Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Sintesi Ricerche Filosofiche - L. Wittgenstein, Sintesi del corso di Filosofia del Linguaggio

sintesi delle Ricerche Filosofiche di Wittgenstein; ho usato come riferimento il libro di M. Mazzeo "Le onde del linguaggio" (guida alle Ricerche Filosofiche).

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020
In offerta
30 Punti
Discount

Offerta a tempo limitato


Caricato il 25/01/2020

Utente sconosciuto
Utente sconosciuto 🇮🇹

4.5

(2)

1 documento

Anteprima parziale del testo

Scarica Sintesi Ricerche Filosofiche - L. Wittgenstein e più Sintesi del corso in PDF di Filosofia del Linguaggio solo su Docsity! Le onde del linguaggio di Marco Mazzeo INTRODUZIONE Nei 280 paragrafi, composti nel periodo della Seconda Guerra Mondiale e presi in esame, viene spiegato il modo in cui Wittgenstein intende la filosofia, alcune linee base della sua concezione di linguaggio. LA PREFAZIONE DELLE RICERCHE FILOSOFICHE: LO STILE FA L’UOMO I.I Dobbiamo dissodare l’intero linguaggio L. Wittgenstein Le Ricerche Filosofiche non possono essere considerate un testo come tutti gli altri, ma un’esperienza che non avremo modo di ripetere. È importante notare come il titolo del libro faccia riferimento a ‘ricerche’ al plurale. Si tratta per l’appunto di ‘ricerche’ e non di ‘acquisizioni filosofiche’. Si parla di ‘ricerche’ e non di ‘una ricerca’ perché il contenuto di questo libro non è riducibile a un solo principio. Le Ricerche non sono un manuale di filosofia che propone una serie di nozioni concatenate, per capire cosa sono basta leggere la Prefazione (pp. 3-5). In quest’ultima ritroviamo una serie di riconoscenze che forniscono le coordinate tra le quali si muoverà il libro. Wittgenstein è grato a Frank Ramsey, un matematico, e a Piero Sraffa, un economista. Le Ricerche si inseriscono tra la matematica e l’economia politica. In entrambe le discipline si cerca di studiare due aspetti fondamentali della vita umana. Il primo: la vita umana non è regolata solo da leggi fisiche o da norme, ma da regole, nonché attività di comportamento pubbliche e stabili. Il secondo: la nozione di prassi, una attività pubblica senza opera, per usare la definizione originaria di Aristotele. Per esempio: costruire un ponte con i mattoncini Lego o produrre un oggetto in fabbrica sono attività produttive, cioè che mirano alla produzione di un prodotto finito, le attività della prassi sono attività concrete ma non si condensano in un prodotto finale. Prendiamo come esempio la prassi linguistica: il mio parlare è una attività pratica e concreta, ma non si condensa in un oggetto. Quello che però è necessario solo alla prassi è la presenza di un pubblico, qualcuno a cui parlare, infatti la prassi è intrinsecamente pubblica. Tra la matematica e l’economia esiste una terza dimensione oppositiva. La matematica si propone come una scienza poco legata al passare del tempo, al contrario l’economia vive soltanto di eventi storici. Wittgenstein decide di definire il libro come ‘una raccolta di schizzi paesaggistici’ (p. 3). Prendiamo come esempio il lavoro di un pittore che, nel momento in cui deve realizzare un’opera, cerca di cogliere gli elementi più importanti. Il pittore non si limita a riprodurre solo le caratteristiche fisiche, ma cerca anche di cogliere il significato e le emozioni che quello che dipinge potrebbe emanare, e lo fa attraverso uno strumento: lo schizzo, detto anche studio, nonché un lavoro preparatorio a quello che sarà il quadro. Prima di realizzare una delle sue opere più famose, Guernica, Picasso lavorò a una serie di schizzi preparatori, utili ad elaborare la composizione nel dettaglio. Solitamente gli schizzi hanno una funzione propedeutica, sono lo strumento attraverso il quale arrivare a un fine; nel caso di Wittgenstein, invece, lo schizzo paesaggistico da strumento diventa fine. Facciamo un altro esempio: nelle 50 rappresentazioni della Cattedrale di Notre Dame di Rouen, Monet cerca di cogliere, istante per istante e realizzando ogni volta un’immagine diversa, la realtà percettiva della Cattedrale. Se per Picasso lo schizzo è preparatorio, per Monet ogni pezzo è a sé stante, poiché riesce a cogliere le impressioni di quel momento. Nel primo caso lo schizzo è solo uno strumento, nel secondo non può essere preparatorio perché impedirebbe di cogliere le sensazioni vissute dal pittore. La filosofia delle Ricerche non ha un fine dimostrativo, come in Picasso, tantomeno impressionistico, come in Monet. Wittgenstein definisce se stesso un ‘cattivo disegnatore’, e addirittura accusa il proprio libro di non essere ‘buono’ e di non essere neanche un libro, bensì un album. Il suo album però non ha una funzione economica, quella di far ‘risparmiare’ agli altri la fatica di far pensare (p.5). Allo stesso tempo però è un lavoro misero che nasce in un’epoca oscura. Wittgenstein è alla ricerca di un nuovo modo di fare filosofia, punta a una filosofia priva di termini gergali (come la filosofia tradizionale). Per Wittgenstein non tutte le risposte filosofiche sono delle buone risposte, il fatto che il suo libro sia un album di schizzi non significa che non ci sia differenza tra uno schizzo buono e uno non buono. COME LEGGERE LE RICERCHE? TRE TECNICHE DI SOPRAVVIVENZA I.2 Diritto numero 2: saltare le pagine Possiamo constatare che le Ricerche sono scritte in sezioni brevi e numerate in modo progressivo, ma non si tratta di semplici aforismi. L’aforisma è un genere letterario preciso che consiste in frasi brevi la cui caratteristica è cogliere il segno in maniera fulminea. L’aforisma è, inoltre, un cortocircuito nel quale si evidenzia in modo paradossale la forma, la struttura, che Wittgenstein chiamerà in seguito grammatica di un concetto. Alcune delle osservazioni di Wittgenstein sono fulminee, ma non si tratta mai di asserzioni isolate in quanto a volte segnano un’accelerazione nel ragionamento, mentre altre un passo indietro nel discorso. Abbiamo, dunque, a che fare con delle asserzioni concatenate. Il primo passo da compiere è quello di ricordare che le Ricerche non sono una collezione di aforismi. • Innanzitutto leggere lentamente. • Di seguito e a salti, è una ragnatela. • Non sembra, ma è un monologo altisonante: dobbiamo andare contro una consuetudine, non sempre quando leggiamo un libro abbiamo a che fare con una sola voce. Per esempio: Schopenhauer afferma che ‘Il mondo è volontà e rappresentazione’ e nell’omonima opera ci spiegherà il perché. Facendo un altro esempio: se apro un manuale di genetica troverò al suo interno delle spiegazioni lunghe ma allo stesso tempo unitarie. Nella prefazione, invece, Wittgenstein dice subito che il suo è un libro di schizzi. Il suo obiettivo è comporre un testo nel quale la vitalità dello schizzo paesaggistico resti integra e per alcuni versi esaltata. Nella scrittura l’equivalente dello schizzo pittorico è il monologo, più precisamente il monologo ad alta voce di chi parla con se stesso. Questo monologo, definito altisonante, è indice di uno stato di crisi. In un momento di ricerca diventa uno strumento prezioso in quanto consente di ripercorrere le proprie azioni e ricostruire quel che è stato. Attraverso il monologo altisonante Wittgenstein riesce ad aprire questioni filosofiche circa il rapporto tra il linguaggio e il mondo, la prassi verbale e non verbale. Questo metodo ha una forte potenza esplorativa. §3 Ma che cosa vuol dire? Bene, può voler dire diverse cose; ma prima di tutto si pensa che quando il bambino ode una certa parola gli si presenti alla mente l’immagine di una certa cosa. Ma posto che ciò accada, - è questo lo scopo della parola? - Sì, può esserlo. - Posso immaginare un siffatto impiego delle parole (successioni di suoni). (pronunciare una parola è come toccare sul pianoforte delle rappresentazioni). La prima parentesi rappresenta un chiarimento e spiega una posizione teorica, mentre la seconda indica uno spostamento argomentativo e riassume l’ipotesi che il significato di una parola corrisponda a un’immagine personale nella testa di una persona. Questa è l’idea che Wittgenstein vuole criticare: è possibile che compaia un’immagine mentale quando penso a una parola, ma non è necessario che questo avvenga perché la parola abbia un senso. La prima illustra una mossa teorica già avvenuta, la seconda ne compie una nuova. A Wittgenstein interessa mostrare un dissidio teorico, che in genere riguarda tutti gli esseri umani, Wittgenstein compreso, e riuscire a scioglierlo. Nel §9 dirà che ‘la filosofia è una battaglia’, non tra scuole filosofiche come insegnano i manuali, ma con problemi comuni che le diverse scuole filosofiche si limitano AD impersonificare. “MA QUANTO MI AMI?”: FILOSOFIA COME TERAPIA (§§ 109-133) I.3 • Paragrafi salvagente: §§ 109, 115, 120, 122-124 • §§ 109-115: La profondità filosofica: descrizione vs spiegazione • §§ 116-125: Filosofia e linguaggio quotidiano • §§ 126-133: Due sensi del termine ‘nascosto’ Dal §109 in poi Wittgenstein fa riferimento alla sua opera precedente, il Tractatus, che verrà esplicitamente citata nel §114, anche se è l’intera serie di questi paragrafi a trarne spunto. Motivo per il quale il §109 si apre Nel §118 Wittgenstein scriverà di ‘edifici di cartapesta’ riferendosi alle similitudini allegoriche che vuole demolire per mettere in campo una filosofia incentrata sui termini di paragone, nella quale i membri intermedi saranno i benvenuti perché strumento fondamentale per sottolineare il legame che sussiste tra loro. Sia nel caso della buona che in quello della cattiva filosofia abbiamo a che fare con un’attività linguistica paragonabile a un vedere. Nel caso della buona filosofia abbiamo a che fare con qualcosa che vuole cogliere l’essenza delle cose, viste una per una. In quello della cattiva filosofia il vedere a cui ci riferiamo desidera ottenere chiarezza e perspicuità. Mentre la filosofia dogmatica si concentra su ritratti, la filosofia dei termini di paragone si concentra su paesaggi. Non è in caso, infatti, che nella prefazione Wittgenstein abbia parlato di un album composto di schizzi paesaggistici. Questo gruppo di paragrafi è destinato a chiudersi su un terreno matematico, infatti Sraffa lascia la parola a Ramsey. Si tratta di una filosofia destinata alla ricerca di una quiete inefficace, in quanto descrittiva, ma è anche una filosofia che qualcosa scopre. §124 La filosofia non può in nessun modo intaccare l’uso effettivo del linguaggio, può in definitiva solo descriverlo. Non può nemmeno fondarlo. Lascia tutto com’è. Lascia anche la matematica com’è e nessuna scoperta matematica può farla progredire. §126 ‘Filosofia’ potrebbe anche chiamarsi tutto ciò che è possibile prima di ogni nuova scoperta o invenzione. §119 I risultati della filosofia sono la scoperta di un qualche schietto non senso e di bernoccoli che l’intelletto si è fatto cozzando contro i limiti del linguaggio. I bernoccoli ci fanno comprendere il valore di quella scoperta. La scoperta per Wittgenstein coincide con una soluzione nel senso etimologico del termine. Letteralmente è ‘ciò che scioglie’. Inquietudine filosofica: ‘Ma quanto mi ami?’. La scoperta è che il quanto ci manda fuori strada, poiché non abbiamo a che fare con un liquido o con qualcosa che ha una consistenza materiale. La soluzione è che se sostituiamo al ‘quanto’ il ‘come’ l’interrogativo filosofico può dissolversi e scomparire. In questi paragrafi Wittgenstein fa riferimento a un problema spinoso per la filosofia della matematica in modo particolare. Se si prova a svolgere un metodo di calcolo e a un certo punto compare una formula contraddittoria, cosa occorre fare? L’emergere di una contraddizione equivale al fatto che il metodo di calcolo è sbagliato e deve, quindi, essere accantonato. Una visione di tipo diverso, ad esempio quella di Luitzen Brouwer, indica una strada diversa, meno drammatica. L’apparizione di una contraddizione vuol dire che da lì non si passa e il sistema di calcolo non può procedere. Nel primo caso la contraddizione è vista come un tabù, nel secondo come un muro oltre il quale non si può andare. Le Ricerche assumono questo secondo atteggiamento. §125 Non è affare della filosofia risolvere la contraddizione per mezzo di una scoperta matematica o logico- matematica; essa deve invece rendere perspicuo lo stato della matematica che ci inquieta, lo stato della matematica prima della soluzione della contraddizione. (E con ciò non si elude la difficoltà.) Il fatto fondamentale, qui, è che noi fissiamo certe regole, una tecnica per un gioco, e poi, quando seguiamo le regole, le cose non vanno come avevamo supposto. Che dunque ci impigliamo (verfangen), per così dire, nelle nostre proprie regole. Questo impigliarsi nelle nostre regole è appunto ciò che vogliamo comprendere, cioè, ciò di cui vogliamo ottenere una visione chiara. (…) Lo stato civile della contraddizione o il suo stato nel mondo civile: questo è il problema filosofico. Il problema logico-matematico della contraddizione trova il suo corrispettivo nella pratica linguistica quotidiana. In tedesco non è abituale dire ‘cadere in una contraddizione’, traducendolo letteralmente è opportuno dire ‘impigliarsi in una contraddizione’. Per esempio: cadiamo in una contraddizione quando parliamo e rimaniamo impigliati nelle regole stesse che organizzano le nostre attività quotidiane, i cosiddetti ‘giochi linguistici’. Altro esempio: estraggo dalla tasca gli auricolari del mio lettore mp3 e le trovo tutte imbrigliate. Posso provare a ripercorrere manualmente pezzo dopo pezzo l’intrico dei fili a partire da una delle sue estremità rimuovendo, volta per volta, i nodi che si sono formati. Questa attività ha due caratteristiche: • La prima è una pratica di scioglimento che non risolve il problema poiché si limita esclusivamente a slegare il filo. Non mira ad abolire le contraddizioni in quanto tali ma solo a scioglierle o a isolarle. • La seconda è una pratica cieca poiché guardare un groviglio non serve a nulla. Come un filo può aggrovigliarsi in nodi, così la prassi umana può incappare in contraddizioni, paradossi o situazioni di stallo. Le parole ci tendono tranelli e provocano piccoli inciampi, contraddizioni sottili, grovigli nei quali possiamo facilmente rimanere impigliati. Facciamo un esempio: 1. Un collega universitario seduto vicino a me prende appunti e non posso fare a meno di notare la sua grafia. Sottovoce sussurro: ‘hai una calligrafia bruttissima!’. Inconsapevolmente siamo rimasti impigliati in una contraddizione poiché la parola ‘calligrafia’ significa letteralmente ‘bella grafia’. Dire dunque che hai una ‘brutta calligrafia’ equivale a dire che hai una ‘brutta bella grafia’. LE PAROLE NON SONO ETICHETTE (§§ 1-79) AGOSTINO SBAGLIA: GIOCHI LINGUISTICI E FORME DI VITA (§§ 1-26) 2.1 • Paragrafo trappola: § 1 • Paragrafo salvagente: § 26 • §§ 1-10: Giochi linguistici primitivi • §§ 11-14: Il linguaggio come cassetta degli attrezzi • §§ 15-22: Giochi linguistici, prassi e forme di vita • §§ 23-25: La varietà delle forme del linguaggio All’inizio delle Ricerche Wittgenstein fornisce al lettore un obiettivo polemico. La citazione latina che apre il libro è l’unica che vi troveremo all’interno. La citazione delle Confessioni contiene un ricordo. Agostino di Ipponia riporta alla mente come da bambino iniziò a parlare. È un passo che ogni volta che lo si rilegge cambia di significato. La prima volta sembra una banale citazione, ma se la si rilegge si scopre che è invasa da quel che Wittgenstein chiamerebbe illusioni grammaticali. Riportiamo qui sotto l’immagine di cui è vittima Agostino: §26 Si pensa che l’apprendere il linguaggio consista nel denominare oggetti (…) il denominare è simile all’attaccare a una cosa un cartellino con un nome. ESEMPIO: Pensiamo ad un barattolo di marmellata con scritto sopra l’etichetta ‘marmellata di pesche’. In questa immagine: ‘cum ipsi (majores homines) appellavano rem aliquam, et cum secundum eam vocem corpus ad aliquid movebant, videbant, et tenebam hoc ab eis vocari rem illam, quod sonabant, cum eam vellent ostendere. Hoc autem eos velle ex motu corporis aperiebatur: tamquam verbis naturalibus omnium gentium quae fiunt vultu et notu ocolorum, ceterorumque membrorum acta, et sonitu vocis indicante affezione animi in petendis, habendis, rejiciendis, fugiendisve rebus. Ita verba in variis sententiis lochi suis posita, et crebro audita, quorum rerum signa Essent, paulatim colligebam, masque jam voluntates, edomito in eis signis ore, per haec entutuabam.’ ‘quando (gli adulti) nominavano qualche oggetto, e, proferendo quella voce, facevano un gesto verso qualcosa, li osservavo, e ritenevo che la cosa si chiamasse con il nome che proferivano quando volevano indicarla. Che intendessero ciò era reso manifesto dai gesti del corpo, linguaggio naturale di ogni gente: dall’espressione del volto e dal cenno degli occhi, dalle movenze del corpo e dall’accento della voce, che indica le emozioni che proviamo quando ricerchiamo, possediamo, rigettiamo o fuggiamo le cose. Così, udendo spesso le stesse parole ricorrere, al posto appropriato, in proposizioni differenti, mi rendevo conto, poco a poco, di quali cose esse fossero i segni, e, avendo insegnato alla lingua a pronunziarle, esprimevo ormai con esse la mia volontà.’ 1. si dà per scontato che la parola e il significato siano tra loro due cose ben distinte ed indipendenti: se l’etichetta è il nome e il barattolo di marmellata il significato vuol dire che il significato ha già la sua forma. Questa immagine dà l’idea di un significato che è un contenuto, ma che ha già da sé il proprio contenitore (il barattolo). La parola costituisce qualcosa di secondario di un pensiero che è già autonomo. 2. si dà per scontato che il linguaggio sia costituito solo da nomi o che questi ultimi siano l’essenza del linguaggio. 3. se invece si considera il linguaggio come un insieme di proposizioni , la proposizione principale sarebbe un’asserzione affermativa (es. la mela è rossa), mentre proposizioni interrogative o negative sarebbero solo secondarie. (§§ 17-22) 4. si parte dall’idea che il linguaggio verbale sia qualcosa che abbia a che fare solo con il ‘dare informazioni’, un ‘sistema di comunicazione’ (§ 3). Qualcosa di immobile e passivo. Prima do un nome (momento linguistico) e poi lo associo a un’attività (momento pratico). Wittgenstein è in disaccordo con tutti e quattro gli aspetti dell’immagine presente nel passo delle Confessioni. Sgretola questa idea inserendo l’idea dell’etichetta nella nostra vita quotidiana, cioè all’interno delle attività pratiche umane . L’esempio di mandare qualcuno a fare la spesa e dargli un biglietto con scritto sopra ‘cinque mele rosse’ ha il compito di mettere in movimento questa immagine statico-passiva del linguaggio. Una persona va dal fruttivendolo e compra ciò che desidera perché il fruttivendolo lo comprende, dal momento che compie azioni intonate con quel che il biglietto richiede. Wittgenstein immagina una situazione in cui il venditore consulta una tabella di colori per verificare a cosa corrisponde il colore ‘rosso’, successivamente, contando, tiri fuori le mele. Secondo le Ricerche questa immagine è ovvia, ma sostanzialmente vuota (§ 1). Siamo partiti dall’idea che il fruttivendolo vedendo la parola ‘rosso’ vada sul suo quaderno, cerchi la parola ‘rosso’ e trovi il campione di colore corrispondente seguendo una tabella. Ma come facciamo a sapere che dobbiamo seguire una freccia piuttosto che un’altra? Diamo per scontato che il fruttivendolo sappia usare, ovvero che sappia inserire nelle attività che fanno della vita umana quel che è, le parole ‘rosso’, ‘mela’ e ‘cinque’. L’esempio di Wittgenstein è di tipo economico. L’aspetto utile del paragone è che il caso del vendere e del comprare evidenzia la relazione che esiste tra le parole e le azioni che compiamo. Poiché, però, quella agostiniana è un’immagine statica, non è del tutto inutile (§ 3). È una specie di fermo-immagine (§ 15). Quest’ultimo può descrivere come trattiamo le parole a cose fatte. Soltanto quando abbiamo appreso un insieme di parole e le abbiamo messe in relazione a un certo tipo di azioni, allora possiamo intendere la parola come etichetta. Infatti, la parola ‘mela’, tornando all’esempio precedente, può fungere da etichetta solo al termine di un processo di apprendimento. Proprio perché è statica, l’immagine della parola come etichetta è legata alla nozione di spiegazione e non all’addestramento (§ 5). L’addestramento è un’attività che mentre si svolge può trovare correttivi. Per esempio: l’attività dei muratori che si passano ‘lastre, mattoni, pilastri e travi’ (§ 2) costituisce un passo in questa direzione, ci troviamo di fronte a un fare continuo. A tal proposito Wittgenstein parla di un linguaggio ‘primitivo’. Con questo aggettivo Wittgenstein intende almeno quattro cose: un linguaggio elementare e ridotto ad alcune delle sue attività; un linguaggio elementare come quello di un bimbo che comincia a parlare (§ 5); un linguaggio rudimentale perché animale (§ 25); un linguaggio che si adatti a una concezione primitiva del linguaggio come quella agostiniana. § 6 l’insegnante indica al bambino determinati oggetti, dirige la sua attenzione su di essi e pronuncia, al tempo stesso, una parola; ad esempio la parola ‘lastra’, e intanto gli mostra un oggetto di questa forma. Le forme linguistiche primitive aiutano a comprendere come il linguaggio umano sia articolato, in quanto ne forniscono immagini parziali in grado di mettere in luce alcuni aspetti del linguaggio stesso. Wittgenstein (§ 6) descrive una scena e specifica che sta descrivendo quel che avviene di solito tra gli umani ma ‘non perché non si possa immaginare diversamente’. Per Wittgenstein l’insegnamento ostensivo costituisce solo uno dei metodi con i quali si può imparare un termine, ma non è l’unico metodo. Le Ricerche sottolineano: l’idea che a garantire il successo di questa operazione sia il riferimento a immagini interne. Come fa il soggetto a capire che la parola ‘lastra’ si riferisce proprio all’oggetto pesante e non a quel che di solito chiamiamo ‘trave’? Si presume che si possa avere un’immagine mentale della lastra. Sento la parola, evoco l’immagine mentale corrispondente, prendo l’oggetto. Come il precedente, anche questo schema sembra ovvio, ma sostanzialmente vuoto. Per esempio: un atleta prima di fare un salto in alto immagina le azioni che dovrà compiere. Ammettiamo che l’atleta abbia una serie di immagini mentali, le quali però sono solo qualcosa che precede l’azione. Se mentre fa il salto l’atleta pensasse a farlo, non lo farebbe e cadrebbe. Quell’immagine mentale sarà efficace se diverrà parte dell’azione. Secondo Wittgenstein per la riuscita dell’insegnamento ostensiva o l’occultismo dell’anima nascosta. Ricapitolando: per sostenere il carattere speciale della definizione ostensiva possiamo percorrere strade diverse, una di queste mira a sottolineare il presunto carattere autoevidente della definizione ostensiva insistendo su un’idea. A fare da tramite tra linguaggio e mondo, tra la parola ‘noce’ e una di quelle cose che si trova sul tavolo davanti a noi sarebbe il gesto indicativo. Wittgenstein fa a pezzi questo modello. Anche l’appello a uno stato interno particolarmente intenso perché legato a un sentimento o all’anima non risolve il problema. § 38 E stranamente si è detto che la parola ‘questo’ è l’unico nome vero e proprio. Wittgenstein affronta una terza variante che non lo soddisfa, proposta da anni prima da uno dei suoi maestri, il logico Bertrand Russell. È una soluzione affascinante che sposta di una casella il luogo di ingresso del mondo del linguaggio. Nel primo dei modelli che abbiamo visto questa porta si troverebbe nel gesto deittico. Nel secondo in una oscura regione interiore: il cuore, l’anima, la mente. Russell propone di individuare questo punto di contatto tra linguaggio e mondo in una entità linguistica particolare, il deittico, cioè in parole come ‘questo’, ‘quello’. Stavolta è una parola a svolgere le funzioni di porta di ingresso. Il modello dal quale partire è sempre lo stesso, la parola come etichetta. Abbiamo un mondo organizzato in oggetti e un linguaggio che sarebbe costituito da termini elementari chiamati ‘nomi’. Cosa succede con nomi cui palesemente non corrisponde nulla ma che, allo stesso tempo, sembrano avere un significato? Secondo Russell occorre distinguere tra quel che sono nomi da un punto di vista linguistico-grammaticale e nomi che sono tali da un punto di vista logico. Termini singolari, cioè i nomi veri e propri, sarebbero parole il cui riferimento può non essere vuoto, tali cioè che nel momento in cui le si proferisce si agganciano subito a qualcosa. I deittici ‘questo’ e ‘quello’, secondo Russell, rispondono a tale condizione. Ciò accade quando i due deittici si riferiscono a entità sensoriali, a ciò che provo in un certo momento. Russell sostiene che in questo caso avremmo accesso a un tipo di conoscenza diretta e non più solo descrittiva. Secondo Wittgenstein, è un escamotage. Se ‘questo’ fosse il vero nome, esprimesse la sua essenza, dovrebbe essere possibile inserirlo in espressioni nelle quali solitamente inseriamo i nomi. Frasi del tipo ‘questo è blu’ (p. 30) oppure ‘questo è un pomodoro’. Il problema è che se lo facessimo ci troveremmo di fronte a frasi del tipo ‘questo è questo’. Forzature del genere nascono “da una tendenza a sublimare, per dire così, la logica del nostro linguaggio” (§ 38). Per mezzo della trasformazione dei nomi in dei nomi in descrizioni definite e dei deittici in nomi perfetti, Russell ha finito col rendere i nomi qualcosa di talmente etereo da lasciare sul fondo tutte le approssimazioni con le quali li utilizziamo. Secondo Wittgenstein ad essere strano è l’uso che si fa della parola ‘nome’. La stranezza della relazione tra nome e oggetto nascerebbe da un’esperienza di ripetizione che da intellettuale finisce per risultare alienante. Wittgenstein scrive un’espressione che ormai è diventata molto nota. Quando si fa filosofia il linguaggio ‘fa vacanza’, usando il termine tedesco feiert. Quando si fa filosofia si è in ferie. Quello filosofico è ‘un lavoro’, mentre i problemi filosofici nascono quando il linguaggio fa vacanza, ovvero quando il linguaggio gira a vuoto, va a folle (idle). Questo suggerisce due cose: 1. Per un verso il lavoro filosofico è terapeutico, come afferma Wittgenstein, perché è un’opera in primo luogo riparatoria. La filosofia ha il compito di dissolvere i problemi filosofici, o meglio di aggiustarli e rimetterli in sesto. 2. Per un altro verso la nascita di questi problemi non corrisponde a semplici errori. Sarebbe possibile non far nascere superstizioni o inquietudini filosofiche solo se il linguaggio fosse trasparente a se stesso. Solo così non avremmo problemi filosofici: il problema, però, è che se fosse così quel che parleremmo non sarebbe un linguaggio. La vacanza è l’altro volto del processo lavorativo, è quel che consente di lavorare meglio. Anche la vacanza fa parte della nostra forma di vita. Filosofia è sospensione: di chi si gira i pollici, di chi cambia prospettiva e trasforma il mondo. UN ALTRO MITO: LA SEMPLICITA’ (§§ 39-64) 2.3 • Paragrafo salvagente: § 43 • §§ 39-42, §§ 44-45 la storia della spada di Nothung: nome e portatore • §§ 46-49 Wittgenstein contro tutti: Platone, Russell, Frege • § 43, § 50 un punto chiave: il significato è uso in gran parte dei casi Le superstizioni circa la definizione ostensiva danno per scontato due cose. La prima consiste nel fatto che il linguaggio umano sia strutturato in termini semplici e direttamente connessi al mondo, i nomi. Prendendo in esame più da vicino il correlato di questa ipotesi giungiamo a una consapevolezza: l’idea che alla semplicità linguistica dei nomi corrisponda la semplicità di oggetti non linguistici che, come i nomi, siano primari, primordiali, non scomponibili in parti. Wittgenstein propone un esempio ingenuo solo all’apparenza. Si interroga su quale possa essere la relazione tra il nome ‘Nothung’ e l’oggetto ad esso corrispondente (§§ 39, 44). La spada di Nothung è una spada dalla storia travagliata, narrata dalla mitologia scandinava. Era conficcata in una roccia nella quale il dio Odino l’aveva incastrata. Distrutta e di nuovo forgiata era in grado di tagliare in due anche un’incudine. Wittgenstein prende in esame un oggetto mitologico perché a suo giudizio altrettanto mitologica è l’idea che i nomi debbano essere il corrispondente linguistico di oggetti semplici. È un esempio efficace poiché consente di colpire due bersagli teorici: 1. Il primo è il mito della semplicità: per un verso la spada di Nothung sembra un oggetto semplice, per un altro però è proprio la disposizione di alcune parti della spada a fare di quel mucchio di materia quella spada e non un’altra. Banalmente anche un oggetto solido e resistente come una spada può essere spezzato, fuso, ricomposto. 2. In secondo luogo, il fatto che possiamo parlare sensatamente di una spada che in realtà non è mai esistita mostra con chiarezza che uno dei presupposti del modello linguaggio-etichetta è implausibile. È possibile parlare di qualcosa che non esiste, un nome per avere senso può non avere un oggetto che gli corrisponda, può non avere qualcosa che ne sia il ‘portatore’ (§ 40). Con questa affermazione Wittgenstein mette in discussione uno dei tre punti fermi intorno ai quali si costruisce l’idea, che va da Platone e i presocratici fino a Russell, secondo la quale esisterebbero elementi semplici della realtà su cui fondare il linguaggio: 1. Questi elementi devono essere il portatore sempre presente delle parole corrispondenti (§§ 44-45); 2. Questi elementi devono essere primi (§ 46): si possono nominare ma non descrivere; 3. Questi elementi devono essere indistruttibili (§§ 55-59). La prima caratteristica riporta in ballo i deittici; proprio il fatto che i deittici si accompagnino sempre a ostensioni mostra che non si tratta di nomi, poiché per avere senso i nomi non hanno bisogno di un gesto che li segua. Per descrivere la seconda caratteristica dei termini semplici Wittgenstein utilizza una citazione estratta dal Teeteto di Platone. Alla fine del paragrafo cita polemicamente Russell. Secondo Platone gli elementi primi non sarebbe possibile descriverli ma solo indicarli mediante un nome: una descrizione ne farebbe qualcosa di composito e complesso. La replica di Wittgenstein stravolge il senso di questa osservazione: esiste una differenza profonda non tra elementi semplici e complessi quanto piuttosto tra due giochi linguistici, quelli del nominare e del descrivere. L’idea di Platone, secondo la quale gli elementi primi sarebbero nominabili ma non descrivibili, sfiora un punto importante senza coglierlo. La denominazione appare un processo misterioso se la si considera come una mossa del gioco linguistico, mentre va considerata come una preparazione al gioco simile in questo al posizionamento dei pezzi sulla scacchiera. L’idea che il contenuto di una parola sia preformato elimina la possibilità di una trasformazione di questo contenuto grazie al linguaggio. Le parole sarebbero solo qualcosa di esterno e superficiale che si aggiunge ai pensieri, alle emozioni e alle sensazioni degli esseri umani. Si tratta di una preparazione preliminare perché posiziona una certa configurazione di partenza. Da quel momento in poi, però, la configurazione iniziale è destinata inevitabilmente a mutare e trasformarsi. Ogni mossa linguistica, ovvero ogni parola che diciamo, o per riprendere l’esempio precedente ogni movimento degli scacchi che facciamo, modifica lo stato iniziale di cose. La denominazione costituisce dunque una preparazione preliminare non perché non sia in grado di determinare per sempre quel che si dice, ma solo perché è il punto di inizio necessario per qualsiasi gioco linguistico. È qualcosa che troviamo già pronto, qualcuno lo ha fatto per noi, per esempio le precedenti generazioni di parlanti. Il terzo punto, che riguarda gli elementi primi, è più articolato perché Wittgenstein prende in considerazione diverse delle sue possibili varianti: A. Gli elementi primi sono distruttibili perché immagini mentali (§ 56); B. Gli elementi primi sono indistruttibili perché dati sensoriali (§ 57); C. Gli elementi primi sono indistruttibili perché entità logiche (§ 58). La prima idea fa accenno a un tema: il cosiddetto linguaggio privato. È vero che possiamo avere un’immagine mentale di un leopardo anche quando l’animale non è sotto i nostri occhi, ma chi ci assicura che quella sia l’immagine giusta per un leopardo e che non raffiguri invece un giaguaro o un ghepardo? L’offuscamento della memoria cui si riferisce Wittgenstein non riguarda solo il caso di un ricordo lontano che col tempo tende a sbiadirsi, riguarda ogni immagine mentale. Passo numero uno: un ricordo non è affidabile perché per scoprirne l’affidabilità devo rifarmi a una fonte indipendente e non a un altro ricordo. Passo numero due: potrei scoprire di aver fatto davvero confusione. Posso anche avere un ricordo esatto di un modello, ma se il modello è sbagliato allora sarà inaffidabile anche il ricordo. La conclusione è che occorre un rovesciamento. Non “Se non avessimo memoria saremmo alla mercé di un modello” (§ 56) ma se non avessimo un modello saremmo alla mercé della memoria. La demolizione della variante percettiva che riguarda gli elementi primi che sarebbero a fondamento del linguaggio procede seguendo lo stesso percorso. È vero, si può distruggere solo il pigmento rosso, ma non il rosso in quanto tale. Ma come faccio a stabilire cosa sia il ‘rosso in quanto tale’? Non è il colore a fondare il significato della parola, ma è il significato della parola a guidare le nostre esperienze cromatiche. Una simile asserzione acquista chiarezza se si pone a confronto il diverso modo nel quale le lingue organizzano i colori. Basta prendere in considerazione una lingua a noi geograficamente vicina, per esempio il tedesco, e vedere come tratta due tinte per noi chiaramente distinte: l’azzurro e il blu. Entrambi i colori corrispondono alla parola ‘Blau’. Le due lingue mettono a fuoco aree cromatiche differenti: l’italiano lessicalizza (organizza in parole) quest’area cromatica che per noi approssimativamente va dal blu scuro all’azzurro chiaro con almeno due termini, mentre il tedesco con uno solo. Quindi, se dovessimo chiedere a un parlante tedesco di indicare un campione del colore ‘Blau’ potrebbe indicare un campione per noi del colore sbagliato perché corrispondente al nostro ‘azzurro’. La terza linea argomentativa afferma che un nome è “solo ciò che non può stare nella combinazione ‘X esiste’” (§ 58). Se un colore infatti non esistesse non potrebbe stare nella proposizione “il rosso esiste”. Sia quando diciamo che “il rosso esiste” sia quando diciamo che “se il colore rosso non esistesse non potremmo dire che “il rosso esiste” abbiamo sempre e comunque a che fare con parole, con entità linguistiche. Linguistico è il campione rosso; linguistica è la parola ‘rosso’; linguistica è l’idea che ci voglia “un colore non linguistico per parlare di colore”. Abbiamo a che fare una volta con macchie, altre con parole, altre ancora con frasi ma sempre e comunque con pezzi di giochi linguistici , con parti di ‘lingua’. Nel § 43 Wittgenstein dà notizia precisa di quale sia la sua idea di significato: il significato di una parola il più delle volte coincide con il suo uso. Le Ricerche sottolineano che ciò è vero “in una grande classe di casi - anche se non in tutti i casi”. Nel § 50 Wittgenstein propone un esempio che cita un oggetto straordinario e remoto come il ‘metro campione di Parigi’. L’antefatto: con la rivoluzione francese nel paese transalpino si afferma il sistema metrico-decimale. Con esso è necessario stabilire una misura standard, un metro prototipico che possa fare da modello per tutti gli altri. Per circa un secolo, il metro campione di Parigi ha costituito un oggetto la cui funzione era proprio quella di non essere utilizzato. Conservato in una teca, è il metro destinato al ‘non uso’ per consentire agli altri metri di essere usati. A questo esempio ne segue un altro che riguarda il ‘sacro’. Un aspetto importante di questa nozione è quella che riguarda il suo status separativo: ‘sacro’ è quel che è proibito toccare, ciò che è al di fuori dell’uso quotidiano. Un caso semplice: andiamo a messa e osserviamo il prete che celebra il rito. Ad un certo punto, il parroco volta le spalle ai fedeli e va a prendere la coppa contenente le ostie per la comunione. Questa cerimonia mostra che anche quando si ha accesso a un oggetto sacro come l’ostia il suo uso deve essere regolamentato in modo che risulti limitato al massimo grado. In questo senso ciò che è sacro non vive dell’uso poiché il suo significato dall’uso va protetto e preservato. Come si può osservare campione misurativo e spazio del sacro trovano convergenze insospettate poiché, in entrambi i casi, il significato di parole e pratiche non vive nell’uso perché all’uso fa da termine di riferimento, da “paradigma” (§ 50). Si tratta di una parola chiave in grado di gettar luce anche sulla seconda clausola contenuta nel § 43: § 43 E talvolta il significato di un nome si definisce indicando il suo portatore. La manovra argomentativa di Wittgenstein ha due caratteristiche: corrode le argomentazioni degli avversari in modo caustico e impietoso, nello stesso tempo, però, si mostra sorprendentemente inclusiva. Le Ricerche filosofiche non bandiscono nulla: il linguaggio può a volte funzionare come una semplice etichetta, ora il significato di un nome può essere comodo farlo coincidere con il suo portatore. Quel che Wittgenstein combatte è l’estensione indebita: si tratta di casi isolati, di forme specifiche di impiego delle parole non del modo nel quale il linguaggio funziona. È probabile che Wittgenstein si riferisca a un caso che in parte ha già affrontato, quello dei nomi propri. Quando dico ‘Giuseppe’, ‘Ida’ o ‘Mario’ mi riferisco a una persona specifica. In casi del genere il legame tra significato del nome e il suo portatore sembra essere §§ 81-87 Illustrazione del problema e di una prima parte della risposta §§ 198-242 Continuazione della trattazione e delineazione “a spot” della risposta La struttura del testo rende la lettura particolarmente ardua. La soluzione appare a lampi: come punta fuori così si dilegua, riportandoci nel buio di una questione intricata e labirintica. La prima cosa da fare è evitare un fraintendimento diffuso per chi prova ad accostarsi al testo per la prima volta. Nell’uso corrente, la parola “regola”coincide molto spesso con un termine dal campo semantico più ristretto e specializzato, l’italiano “norma”. Quando si dice che quell’operatore di borsa ha lavorato “al di fuori delle regole” o che il baro “non rispetta le regole” stiamo alludendo a qualcosa di preciso. In questi casi con “regola” intendiamo “norma”, un precetto che prevede sanzioni in caso di trasgressione e/o premi in caso di obbedienza. Per Wittgenstein le norme sono un tipo di regole, ma non coincidono con quel che egli chiama “regola”. Nel § 81 Wittgenstein affronta la faccenda lavorando con i propri interlocutori. Una delle sue figure di riferimento è il matematico Frank Ramsey. Proprio la coppia regola/norma indica uno dei binari lungo i quali è necessario tracciare una distinzione netta. La logica è una forma di calcolo: come tale ha norme rigide che, se non rispettate, portano a compiere errori. La regola, invece, è quel che consente a un comportamento umano di delinearsi, di esibire una struttura, di avere una forma. Una regola non la si può trasgredire: se non si segue una regola, vuol dire che se ne segue un’altra oppure che si procede a caso. Come il linguaggio ordinario non è un’approssimazione malriuscita della logica, così la regola non è una forma meno efficace di norma. Per capire meglio è opportuno fare alcuni esempi: Le norme hanno a che fare con la stipulazione di codici, di testi nei quali si prevede cosa fare in caso di trasgressione. È proprio questa parola, “trasgressione”, il termine chiave per individuare una norma: norma è quel che si può trasgredire. Si può trasgredire il codice della strada parcheggiando in doppia fila o andando troppo veloci, si può trasgredire l’ortografia dell’italiano che prevede che i suoni della nostra lingua vengano trascritti in un certo modo. Di solito, invece, la regola ha a che fare con un “come”, cioè con un’abilità (con il “padroneggiare una tecnica”: §§ 150, 199). Andiamo in bicicletta: per farlo bisogna imparare a rimanere in equilibrio dinamico. In un caso del genere dobbiamo, imparare “le regole” dell’andare in bici non perché altrimenti qualcuno ci sanzionerà con una multa o un insulto. Se non si seguono le regole della bicicletta accade che non riusciamo ad andare: restiamo fermi o cadiamo per terra. In questo senso le regole dell’andare in bici non possono essere trasgredite perché, se non le si impara, semplicemente si resta al palo. Con la nozione di norma abbiamo a che fare con una trasgressione, nel caso della regola siamo alle prese con una capacità. Dunque: tutte le norme sono regole e presuppongono capacità di uso, ma non tutte le regole sono norme. Non a caso quando Wittgenstein parla, come nel § 83, delle regole di giochi con la palla non fa riferimento a giochi oggi codificati ma a giochi infantili nei quali si gioca come viene, cioè si stabiliscono le modalità del gioco mentre si gioca e non prima del gioco. Wittgenstein parte da un caso intermedio tra regola e norma: quando i bambini giocano a palla in un prato quel che fanno è strettamente imparentato con le azioni che riescono a compiere e anche dalle norme che via via stabiliranno tra loro. Secondo Wittgenstein, nella prassi quotidiana del linguaggio non c’è un limite preciso tra regole che sono norme e regole che non lo sono. Per questa ragione le Ricerche prediligono un esempio che descrive una pratica umana nella quale codici regolamentali e abilità fisiche si intrecciano senza soluzione di continuità. Quando utilizziamo una parola non seguiamo di solito il dizionario. Si tratta di una capacità sulla quale spesso non riflettiamo e che nonostante ciò abbiamo. Allo stesso tempo, grazie al linguaggio, possiamo costruire giochi linguistici nei quali esistono norme e trasgressione come il codice della strada. Una indicazione pratica: quando Wittgenstein parla di giochi “limitati da regole” sta pensando innanzitutto a norme. Nelle Ricerche la nozione di limite ha di solito un carattere prescrittivo. Un gioco finisce, trova il suo limite, in una norma che in modo più o meno arbitrario sancisce una soluzione di continuità tra attività umane tra loro intrecciate. È ciò che accade nel § 84, nel quale si connette esplicitamente il tema delle regole con quello delle parole. L’impiego di una parola non è limitato sempre da una regola che dica come è opportuno comportarsi. Non si dà né può darsi, secondo Wittgenstein, un gioco linguistico completamente regolato da regole. Wittgenstein affronta quel che la filosofia chiama tradizionalmente “scetticismo”, cioè l’idea secondo la quale poiché è Norma: il codice della strada Norma: il fallo di mano nel gioco del calcio Norma: l’ortografia della lingua italiana Regola: come si calcia il pallone senza farlo alzare troppo Regola: come si va in bicicletta Regola: come si guida l’automobile possibile dubitare di tutto è impossibile giungere a una verità qualsiasi. Le Ricerche sono alle prese con una versione particolare di scetticismo che invece di riferirsi direttamente alla questione della verità si applica al problema dell’applicazione di una regola. Il ragionamento è questo: se una regola non può prevedere tutte le sue applicazioni e se un gioco non può essere interamente regolato da regole, come è possibile che siamo in grado di giocare giochi linguistici e di applicare una regola qualsiasi? Wittgenstein esclude innanzitutto una possibilità: che sia utile ricorrere a una nuova regola in base alla quale interpretare la relazione tra una regola e la sua applicazione. Si porrebbe il problema di come interpretare questa regola, cioè di come applicarla, e di qui all’infinito. Lo scettico centra un punto: tra regola e applicazione esiste un salto, uno iato, un vuoto. Sbaglia però completamente nelle conclusioni che ne trae: l’applicazione di una regola non chiama in causa, nella maggior parte dei casi, una interpretazione. Lo scettico concepisce il padroneggiamento di una regola come qualcosa che si interpreta. Al contrario, secondo Wittgenstein, seguire una regola significa invischiarsi in un’azione irriflessiva, in una forma di conoscenza non esplicita. Anzi, spesso concentrarsi sulla consapevolezza di una regola non solo non favorisce ma ostacola la sua applicazione. Proprio perché stiamo cercando di applicare coscientemente una coordinazione motoria, quella regola di comportamento apparirà un compito più difficile di quel che accade quando sovrappensiero ci muoviamo nel traffico urbano. Da questo punto di vista, è particolarmente istruttiva la pratica atletica. Pensiamo al saltatore alto che sta per compiere il primo dei suoi tentativi in una finale olimpica. Lo vediamo concentrato, ma il successo nell’impresa si verificherà solo se egli non penserà a quel che sta facendo. Al massimo il suo gesto può essere preceduto da un’attività immaginativa, ma non realizzarsi insieme ad esso. Secondo Wittgenstein, l’interpretare e il pensare intervengono quando la pratica si inceppa o dopo la constatazione di un errore. Il saltatore sbaglia il salto e, allora, per a di capire cosa non ha funzionato, di interpretare il modo nel quale egli ha applicato la regola. Ma si tratta di un fenomeno a posteriore, qualcosa che accade dopo l’applicazione della regola e se questa si rivela inadeguata. Ricapitolando: nel caso in cui l’applicazione di una regola si inceppa intervengono pensiero, interpretazione e immaginazione. Nel caso in cui tutto scorre liscio, ciò avviene perché non intervengono pensiero, interpretazione e immaginazione. Le Ricerche prendono di mira questo problema nel § 82 chiedendo <<Che cosa chiamo “la regola in base alla quale procede”?>>. Wittgenstein propone tre possibilità: § 82 L’ipotesi che descrive in modo soddisfacente il suo uso delle parole, che noi osserviamo; o la regola che tiene presente nell’uso dei segni, oppure quella che per tutta risposta ci enuncia quando gli chiediamo qual è la regola cui si attiene? Per capire quale sia la risposta meno scorretta basta far ritorno al nostro saltatore. Dopo il salto, gli chiediamo come ha fatto a saltare. Cosa risponderà? Non parlerà certo di quel che aveva in mente, anzi dirà, probabilmente, che mentre saltava cercava di non avere in mente proprio nulla! Possiamo escludere dunque la seconda delle alternative proposte nel paragrafo. Anche la terza opzione sembra improbabile, vorrebbe dire che il saltatore dovrebbe essere in grado di spiegarci come ha fatto a saltare, magari per insegnarcelo. Come è noto, però, un buon atleta è spesso un pessimo allenatore, perlomeno le due cose non coincidono. Saper saltare non vuol dire sapere come si è riusciti a farlo. Anche la terza risposta prospettata nel § 84 è da escludere. Rimane la prima: una descrizione soddisfacente dell’uso delle parole che noi osserviamo, cioè una descrizione soddisfacente dell’applicazione della regola per come noi la osserviamo. Nel testo si parla non a caso di un “noi”, cioè di osservatori esterni, non di chi sta applicando la regola. Chi applica la regola non è per questo in una posizione privilegiata per spiegarne il funzionamento. § 85 Una regola sta lì, come un indicatore stradale. Un’apparente soluzione diventa il problema. In fondo, qualunque freccia fornisce solo un’indicazione generica. Indica una direzione approssimativa, dà informazioni circa quel punto della strada, il punto in cui si trova il cartello, il segno sulla roccia o la freccia. Per il resto devo cavarmela da solo. Wittgenstein ci tende una trappola, non per sadismo, ma a fini didattici. Se mi concentro sulla freccia, non ho possibilità di uscire dal problema. Perché la freccia è solo un punto di aggancio, un punto di presa per l’applicazione della regola. Per rimanere in carreggiata e comprendere le diverse frange della questione può essere utile schematizzare uno snodo teorico cruciale, lungo tre coordinate di fondo: 1. Le regole non sono isolate, formano un sistema; 2. Le regole hanno a che fare non con interpretazioni ma con addestramenti; 3. mLe regole hanno una struttura legata alla nostra forma di vita. Vediamo cosa succede con l’indicazione stradale. Siamo in montagna, ci sono due sentieri, uno che procede verso l’alto a sinistra, l’altro che va a valle e scende a destra. La freccia del nostro sentiero indica a sinistra. Come facciamo a seguire quella indicazione? A sapere che il cartello indica proprio quel percorso e non un altro? Se ci soffermiamo sulla freccia presa nel suo isolamento, rischiamo di non sapere come rispondere e cedere alle tentazioni dello scettico. Innanzitutto occorre ricordare che l’incrocio nel quale ci troviamo non è organizzato solo da quella freccia ma da un sistema di simboli: i bordi che delimitano i sentieri sono un simbolo. Il punto numero 1 è in grado di effettuare un primo ridimensionamento: quel che fa la differenza non è il potere esoterico di un solo segno ma un sistema di segni che sono in grado di disambiguarsi reciprocamente. Ecco la contromossa dello scettico: § 85 (ma dove sta scritto) Se devo andare nella direzione indicata dal dito o piuttosto (p. es.) nella direzione opposta? - E se invece di un indicatore stradale ci fosse una fitta successione di indicatori o di segni di gesso sulla superficie stradale - ci sarebbe per essi una sola interpretazione? Anche un sistema di segni molto fitto può essere frainteso poiché in linea di principio qualunque segno può essere frainteso. Abbiamo già visto che la nozione di interpretazione rischia di mandarci fuori strada. L’antidoto all’interpretazione si chiama “apprendimento”. Scegliere la giusta direzione non dipende dunque da un processo mentale, interiore e isolato, quanto da una pratica condivisa e pubblica. Seguire una regola è una pratica condivisa. Massima dunque è la contrapposizione tra lo scettico e Wittgenstein: il primo insiste su processi mentali interpretativi isolati perché confinati dalle mura del nostro cervello; il secondo su pratiche, azioni e prestazioni che potremmo definire “atletiche”. Wittgenstein, nel bel mezzo del § 85, propone un esempio leggermente diverso facendo riferimento al dare indicazioni con la mano. Per esempio, qualcuno ci chiede dove sia il bar più vicino a noi e noi glielo indichiamo puntando il dito. Possono accadere molte cose, ma una non accadrà: che il nostro interlocutore guardi in direzione opposta a quella del dito o che guardi alla direzione in linea con il nostro gomito. Esiste qualcosa che potremmo chiamare “regolarità del mondo degli uomini” che fa da fondamento ai nostri comportamenti, alle regole che applichiamo, alle parole che diciamo, cui tutte le culture umane possono avere accesso. A un altro aspetto di questa regolarità accenna il paragrafo § 80. In questo caso si fa riferimento a un caso immaginario: un mondo nel quale ci riferiamo a una sedia e questa comincia a comportarsi come le luci dell’albero di Natale. Se gli oggetti del nostro mondo fossero entità intermittenti, il nostro modo di comportarsi non potrebbe che essere differente. Questa osservazione vale tanto per le regole d’uso che per i significati linguistici. Come l’applicazione di una regola non si fonda su un’interpretazione, così il significato di una parola e la sua comprensione non si fondano sulla sua spiegazione. Nel caso della regola, l’interpretazione si rende necessaria qualora la prassi si interrompa, si inceppi a causa di un’anomalia. Nel caso dell’uso linguistico, la spiegazione di quel che si intende con una parola è utile quando emerge un fraintendimento. In entrambe le circostanze la struttura del funzionamento del linguaggio differisce da quel che accade nel momento in cui si questo si inceppa. Interpretazione e spiegazione non sono dunque flussi mentali che scorrono nella nostra testa mentre agiamo e parliamo, applichiamo regole e usiamo parole ma solo il rimedio estremo a un momento di crisi nel quale non sappiamo cosa fare. SEGUIRE UNA REGOLA E’ UN “CONDIZIONAMENTO LOGICO” (§§ 198-242) 3.2 • Paragrafi salvagente: §§ 201, 208 • §§ 198-199 Riepilogo e via di risoluzione • § 201 Il paradosso chiave • § 202 Un’altra parte della via di risoluzione • §§ 206-208 La regolarità: il modo comune di comportarsi agli uomini • §§ 213-214 Contro l’intuizione • § 217 Contro la definizione • § 219 Seguire la regola ciecamente • §§ 241-242 Seguire una regola e forma di vita I primi due paragrafi ci confortano, perché esplicitano da subito quale sia l’idea che le Ricerche intendono sostenere. Le regole sono “abitudini”, “usi stabili”, “istituzioni” (§§ 198-199) che si formano per mezzo di forme di addestramento. Il termine “addestramento” è significativo perché ha una connotazione duplice. Per L’ostensione si fonda su un tratto comune alla specie: se indico a un essere umano qualcosa, quello guarderà in direzione del dito e non del gomito. L’esemplarità fonda un sistema di riferimento comune, una regolarità di base simile a quella svolta dal dito nell’ostensione. Nel § 207 emerge una diversa sfumatura della nozione di condizionamento logico: è logico ciò che è “intellegibile”, quel che può essere letto facilmente. L’intelligibilità del comportamento umano è fondata su un sistema di riferimento comune che ne fornisce coordinate, linee di presa, sistema primario di guida. Il comportamento umano è logico, e può essere condizionato secondo questa logica, perché quando qualcuno mi indica la strada ha in sé una bussola che mi fa guardare il dito e non il gomito. Questo tema è ripreso nei due paragrafi finali della sezione ( §§ 241-242). Il sistema di riferimento, il modo di comportarsi comune agli uomini, la regolarità del mondo degli umani sono legati a quel che Wittgenstein chiama “forma di vita” (§ 242). La sezione si chiude con la parola con la quale si era aperta: “concordanza”. Torniamo, però, al § 201: § 201 Il nostro paradosso era questo: una regola non può determinare alcun modo d’agire, poiché qualsiasi modo d’agire può essere in concordanza con la regola. La risposta è stata: se può essere messo d’accordo con la regola potrà anche essere messo in contraddizione con essa. Qui non esistono, pertanto, né concordanza né contraddizione. E affiancandolo all’ultimo paragrafo della sezione, il § 242: § 242 Della comprensione che si raggiunge tramite il linguaggio non fa parte soltanto una concordanza nelle definizioni, ma anche (per quanto strano possa sembrare) dei giudizi. Ciò sembra togliere di mezzo la logica ma non è così. Una cosa è descrivere i metodi di misurazione, un’altra è ricavare ed enunciare i risultati della misurazione. Ma ciò che chiamiamo “misurazione” è determinato anche da una certa costanza nei risultati delle misurazioni. La prassi degli umani è organizzata in modo da essere soggetta a dubbi continui. Per esempio: sono alla prese con una successione matematica: “2, 4, 4, 8, …”. Come proseguirà la successione? La cosa più semplice è pensare che la risposta sia “10”. Che cioè sia il frutto dell’operazione “+2”. Ma questa è solo una delle risposte possibili. La regola che non ti aspetti incombe costantemente sulle nostre teste. Come può esserci concordanza tra di noi su quello che è opportuno fare? Questa concordanza non è il frutto di una stipulazione a tavolino. La concordanza non è qualcosa che può sussistere tra regola e applicazione. Per come è formulata, la successione “2,4,6,8, …” lascia la porta aperta alle prosecuzioni più diverse. La concordanza tra regola e applicazione è qualcosa che già deve esserci , è il presupposto per applicare la regola non il frutto della sua applicazione. Occorre essere già d’accordo su alcuni elementi base, su come è costruita di solito una successione numerica: che questa ha una struttura regolare e che se ha delle discontinuità è necessario segnalarle. Il nostro linguaggio, lo si dice esplicitamente nel § 240, opera sulla base di una “intelaiatura” non linguistica: il termine tedesco Gerust è molto intenso perché ha il significato di “struttura portante”. È proprio questa struttura di fondo cui accenna Wittgenstein in uno dei paragrafi precedenti (§ 217) lo “strato di roccia” contro cui la pala si piega. Che seguire una regola consista in un condizionamento logico fa comprendere un ultimo punto: dà conto del perché ci sia in esso una forte componente di cecità (§ 219). Si tratta di un punto di forza e non di debolezza del seguire una regola: la si segue ciecamente perché, nel farlo, si assecondano forze sopraindividuali. La regola costringe (§ 231) a fare qualcosa: di solito non c’è spazio per il dubbio perché non c’è spazio per nient’altro che sia diverso dal seguirla. Un’attività umana può essere spesso simile all’andare in bicicletta: una volta imparato non lo si dimentica più. L’oblio non colpisce questa abilità perché quel che si manda a memoria non è un’informazione, ma uno schema motorio, un modo nel quale il corpo agisce. Secondo Wittgenstein, seguire una regola è molto più simile ad assecondare uno schema corporeo in movimento che a una interpretazione, una scelta o a una qualunque forma di pensiero intellettuale. IL LINGUAGGIO PRIVATO: UNA TESI FILOSOFICA E UN LUOGO COMUNE (§§ 243-257) 3.3 • Paragrafi salvagente: §§ 243-244, 253 • Paragrafi trappola: tutti gli altri • §§ 243-245 Formulazione del problema (prima variante) • §§ 249-250 Il linguaggio privato non è mentire o tenere un segreto • §§ 248, 251-252 L’illusione nasce dall’equivoco tra empirico e grammaticale • §§ 253-255 Formulazione del problema (seconda variante) • §§ 256-257 Esiste un’espressione naturalmente pubblica e prelinguistica del dolore • §§ 249-250 Es. del neonato e del cane: qui c’è solo l’espressione prelinguistica La “critica del linguaggio privato” è il nome con il quale si è soliti chiamare un gruppo di paragrafi delle Ricerche filosofiche piuttosto ampio. Ne prenderemo in esame i primi quindici paragrafi (§§ 243-257). Come al solito, Wittgenstein non intende discutere solo una tesi filosofica ma un luogo comune. L’idea contro cui Wittgenstein argomenta è quella secondo la quale per gli esseri umani la dimensione pubblica dell’agire e del conoscere sarebbe secondaria rispetto alle esperienze che ciascuno di noi vivrebbe privatamente. La dimensione pubblica sarebbe per l’essere umano secondaria. Il modello del linguaggio privato può essere schematizzato così: prima io sento qualcosa, e poi lo metto in parole; prima io sento il dolore al braccio, e poi lo formulo in frasi. Questa idea costituisce non solo una tesi filosofica ma anche un luogo comune culturale. Wittgenstein critica una tesi alla quale ciascuno di noi è portato a dare talmente credito da considerare quasi scontata. I primi due paragrafi sono particolarmente importanti perché impostano il problema (§ 243: esiste un linguaggio privato?) e forniscono un elemento chiave per comprenderne la soluzione (§ 244: no, non esiste. Il linguaggio e la conoscenza umani sono intrinsecamente pubblici). Nel § 243, Wittgenstein fornisce una definizione esplicita di cosa bisogna intendere con l’espressione “linguaggio privato”: § 243 Le parole di questo linguaggio dovrebbero riferirsi a ciò di cui solo chi parla può avere conoscenza; alle sue sensazioni immediate, private. Dunque un altro non potrebbe comprendere questo linguaggio. A tal proposito Wittgenstein ci fornisce due avvertenze fondamentali; esse infatti sottolineano cosa il linguaggio privato non è: 1. Il linguaggio privato non corrisponde al monologo poiché si dovrebbe riferire a cose che potremmo conoscere solo noi; 2. Il linguaggio privato non corrisponde alla possibilità di avere un segreto, di simulare o mentire. È privato poiché si riferisce a cose che solo io conosco. Un linguaggio è privato se si riferisce a qualcosa alla quale, per principio, posso avere accesso solo io. A qualcosa che non potrei esprimere in un linguaggio che gli altri possano capire. Il linguaggio privato non solo assomiglia al celare un segreto ma ne costituisce l’opposto: mentre nel segreto non dico qualcosa che l’altro potrebbe capire, nel linguaggio privato dico qualcosa che il mio interlocutore non può capire. Nel § 243 Wittgenstein imposta il problema, ma in realtà già abbozza alcune linee della soluzione. Alla fine del paragrafo, infatti, si afferma che “l’espressione verbale del dolore sostituisce, non descrive, il grido”. Facciamo un esempio: qualcuno mi dà un calcio ed emetto un gemito. È una reazione automatica e non linguistica: non avviene per mezzo di parole, non occorre la facoltà del linguaggio per reagire in quel modo. Wittgenstein ci dice: abbiamo due strade per comprendere il carattere delle nostre sensazioni. Una, il linguaggio privato, è pensare che le parole descrivano questa sensazione naturale. Per la seconda, le parole sostituiscono questa espressione, ed è questa quella che Wittgenstein ci esorta e seguire. Importante è uno scontro: descrivere contro sostituire. Nel primo caso, il linguaggio cercherebbe di afferrare una esperienza privata che sarebbe inesprimibile. Secondo Wittgenstein invece, il linguaggio non descrive l’esperienza stessa del dolore ma la organizza. La struttura: è come se il linguaggio fosse una lente di ingrandimento che permette di mettere a fuoco l’esperienza del dolore. La contrapposizione tra questi modelli è decisiva: - Nei §§ 246-253 le Ricerche propongono due versioni del linguaggio privato, chiarendone i connotati e cominciandone l’opera di demolizione; - Nei §§ 256-262 viene proposto invece il modello alternativo. Wittgenstein presenta la convinzione per la quale sarebbe lecito pensare all’esistenza di un linguaggio privato secondo due varianti. La prima compare nel § 246: § 246 In che senso le mie sensazioni sono private? Ebbene solo io posso sapere se provo dolore; l’altro può solo congetturarlo. La seconda è formulata nel paragrafo 253: § 253 Un altro non può avere i miei dolori. Le Ricerche rispondono in modo preciso alla prima variante: questa idea per un verso è falsa, per un altro è insensata. È falsa perché, di solito, ognuno di noi sa se una persona in quel momento sta soffrendo. Più complesso è il motivo per il quale la proposizione “l’altro può solo congetturare che io provo dolore” è insensata. Questa frase si basa su un fraintendimento. Si parte dall’idea che io solo posso sapere se ho dolore o no, ma posso dire di sapere qualcosa solo quando posso anche non conoscerla, cioè quando posso dubitarne (§ 247). Facciamo un esempio: Paolo mi chiede se so quanto è alto il Monte Bianco. Io rispondo di sì, “Ma ne sei sicuro?” mi risponde Paolo. A questo punto, può sorgere in me il dubbio: “non mi starò confondendo?” Per dirimere la questione, vado su Google e controllo, scoprendo che mi sono sbagliato. Ora facciamo lo stesso esempio, ma stavolta prendendo in esame la mia sensazione di dolore. Paolo mi chiede come sto. Io rispondo: “Mi fa male il braccio. In questo momento non sai quanto soffro”. Poniamo allora che Paolo mi dica “No, non è vero, tu non soffri”. Il punto su cui si concentra Wittgenstein è il seguente: non solo non avrebbe senso che Paolo mettesse in dubbio quel che gli dico, ma avrebbe ancora meno senso se lo mettessi in dubbio io. Il dolore, sostiene Wittgenstein, non è qualcosa che conosco ma qualcosa che ho. Non ha senso dire che posso dubitare del fatto che io abbia dolore: o ce l’ho o non ce l’ho. Ma come faccio ad andare a controllare se provo dolore? Come posso dubitarne? Wittgenstein affronta il punto nel § 251, affermando: scambiamo per una proposizione empirica, una proposizione che in realtà è grammaticale. Una proposizione empirica è un enunciato che riguarda qualcosa di accidentale: “oggi piove”. Una proporzione grammaticale è invece una proposizione che non riguarda i fatti, ma la loro logica, la loro struttura; per esempio: “2+2=4”. La proposizione è grammaticale perché se non fosse vera, a cambiare non sarebbe un semplice fatto ma il significato delle nostre parole. È utile vedere gli esempi di proposizioni grammaticali proposti da Wittgenstein nei paragrafi delle Ricerche che stiamo esaminando: 1. “le sensazioni sono private” (§ 248); 2. “il solitario si gioca da soli” (§ 248); 3. “ogni asta ha una lunghezza” (§ 251); 4. “questo corpo ha una estensione” (§ 252); 5. “un altro non può avere i miei dolori” (§ 253). In ognuna di queste asserzioni non si descrive un fatto ma si illustra la logica di un concetto. Pensiamo a un corpo: lo si definisce come un’entità materiale che ha una qualche estensione (l’anima); se qualcosa non ha estensione, forse è ancora qualcosa ma di certo non è un corpo. Chiaro è il caso del solitario: un solitario che si giocasse in due non sarebbe più tale. Un solitario è un solitario proprio perché in esso si gioca da soli. “Le sensazioni sono private” è una frase che in modo mitologico allude a un’asserzione che ha la stessa struttura di quelle viste ora. Mitologica perché, credendo di indicare un fatto, in realtà si riferisce alla grammatica di un concetto, della parola “sensazione” o, se si vuole, della parola “dolore”. Quello di dolore è un concetto particolarmente complesso perché sottolinea un aspetto tipico di ogni sensazione: la sensazione è di chi la prova, il dolore è di chi ce l’ha. Con “le sensazioni sono private” si allude a qualcosa di semplice: le sensazioni sono di chi ce l’ha, se il dolore è mio allora non è tuo. Nel paragrafo 1.3 ricordavamo che per Wittgenstein la parola “nascosto” ha due accezioni: la prima indicherebbe un’entità intangibile e misteriosa, la seconda qualcosa che non vediamo proprio perché è costantemente sotto i nostri occhi, perché la diamo per scontata. Chi crede al mito dell’interiorità e all’esistenza di un linguaggio privato fraintende la struttura del nostro dire poiché scambia di posto quel che è nascosto con l’esistenza di qualche entità misteriosa. Ciò che è da sempre sotto i nostri occhi viene confuso con la rivelazione di un oggetto arcano e indicibile. Il punto è al centro della seconda formulazione del linguaggio privato: “un altro non può avere i miei dolori” (§ 253). La seconda variante insiste su una caratteristica grammaticale del dolore spacciandola per qualcosa di indicibile, un’esperienza mistica che proverebbe solo chi vi è immerso. La suggestione che provoca la frase nasce dal fatto che essa fa pensare a una interiorità indicibile, a un interno oscuro, a una sfera privata che solo noi potremmo scorgere. Al contrario, dire “non puoi capire il mio dolore perché solo io ci sono immerso” ha esattamente lo stesso senso che avrebbe il dire tra due persone che stanno al mare “non puoi capire che significa fare il bagno, perché solo io sono immerso nell’acqua in questo punto irripetibile. Tu al massimo potresti immergerti qui accanto a me, ma non sarebbe la stessa cosa”. La banalità contorta di quest’ultima asserzione è esattamente la stessa di quella espressa dalla seconda variante del linguaggio privato. Wittgenstein insiste soprattutto su un aspetto del problema. Il dolore è una nozione pubblica: un
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved