lastre, denominata “Barberini”, della prima metà del secolo VI d.C., raffigura un imperatore loricato (Giustiniano?) su un cavallo rampante mentre viene incoronato da una Vittoria. Le immagini rappresentate sulla tavola sono pertinenti a una tradizione consolidata a esaltazione dell'imperatore trionfante, che qui si associano a simbologie cristiane: il trionfo dell’imperatore avviene sotto la benedizione di un Cristo imberbe entro clipeo sorretto da Vittorie, nel quale s’inscrivono i segni cosmici del sole, della luna e di una stella: gli unici personaggi raffigurati in modo frontale e intagliati con cura raffinata sono Cristo e, ovviamente, l’imperatore. Gemme e cammei Con le conquiste romane in Oriente arrivarono a Roma anche intere “collezioni” di pietre preziose, intagliate in materiali rari provenienti dalla penisola arabica (topazio), dall'India (sardonica, ametista, berillo), dall'Egitto (diamante, diaspro, smeraldo). L'arte di intagliare le pietre in negativo, nelle gemme, o a rilievo, nei cammei, e cioè la glittica, si avvalse delle maestranze specializzate giunte a Roma dall’Asia Minore e dall'Egitto al seguito dei conquistatori. Dall’età augustea le rotte marittime tra l'Egitto e l'India si fecero più intense, così da garantire un più facile approvvigionamento di materie prime. Le gemme venivano poi incise anche con varie immagini di modo che a costituire il pregio fosse ora l’arte, ora il materiale; e il valore più alto era dato ai diamanti, alle perle dell'India e dell'Arabia, agli smeraldi, agli opali e alle sardoniche. Ma non erano questi i soli usi delle gemme. Persino le pareti delle dimore di alto livello potevano essere fastosamente ornate di gemme. Uno dei principali centri di produzione e di smistamento di gemme e cammei fu Aquileia, dove gli scavi dell’abitato hanno restituito eccezionali quantità di pietre semilavorate e blocchi ancora grezzi. Gli influssi stilistici e le tecniche tipiche dell’arte ellenistica giungevano qui attraverso l'Adriatico, ma le officine glittiche dovettero presto diffondersi in tutto l'Impero, anche in centri minori come Pompei. Le gemme romane derivarono dal mondo ellenistico la funzione principale di sigilli personali. A imitazione dei dinasti orientali anche gli alti magistrati romani e gli imperatori facevano incidere in anelli-sigillo il proprio ritratto o i simboli del potere. Oltre ai ritratti e ai segni politici, l'ampio repertorio tematico, con differenti intensità a seconda dei periodi, prevede, scene di miti greci e saghe “romane” (come la fuga di Enea da Troia), singoli eroi e divinità, eroti e personaggi del corteo bacchico o marino, temi legati alla paideìa (filosofi), scene pastorali ed erotiche. Alcune gemme con figure di origine orientale ed “egittizzanti” e iscrizioni che si confrontano con i testi magici dei papiri egiziani erano poi utilizzate come amuleti: erano incise per essere viste direttamente in positivo e non, come avviene di solito, in negativo. Il principale centro di produzione delle gemme magiche era probabilmente Alessandria. Cammei A differenza delle gemme incise, i cammei solo di rado vennero usati come sigilli personali, e perciò il loro ritrovamento in contesti funerari, come simbolo di riconoscimento dei defunti, è poco documentato. Ottenuti, in prevalenza, con la lavorazione di pietre policrome o zonate, e cioè costituite da strati di diversa composizione e tonalità come la sardonica, l’agata, l’onice, il calcedonio, i cammei richiedevano una tecnica di esecuzione più difficile e costosa dell’intaglio: l'abilità dell’artefice consisteva, oltre che nella raffinatezza del rilievo, anche nella capacità di sfruttare i diversi strati di colore per ottenere contrasti cromatici che evidenziano i dettagli, facendo emergere dal fondo le figure. In età giulio-claudia, i cammei furono intesi come creazioni di particolare prestigio, non più destinate a un pubblico generico ma riservate all'ambito della corte e di una ristretta élite. “Cammei di Stato” 9 pietre di dimensioni talvolta eccezionali decorate con complessi temi politici, tra cui quello della continuità dinastica. Il tema della legittimazione dell’erede al trono è centrale nei due maggiori “cammei di Stato”. Già si è parlato della “Gemma Augustea”, un’onice a due strati attribuita all’officina di Dioscuride. Nel “Gran cammeo di Francia”, ricavato da una sardonica indiana a cinque strati e di dimensioni mai più superate, il messaggio è molto più complesso, tanto più che risulta non esente da dubbi il riconoscimento dei singoli personaggi. La scena si distribuisce su tre registri. - In quello inferiore, come nella “Gemma Augustea”, si concentrano barbari sconfitti e trofei militari, simbolo del dominio militare romano; - In quello centrale sono probabilmente ritratti i membri viventi della famiglia di Tiberio; - Quello superiore è riservato alla sfera celeste e agli antenati defunti: tra questi è ben individuabile il divo Augusto, con corona radiata e scettro. Per la delicatezza dell’intaglio e la preziosità della pietra i cammei non dovevano essere esposti al pubblico, ma conservati come oggetti “da camera” all'interno dei palazzi. Cammei come gioielli Dopo il regno di Caracalla la committenza dei grandi “cammei di Stato” si riduce drasticamente, fino a scomparire, ma per tutto il secolo III d.C. si registra l'improvvisa fortuna di una produzione minore di carattere seriale, standardizzata nei motivi figurativi e di fattura più sommaria. I cammei furono ora utilizzati soprattutto come gioielli, di preferenza come orecchini e pendenti, e i temi preferiti erano quelli più adatti a un pubblico femminile, come le dee, le personificazioni beneauguranti, gli eroti e le teste femminili ispirate ai ritratti delle principesse. Le ambre Nella graduatoria degli oggetti di lusso l’ambra si collocava subito dopo i vasi di cristallo di rocca, amatissimi dai Romani. Siccome l’ambra non aveva alcuna funzione pratica, il suo utilizzo venne condannato con tanta durezza: il prezzo davvero esagerato raggiunto dall’ambra, tanto che una statuetta si scambiava con due o tre schiavi in buona salute, scandalizzava Plinio il Vecchio non meno dell’inutile attività estrattiva della materia prima, che comprometteva gli equilibri della natura al solo scopo di procurare un godimento temporaneo fine a se stesso. L'ambra è una resina fossile che ha origine dalla secrezione di piante ad alto fusto, simili al pino, ormai estinte. Da Ercolano e Pompei provengono pezzi di ambra grezza o oggetti semilavorati che attestano l’attività di intagliatori locali, probabilmente da identificare negli stessi gemmarii incisori delle gemme e delle pietre dure. Oltre all'ambra baltica le officine campane si avvalevano anche di quella siciliana, una rara varietà presente presso la foce del fiume Simeto e per questo nota come simetite. Un patrimonio figurativo comune La circolazione degli artigiani, ‘esistenza di album di disegni e le facili condizioni di trasporto degli oggetti di lusso favorirono anche la diffusione degli schemi figurativi, che si trasmettevano identici non solo all’interno di una stessa classe di manufatti, ma anche di altri oggetti. Le scoperte, nel sito dell'antica Memfi in Egitto e a Begram, in Afghanistan, di numerosi calchi in gesso ricavati, per lo più, da prodotti della toreutica ellenistica, confermano l’uso e l'ampia circolazione di intermediari tecnici, come matrici, “cartoni” e appunto gessi, utilizzati come campionari per la clientela e come modelli per copie e adattamenti anche in materiali come oro, argento pietre dure, marmo. Proprio il commercio di matrici e calchi in gesso di manufatti toreutici fu uno dei principali vettori di trasmissione delle iconografie, adattabili a vari soggetti anche quando identiche. Capitolo 16 - La ceramica Rispetto a vetro, metalli, marmo e a tutti gli artefatti in materiali deperibili o volatili, la ceramica non si altera, non si degrada, non è riciclabile e, alla fine del suo ciclo di vita, è una presenza costante in qualsiasi contesto di ritrovamento. La sua indistruttibilità fa sì che il vasellame da mensa, da dispensa, da cucina suppellettile da illuminazione, anfore da trasporto e gli altri numerosi utensili e arredi fittili, siano, in quanto prodotti (valori d’uso) e merci (valori di scambio), tra i pochi “originali” della vita economica trasmessi dall’Antichità. Gli studi da fine Ottocento-inizio Novecento hanno in prevalenza interessato le ceramiche fini da mensa, le lucerne o le suppellettili con qualche valenza decorativa, frutto di un artigianato mirante anche a una certa qualità. Dovendo rispondere ai continui cambiamenti del gusto degli acquirenti, questo tipo di vasellame evolve rapidamente sul piano tecnologico, morfologico, formale e decorativo, consentendo di collocare le singole produzioni con precisione nel tempo e nello spazio. Altra presenza ricorrente è la presenza di bolli e graffiti che danno conto dei centri di produzione e degli operatori a vario titolo impegnati nella manifattura e della loro condizione sociale. Più conservatrici sul piano della tipologia sono le “ceramiche comuni”, normalmente sprovviste di decorazioni, di rivestimenti, in sostanza prive di qualità estetiche. Rispondendo a usi pratici, come quelli del contenere, del versare, del conservare, del cuocere, questo tipo di vasellame è stato generalmente attribuito, nei diversi luoghi di ritrovamento, a officine “locali”. Le anfore Le anfore offrono un'importante testimonianza dell'avvenuto trasporto prevalentemente marittimo o fluviale di generi alimentari di prima necessità e della capacità di alcune zone del Mediterraneo di attivare un’agricoltura e un’industria conserviera rivolte ai mercati. I relitti hanno permesso di ricostruire le rotte più frequentate; le stratigrafie di molte città hanno fornito indicazioni sulle qualità e sulle quantità dei consumi di determinate merci secondo precise periodizzazioni; le fornaci in Italia e nelle province hanno dato un’idea delle potenzialità delle campagne e degli impianti dei derivati della pesca di creare un surplus destinato all'esportazione, mentre i bolli, i graffiti, le iscrizioni dipinte hanno consentito di identificare alcuni dei protagonisti della catena che dalla produzione dei beni raggiungeva i luoghi del consumo. Che cos'è la ceramica romana? “Romanizzazione”, acculturazione, assimilazione sono i termini che indicano i modi con i quali Roma ha imposto, con la forza e con l'emulazione, ad altri mondi e ad altre culture, un sistema di vita e valori; ma usi e costumi romani si sono mescolati e integrati con quelli di altri popoli in possesso di ben consolidate tradizioni ceramiche, dagli Etruschi nell'Italia centrale ai Greci nell'Italia meridionale, ai Punici della Sicilia e dell'Africa settentrionale, ai Celti a nord delle Alpi. Esiste perciò una ceramica di Roma-città e una ceramica romana, in cui l'aggettivo indica forme e classi nuove introdotte in seguito a commerci o conquiste, in contrasto con le ceramiche di origine locale. Più banalmente, il termine, se assunto in senso descrittivo, designa la ceramica di datazione romana. L’età arcaica e la prima età repubblicana (secoli VI-V a.C.) Una notizia attribuisce a Numa l'istituzione delle prime associazioni professionali di artefici e operai secondo una precisa gerarchia (flautisti, orafi, falegnami, tintori, cuoiai, conciatori, fabbri, vasai, più un ultimo corpo ospitante le arti rimanenti). Nel clima di fervida creatività, con movimento di oggetti e maestranze, confluiscono esperienze greche sia dirette (anche mediante l'importazione di prodotti di pregio quali la ceramica corinzia e attica) sia mediate dal mondo etrusco confinante. Tra i ritrovamenti la stragrande maggioranza delle centinaia di migliaia di manufatti riportati in luce negli scavi urbani è certamente di produzione “locale”: dal vasellame in impasto grezzo, in impasto chiaro sabbioso e in argilla figulina, al vasellame fine (bucchero romano, vernice nera), dagli utensili (pesi da telaio) alla suppellettile domestica (bacili, bruciaprofumi) e alla variegata serie di oggetti dedicati nei santuari e nelle tombe. L’età mediorepubblicana (secoli IV-IIl a.C.) Sotto il profilo artigianale e artistico esistono in questi due secoli alcune discontinuità. Il nostro punto di osservazione è costituito dalla ceramica fine da mensa, ora rappresentata da vasellame ricoperto da vernice nera (ceramica da simposio per eccellenza, un prodotto di medio lusso). 1. La data di un primo fondamentale cambiamento coincide con gli ultimi anni del secolo IV e si collega alla fine dell’esportazione massiccia della ceramica attica in Occidente e alla diffusione di vasellame a vernice nera non originario dal Mediterraneo orientale. 2. Una seconda cesura si verifica verso la metà del secolo III a.C., dopo la prima guerra punica, quando si assiste a un ripiegamento su se stesse delle zone produttive di ceramica a vernice nera, con una proliferazione di officine anche di qualità, ma dai circuiti commerciali abbastanza ristretti. 3. Gli anni dopo la seconda guerra punica registrano una terza rottura, riflessa nell’esplosione della “Campana A” di Neapolis, città greca alleata di Roma fin dal 326 a.C. Rispetto al passato, il secolo IV a.C. presenta anche a livello ceramologico un salto di qualità conla nascita a Roma di officine di ceramica fine nella tradizione della ceramica a figure rosse, e nella tradizione della ceramica attica a vernice nera, progressivamente assente dai mercati. L'unica ceramica fine largamente esportata al di fuori dell'Italia è prodotta dall’officina o meglio da un insieme di officine note sotto il nome di “Gruppo dei Piccoli Stampigli”. I prodotti sono soprattutto forme aperte rivestite da una vernice nera, lucida, brillante e caratterizzate sul fondo da piccoli bolli (stampigli) all’inizio molto elaborati (palmette, rosette, più di rado elementi figurati). Alle stesse officine sono attribuiti anche i “pocola deorum”: coppe, piatti o brocche, sui quali è sovradipinta la dedica a una divinità (seguita dalla parola pocolom, vaso) o con eventuale apposizione in bianco, in giallo, in rosso di una decorazione figurata. “Coppa di Eracle” Ai decenni dopo la metà del secolo II a.C. si assegna la produzione delle “Heraklesschalen”: in tale categoria rientrano vasi di forme diverse, sempre a vernice nera, che portano impresso sul fondo un bollo raffigurante Eracle, e coppe ugualmente a vernice nera, a di qualità mediocre, che hanno sul fondo una “H”, anch’esse da collegate al culto dell’eroe-dio. La tarda Repubblica (secoli II-I a.C.) Dopo il 200 a.C. dobbiamo lasciare Roma, perché è la ceramica a vernice nera di Neapolis (“Campana A”) e quella dell'Etruria di Cales (‘Campana B”) a diffondere quantità enormi di vasellame da mensa in Gallia, in Spagna, nel Nord-Africa, e — con circuiti più ridotti e volumi più contenuti - quella della Sicilia (“Campana C” da Siracusa e dintorni). “Campana A” Le officine localizzate a Neapolis conoscono un'esplosione produttiva dopo la seconda guerra punica. Il salto impressionante di scala si unisce alla nascita di forme diverse da quelle adottate in passato e all’assoluta standardizzazione del vasellame, con una ripetizione monotona e quasi obbligata di forme e schemi decorativi. “Campana B” Dagli inizi del secolo II a.C. la “Campana B” è prodotta in Etruria, a Cales e in una certa quantità di imitazioni (“B-oidi”) che denotano il successo del vasellame a pasta calcarea e con vernice nera o bluastra, brillante; una produzione che tende a imporsi sui mercati italici e transmarini. I vasi “a pareti sottili”, così chiamati per la sottigliezza del corpo ceramico, sono attestati dagli inizi del secolo II a.C. nell'Italia centrale tirrenica e si distingue per forme lontane dalla tradizione ellenistica. Gli antecedenti vanno cercati nei vasi per bere dell’Italia settentrionale preromana e della Gallia, mentre il tipo più basso e panciuto ricorda vasi analoghi a vernice nera dell'Etruria. Roma conserva ancora un ruolo a livello sia di esportazione degli oggetti sia di modelli nella produzione delle lucerne. Si tratta del tipo chiamato “biconico dell’Esquilino” dal luogo di ritrovamento, realizzato al tornio, con corpo biconico e becco allungato con estremità rettilinea, verniciato di nero, generalmente privo di anse o con piccole prese laterali, il primo ad essere fabbricato nell'Italia centrale, nel Lazio e a Roma. Coevo è un altro tipo con corpo cilindrico o globulare con le medesime caratteristiche del becco e con architettonica degli edifici pubblici e privati. La storia dei decenni centrali e della seconda metà del secolo V d.C., con l'invasione vandala nell'Africa settentrionale, che si conclude con la presa di Cartagine nel 439 d.C., e la nascita degli stati romano-barbarici, offre nuovi scenari. Quella che può apparire una continuità di produzioni ed esportazioni, deve confrontarsi, soprattutto a partire dall'ultimo periodo vandalo e poi dalla riconquista bizantina del 533 d.C., con i “cambiamenti strutturali” politico-istituzionali, con le trasformazioni dei regimi di proprietà e della fiscalità, con l'andamento demografico dell'Occidente, con lo sviluppo di altre fonti di approvvigionamento nel contesto Mediterraneo e con i “mutamenti di scala” della domanda e dell’offerta. La sigillata africana “C” Il successo di questa produzione si lega all'espansione dell’arboricoltura in età traianeo- adrianea anche nelle zone più aride della Tunisia centrale. La sigillata “C” si distingue dalla “A” e dalla “D” non solo per l'eleganza dei vasi, ma anche per l’impiego frequente e con risultati pregevoli, accanto a forme lisce, di decorazione a rilievo applicato e a matrice. La “C” esordisce infatti già alla fine del secolo II d.C. con una serie di vasi a rilievo applicato (“El Aouja”), prevalentemente chiusi, dalle pareti sottili e dal colore della vernice arancione brillante. Le decorazioni, a volte delimitate da elementi architettonici o vegetali, s’ispirano alla mitologia, alla vita quotidiana, ai giochi del circo e dell’anfiteatro e ai culti più vari. Si tratta della produzione qualitativamente migliore di tutta la sigillata africana. La scarsa esportazione, dovuta alla fragilità dei manufatti e alla difficoltà di trasporto delle forme chiuse, determina il prevalere nel corso del secolo III d.C. delle forme aperte, più facilmente smerciabili e più idonee a essere decorate. L’argilla fine e la vernice brillante o opaca del secolo III d.C. è sostituita tra la fine del secolo e quello successivo da una pasta meno depurata e da una vernice opaca di colore arancione. All’inizio i motivi, distribuiti sul fondo e sugli orli a tesa, sono costituiti da elementi singoli, inquadrati come nella produzione di El Aouja da motivi vegetali o architettonici, mentre dalla metà del secolo IV d.C. si affermano le composizioni unitarie con raffigurazioni anfiteatrali, teatrali, circensi, mitologiche, e dalla fine del secolo i soggetti biblico-cristiani. La terra sigillata “D” e la fine del mondo antico Intorno al 300 d.C. inizia la produzione dei grandi piatti, delle coppe e delle scodelle in sigillata “D”, ancora documentata alla fine del secolo VII d.C. Si distingue dalla “C” per le pareti più spesse e dall’argilla meno depurata, dalla “A” per la superficie liscia e un colore del rivestimento rosso scuro, steso solo all’interno dei vasi e sull'orlo. Il repertorio tipologico, del tutto nuovo, ha un autonomo patrimonio tecnico (l’uso di cassette impilabili nelle fornaci per proteggere i vasi durante la cottura) e decorativo, con la comparsa nel 300-320 d.C. dei motivi di stampo. La decorazione a stampo è la nota dominante della sigillata “D”: secondo un’evoluzione stilistica e tematica, l'iniziale repertorio di motivi ornamentali riuniti secondo rigidi schemi compositivi prevede il tipo della stella formata da rami di palma e una disseminazione di cerchi concentrici, reticoli a scacchiera, stelle, rosette, che trovava confronto sui vetri incisi nella seconda metà del secolo V d.C. fanno seguito la croce monogrammatica, il cristogramma e piccoli animali con significato liturgico, alternati con motivi vegetali e geometrici; nel secolo VI d.C. prevale l'iconografia cristiana, con motivi apposti senza una precisa regola compositiva. Alla fine di questo secolo la decorazione a stampo scompare. Le lucerne La tecnica a matrice non è solo appannaggio della sigillata “C”, ma interessa altri manufatti africani in argilla rossa: i vasetti per oli profumati e le brocche antropomorfe dei secoli II-III d.C., realizzate nelle officine di lucerne dei Saturnini e dei Pullaeni; la ceramica detta di Navigius dal nome del ceramista più noto, specializzata nella fabbricazione di brocche a forme di teste maschili e femminili nonché di bottiglie decorate con motivo di vario genere. Due sono le forme principali prodotte in sigillata. La prima, con numerose varianti, presenta un corpo ovoide, un disco leggermente concavo unito al becco da un canale, una spalla convessa e Il un’ansa verticale piena o forata percorsa da scanalature che si prolungano sulla spalla e sul fondo, su cui sono apposti motivi decorativi o lettere isolate. La seconda forma (l’’africana classica”), prodotta dall’inizio del secolo V d.C. al VII, ha il corpo e il disco rotondi, un lungo becco prominente e una spalla piatta e larga su cui si distende un numero vasto di motivi geometrici a matrice vegetali e figurati in serie o alternati; l’ansa piena è posta obliquamente sul disco, il fondo è anulare con rari bolli incisi. In generale le lucerne della Tunisia centrale sono caratterizzate da una pasta fine con “vernice” liscia di colore arancio chiaro, una decorazione molto accurata, con motivi ben disegnati di piccole dimensioni; quelle della Tunisia settentrionale hanno un’argilla più grossolana, “vernice” rosso-mattone e decori più grandi. Sul disco sono scene mitologiche, bibliche e cristiane. Il vasellame in sigillata per i sette secoli di produzione è anonimo. Le più grandi e principali officine non si situano di norma nei centri urbani o periurbani, ma in villaggi, ville e fattorie sparsi nei territori dell'interno. Ciò darebbe credito all'ipotesi che la sigillata africana sia un fenomeno produttivo legato alle campagne piuttosto che alle città e sia cioè di carattere rurale. Sembra inoltre che gli impianti nelle città avvengano in epoca tarda e in edifici in rovina e in abbandono. Se è certa l’esistenza di una forma di artigianato urbano autonomo dai processi produttivi dell'agricoltura, è altrettanto certo che la diffusione della ceramica africana è da collegare ai prodotti agricoli. Si è talora accennato ai rapporti tra la ceramica e gli argenti, gli ossi lavorati, gli avori e i vetri per la forma dei recipienti, la scelta delle figurazioni, gli schemi decorativi, e ai collegamenti con pitture e mosaici; rapporti che però non si traducono quasi mai in pedisseque imitazioni, piuttosto in equivalenze; del resto, la decorazione a stampo appare un'originale invenzione degli artigiani africani, in parte debitrice di antiche tradizioni locali di natura popolare. Capitolo 17 - Il vetro Il vetro antico è in genere considerato una classe di materiale il cui studio richiede grande specializzazione. Questa convinzione, da superare, è in effetti giustificata da una serie di motivi. Negli scavi il vetro non è molto comune, perché anche nell’Antichità veniva riciclato; data la sua fragilità è quasi impossibile trovare esemplari più o meno interi, a meno che non si tratti di contesti funerari; le caratteristiche del materiale e le forme, spesso prodotte in centri diversi, non consentono in genere di risalire all'area di origine, al contrario di quanto avviene per la ceramica, definibile attraverso argille, vernici e repertori tipologici. Componenti del vetro e organizzazione della produzione Tecnologia La miscela delle materie prime dalle quali si otteneva il vetro, rimasta invariata tra la fine del millennio I a.C. e buona parte del millennio I d.C., prevedeva due componenti principali: la silice, presente in natura nelle sabbie e il natron, un minerale naturale composto da sodio, necessario ad abbassare la temperatura di fusione della sabbia, altrimenti troppo alta per la tecnologia antica, e a conservare il vetro nello stadio di viscosità che ne consentiva la lavorazione. Il vetro grezzo, ottenuto dalla fusione di sabbia e natron, veniva colato in lingotti o, una volta raffreddato, spaccato in blocchi informi e avviato nei siti che, dovendo semplicemente rifonderlo per dargli una forma finita, con l'eventuale aggiunta dei componenti necessari a colorarlo o a decolorarlo, non necessitavano di grandi impianti. Da questa breve introduzione emergono alcuni elementi che sono alla base della produzione vetraria antica: - la presenza di pochi centri specializzati = officine primarie; - la grande diffusione di piccoli impianti dotati di strutture più semplici per la realizzazione degli oggetti = officine secondarie; - l’esistenza di una rete commerciale complessa destinata al trasporto di materiale grezzo. Se dunque l'installazione delle officine primarie fu condizionata dalla presenza della materia prima, quelle secondarie poterono impiantarsi dovunque vi fossero le condizioni e le esigenze per avviare un'attività artigianale. Nell'Antichità, così come oggi, il vetro veniva riciclato: questa prassi aveva un grande vantaggio economico e tecnico, in quanto l'aggiunta di materiale già lavorato consentiva da un lato di risparmiare sulle quantità di vetro grezzo e contribuiva dall’altro ad abbassare la temperatura di fusione. Origini Le officine del Mediterraneo orientale e del Vicino Oriente rappresentarono non solo la fonte principale di vetro grezzo: in Oriente, ad Alessandria, a Rodi, sulla costa levantina e all’interno erano anche le officine secondarie, grandi e famose produttrici di oggetti finiti. Solo all’inizio del millennio I d.C. le officine occidentali avviarono una consistente produzione autonoma. La tecnologia della produzione vetraria e la varietà delle tecniche decorative raggiunsero l'apice in età imperiale. Le più antiche testimonianze archeologiche sulla lavorazione del vetro risalgono al millennio III a.C. Non si tratta ancora di recipienti, ma di piccoli monili e intarsi che imitano le pietre preziose. I recipienti più antichi Si tratta di forme chiuse, di piccole dimensioni, destinate a contenere cosmetici, unguenti e profumi, che in mancanza di un repertorio specifico imitano la ceramica coeva, ma sono impreziositi dall’elemento della policromia. Il procedimento con il quale erano realizzati consisteva nel plasmare, all'estremità di un’asta metallica, un nucleo di sabbia, argilla e sostanze organiche, della forma grosso modo corrispondente alla parte interna del recipiente, e nel rivestirlo poi omogeneamente di vetro monocromo, al quale venivano applicati filamenti di colori diversi, spesso sagomati a zig-zag. La lavorazione si concludeva con l'aggiunta dell’orlo, del fondo e delle anse, e con l'estrazione della massa interna. Le grandi innovazioni in età ellenistica A partire dal secolo III a.C. si moltiplicarono i centri produttori e si diffuse un nuovo repertorio di forme, di maggiori dimensioni, derivate da prototipi in argento e in ceramica. Cambiò anche la tecnica che, utilizzando matrici, consentiva una produzione più veloce e la realizzazione di esemplari anche complessi. Il vetro è in genere decolorato intenzionalmente, ma non mancano esemplari dai colori vivaci o con decorazioni dipinte. Anche l’oro è usato, o come pigmento, o in forma di lamina sottilissima, racchiusa tra due strati di vetro. Comparve in questo periodo anche il vetro policromo, ottenuto assemblando sezioni di canne con motivi e colori diversi. Secolo III a.C. --- Officine dell’area costiera siro-palestinese. Qui cominciarono ad essere fabbricate coppe dal profilo molto essenziale, conico e poco più tardi emisferico, prive di decorazioni, eccetto scanalature e costolature. La loro realizzazione era facile e tanto veloce da non richiedere, secondo le stime, più di uno o due minuti. Dalla metà del secolo II a.C. l’impiego del vetro si diffuse anche nei mosaici, consentendo di ottenere una gamma cromatica molto più ampia rispetto a quella possibile con pietre e ceramica. La rivoluzione in età augustea e lo sviluppo della produzione a Roma e in Occidente nella prima età imperiale Anche nel campo della produzione vetraia l'età di Augusto segnò una svolta epocale. L'artigianato e il commercio, favoriti dal lungo periodo di pace, videro allora un'espansione senza precedenti, mentre la conquista dei regni ellenistici determinò un afflusso in Occidente di artigiani esperti anche nella lavorazione del vetro, portatori di una tradizione che aveva reso famosi i centri dell'Oriente e dell'Egitto. Nel corso di pochi decenni il patrimonio, e gli impianti vetrari si diffusero in Italia e nelle province occidentali, in un processo di emancipazione delle “periferie” che caratterizzò tutta l'economia antica. Da Strabone, il geografo d’età augustea, si apprende che nelle officine di Roma erano avvenute innovazioni nel campo dei colori e della semplificazione dei processi esecutivi, tali da ridurre di molto il costo del vetro. I vetri che Strabone avrebbe potuto vedere erano quelli tipici del suo tempo, eseguiti con il metodo della semplice matrice: le coppe, con o senza costolature, di derivazione ellenistica, ma ora realizzate con colori smaglianti; i servizi da mensa ispirati alle argenterie e alla sigillata italica contemporanee; i vasi eseguiti nella tecnica del vetro mosaico, anch'essa di eredità ellenistica. Il vetro cammeo Si tratta di un vetro per lo più a due strati di colore contrastante, probabilmente lavorato secondo la tecnica della glittica, asportando lo strato superiore per creare raffigurazioni che risaltavano sul fondo scuro: celebri sono il “vaso Portland” o il “vaso blu” con eroti vendemmianti dalla nicchia di una camera sepolcrale a Pompei. Il vetro cammeo è molto raro: se ne conoscono attualmente poco meno di quattrocento esemplari e si stima che la produzione abbia superato di poco il migliaio. Per il 90% almeno degli esemplari noti si può infatti ricostruire una provenienza romana. Gli studi più recenti suggeriscono che la produzione abbia avuto una durata molto breve, dal 15 a.C. al 25 d.C. circa, svolgendosi in poche e piccole officine altamente specializzate. In vetro cammeo si realizzarono anche pannelli, destinati forse a essere inseriti nelle pitture parietali come pìnakes 0, piuttosto, a essere esposti in modo che la luce li attraversasse, per fare risaltare il colore del vetro di fondo. Materiale versatile per eccellenza, il vetro cominciò ora ad avere un ruolo importante anche in architettura. Infatti, con l’inizio dell'età imperiale si diffuse il vetro da finestra che, consentendo una maggiore introduzione di luce negli edifici pubblici e privati, determinò certamente non solo un notevole miglioramento nella qualità della vita, ma anche la possibilità di valorizzare i volumi e gli apparati decorativi degli interni. I grandi edifici termali di età imperiale disponevano dunque di ampie superfici vetrate, con lastre inserite in telai di legno fissati alle murature; il problema della dispersione di calore nelle sale riscaldate era risolto con sistemi di doppi vetri. Per realizzare una lastra di vetro veniva colato su un supporto, in genere con bordi rialzati, spianato con spatole e poi tagliato secondo la forma e le dimensioni volute. A partire dal secolo III d.C. la tecnica della soffiatura, introdotta anche nel caso del vetro da finestra, rese le lastre più sottili e quindi anche più trasparenti. La scoperta, forse avvenuta per caso, che un bolo di vetro allo stato viscoso potesse espandersi se s’introduceva aria al suo interno, fu davvero clamorosa, e certo il suo autore non sapeva che avrebbe in qualche modo cambiato la storia, determinando un'ulteriore espansione della produzione vetraia. La tecnica consisteva nel soffiare entro cannucce di vetro chiuse all'estremità ed esposte a una fonte di calore. Il bulbo così formato veniva poi staccato dal resto della cannuccia. Le prime produzioni realizzate con tecniche evolute di soffiatura comparvero simultaneamente in Oriente e in Occidente, testimoniando la rapidità e la faci con cui le idee, gli artigiani e i loro prodotti potevano diffondersi ormai entro i confini dell'impero. Oltre alla soffiatura del tipo descritto, definibile “a canna libera”, all’inizio del secolo I d.C. le officine della costa siro-palestinese misero a punto un’altra tecnica, consistente nel soffiare il vetro all’interno di una matrice: un procedimento non semplice, che richiedeva abilità da parte sia del soffiatore sia dell’esecutore delle matrici, composte da più parti. Le forme, in genere dai colori vivaci, sono molto articolate e cariche di valenze simboliche: bottigliette, unguentari e bicchieri prendono l'aspetto di grappoli d'uva, pigne, teste di Medusa, datteri resi in modo molto realistico, questi ultimi in particolare preziosi equivalenti dei frutti che si donavano all’inizio dell’anno come simbolo di dolcezza. La tecnica della soffiatura a matrice fu recepita anche dalle officine occidentali, capaci di realizzare soprattutto bicchieri con nodosità, allusivi alla clava di Ercole e coppe con raffigurazioni di spettacoli in esemplari trovati specie in Gallia, Germania e Britannia: corse di carri al circo Massimo, scene di venationes e duelli tra quattro coppie di gladiatori. Le produzioni della media e tarda età imperiale Dal secolo II d.C. le produzioni in vetro soffiato si sostituirono quasi del tutto a quelle eseguite a matrice, che nell’articolazione denunciavano un'ispirazione al vasellame metallico. Un’eccezione è costituita da un gruppo di vasi da mensa, prodotti alla fine del secolo I d.C., realizzati a matrice in veto completamente decorato e resi più L'introduzione di sfumature pastello su fondo bianco attenua i forti contrasti delle pareti, caratterizzate da colori accesi esaltati dal trattamento “a specchio”, delle superfici, lisce e dipinte con pennellate leggere e di grande finezza. Dall’età augustea all’età claudia: un raffinato “manierismo” Le pitture della casa di Ottaviano preannunciano il decorativismo della prima età imperiale, entro cui si colloca il “III stile” o “stile ornamentale”. Le pareti della villa a Boscotrecase sono una raffinata espressione dell’epoca. Sullo zoccolo del cubicolo 16, che forti contrasti coloristici separano nettamente dalla zona mediana, crescono esili piante o poggiano nature morte; le articolazioni del basamento si dissolvono in linee e figure geometriche come piccoli rombi con fiore centrale; una sovrapposizione di due sottili bande, antica reminiscenza del piano di attesa dei podi, evocati dalle coppie di linee verticali in corrispondenza delle partiture soprastanti, lo delimita superiormente, Il registro mediano è scandito da colonnine con fusto a corteccia di palma e infiorescenze o ricoperte da miniaturistici collarini e pseudo-gioielli. Candelabri vegetali campiscono il registro superiore. Gli effetti disegnativi hanno preso il sopravvento su quelli pittorici. Le scelte cromatiche si orientano in una duplice direzione: forti contrasti tra tinte sature da un lato, fondo neutro e colori pastello dall'altro. I quadri mitologici, apparsi già, in formato diverso, sul finire del “Il stile”, si moltiplicano a partire dalla piena età augustea, con una non casuale collocazione al centro delle pareti, ad altezza di sguardo. I soggetti scelti consentono di traslitterare il quotidiano nel linguaggio poetico dei miti con dei ed eroi greci, all'insegna di valori come pietas, pudor, virtus e otium. Anche su volte e soffitti il tradizionale sistema a cassettoni si smaterializza in cornici puramente decorative di linee e filettature, appiattendosi su fondi spesso monocromi in bianco o nero che perdono ogni credibilità strutturale e si tramutano talvolta in veri e propri tappeti floreali, “reticoli” e tralci vegetali. In tale periodo un posto di rilievo spetta alle decorazioni pittoriche sia di sepolcri singoli, come la piramide Cestia, sia di sepolture collettive, come i colombari. Nonostante la funzione ne condizioni inevitabilmente gli schemi dispositivi, soggetti e scelte stilistiche sono gli stessi della decorazione domestica. Da Nerone ai Flavi: eclettismo e massificazione “Manierismo” ornamentale e riscoperta architettonica nelle sue più svariate forme costituiscono il binario sul quale si muove la produzione pittorica dei decenni centrali e finali del secolo I d.C. Molte sono tuttavia le varianti che si sovrappongono a tale schema, al punto che più volte la pittura di tali anni è stata definita eclettica; lo stesso Mau, parlando genericamente di “IV stile” o “ultimo stile pompeiano”, denunciò tra l’altro la difficoltà nell’estrapolarne tratti peculiari univoci. Inoltre, la sola pittura non è più sufficiente a soddisfare il gusto delle committenze più elevate, che si rivolgono spesso all’uso di altri materiali, in particolare del marmo. Nella domus Aurea, la combinazione di marmo e dipinti diventa strumento di gerarchizzazione delle stanze e di distinzione funzionale: mentre agli ambienti più importanti si riserva un rivestimento parietale in opus sectile, l'intonaco dipinto decora i vani secondari come corridoi e criptoportici. Tappezzerie e schemi architettonici Disposti in sequenze ripetitive e monocromatiche che lasciano trasparire il fondo uniforme, i bordi delimitano frequentemente i pannelli della zona mediana e disegnano lo schema decorativo sostituendo talvolta cornici e bande su pareti, volte e soffitti. In una sorta di horror vacui, esili figurine, pìnakes, ghirlande e motivi vegetali completano l’esuberante repertorio ornamentale. Nella composizione della parete, agli elementi di continuità con la pittura di “II stile” si aggiungono rielaborazioni del repertorio “architettonico” della tarda Repubblica: lo zoccolo può essere variamente decorato da forme geometriche con bordure e racemi, ciuffi di piante e animali; la zona mediana può strutturarsi architettonicamente attorno a un'edicola affiancata da vedute prospettiche e arricchita da pannelli appesi a mo’ di drappi o appiattirsi in sequenze lineari e paratattiche di campi con decorazione centrale; nella zona superiore, alle architetture, talvolta organizzate come prolungamento della parte mediana, si alternano motivi “a carta da parati” che richiamano le decorazioni di soffitti e volte. I forti contrasti tra i toni caldi di giallo, rosso, nero e oro sanciscono il predominio dell’effetto pittorico su quello disegnativo, soprattutto nei soggetti figurati. Sia nelle “nature morte” e nei paesaggi sia nei più complessi quadri a tema mitologico, rapidi colpi di pennello, concepiti per una visione da lontano, esaltano gli effetti luministici delineando forme e volumi in maniera compendiaria. Decorazioni di volte e soffitti Articolate e variabili sono anche le decorazioni di volte e soffitti, dove “grottesche”, bordi di tappeto e motivi vegetali di andamento curvilineo disegnano schemi “centralizzati” a incastri concentrici attorno a un elemento mediano, talvolta enfatizzati da altri diagonali. Più eterogenee le pitture “popolari”, con soggetti peculiari e con un linguaggio figurativo senza particolari finezze, ma di chiarezza espressiva, che si serve di formule come la proporzione gerarchica e la prospettiva ribaltata. Queste pitture, di esecuzione ora sommaria e affrettata ora più accurata, possono decorare ambienti interni o facciate esterne di domus, tabernae, lupanari e sepolcri, e illustrano momenti di vita quotidiana spaziando da temi religiosi, ai ludi, passando per episodi di cronaca, mestieri e scene erotiche. Interludio: dopo Pompei Tra l’età flavia e antoniniana l'Italia centrale vede esaurirsi il suo predominio quale centro di produzione e di irradiazione culturale ed importa dalle province marmi colorati, che tendono a sostituire la pittura nei contesti di prestigio delle classi egemoni. L’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. decreta il tramonto di Pompei e dei centri vesuviani, e il seppellimento dei loro edifici comporta per gli studiosi una forte riduzione della documentazione della pittura parietale romana. Si assiste al progressivo sviluppo di una tendenza semplificatrice, che ricalca gli schemi compositivi del secolo I d.C. con riprese dalle quali traspare spesso una mancanza di invenzione. Le innovazioni pittoriche si riscontrano nella decorazione dei soffitti e delle volte. Quanto alla tecnica pittorica, i consueti tre strati sovrapposti di cui si componevano gli intonaci tendono a diventare solo due; si usano materiali più economici, e le superfici appaiono raramente interessate da una levigatura accurata e da una lucidatura. Il secolo II d.C.: la semplificazione del “IV stile” Gli elementi del “IV stile” continuano con un sistema che prevede una zona mediana sottolineata da colonne e dall'inserimento, sempre meno frequente, di “quadri” di grandi dimensioni al centro e nelle parti laterali; permane anche la tripartizione della parete in uno zoccolo inferiore, una fascia mediana principale ed una superiore. In questo periodo continuano ad apparire scorci architettonici combinati con pannelli, ma scade l'impostazione illusionistica, e le stesse vedute non di rado sono collocate su fondi uniformi nella cui neutralità si esaurisce la suggestione prospettica. Fondamentali sono le testimonianze di Roma e di Ostia. All’inizio del secolo II d.C. Ostia vede un'intensa attività edilizia e una profonda trasformazione dell'assetto urbano all'indomani dell'apertura del nuovo porto traianeo. A Ostia, come a Roma, si afferma un’edilizia intensiva con fabbricati a più piani (detti “insulae”) per soddisfare le esigenze di una popolazione in continuo aumento. L'impostazione scenografica e le architetture ricordano esempi di “IV stile”, pur con reminiscenze di “Il” e di “IN stile”. Dall’area del porto fluviale di S. Paolo a Roma provengono affreschi databili alla metà del secolo II d.C., con una decorazione ispirata a temi marini. La pittura funeraria La progressiva diffusione del rituale di inumazione nel corso del secolo II d.C. comporta una diversa organizzazione degli spazi sepolcrali, compresi quelli destinati a essere dipinti. La pittura e i rilievi in stucco giocano un ruolo significativo nelle volte e nelle lunette, recuperando quell’abbinamento tra i due generi diffuso nelle case dell’ultimo periodo di vita di Pompei. Il secolo II d.C.: “stile lineare” (e non solo) In questo periodo si afferma prepotentemente lo “stile lineare” (rosso e verde), un sistema decorativo che si caratterizza come un'estrema semplificazione dei più complessi schemi tradizionali; le sue origini risalgono agli ambienti secondari delle case pompeiane ed ercolanesi di “IV stile”, caratterizzati da pannelli a fondo bianco senza ricerca di profondità, di rapida esecuzione e a basso costo. Lo “stile lineare” si ritrova in termini molto simili nella prima metà del secolo III d.C. a Roma su via Labicana nell’ipogeo degli Aureli e nella decorazione delle catacombe cristiane, in particolare nelle volte in cui si organizza generalmente attorno a un medaglione centrale. Mentre a Roma e a Ostia predomina lo stile lineare, nelle province occidentali e orientali riscuote grande successo anche la decorazione a motivi ripetitivi, che evoca la carta dipinta o la tappezzeria (“wallpaper pattern” o “tapetenmuster”), occasionalmente comparsa in Italia nelle pareti e nei soffitti di “IV stile”. Si tratta di rivestimenti in cui sono giustapposte forme geometriche, quadrangolari, esagonali o arrotondate e decori vegetali o floreali stereotipati. Dura Europos: l’incontro tra Occidente e Oriente Tra le più tarde del “tempio di Bel” a Dura Europos si distingue, sul muro settentrionale di un pronao, una scena di sacrificio di un ufficiale romano, il tribuno Giulio Terenzio, identificato come tale da un'iscrizione latina, dietro il quale su più file sono disposti gli omini della sua coorte, compreso un vessillifero sacerdote; nella parte sinistra del quadro in basso le due Tychai dalle teste turrite e nimbate di Palmira e Dura Europos, in alto le statue della triade palmirena. Sono poi soprattutto le pitture della celebre sinagoga di Dura Europos che segnano l’incontro di due tradizioni, occidentale e orientale, costituendo un rilevante ciclo di immagini bibliche in contrasto con il presunto carattere aniconico della religione ebraica. Un gruppo di pitture di fine secolo Il-inizio III d.C. è legato a un culto orientale molto radicato nel mondo romano, quello del dio Mitra, all'interno di “grotte”, “accampamenti delle tenebre” dotati di podi per riunioni e banchetti di conventicole. Il Tardoantico verso la cultura bizantina Accanto a un incremento nell'uso di decorazioni imitanti i lussuosi rivestimenti in marmo, alla fine del secolo II e all’inizio del IV d.C. la pittura recupera modi tradizionali, compresi trompe l’oeil e megalografie. La coesistenza di temi “pagani” e cristiani, non sorprendente nella Roma del secolo IV d.C., è ben documentata anche in pittura, anzitutto nell’ipogeo di via Dino Compagni, pur se in spazi distinti. Se la maggior parte delle scene dipinte nei molteplici cubicoli rimanda spesso a cicli di episodi dell'Antico e Nuovo Testamento che convivono con episodi salienti delle fatiche di Ercole. Dalla seconda metà del secolo IV d.C. il codice prevalse sul rotolo, sostituendo quasi del tutto e divenendo il tipo di libro comune. Fu così destinata a un notevole successo la soluzione di abbinare al testo scritto l'illustrazione mediante la miniatura, che poteva occupare la pagina intera a differenza che nei rotoli, costituendo così una fonte rilevante per ricostruire anche l’arte pittorica. La “cappella sistina del secolo VIII d.C.” Nella rimodellazione cristiana degli spazi del foro Romano risalta la chiesa di S. Maria Antiqua, che conobbe varie decorazioni tra i secoli VI e VIII, ben ricostruibili soprattutto sulla parete absidale: si tratta della “parete palinsesto”, così chiamata per analogia con la pratica amanuense di riadoperare lo stesso foglio di pergamena per scritture successive e caratterizzata da una stratificazione di ben sette intonaci dipinti. Capitolo 19 - Mosaico Il termine “mosaico” presenta un’etimologia incerta; richiama moùsa e sembra derivare dal latino musivum, “opera degna delle Muse”, trattandosi di quel tipo di rivestimento applicato alle grotte dedicate alle Muse o alle ninfe (ninfei e fontane). In generale, il mosaico è un tipo di decorazione con piccoli elementi più o meno regolari (di marmo, o di pietra, di pasta di vetro o di terracotta) giustapposti e fissati saldamente per mezzo di un legante su uno strato di intonaco e formanti esternamente una superficie più o meno liscia, per lo più decorata con motivi geometrici, vegetali o figurati. Questi piccoli elementi assumono presso i Romani il nome di abaculi, tesserae o tessellae. I mosaici pavimentali in Italia I precedenti dei pavimenti a mosaico sono costituiti dai mosaici a ciottoli colorati con rappresentazioni figurate, riferibili ai secoli V e IV a.C., e rinvenuti in vari centri della Grecia. Il ricorso a sottili liste di piombo, inserite nel sottofondo, consentiva di ottenere un disegno di contorno più netto nei profili dei volti, o in altri particolari interni. Veri e propri indicatori dell’agiatezza dei committenti, i mosaici sono realizzati alla stregua di composizioni pittoriche e riprendono spesso temi mitologici tratti dallo stesso repertorio. In Italia l’uso di pavimenti a sassolini con raffigurazioni di tipo pittorico è attestato alla fine del secolo IV a.C. a Mozia in Sicilia, dove un mosaico presenta un grifo e una pantera che assalta un toro, e ad Arpi nell’antica Daunia che ne ha restituito uno a ciottoli con animali e motivi geometrici. Dall'impiego di ciottoli naturali si passò all’uso di quelli squadrati e infine di tessere appositamente tagliate. I tipi più comuni di pavimenti in tutto il Mediterraneo erano costituiti da quelli cementizi, termine con il quale s'intendono quei rivestimenti caratterizzati da una miscela di legante e aggregati litici o fittili, noti a livello letterario con i nomi di cocciopesto, battuto o signino. Particolarmente diffusi erano i cementizi che, in base all'impasto della pavimentazione, si definiscono a base fittile; il loro pregio principale consisteva nell'impermeabilità e nella particolare compattezza e resistenza al deterioramento. Il fondo, di colore rosso, era ravvivato da uno strato sovrapposto di stucco pure rosso ed era spesso decorato da tessere bianche e talvolta nere, allettate nel battuto e disposte liberamente o a formare disegni diversi, fra cui punteggiati, meandri, reticolati. Su suolo italico i pavimenti cementizi si diffondono dalla fine del secolo IV-inizio del III a.C. fino al principio del secolo I d.C. circa, fino ai primi due secoli dell'Impero. Ricorrendo al binomio caro ai Romani di utilitas/decor, in un primo tempo è l’utilitas a prevalere sul decor; ci si preoccupa infatti che la propria abitazione sia costruita a regola d’arte, ma non si bada troppo alla sua decorazione. Quando i Romani vennero in contatto con i diversi aspetti della cultura e dell’arte greca, rimasero affascinati anche dagli arredi; furono perciò importati emblemata da diverse officine greche e furono chiamati a operare mosaicisti di origine greca. Con il termine di emblemata si definiscono i pannelli eseguiti in officina, allettati su una lastra di travertino o di terracotta e poi inseriti al centro di pavimenti in tessellato o cementizio; spesso essi rappresentano la trasposizione nella tecnica musiva della pittura da cavalletto. Quando un emblema, o genericamente un tessellato, è realizzato con tessere minutissime dal forte effetto pittorico, si è soliti definire tale tecnica come vermiculatum come se fosse formato da minuti “vermi” colorati. La casa del Fauno a Pompei Un cospicuo campionario di mosaici figurati, affiancato a una decorazione parietale in “stile strutturale”, è testimoniato a Pompei dalla Casa del Fauno, lussuosa dimora degna di un principe che, verso la fine del secolo II a.C. nella sua seconda fase edilizia, per articolazione e per estensione è raffrontabile ai grandi complessi palaziali dell'Oriente ellenistico. Dalle stanze affacciate sull’atrio provengono emblemata in vermiculatum con l’unione erotica di un saturo e una menade. Le sale da pranzo presentano temi bacchici connessi al vino e “nature morte” o raffigurazioni relative al cibo. I due triclini della Casa del Fauno sono ricoperti da emblemata con Bacco settentrionale, dopo la conquista romana, l’influsso di artigiani italici è documentato da uno scarso numero di mosaici in bianco-nero, ma è dall'inizio del secolo II d.C. che le officine si impiantano soprattutto nei centri costieri della provincia proconsolare, poi anche nell'interno, dando vita progressivamente alla feconda e creativa “scuola” africana. Nei mosaici pavimentali prevalgono l’uso della policromia e un intenso senso del colore che trova i mezzi tecnici per esprimersi nella varietà dei marmi locali e delle paste vitree. Ai ricchi motivi floreali e ornamentali si aggiunge, almeno alla fine del secolo II d.C., l'elaborazione di grandi scene figurate: scene mitologiche, lavori agricoli, cacce, circhi e anfiteatri. Anche in Grecia la comparsa delle scene policrome figurate si pone nella media e tarda età imperiale. In Siria e nelle province orientali il mosaico policromo prospera anche in relazione all’uso diffuso dei tappeti, di cui i mosaici sono intesi come una sostituzione e un complemento. Gli splendidi mosaici pavimentali degli edifici pubblici e residenziali di Antiochia, sede del governatore romano della Siria, e delle ville del sobborgo di Dafne documentano l’ininterrotta attività delle officine fino alla fine del secolo IV d.C. e offrono informazioni sulla vita cittadina, sui costumi, sulla cultura e sulla religione degli abitanti, talora con scene su uno sfondo che evoca le scenografie teatrali. I mosaici parietali e su volte Mosaici parietali e su volte non hanno precedenti nell'arte greca e costituiscono una decorazione tutta romana, che ha una lunga storia prima di approdare agli alti raggiungimenti nelle absidi e nelle navate delle chiese tardoantiche e bizantine. La loro origine deriverebbe dal costume di decorare con conchiglie, pomice, concrezioni marine, scaglie di marmo e pezzi di vetro grotte e ninfei delle ville e dei giardini della tarda età repubblicana. Nella prima metà del secolo I d.C. la tecnica, che si giova dell’uso di tessere di vetri e di altri materiali, diviene comune in ninfei, fontane, sacelli, larari e ambienti sotterranei. A Roma i mosaici parietali, della seconda metà del secolo I d.C. rappresentano una scoperta archeologica di grande valore. Si tratta di un'opera estesa per quasi 16 m lungo una parete e scavata fino a una profondità di 2 m, in un vano alto circa 13-14 m, attiguo a un ninfeo con abside anch'essa decorata a mosaico. La straordinaria qualità della decorazione - una struttura a nicchie e colonne in cui s'inseriscono vari personaggi - lascia ipotizzare che il mosaico appartenesse a un ambiente interno di un edificio di eccezionale livello; successivamente si rilevano decorazioni musive su volte nei secoli II e III d.C., spesso in edifici collegati con l’acqua, innanzitutto balnea, terme e mitrei. A Roma, nella necropoli sotto la basilica Vaticana e la tomba di S. Pietro, il sepolcro dei Marcii, di età protoseveriana, presentava in facciata, ai lati della porta, due emblemata musivi realizzati direttamente su un bipedale. L'insieme delle immagini risale a una fase di ristrutturazione della tomba nella seconda metà del secolo III d.C., in un momento in cui il repertorio dell’arte cristiana si sta formando, e attesta la presenza di un gruppo familiare aderente al cristianesimo. Il secolo IV d.C. segna l'avvento generalizzato del mosaico nel sistema decorativo della cupola dei grandi mausolei, mentre le pareti sono generalmente rivestite da lussuose lastre marmoree di opus sectile. Durante i secoli IV e V d.C. la produzione musiva parietale e delle volte trova piena espressione, oltre che a Roma, a Napoli e a Ravenna e in Oriente, per raggiungere nel secolo VI il più alto sviluppo qualitativo. Capitolo 20 - Decorazione e arredi dei sepolcri Necropoli - sistemi strutturati autonomi che rispecchiano la società non come è, ma come essa si vuole rappresentare, fornendo molte informazioni sull'insieme socio-economico, culturale e ideologico di una collettività. L'arredo interno ed esterno dei sepolcri, oltre alle decorazioni pittoriche e musive, comportò anche più specifiche produzioni in marmo. Monumentum e sepulcrum. L’epigrafia funeraria ricorre principalmente a questi due termini per indicare il singolo monumento funerario. “Hominem mortuum in urbe neve sepelito neve urito” = Né si seppellisca, né si bruci un cadavere in città Così sancisce la legge della decima delle XII tavole: la prescrizione, nata verosimilmente in conformità a esigenze igienico-sanitarie, allontanava le sepolture degli individui adulti dagli spazi dei vivi. Non si potevano seppellire i cadaveri all'interno del pomerio, simbolico confine di natura sacrale e giuridica, ma la prescrizione non sempre fu rispettata; furono comunque previste eccezioni per diversi “eroi” repubblicani. All'epoca repubblicana si poteva ancora scegliere tra inumazione, cremazione e imbalsamazione; dal secolo I a.C. fu molto diffusa la cremazione, mentre dall'inizio del secolo I d.C. si affermò il rito dell’inumazione. Le produzioni dei secoli I-II d.C. Roma, secolo VIII a.C., quadrante est della città adibito a necropoli (Regione V). Una porzione non piccola di suolo pubblico fu adibita alla cremazione e al seppellimento di poveri e condannati a morte: sono i puticoli, pozzetti comuni, probabilmente in cilindri di terracotta chiusi da un coperchio. Fin dall’età mediorepubblicana sono presenti importanti sepolcri individuali di alto livello. Alcune delle più ricche gentes preferirono farsi seppellire in monumenti eretti in aree di loro proprietà, spesso nei pressi di templi. Al I miglio della via Appia, venne alla luce nel 1780 un mausoleo funerario ipogeo scavato in un banco di cappellaccio. L’interno si articolava in un sistema di gallerie disposte secondo uno schema quadrangolare, con un corridoio a braccia intersecate e precedute da un piccolo vestibolo: la camera funeraria poté accogliere nel tempo oltre una trentina di sarcofagi (ne conosciamo solo nove), posti intorno al sarcofago, in posizione assiale rispetto all'ingresso, del fondatore L. Cornelio Scipione Barbato, console del 298 a.C. La tomba si apriva con una facciata monumentale su alto podio in blocchi di tufo, a imitazione di un prospetto architettonico. Il livello più antico sembra avere presentato un motivo dipinto a onde correnti di derivazione ellenistica; gli altri strati offrono frammenti di scene di combattimento e di trionfo con figure impostate su alto zoccolo rosso. La produzione dei rilievi, definiti “a cassetta” per la forma sovente rettangolare, s'inquadra alla fine del secolo II a.C. e l’età augustea. Questi ripetevano volti, gesti e attributi di individui di famiglie di ingenui di non elevato lignaggio e di liberti, desiderose di ascesa sociale e prestigio. Su un totale di almeno 270 rilievi “a cassetta” prodotti a Roma, 77 conservano l'iscrizione con le generalità dei defunti. Gli uomini si presentano di norma con la toga sopra la tunica; le loro spose indossano tunica, stola e palla, indumenti adatti a sottolinearne la pudicitia; i figli sfoggiano spesso la bulla, un grosso ciondolo circolare indossato al collo contenente amuleti, esclusivo dei cittadini nati liberi. Nel momento in cui smisero di produrre i rilievi a cassetta, le officine si specializzarono nella fabbricazione su grande scala di are funerarie: nella sola Roma ne sono state rinvenute oltre 700. L'assenza costante di decorazione sul retro può implicare la possibilità della collocazione contro parete, che non esclude però una disposizione più libera al centro delle strutture, coperte o a cielo aperto che fossero. Le are, per lo più in forma di parallelepipedi con pulvini e volute o frontoncini di coronamento e di dimensioni piuttosto contenute. Erano acquistate di norma da un congiunto e non prevedevano il reimpiego da parte di generazioni successive. La produzione raggiunse l’apice tra l'età flavia e quella protoadrianea. Eppure il repertorio di immagini diverge da quello prediletto appena qualche decennio dopo dai sarcofagi: sono rare le raffigurazioni di divinità singole e pressoché assenti gli episodi del mito. Bacini iconografici privilegiati sono piuttosto la sfera rituale o raffigurazioni riguardanti i defunti in prima persona. Le effigi dei defunti, spesso nella forma abbreviata di busti inseriti entro clipei, medaglioni vegetali o conchiglioni, occupano il piccolo triangolo del frontoncino o il centro della fronte, compaiono poi riferimenti alle loro professioni. Fabbricate in ambito urbano, le urne di marmo presentano forma rettangolare o cilindrica. La decorazione prevede ornamenti vegetali, porte che configurano l’urna quale dimora del morto o quale tempietto, raffigurazioni dei defunti per lo più sotto forma di busti in miniatura, loro immagini in coppie a figura intera nel gesto della dextrarum iunctio e segni emblematici. A partire dalla metà del secolo I a.C. si diffuse per qualche generazione a Roma e in alcuni centri campani, l’uso di sepolture collettive per membri di collegi o di associazioni professionali, capaci di una notevole recettività: sono i columbaria, complessi semi- o interamente ipogei, alle cui pareti erano serie multiple di filari di nicchie, sovrapposte le une alle altre, destinate a contenere le urne o le olle con le ceneri. Dall’età tardoflavia uomini e donne iniziarono a farsi raffigurare nudi riprendendo in modo esplicito schemi e attributi di divinità ed eroi. I modelli prescelti furono per le donne soprattutto Venere, Cerere, Diana, Fortuna, Igea, Minerva e Spes — Ercule, Esculapio, Mercurio, 0, più di rado Bacco, Attis o Ganimede per gli uomini. La moda dei tempietti funerari, nella tipologia di prostili, esplose a partire dall'età traianea, in Italia e in Occidente. Le tombe presentavano di norma elevati in laterizio, lungo le principali arterie di traffico o all’interno delle ville. Risulta molto ben studiata la necropoli di Porto all'Isola Sacra, sorta direttamente ai lati di via Flavia a nord di Ostia, in uso tra la fine del secolo I e il IV d.C.: i primi edifici si datano al momento della fase del lento ma più deciso passaggio tra il rito della cremazione e quello dell’inumazione. Le strutture più monumentali sono in maggioranza a cella quadrangolare, a due piani, coperte a botte o provviste di terrazza; all’interno arredo in mosaico pavimentale, pitture parietali e rivestimenti in stucco. La scelta del rito funerario si rifletteva sull’articolazione dello spazio interno: nicchie su vari registri nel caso di olle contenenti le ossa dei cremati o arcosoli ricavati nelle pareti e piani ricavati al di sotto del pavimento, atti a ospitare sarcofagi e casse fittili degli inumati; ma talora i due sistemi coesistevano all’interno dello stesso edificio. Le iscrizioni testimoniano come tutte le tombe monumentali di Porto fossero sepulchra familia, destinati al fondatore, ai membri della famiglia e spesso pure ai loro liberti. La necropoli fu soprattutto utilizzata da quelli che chiamiamo convenzionalmente “ceti medi”: le iscrizioni nelle facciate degli edifici ricordano i nomi dei proprietari, i loro testamenti e talora le norme per l'utilizzo dei sepolcri. Tomba dei Valeri nella necropoli vaticana La più grande delle tombe familiari (chiamata “H”) nella necropoli vaticana sotto la basilica e la tomba di S. Pietro, fu costruita dal ricco liberto C. Valerius Herma per sé, moglie, figli, liberti e liberte e i loro discendenti. Progettata per contenere 170 persone, è arrivata ad ospitarne 250. Il sepolcro, con una facciata che imita un prospetto templare e dotato di un cortile antistante, fu eretto subito dopo la metà del secolo II d.C.; un terrazzo superiore garantiva lo svolgimento di riti e banchetti funebri. Diversi riti di sepoltura, la cremazione fu utilizzata per i membri meno importanti della famiglia. Secoli II-IV d.C. (e rinascite “post-antiche”): i sarcofagi La progressiva sostituzione della cremazione con l’inumazione incentivò dall'età traianea-adrianea la fabbricazione su grande scala di sarcofagi litici: a oggi se ne conoscono più di 15mila sino all’epoca costantiniana, e i dati sono parziali. Già alla prima età imperiale risalgono i primi esperimenti, per lo più urbani. I non moltissimi esemplari a cassa liscia con angoli interni brevi stondati presentano, quale unico elemento decorativo, un'incorniciatura semplice modanata sui quattro lati; ancora rari in questa fase i temi mitologici strettamente legati all’aldilà. Dal secolo II d.C. tende a prevalere la forma a basso parallelepipedo, la cui base è molto più allungata rispetto all'altezza: in questi esemplari le immagini sono caratterizzate da figure distribuite sulla superficie in modo chiaro e separate da spazi. Con il passare del tempo si assiste allo sviluppo in altezza delle casse; le figure si disporranno su più piani sovrapposti in intricati rapporti reciproci. Durante il secolo II d.C. comparve un nuovo tipo di cassa, piuttosto alta e con angoli arrotondati: è la lenòs. Anche le tipologie dei coperchi potevano variare. Spesso sul coperchio era previsto l'inserimento di un pannello epigrafico con l'indicazione delle generalità dei defunti. La maggior parte dei sarcofagi era adorna di ornamenti non narrativi (semplici ghirlande e festoni o più economiche strigilature). Infine i sarcofagi marmorei potevano accogliere più di un defunto e furono perfino sovente riutilizzati, semplicemente riattualizzandone ritratti o dati onomastici. A seconda dei periodi, si registrano novità e abbandoni nella selezione dei soggetti. Nelle prime casse dal 130-140 d.C. predominano le ghirlande, al di sopra delle quali si possono succedere vignette con scene mitiche. In seguito prevalgono le scene mitologiche, suscettibili di una lettura analogica, atta a trasformare le vecchie storie mitiche in exempla mortalitatis. Molto attestate sono poi le “visioni di felicità”: i festosi cortei marini e bacchici, con oltre 400 esemplari ciascuno, dagli inizi del secolo II alla fine del III d.C. Dalla prima metà del secolo III d.C. divenne sempre più frequente la sostituzione del volto dell’eroe mitico con il ritratto dei defunti e dei congiunti: un chiaro espediente per innestare su di loro le virtù eroiche, stabilendo un legame ancora più diretto con miti per lo più centrati sulla morte e sull'amore. Dall'inizio del II secolo d.C. si registra un graduale abbandono dei soggetti mitologici. Spazio sempre maggiore fu allora lasciato alle Stagioni e alle scene bucoliche. Le officine urbane adattarono le produzioni alle nuove mode, passando dalla manifattura di stele, rilievi e are a quella di sarcofagi monumentali: quelli scolpiti direttamente a Roma non furono però gli unici a circolare in città. Le lavorazioni avvenivano a tappe: la sbozzatura nei pressi della cava, la rifinitura nei depositi (in Grecia o in Asia Minore) e, infine, piccoli interventi di ritocco e completamento nel luogo di collocazione finale. Una delle manifatture più eleganti e costose fu quella attica. Concepiti per essere decorati sui quattro lati, a differenza degli esemplari di produzione urbana, in particolare con miti vari, talvolta fianchi e retro non furono mai completati: segno che, una volta a destinazione, i sarcofagi furono utilizzati senza fare ricorso al personale specializzato. Intorno alla metà del secolo III d.C. un sarcofago attico fu decorato su ben quattro lati con scene della vita di Achille; le figure, dal linguaggio formale “classicistico” per modellazione e superfici levigate, sono tanto fitte da fare quasi scomparire il fondo del rilievo: sul coperchio, gli sposi sono sdraiati su kliné. Intorno al 150 d.C. fu scolpito il sarcofago di Velletri. Eccezionali sono sia l’impiego di tre blocchi unici di marmo differenti (pentelico per il basamento e lunense per la cassa), sia la selezione di più miti offerti sulle quattro facce e legati alla morte, all’aldilà e alle speranze di salvezza dei defunti, sia la stessa disposizione delle figure: i due registri, con partizione architettonica a imitazione delle scene teatrali, si affollano di personaggi con altri elaborati ad hoc per l'occasione. Dalla prima metà del secolo II d.C. prese avvio anche la produzione dei sarcofagi asiatici di grandi dimensioni. Il tipo principale, prodotto a Docimio in Frigia in marmo docimeno bianco a cristalli fini, dalla metà del secolo II al 260-270 d.C. circa, ha spesso un'articolazione architettonica con cinque nicchie sui lati lunghi, scandite da colonnine corinzie tortili e ospitanti per lo più figure mitologiche negli intercolumni; il coperchio è dapprima a doppio spiovente, in seguito prevalentemente a kliné. Tra l'età antoniniana e la prima metà del secolo III d.C. si avviò la produzione di lastre marmoree per la chiusura di loculi nelle necropoli di Roma, Ostia e Porto che, imitando la fronte dei sarcofagi, ne costituivano una versione più economica sfruttata anche da personaggi di origine libertina. Insieme agli ipogei privati e alle catacombe, dalla prima età severiana ricomparvero monumenti singoli che, come quelli tardorepubblicani, si affacciavano lungo le principali vie consolari. A Roma e dintorni si affermò allora la tipologia dei sarcofagi monumentali all'aperto e innalzati su basamenti o alti podi: scelta che enfatizzava la sepoltura rispetto all'area circostante. Uno degli esemplari più noti è la “tomba di Nerone”, un sarcofago con acroteri enormi su un alto podio in cortina di laterizi eretto sulla via Cassia. Ancora per tutto il secolo IV d.C. andò avanti la produzione di sarcofagi decorati. Si eclissarono i miti, mentre continuarono le immagini “profane”, benché più diradate, come le scene bucoliche, di caccia e di rappresentanza. Sui sarcofagi cristiani la professione di identità non è più nei termini di stato sociale ma di fede. La produzione dei sarcofagi a Roma s'interruppe dopo il primo terzo del secolo V d.C. A cambiare furono evidentemente mentalità e bisogni: il desiderio di nuove forme d’inumazione, nelle immediate vicinanze delle tombe dei martiri, gli “eroi” cristiani il cui culto fu particolarmente promosso da papa Damaso, nelle catacombe o
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